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"Gustavo Zagrebelsky, la democrazia alla prova del grillismo", di Cesare Martinetti

Le guerre nel mondo, i conflitti senza soluzioni, la finanza senza regole, le disuguaglianze che crescono, tra Paese e Paese, tra cittadini e cittadini. «Pare che tutto ci stia sfuggendo di mano – dice Gustavo Zagrebelsky -, sembra che non ci sia più nessuno in grado di formulare un’idea che abbraccia e sia riconoscibile da tutti». La terza edizione di Biennale Democrazia cade in un momento drammatico per l’Italia. Sarà l’occasione per riflettere sulle norme di base della nostra società. Ne parliamo con il presidente emerito della Corte Costituzionale, inventore (con Pietro Marcenaro) e anima della Biennale.

Professor Zagrebelsky, la parola democrazia associata a quella di utopia, di questi tempi, sembra avere un connotato ironico: la democrazia non è più una prospettiva reale?

«L’idea di fondo di Biennale è pensare all’avvenire in modo da ristrutturare una prospettiva comune. Questo deve fare la cultura politica. La parola utopia c’entra perché significa la proiezione in un futuro di aspirazioni e tentativi di trovare soluzioni alla difficoltà del presente».

Ma l’utopia realizzabile è ancora un’utopia?

«Ci sono utopie utopiche, idee consolatorie che permettono di rifugiarsi nell’immaginazione. Si tratta di un esercizio intellettuale sterile. Ma ogni progettazione del futuro deve avere un aspetto utopico. “Per mirare giusto nel bersaglio devi mirare più in alto”, diceva Machiavelli. Lo ricorderà Carlo Ossola parlando dell’utopia in letteratura. I condizionamenti renderanno il risultato finale inferiore al progetto. Ma il progetto bisogna averlo».

Alla Biennale ascolteremo dei progetti realizzabili?

«Stiamo cercando di far emergere qualcosa di nuovo che già c’è, che cova sotto la cenere, che può costituire energia feconda. Sulla base della premessa, diventata un luogo comune, che per sopravvivere bisogna cambiare. Parleremo di economia, mondializzazione della finanza, economia, produzioni, consumi, modi di produzione che non sperperano risorse ambientali. Nuovi strumenti di partecipazione».

A questo proposito il tema di democrazia e Internet è diventato decisivo con il successo della lista di Grillo. Lei crede nella democrazia diretta per via elettronica?

«La questione è questa: la tecnologia informatica applicata ai processi decisionali pubblici, l’idea della sovranità immediata e individuale del singolo, distruggerà la politica a favore di qualcosa che per ora non si sa che cosa sia? Oppure: questi strumenti possono essere usati per rinvigorire la democrazia, renderla più responsabile, più consapevole, in processi di sintesi comune? Il dibattito alla Biennale darà delle risposte».

Intanto le prime votazioni alle Camere e la prospettiva dei voti di fiducia hanno già posto la questione della trasparenza del voto dei singoli parlamentari grillini minacciati di espulsione se usciranno dalla linea del «partito».

«Questo mi ricorda molto la fase giacobina della rivoluzione francese, quando si era imposto agli elettori di votare in pubblico. È il massimo della libertà democratica o il massimo del controllo dell’esercizio della libertà?».

Ed è esplosa la questione del vincolo di mandato, se cioè i parlamentari siano liberi di votare secondo coscienza o se debbano essere vincolati alla linea del partito espressa in campagna elettorale.

«Nelle costituzioni liberali non c’è vincolo di mandato. Nella nostra questo è previsto dalll’articolo 67, legato all’idea che la democrazia, come diceva Hans Kelsen, è un regime mediatorio, cioè un regime in cui le ragioni plurime si devono incontrare fra di loro e trovare punti mediani. La libertà dei rappresentanti, senza vincolo di mandato, esprime questa esigenza che in parlamento – il luogo dove ci si parla – sia possibile perseguire il raggiungimento di quel punto mediano e che l’aula non sia il terreno di battaglia di eserciti schierati per ottenere o tutto o niente. I rappresentanti devono disporre di quel margine di adattabilità alle circostanze rimesso alla loro responsabilità. Ecco, in sintesi direi questo: libertà del mandato, uguale responsabilità; vincolo di mandato, uguale irresponsabilità, ignoranza totale delle qualità personali dei rappresentanti, mortificazione delle personalità».

