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"La buona politica della Costituzione", di Salvatore Settis

Non sfugga un confronto, questo: nell’Agenda Monti, programma elettorale di un presidente del Consiglio in carica, la parola “Costituzione” non c’è mai. Viceversa, nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera, Laura Boldrini ha insistito sui «valori della Costituzione repubblicana» e sulla dignità delle istituzioni della Repubblica, ricordando con parole vibranti che «in quest’aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo». Analogamente, il presidente del Senato Piero Grasso ha esordito richiamando due volte la Costituente e «quella che ancora oggi è considerata una delle Carte costituzionali più belle e più moderne del mondo». Il silenzio di Monti è coerente con l’ordine dei valori prevalso nella scorsa legislatura (compresa la sua fase “tecnica”): il “volere dei mercati” al culmine, la Costituzione sospesa, in attesa di tempi migliori. Basta questa differenza a misurare le straordinarie
potenzialità di una nuova stagione politica, in cui l’impersonale, anti-politico anzi anti-democratico
diktat dei mercati deve fare i conti con l’orizzonte dei diritti civili disegnato dalla Costituzione: sovranità popolare, diritto al lavoro, alla salute, a un sano ambiente, alla cultura, alla giustizia sociale.
Sarebbe un delitto farsi sfuggire un’occasione che non si ripeterà: questo il senso dei due appelli, quello promosso da Barbara Spinelli e quello lanciato da Michele Serra, che in pochi giorni hanno superato le 200.000 firme (li ho firmati anch’io). Questo, e non la cieca fiducia in questo o in quel partito, non l’ubbidienza a ordini di scuderia. Non l’arroganza di intellettuali che si sentono maestri, ma la voce di cittadini che fuori da ogni coro esprimono una preoccupazione e una speranza. Perciò chi si è rallegrato che all’elezione del presidente del Senato abbiano contribuito voti del Movimento Cinque Stelle dovrà rallegrarsi altrettanto se, in altre circostanze, parlamentari del Pd violeranno la disciplina di partito per votare giusti provvedimenti proposti da quel Movimento. Dopo una campagna elettorale condotta sbandierando nomi, alleanze, schieramenti assai più che progetti e contenuti, è ora di rovesciare il tavolo dei giochi. Identificare contenuti, indicare traguardi, cercare consensi nel Paese e (dunque) nel Parlamento. Passare dalle chiacchiere ai fatti, cambiare subito il Paese sapendo quel che si vuole e quel che si fa.
Perciò l’art. 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato» è oggi più che mai prezioso. Beppe Grillo non vorrà certo copiare Berlusconi attaccando la Costituzione ogni volta che non gli fa comodo. Senatori e deputati sanno bene, giacché lo sanno tutti i cittadini, quale è il paradosso che stiamo vivendo: il loro (anzi il nostro) è un Parlamento di nominati, non di eletti, eppure segna il più profondo rinnovamento che mai si sia visto in Italia, il più massiccio approdo in quelle aule di non-professionisti della politica. Essi possono essere tentati da una rigida disciplina di partito in cui qualcun altro pensi per loro, ma dovrebbero mirare assai più in alto. Pieno rispetto della legalità costituzionale (incluso l’art. 67) e piena libertà di coscienza sono i presupposti necessari per ridisegnare la mappa delle priorità politiche di questo Paese. Nessun prezzo è troppo alto, se il fine è il bene comune.
Gravi problemi incombono: la debolezza dello Stato centrale, in questo momento di ardue scadenze istituzionali, favorirà la marcia verso la formazione
de facto di una “macroregione del Nord” capeggiata da Maroni, ridando fiato alla Lega in crisi e al suo mai sopito secessionismo, a spese dell’unità nazionale (art. 5 Cost.). Regioni svantaggiate e “generazioni perdute” verranno sacrificate senza pietà, immolandole non si sa più se alle ragioni “globali” dei mercati o a miopi alleanze (o nonalleanze) politiche. Cadranno nel nulla obiettivi oggi a portata di mano: «più giustizia sociale, più etica» (Grasso), «strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato» (Boldrini). Per non dire di una legge elettorale non iniqua, della riduzione dei costi della politica, di un forte argine, pur così
tardivo, al conflitto di interessi, di un vero argine alla corruzione.
Per l’Italia e per l’Europa, questo e non il prossimo Parlamento deve fare il massimo sforzo per diventare «la casa della buona politica » (Boldrini) vincendo le logiche di un partitismo di maniera che gli elettori hanno bocciato, e facendo dell’inesperienza dei neo-eletti un punto di forza, lo strumento di un nuovo sguardo sulle istituzioni e sui problemi del Paese. Dovrebbero esser scritte a caratteri cubitali, all’ingresso della Camera e del Senato (e domani a Palazzo Chigi e al Quirinale) le parole di Teresa Mattei (la più giovane dei membri della Costituente, morta a 92 anni qualche giorno fa) nella sua ultima intervista: «Questa è la cosa bella dell’animo democratico: pensare da bambino per ridisegnare le cose».

