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"Fatta l'Europa, abbiamo perso gli europei", di Timothy Garton Ash

Dovremmo pensare con sollievo a ciò che non è accaduto – o non ancora e quanto meno non nella generalità dei casi. Fatta eccezione per i partiti neofascisti come Alba Dorata in Grecia, la rabbia europea non si è rivolta contro gli immigrati, le minoranze o ipotetiche quinte colonne. I tedeschi non danno la colpa dei loro guai agli ebrei erranti, ai musulmani o ai massoni, bensì ai greci inetti. I greci non danno la colpa dei loro guai agli ebrei erranti, ai musulmani o ai massoni: accusano i tedeschi spietati.
Comunque la situazione è maledettamente rischiosa. Il 2013 non è il 1913, su questo non c’è dubbio. La Germania potrà anche dettar legge nell’eurozona, ma non ha mai cercato questo posto al sole. Ai tedeschi non è mai stato chiesto di scegliere se abbandonare o meno il marco – avrebbero detto no – e un tedesco su tre oggi dichiara di voler tornare al marco. Lo dice senza capire che una scelta del genere è contraria al suo interesse nazionale,
ma questa è un’altra storia.
L’Ue nel suo complesso è l’impero più riluttante della storia europea e la Germania è un impero riluttante all’interno di questo impero riluttante. Il rischio di una guerra tra Stati nell’Europa dell’Ue è minimo. (L’analogia con il 1913 è più valida oggi per l’Asia, con la Cina nel ruolo della Germania guglielmina.) Esiste, tuttavia, un rischio reale che i legami di opinione e la solidarietà, che sono essenziali a qualunque comunità politica, vadano in pezzi.
Non dimentichiamo che per i paesi come Cipro il peggio deve ancora venire. Esito addirittura ad evocare un’ipotesi del genere – a “dipingere il diavolo sul muro”, come si dice in Germania – ma che succederebbe se un greco o un cipriota disoccupato con turbe mentali dovesse sparare ad un politico tedesco? Se va bene, lo shock getterebbe acqua sul fuoco delle polemiche e ricompatterebbe gli europei. Ma è meglio non aspettare che risuoni lo sparo.
Perché siamo entrati in questa spirale negativa di mutuo rancore? La causa va indubbiamente
ricercata nelle pecche strutturali dell’euro. Ma anche nelle politiche economiche sbagliate attuate nelle cosiddette “periferie” dell’eurozona e – più di recente – nel suo nucleo settentrionale. (Come ho spiegato su queste colonne tempo fa il grande problema della politica tedesca non sta nelle richieste rivolte agli altri, ma nelle proprie negligenze. La Germania dovrebbe contribuire al risanamento dell’eurozona promuovendo la sua domanda interna). Intanto qualunque provvedimento a breve termine pone le basi per una nuova crisi. Così, ad esempio, l’haircut del 50% deciso nell’autunno 2011 per i bond greci ha contribuito a far sprofondare le banche cipriote.
Ma le radici più profonde del problema stanno nel difficile connubio tra un’unica area valutaria e 17 politiche nazionali. L’economia è continentale, la politica ancora nazionale. Inoltre la politica è democratica. Se non siamo nel 1913 non siamo neppure negli anni Trenta. Non abbiamo l’Europa delle dittature ma l’Europa delle democrazie. Invece della “rivoluzione permanente” di Trotsky abbiamo le elezioni permanenti. C’è sempre qualche leader in Europa costretto a cazzare la randa e il fiocco, in vista di un voto imminente. Quest’anno tocca a Angela Merkel, in vista delle elezioni generali in calendario a settembre. I leader dei 17 Stati dell’eurozona e di tutti i 27 paesi dell’Ue pensano in primo luogo alla politica, ai media e ai sondaggi nazionali. Per quanto si possa essere tentati di dire “abbiamo fatto l’Europa ora dobbiamo fare gli europei”, la verità è che sotto questo aspetto non abbiamo fatto l’Europa.
Come risolvere il problema? Un ingegnoso professore italiano, Giorgio Basevi dell’Università di Bologna, recentemente mi ha dato un suggerimento: sincronizzare le elezioni nazionali e quelle europee. È un’idea geniale e, ovviamente, del tutto inattuabile. Vallo a dire agli elettorati europei! Altre proposte prevedono che il prossimo presidente della Commissione europea venga eletto direttamente, magari tra candidati scelti dai maggiori raggruppamenti politici del Parlamento europeo. Perché no? Ma se qualcuno pensa che questo trasformi all’improvviso i greci disoccupati e i tedeschi astiosi in ferventi europeisti com’erano, deve farsi vedere da un medico. Per ora semplicemente l’unica alternativa per i politici nazionali è andar contro la tendenza momentanea delle rispettive opinioni pubbliche e spiegare nelle loro lingue e dialetti nazionali – a seconda dei casi – che i greci non sono tutti inetti e spendaccioni, i tedeschi non sono tutti teutonici e spietati e così via. Sono loro che devono cogliere ogni opportunità di elaborare il concetto, perché, anche se siamo al freddo e a mollo sulla barca europea, saremmo ancora più al freddo e a mollo nell’acqua. E se serve un nuovo nemico? Come capro espiatorio etnico accettabile a quasi tutti gli europei continentali sarei in generale ben lieto di suggerire i miei ottimi compatrioti, gli inglesi. (Ci siamo abituati, possiamo prenderci la responsabilità.) Ma per quante accuse possiate fargli, non potete certo incolpare gli inglesi per il caos dell’eurozona.
www.timothygartonash.com (Traduzione di Emilia Benghi)

La Repubblica 29.03.13