È una norma che appartiene a tutte le costituzioni liberali?

«Certo, viene dalla rivoluzione francese, prima del giacobinismo. Non c’era in quella sovietica, né in quella della Comune di Parigi, che però non appartengono alla nostra tradizione costituzionale democratica».

La crisi della democrazia è però innegabile, questioni come rappresentanza, partecipazione, efficacia delle decisioni sono d’attualità anche nei sistemi più giovani.

«Ma almeno per ora tutti si dichiarano democratici. Non c’è ancora nessuno che si sia alzato per dire: basta con la democrazia, c’è un modello migliore. Semmai si dice: questa democrazia, la nostra, non ci piace, non funziona. Ma ciò significa che resiste l’idea di fondo che c’è una democrazia alla quale dobbiamo mirare. Per il momento democrazia resta una parola universale».

Però è giustificato dire che questa nostra democrazia è in crisi e non funziona?

«C’è una legge universale della politica secondo cui i regimi politici con il passare del tempo (qualcuno ha detto nel giro di una cinquantina di anni) tendono a chiudersi su se stessi, a diventare oligarchie, gruppi chiusi di potere, degenerazione della democrazia, dove la distanza tra elettori ed eletti appare incolmabile».

È esattamente quello che percepiamo oggi in Italia, le elezioni ne sono state la dimostrazione. Professor Zagrebelsky, ce la farà la nostra democrazia?

«Se riesce a riaprirsi, a combattere i gruppi chiusi, i “giri” nascosti del potere, e riesce a far sentire i cittadini partecipi della cosa pubblica e non espropriati. Quando si parla di rinnovamento della democrazia si intende proprio questo. I gesti simbolici come la riduzione del numero dei parlamentari, il taglio delle spese che favoriscono i parassitismi politici. Se si riuscirà a fare ciò anche utilizzando virtuosamente i nuovi strumenti della comunicazione politica potremo dare una risposta positiva alla domanda che fu di Norberto Bobbio in uno dei suoi ultimi saggi: la democrazia ha un futuro?».

E se questo non succederà?

«Peggio per noi e per i nostri figli».