La Repubblica 25.03.13

Lingue e laboratori ecco che cosa vogliono gli studenti del futuro", di Flavia Amabile

Materie scientifiche, lingue, manualità: è questo che hanno scelto buona parte delle famiglie e degli studenti italiani alle prese con le iscrizioni alle scuole superiori per l’anno scolastico 2013/2014, dopo un anno di crisi durissima che ha portato altri tagli anche alle speranze oltre che ai posti di lavoro.mÈ lì che gli italiani immaginano che esista ancora un futuro: nei numeri o nella scienza, nella fuga all’estero o in un’attività manuale. Finita l’epoca degli italiani popolo di umanisti e letterati, quasi azzerate le possibilità di guadagnare qualcosa con le parole, i nuovi adolescenti si affidano ad altro.

Calano quindi le iscrizioni al liceo classico: sono in 31591 ragazzi a sceglierlo, ma dal 6,6 per cento del totale dello scorso anno sono scesi al 6,1 per cento del totale. Calano anche gli iscritti al liceo scientifico: sono 85008 ad averlo scelto, il 16,5 per cento del totale contro il 18,1 per cento dello scorso anno. Inarrestabile invece, l’ascesa di licei linguistici e scientifici applicati. Il primo è stato scelto da 43172 ragazzi, l’8,4 per cento del totale rispetto al 7,2 per cento dello scorso anno. E in 32431 si sono orientati verso il liceo scientifico applicato, uno scientifico senza latino ma con tante ore di laboratorio e di materie scientifiche. Sono il 6,3 per cento del totale degli iscritti contro il 4,1 per cento dello scorso anno.

Una nuova Italia si sta formando e il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha preparato un corposo dossier con mappe, grafici e tabelle che la racconta con la precisione dei dati. «Le famiglie hanno reagito ancora una volta molto bene – spiega il ministro – Non si sono fatte spaventare dai dati negativi sulla cassa integrazione, nè dagli scenari foschi. Hanno avuto fiducia nella parte industriale del nostro Paese, considerando che è solida e che conviene investire proprio sulle industrie per costruire il futuro dei lorofigli. È la conferma di un Paese che funziona, che risponde con concretezza alle difficoltà».

La concretezza è molto evidente quando si va a considerare le scelte nel dettaglio, e ci si rende conto che le scelte degli studenti italiani seguono logiche molto precise. In Lombardia, ad esempio, a scegliere gli istituti alberghieri sono poco più di 4mila giovani, la metà di quelli che si sono iscritti a un tecnico con indirizzo amministrazione, finanza e marketing. In regioni del Sud come Calabria, Sicilia, Sardegna o Campania, invece, è il contrario, perché di sicuro chi intende restare ha maggiori possibilità di trovare lavoro nel settore turistico che in quello della finanza.

Il dossier mostra anche nel dettaglio i settori di specializzazione scelti nelle diverse aree italiane. Piemonte, Lombardia, Lazio, Campania e Puglia sono le regioni dove c’è stato il maggior numero di iscritti nei tecnici con indirizzo trasporti e logistica, quello che poi permette una specializzazione nell’aerospaziale. E sono proprio le regioni dove esistono concrete possibilità di lavorare nel settore. Nel mondo dei Beni Culturali ad offrire opportunità sono soprattutto regioni come Lazio, Campania e Sicilia, le stesse in cui si concentra il maggior numero di iscritti nei licei artistici. Lo stesso vale per le start up introdotte dal governo Monti con il decreto sviluppo. Dopo pochi mesi ne sono state create già più di 300. Il Piemonte è la regione con il maggior numero di iniziative imprenditoriali innovative, quasi cinquanta, seguita dalla Lombardia e dal Veneto.