La Stampa 28.03.13

"Le consultazioni in stile reality-show", di Filippo Ceccarelli

Scenario: un tavolo, due microfoni, un mezzo quadro scuro sullo sfondo, un candeliere dorato, o forse è un orologio. Seduti di profilo, si vedono da una parte Bersani e uno spicchio di Letta, dall´altra Crimi e una porzione di Lombardi. Dietro la seconda coppia ci sono quattro sedie occupate da altrettanti parlamentari cinquestelle. Addossati alle pareti s´intravedono le capoccette dei due portavoce, così in fondo da apparire irriconoscibili.
La telecamera è fissa. La trasparenza è relativa. La pretesa democrazia in streaming è alla sua prima prova, ma già appare un po´ straniante e parecchio artificiosa, collocandosi fra il talk e il reality, ma pur sempre ambientata in una sala di Montecitorio.
Bersani apre l´incontro con formule di cortesia e premette che l´inedita e particolare esposizione a cui esso è sottoposto non altererà certo il suo dire, e intanto si dondola. Riepiloga i passaggi della crisi, arriva al suo incarico e quando menziona Napolitano, i due suoi interlocutori fanno sì-sì con la testa. Lei prende appunti; Letta si frega le mani con fervore lievemente cardinalizio; uno degli accompagnatori o testimoni cinquestelle digita su un computerino che ha sulle ginocchia.
Tutti sono perfettamente consapevoli di essere sotto il dominio dell´osservazione. Il tono dell´esploratore ondeggia fra il colloquiale e il tribunizio con qualche refolo imbonitorio. Dice «ok», pronuncia «a gratis», sorveglia le metafore in «bersanese», a parte l´inopportunità di «mettere il cappello politicista su una pentola a pressione». E nel frattempo punta il piede sul pavimento, segno di tensione. Tossisce.
Parla per 13 minuti e rotti. A un certo punto arriva un commesso con un bicchier d´acqua, ma non beve. Con pacata insistenza offre una soluzione politica agli imperturbabili grillini, ma siccome i motivi personali innervano l´odierna vita pubblica, gli sta a cuore tornare su una battuta in cui, la sera sera, la Lombardi ha detto che non entreranno nel governo nemmeno «se Bersani ce lo chiede in ginocchio». Nel farlo c´è spazio per un´allegra chiosa e quasi rassegnata a proposito dei giornalisti che attribuiscono tra virgolette frasi mai dette. E comunque: «Solo un insano di mente potrebbe avere la fregola di mettersi a governare in questo momento. Sia chiaro». Lo proclama e intanto dà l´impressione di ascoltarsi.
Ma Lombardi, in realtà, seppure portata all´estenuazione dai cronisti, conferma che questa battuta «nemmeno in ginocchio» l´ha detta, anche se non la rivendica, per educazione. Dopo di che riduce quanto ha detto finora Bersani in una formula: «Mi sembrava di sentire una puntata di Ballarò». La notazione è cattivella, ma moltissimo dice sul rapporto tra politica e tv, e ancora di più se si considera il prosieguo: «Sono vent´anni che si sente parlare delle stesse cose». Invoca quindi una parola che sui vecchi politici fa un effetto comprensibilmente sgradevole: «Credibilità». Bersani si abbandona sulla spalliera e finalmente beve. La scena raggiunge il culmine dell´anti-glamour.
Ma a parte le notazioni estetiche, la «trattativa» in chiaro ha l´effetto di far invecchiare di colpo cospicue bibliografie di comunicazione politica. La tecnologia è senz´altro più veloce delle più veloci procedure. Per un attimo viene da pensare all´aspra tenzone teoretica sviluppatasi negli anni 80 fra due giganti, due profeti come McLuhan e Debord; la pressione dei media, convennero, «porta all´irrazionale». Crimi insiste con i salotti televisivi enumerando «le stesse cose» che sempre lì si sono evocati e mai invece si sono fatte, conflitto d´interesse, legge elettorale, eccetera. Dice anche: «Noi siamo il risultato di questi ultimi vent´anni di politica». Capito? Bersani si riabbandona sulla spalliera, stavolta con le mani in tasca.
Riparte: «Io vi rispetto». Lo ripete con un filo di paternalismo, forse senza accorgersi che i quattro muti cinquestelle, innocenti figuranti della diretta, accolgono tale riconoscimento con qualche perplessità, e fanno un po´ di pissi-pissi bau-bau. Quindi li lusinga: «Siete una grande forza»; e nell´invitarli alla «riflessione» affronta infine il tema della fiducia facendo presente che «c´è un modo di non darla consentendo». La preziosa formula cade nel vuoto. Letta brevemente prende la parola sulla necessità mescolare i punti programmatici, a cominciare dai pagamenti alle imprese.
Sono le ultime battute. Le delegazioni convengono che l´esperimento di democrazia in streaming è giunto al termine. La deputata Lombardi, alzandosi, soggiunge: «Ci piacerebbe che diventasse la regola». E su questo il dibattito è aperto. Trasparenza per trasparenza, a qualcuno per esempio piacerebbe anche di poter seguire le telefonate di Grillo ai suoi, o magari quelle con Casaleggio. E´ un peccato che se ne parli sempre e non li si veda mai, nemmeno sul video.