E di sicuro non è un caso – come sottolinea anche il ministro Profumo – che i ragazzi che si sono iscritti agli istituti dove si occupano di Ict, tecnologie per «Smart communities», siano in particolare quelli del Piemonte, della Lombardia, del Veneto. del Friuli Venezia Giulia, dell’Emilia Romagna. «L’altro aspetto positivo di questa crisi continua infatti il ministro – è che esistono attori lungimiranti che stanno non solo creando lavoro ma anche aggregando il Paese, unendolo in nome di un obiettivo comune. Un tempo si decideva dall’alto dove si doveva creare sviluppo industriale, adesso sono il territorio e la ricerca a far emergere le specializzazioni settoriali. Mi auguro che il prossimo governo vada avanti lungo questa strada, mettendo in atto una politica capace di guardare a medio termine, perché soltanto sapendo e programmando si riesce a dare alle famiglie e ai ragazzi quello che chiedono in termini di formazione».

La stampa 25.03.13

"Tagli all'istruzione, l'Ue contro l'Italia", di Salvo Intravaia

L’Italia ha tagliato più di qualsiasi altro Stato europeo sull’istruzione e da Bruxelles arriva una autentica strigliata. “Sono tempi difficili per le finanze nazionali ma abbiamo bisogno di un approccio coerente in tema di investimenti pubblici nell’istruzione e nella formazione poiché questa è la chiave per il futuro dei nostri giovani e per la ripresa di un’economia sostenibile nel lungo periodo”. Come dire: la crisi c’è ma occorre capire cosa tagliare. La tirata di orecchie all’Italia arriva direttamente dalla Commissione europea che ha passato in rassegna i bilanci dei 27 Paesi membri scoprendo che negli ultimi tre anno soltanto otto hanno tagliato sull’istruzione. E l’Italia è la prima.

“Se gli Stati membri non investono adeguatamente nella modernizzazione dell’istruzione e delle abilità – ha affermato Androulla Vassiliou, commissario europeo responsabile per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù – ci troveremo sempre più arretrati rispetto ai nostri concorrenti globali e avremo difficoltà ad affrontare il problema della disoccupazione giovanile”. Un vero e proprio avvertimento neppure troppo velato al nostro Paese che soprattutto dopo il 2008 – con le riforme Gelmini – ha cominciato a tagliare su scuola e università senza troppi scrupoli e che adesso trova mille difficoltà a gestire e ad uscire dalla crisi economica globale degli ultimi tre anni.

Ma non tutti i Paesi alle prese con la crisi hanno tagliato sull’istruzione. Lussemburgo,

Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Turchia – solo per citare alcuni Stati dell’Ue o candidati a farne parte – nonostante le difficoltà hanno scommesso sulla scuola incrementando le risorse. In testa la Turchia che fa registrare un più 16,5 per cento, seguita dal Lussemburgo col 7,4 per cento in più in appena due anni. Grecia, Italia e Inghilterra in coda. Col nostro Paese che dal 2010 al 2012 ha tagliato il bilancio della scuola – dalla materna alle superiori – del 10,4 per cento. Una sforbiciata accompagnata dal taglio di quasi 100mila cattedre e da un alleggerimento dei conti anche dell’università: meno 9,2 per cento in 24 mesi.

Lo studio della Commissione europea prende in considerazione anche l’impatto dei tagli sul numero di insegnanti, che in Italia – dal 2000 al 2010 – è calato dell’11,1 per cento mentre in Germania si è incrementato del 13,0 per cento. Così com’è avvenuto in Finlandia (più 12,9 per cento), in Svezia (più 21,9 per cento) e Norvegia. L’esecutivo Ue stigmatizza anche gli effetti della crisi sulle buste paga degli insegnanti – che pesano per il 70 per cento della spesa scolastica – congelate o addirittura ridotte in 11 Paesi, Italia compresa.

www.repubblica.it

Istat: sono 200 mila i dottori disoccupati Se la laurea non basta", di Stefano Rizzato

A fermarsi in superficie, si rischia di dare ragione a lui: Giorgio Tedone, romano, 26 anni, che a inizio febbraio ha messo il suo diploma di Scienze Politiche all’asta su eBay. La laurea sembra sempre più un inutile «pezzo di carta». Ma la verità è che – per quanto non offra la garanzia di trovare lavoro – per molti ha rappresentato un paracadute decisivo, proprio negli anni della crisi globale.