La Repubblica 28.03.13

"La gerontocrazia delle banche", di Tito Boeri

Se non fosse per il Principato di Monaco dove la speranza di vita alla nascita è di quasi 90 anni, gli italiani sarebbero i cittadini più longevi d´Europa. Se non fosse per Roversi Monaco, chiamato a “soli” 74 anni dal Consiglio di Gestione di Banca Intesa a presiedere la controllata Banca Imi, i vertici della più grande banca italiana sarebbero appannaggio esclusivo di ottuagenari, da un quarto di secolo in quelle posizioni.
Anche l´ex interminabile rettore dell´ateneo bolognese, comunque, aderisce, al patto per garantirsi poltrone a vita: arriverà a questa nuova carica direttamente dalla Presidenza di fondazione Carisbo, a sua volta azionista di Banca Intesa. Nello stesso giro di nomine incrociate tra banche e fondazioni, Gianguido Sacchi Morsiani è stato chiamato alla guida della Cassa di Risparmio di Bologna, carica che aveva già occupato per 24 anni, dal 1980 al 2004. Ha due anni in meno di chi lo ha nominato: Giovanni Bazoli, da 27 anni alla guida di ciò che oggi è Banca Intesa San Paolo, pronto ad essere riconfermato a 81 anni come Presidente del Consiglio di Sorveglianza. È stato a sua volta designato capolista da Giuseppe Guzzetti, prossimo al terzo mandato alla guida di Fondazione Cariplo, nonostante lo statuto non ne preveda più di due, con la prospettiva di completarlo quando avrà 86 anni compiuti. Si gioverà del precedente di Antonio Finotti, confermato alla guida di Cariparo fino al 2018, quando avrà 89 anni e sarà stato per 22 anni ai vertici della fondazione. Non sono casi isolati: l´età media dei membri dei consigli d´amministrazione delle 23 maggiori banche italiane è di quasi 5 anni più elevata che negli altri paesi europei. Lo è anche la mediana, una misura che non risente dei casi estremi, come i numeri ragguardevoli che può esibire nei conti anagrafici quella che forse andrebbe ribattezzata come Banca Matusa. Come dice una pubblicità del gruppo, “sono le persone che fanno la differenza” ed è certamente possibile che i banchieri italiani siano davvero eccellenti a tutte le età. Questo spiegherebbe perché, in media, le persone che siedono nei board delle banche italiane guadagnino il doppio dei banchieri tedeschi e ancora di più rispetto ai loro omologhi europei. Spiegherebbe anche perché i compensi dei nostri banchieri rispondano più all´età che alla redditività dell´azienda di credito che gestiscono. Vecchi banchieri per una tradizione millenaria come quelle del fare banca sullo stivale, purtroppo costellata, specie in quel di Siena, da numerosi fallimenti (tra cui quello della Compagnia Gran Tavola, la più grande banca europea nel Trecento, antesignana dello Ior, dato che gestiva le risorse dei Papi).
Se sono così bravi, viene da chiedersi perché non siano stati chiamati a dirigere banche ancora più grandi, perché non abbiano voluto cimentarsi in incarichi più prestigiosi anziché rimanere a vita sulla stessa poltrona. Avrebbe fatto bene sia a loro che alle “loro” banche. È una buona prassi di corporate governance quella di non andare mai oltre ai tre mandati per le posizioni di amministratore delegato, segretario generale e presidente. Il ricambio permette di fare pulizia nei bilanci e di innovare. Anche per questo, Generali e Mediobanca hanno posto limiti di età ai loro vertici e agli organi sociali, impedendo al consigliere di Banca Intesa, Alessandro Pedersoli, 84 anni fra qualche settimana, di ricandidarsi.
Ma i limiti di età o nel numero di mandati non affrontano la radice del problema, che è nella governance delle nostre banche. Da noi esiste l´istituto del banchiere a vita, perché il connubio fra banchieri e politici ha creato roccaforti inviolabili che reggono a guerre e invasioni anche barbariche, perché puntellate su cariche spalmate accuratamente su tutto l´arco costituzionale, onde essere impermeabili ai cambiamenti di maggioranza a livello sia locale che nazionale. Non stupisce perciò che si possano fare nomine come quelle precedentemente evocate nel pieno del ciclone che ha investito le nostre rappresentanze parlamentari, contribuendo quanto meno a un loro forte ringiovanimento. Il fatto è che la gestione politica delle poltrone bancarie diventa ancora più preziosa, irrinunciabile oltre che impresentabile, quando i politici nutrono maggiori preoccupazioni per la propria carriera futura. Quanti di loro si ritengono al capolinea, potranno sempre riciclarsi trasformandosi in banchieri, magari dopo un periodo in purgatorio passato ai vertici di qualche fondazione bancaria.
La gerobancrazia paralizza le nostre banche nel momento in cui dovrebbero dare il maggiore contributo al rilancio dell´economia. Avrebbero bisogno di capitale fresco, possibilmente iniettato da investitori istituzionali, in grado di valorizzare la redditività nel medio-lungo periodo, scovando nuovi progetti imprenditoriali al di fuori del mondo delle grandi famiglie ben noto agli eterni banchieri. Invece, le fondazioni bancarie, che si sono dissanguate per poter continuare a nominare i vertici delle banche, impediscono ora alle banche di ricapitalizzarsi. Lo fanno esplicitamente, pur di non vedere diluite le proprie quote, come nel caso di Fondazione Carige, che ha imposto alla banca omonima, di cui detiene il 47 per cento delle azioni, “il minore aumento di capitale possibile”. Oppure lo fanno implicitamente scoraggiando gli unici investitori istituzionali oggi disponibili sulla piazza, i fondi comuni esteri, dal partecipare agli aumenti di capitale. Perché come in tutti gli imperi nelle fasi di declino, anche l´intreccio fra banche e fondazioni viola ogni regola, pur di mantenersi in sella. Temendo che le liste nominate col manuale Cencelli dalle fondazioni (che non dovrebbero comunque eleggere loro rappresentanti nei board delle banche) non riuscissero a spartire tutte le poltrone di Banca Intesa, il gestore da questa controllato, Eurizon, ha voluto intervenire anche sulle liste di minoranza predisposte da Assogestioni. I fondi comuni esteri hanno reagito a questa indebita invasione di campo (per statuto un gestore non può partecipare alla scelta dei rappresentanti degli azionisti di minoranza nella banca da cui è controllato) minacciando di uscire del tutto dal capitale di Banca Intesa, se non da Assogestioni.
Comprensibile che le fondazioni bancarie, oggi in gravi difficoltà, non vogliano mettere altri soldi nelle banche conferitarie. Ma non devono poter essere messe nelle condizioni di usare il loro potere residuale per impedire alle banche di rinnovare i loro vertici, di ricapitalizzarsi o, ancor peggio, per avvelenare i pozzi. Se vogliono salvaguardare ciò che resta del loro patrimonio, bene che si ritirino, concentrandosi sulla loro missione sociale anziché sull´occupazione di poltrone, in rispettoso silenzio. A proposito, è una volta di più fragoroso quello del Tesoro, l´autorità di vigilanza sulle fondazioni bancarie, che ha più volte spronato le banche italiane a ricapitalizzarsi. Cosa ne pensa del caso Carige? Che lezioni ha tratto dal Monte dei Paschi?