Dice l’Istat: nel 2012 i laureati under 35 a caccia di impiego sono arrivati a sfiorare quota 200 mila, in crescita del 28% rispetto al 2011 e di oltre il 42% rispetto al 2008. In tutto, senza guardare all’età, i disoccupati con laurea sono oltre 300mila: una città di medie dimensioni. Numeri impressionanti, ma che possono ingannare. Perché il nostro Paese sta vivendo un aumento generalizzato della disoccupazione giovanile. A ritrovarsi senza lavoro non sono solo i «dottori». Anzi, a ben vedere, la laurea ha aiutato molti a superare indenni gli ultimi tempi.

Lo spiega bene la quindicesima indagine annuale sulla condizione occupazionale dei laureati, stilata dal consorzio interuniversitario AlmaLaurea. Tra il 2007 e il 2012, la disoccupazione è cresciuta del 67% per i giovani di 25-34 anni, ma «solo» del 40% per i laureati della stessa età. Insomma, la crisi ha colpito i giovani, tutti. Ma quelli con laurea hanno trovato un impiego un po’ più facilmente. Altro che «pezzo di carta».

«Gli studi universitari restano un vantaggio fondamentale», conferma il direttore di AlmaLaurea, il professor Andrea Cammelli. «È vero che a un anno dal titolo, gli occupati sono in calo, circa 7 su 10. Ma è vero anche che a cinque anni dal diploma, il tasso di disoccupazione tra i laureati è bassissimo: intorno al 6%. E, nell’arco di una carriera, i dati dicono che un laureato guadagna in media il 50% in più degli altri lavoratori».

Certo, le imprese italiane restano tra le meno propense in Europa ad assumere «dottori». Nel totale degli occupati italiani, solo il 17,6% ha una laurea. La media europea è di 29,1. Assumono persone con un diploma universitario grandi imprese, con orizzonti internazionali e alto livello d’innovazione. Il tipo di aziende che scarseggia nel nostro Paese.

Per uscire dalla crisi, dice il rapporto AlmaLaurea, abbiamo bisogno dei giovani più di quanto loro abbiano bisogno di noi. «Un laureato può aiutare una piccola azienda a capire i processi di internazionalizzazione. Se invece di vedere solo nero le nostre imprese decidessero di investire sulle competenze, sono convinto che loro – e insieme il Paese – sarebbero in grado di rilanciarsi».

La Stampa 25.03.13

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“Quasi 200 mila i laureati disoccupati”, di Barbara Corrao

Sono arrivati quasi a 200 mila i giovani laureati disoccupati. Nel 2012 i ragazzi e ragazze in possesso di una laurea ma non ancora di un lavoro, sono stati 197.000 nella fascia di età compresa tra 15 e 34 anni. Erano 154 mila nel 2011, 169.000 nel 2010 e 138.000 nel 2008, primo anno di crisi. La crescita della disoccupazione, dunque c’è stata ed è stata significativa anche tra quei giovani che hanno giocato la carta dell’istruzione e della formazione per costruirsi un futuro. Dati preoccupanti che hanno fatto scattare l’allarme: ormai nemmeno la laurea serve più a proteggersi dalla disoccupazione? A caldo sembra questa la prima impressione ma scendendo più in profondità dentro le cifre si scopre che non è così. O perlomeno che lo è solo in parte.
I NUMERI

Le cifre disaggregate rese disponibili dall’Istat, che pochi giorni fa ha presentato insieme al Cnel il Rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile), sono chiare. Cresce del 28% il numero dei laureati disoccupati rispetto al 2011. Ma cresce anche il numero dei disoccupati totali. Lo scorso anno i senza lavoro sono aumentati complessivamente di oltre 600.000 unità rispetto al 2011. E il numero di giovani tra i 15 e i 34 anni in cerca di un’occupazione è salito a 1.426.000 unità. Il rapporto tra laureati e disoccupati, in quella fascia di età, in realtà è rimasto intorno al 13,8% nel 2012. Era arrivato al 13,6% nel 2011, al 14,5% nel 2010, tutti anni in cui la crisi ha picchiato duro sull’occupazione. Il rapporto laureati-giovani disoccupati pre-crisi si attestava al 14,3% nel 2007. Dati che indicano una sostanziale stabilità.
LE CONCLUSIONI