La Repubblica 28.03.13

"Comuni, ecco come deve cambiare il patto di stabilità", di Pier Paolo Baretta

Il Partito democratico ha posto tra gli otto punti prioritari per il governo del paese lo sblocco dei pagamenti della pubblica amministrazione, soprattutto per gli enti locali. Finalmente il problema dei ritardati pagamenti delle pubbliche amministrazioni è all’ordine del giorno della discussione politica. Dopo lunghe battaglie parlamentari – non c’è provvedimento economico nel quale non abbiamo provato ad inserire il tema dell’allentamento del patto di stabilità – oggi, a causa della gravitá drammatica della crisi, ci si rende conto di quanto pesi nella recessione economica questa anomalia economica e, senza esagerare, democratica.

Se vogliamo incidere sulla ripresa bisogna smontare al più presto il patto di stabilità. Le scelte di bilancio effettuate da regioni, province e comuni, anche a seguito del taglio dei trasferimenti, hanno fortemente ridotto la spesa in conto capitale. I vincoli del patto, poi, provocano il blocco dei pagamenti arretrati per lavori regolarmente eseguiti, anche in presenza di risorse disponibili in cassa. Bisogna svincolare gli enti locali, a cominciare dai comuni, e consentire loro di poter agire, a partire dalle risorse disponibili, almeno su tre grandi aspetti che si intrecciano tra loro.

E cioè: il dissesto idrogeologico e la cura del territorio; la manutenzione degli edifici pubblici, a cominciare dalle scuole; la regolarità dei pagamenti.

Il Partito democratico ha posto questo tema, a partire dallo sblocco dei pagamenti della pubblica amministrazione, soprattutto per gli enti locali, come uno degli otto punti prioritari per il governo del paese che saranno sottoposti all’attenzione di tutte le forze politiche. Il nuovo governo dovrà agire senza indugi, anche a fronte della disponibilità, manifestata in questi giorni, in sede europea, per un possibile allentamento delle regole del patto di stabilità per le spese di investimento.

Ma adesso non c’è nemmeno il tempo per attendere la soluzione politica della crisi. L’emergenza economica è tale che almeno sui pagamenti bisogna agire ora. Infatti, delle oltre 30 aziende che falliscono ogni giorno nel nostro paese, più della metà lamenta, tra le cause, il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione. È, dunque, in gioco la sopravvivenza stessa del tessuto produttivo.

A fronte di questa urgenza la soluzione prospettata in questi giorni dal governo non basta. È dilatoria nei tempi, rinviando di mesi i pagamenti e non è chiara nelle risorse. L’Anci, nella recentissima assemblea dei sindaci, ha parlato di 9 miliardi subito, che sono disponibili nelle casse dei comuni… ben meno dei 40 di cui parla il governo, ma senza averli a disposizione.

Per questo ho presentato una proposta di legge semplice, di un solo articolo: «I comuni possono escludere dal saldo rilevante ai fini del rispetto del patto di stabilità interno relativo all’anno 2013, i pagamenti dei residui passivi in conto capitale per un importo corrispondente all’avanzo di cassa risultante dal rendiconto dell’esercizio 2012».

Così facendo, si raggiunge subito lo scopo richiesto dal sistema delle imprese e dai comuni, di permettere ai comuni stessi di pagare i loro arretrati, con i soldi che hanno già in cassa.

Che, infatti bisogna muoversi immediatamente è chiaro dai dati, impressionanti, divulgati dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture: i tempi di pagamento arrivano tranquillamente e superare i due anni; il doppio rispetto a quanto si registra nel resto dell’Unione europea.

Secondo la Corte dei conti (in un audizione tenutasi alla camera già un anno fa, il 13 marzo 2012 e, nel frattempo, le cose sono peggiorate) il debito della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese è stimato in circa 60-70 miliardi di euro, di cui 17,9 miliardi di euro a carico dello stato centrale ed il resto degli enti locali.

Le difficoltà finanziarie del bilancio pubblico, che pure pesano, non giustificano questo stato di cose. Ad aggravarlo ci pensa anche l’eccesso di burocrazia, talvolta dovuta a buoni motivi, come gli oneri organizzativi legati alla nuova normativa sulla tracciabilità dei flussi finanziari che se, da un lato, ha la virtuosa finalità di prevenire le infiltrazioni della criminalità organizzata nel mercato degli appalti pubblici, dall’altro implica ulteriori ritardi nelle procedure di pagamento. Ma, più spesso da lungaggini ingiustificate. Col risultato, doppiamente negativo, che l’insolvenza degli enti determina un crescente, pesante contenzioso, con un ulteriore aggravio dei costi.

Non c’è tempo da perdere, dunque. Se si agisce subito si può tamponare l’emorragia, si sblocca lo stallo e si avvia una inversione di tendenza salutare, presupposto decisivo per una ripresa di fiducia da parte delle imprese, soprattutto medio piccole, strozzate da troppi fattori negativi (credito, produttività, innovazione) per sopportare che tra questi ci sia anche lo stato.

da Europa Quotidiano 27.03.13

"I troll antesignani pre-web", di Gianluca Nicoletti

Finalmente qualcuno ha deciso di occuparsi della preoccupante rinascita del Troll. Lo ha fatto Beppe Grillo, con un’esemplare chiamata alle armi del suo popolo contro quegli sgradevoli scherzi della natura. Ora il Troll è stato ufficialmente messo al bando: non lo merita, ma potrà almeno gloriarsi di un’immeritata dignità di nemico da sterminare. Mai prima, il Troll ebbe tanta veemente valutazione del suo potere di disturbatore mercenario. Sappiamo che ora è al soldo del lato oscuro della forza, quella stessa forza del Web che, nella sua dimensione di luminosità penta stellare, é virtuosamente rappresentata dai manipoli che presidiano l’area sacra del blog di Grillo.
Si pensi che l’evocazione del disturbatore compulsivo delle preistoriche comunità Internet risale ai gloriosi tempi di Usenet; fu infatti agli albori della Rete che avvenne la cyber riesumazione di questi mostriciattoli dalla narice colante, nativi della foresta nord europea (quindi euro-entusiasti).
Fu allora strenua negli antichi Newsgroups la resistenza verso questi cocciuti portatori di pensiero deviante. La razza dei Troll inquinava i topics più rigorosi con il loro petulante reiterare obiezioni, strampalate, derive di pensiero, ossessioni complottistiche.
Folli ideologie devianti che andavano dall’urinoterapia, alle scie chimiche, al mito della grande madre Gea. Costoro furono eliminati al grido: «Nessuno dia da mangiare al Troll! ». Tanto che tutti pensammo che i Troll fossero tutti morti di fame, soprattutto che nessuno di loro fosse riuscito a sopravvivere al crollo del regno di Windows98.
Invece ecco che scopriamo che sono rispuntati proprio adesso, quando di web 2.0 parlano oramai solamente nei circoli delle bocce. Più pericolosi e organizzati che mai i Troll (che hanno sette vite) hanno ripreso la loro attività malvagia, foraggiati da chi vorrebbe che in rete siano restaurati i principi passatisti e decadenti della contaminazione dei saperi e del diritto al dissenso. Morte al Troll, senza se e senza ma. Siano marchiati e avviati verso una soluzione finale del problema della loro cyber esistenza. Era ora che qualcuno affermasse che Internet é di chi sappia conquistarla, guai a chi disturba i navigatori, a chi osa seminare dubbio e sospetto, Siamo certi che Internet sarà la salvezza dell’umanità… Ma proprio tutti tutti no! Avranno facoltà di post solo coloro che serreranno i ranghi assieme al popolo del «like» e acconsentiranno di marciare, compatti e indefessi, sotto il vessillo del fiero pollice eretto.

La Stampa 27.03.13

Modena – Assemblea plenaria Conferenza Provinciale delle elette

Sala polivalente Windsor-Park presso Condominio Windsor-Park via S.Faustino, 155 Modena

09,00 INSEDIAMENTO ASSEMBLEA PLENARIA
Presiede
Grazia Baracchi
Presidente della Conferenza Provinciale delle Elette
Saluti
Emilio Sabattini
Presidente della Provincia di Modena
Demos Malavasi
Presidente del Consiglio Provinciale
Claudia Severi
Vicepresidente Conferenza Provinciale delle Elette
saranno presenti
Palma Costi
Presidente dell’Assemblea legislativa regionale e le nuove elette in Parlamento
Roberta Mori
Consigliere regionale e Presidente della Commissione regionale per la parità
e le nuove elette in Parlamento
TAVOLI DI LAVORO PARTECIPATI
“Conciliazione… organizzazione …. condivisione? Partiamo dai tempi della politica! strumenti che aiutino concretamente le donne a partecipare attivamente” Ne parliamo con
Vicepresidente Well_B_Lab*.
Il valore del benessere soc. coop
“Quando la politica si fa “Social”. Comunicazione, opportunità e tutele
nel mondo della comunicazione on line”
Ne parliamo con
Michela Iorio
Giornalista e consulente di comunicazione Coordina
Marcella Valentini
Assessore Bilancio, Patrimonio, Infrastrutture telematiche e Pari opportunità,
della Provincia di Modena
RESTITUZIONE ALL’ASSEMBLEA TRAMITE INSTANT REPORT DELLE DISCUSSIONI
Francesca Corrado
Coordina
Francesca Ferrari
Presidente Commissione permanente pari opportunità provinciale
“La politica come arte del compromesso? La
mediazione: strumento per la gestione delle relazioni”
ne parliamo con
Sara Bonacini
Presidente Cooperativa Mediando
Conclusioni
Coordina
Grazia Baracchi
Barbara Maiani
Presidente della Conferenza

"La casa di vetro", di Massimo Gramellini

Basta con la vecchia politica dei segreti e degli inciuci. Oggi i parlamentari di Grillo diranno vaffa a Bersani in streaming. Una telecamera inquadrerà lo storico evento e chiunque transiti nelle vicinanze di un computer potrà godersi l’incontro fra il presidente incaricato e la delegazione Cinquestelle. Tutto si svolgerà in una casa di vetro. Bersani farà le sue proposte, i parlamentari di Grillo le loro, si converrà che non c’è trippa per giaguari e ci si saluterà cordialmente, dandosi appuntamento alla prossima occasione. Questa è la democrazia che ci piace. O no?

Mio padre fu per tutta la vita amministratore di condominio. Dopo averne moderate più di un migliaio, giunse a teorizzare che la migliore assemblea, quella veramente produttiva di risultati, comporta sempre due tempi. Nel primo i condomini si rinfacciano incomprensioni e malumori, nel secondo gettano ponti e abbozzano compromessi: io cedo sul riscaldamento centralizzato, però tu mi concedi il lavatoio accanto al terrazzo condominiale. Ma, diceva, sarebbe impossibile giungere a questa suprema armonia delle dissonanze se i protagonisti si dovessero occupare delle forme. Se cioè agissero con la consapevolezza di essere visti e giudicati dall’esterno. Sapersi osservati induce a compiere uno sforzo di autocontrollo che sconfina nella finzione. Poiché l’orgoglio ti impone di mostrarti duro e puro agli occhi del mondo, perdi intelligenza, capacità di ascolto, elasticità. Almeno finché la telecamera rimane accesa, come dimostrano i pollai televisivi. Poi per fortuna il collegamento in streaming finisce, la casa di vetro abbassa le persiane e si comincia, orrore, a fare politica.

La Stampa 27.03.13