Come si spiega allora l’allarme sui laureati? Intanto, in assoluto, 197.000 laureati senza lavoro sono comunque una cifra record che dà la misura della sofferenza di una generazione colpita più di altre dalla crisi. In massima parte si tratta di ragazze: 125.000, pari al 63% del totale Anche in questo caso, il prezzo più alto lo paga il Sud dove i laureati senza lavoro sono 87.000 contro 65.000 al Nord e 45.000 al Centro.
Si assottiglia inoltre il vantaggio tra laureati e non laureati disoccupati: i primi sono aumentati del 27,6% rispetto al 2011, i secondi del 30,1%. La laurea rappresenta dunque ancora oggi un antidoto alla disoccupazione ma inferiore al passato: la durezza della crisi si accanisce soprattutto sulle fasce più giovani della popolazione attiva. Tuttavia se il tasso di disoccupazione dei laureati è del 13,8%, quello dei diplomati è del 18,9% e sale al 24,9% tra i ragazzi fermi alle medie. L’ultima considerazione riguarda l’aumento dei laureati in Italia che fa inevitabilmente salire la loro incidenza sui disoccupati nella fascia di età presa in considerazione. Eppure, siamo ancora ai livelli più bassi della Ue dove il 34,6% dei giovani di 30-34 anni ha un titolo universitario contro il 20,3% in Italia.

Il Messaggero 25.03.13

"L’ultima impasse dei 5Stelle la base si spezza a metà sul sostegno al governo Pd", di Ilvo Diamanti

Pier Luigi Bersani prosegue nelle consultazioni.
Per verificare, come ha chiesto il Presidente Napolitano, se vi siano le condizioni per un governo che disponga di una maggioranza effettiva. E stabile. Non è una “missione impossibi-le”, ha avvertito il segretario del Pd. Ma sicuramente molto improbabile. Soprattutto se Bersani mira a un’intesa fra il centrosinistra e il M5S, come ha fatto intendere fin qui. Perchè i margini, in tal senso, sono davvero stretti. O meglio: non ci sono. Beppe Grillo l’ha ribadito anche ieri. E l’altro ieri. Ma lo farà, sicuramente, anche oggi — e domani. Perché Grillo non parla — solo e tanto — agli altri. Ma anzitutto ai suoi.
Ha bisogno di tenerli uniti. Fino a quando, almeno, le consultazioni di Bersani si saranno concluse. Senza il sostegno del M5S. Se un gruppo di parlamentari del suo gruppo votasse la fiducia — com’è avvenuto in occasione dell’elezione di Piero Grasso alla carica di Presidente del Senato — non sarebbe un problema. Si tratterebbe di un “tradimento”. Allungherebbe ombre sul futuro del nuovo — eventuale — governo. E sulla maggioranza. Fondata, fin dall’avvio, sul sostegno di “transfughi”, più o meno “responsabili”.
Ma attendersi un sostegno aperto dal M5S mi sembra impossibile, più che improbabile.
Non solo da parte di Grillo. Anche del gruppo dirigente del MoVimento. Una eventuale consultazione, al proposito, non è plausibile. Né in Parlamento, fra gli eletti. Né in rete, fra gli aderenti e gli elettori. Perché, se ciò avvenisse, diverrebbe evidente quel che Grillo, per primo, sa. Cioè: che sull’argomento la base del M5S è divisa. Anzi, spezzata. Visto che il suo elettorato è equamente ripartito, in base alla provenienza politica ed elettorale (come mostrano le indagini sul tema. Da ultimo: il volume di Roberto Biorcio e Paolo Natale, “Politica a 5 Stelle”, pubblicato da Feltrinelli). Tanto più e a maggior ragione di fronte a una possibile alleanza.
Lo conferma un sondaggio dell’Osservatorio elettorale del LaPolis (Università di Urbino), condotto nei giorni scorsi. I risultati, al proposito, appaiono eloquenti. Un accordo tra Pd e M5S a sostegno di un nuovo governo, infatti, otterrebbe il favore del 55%
degli elettori. E di una quota molto più elevata fra quelli di centrosinistra, ma anche di centro. In particolare: appoggerebbero l’intesa quasi 8 su 10 fra gli elettori del Pd e del centrosinistra, ma anche il 65% degli elettori di Monti. Fra gli elettori del M5S, però, si osservano orientamenti molto diversi e, nell’insieme, divergenti. I favorevoli all’accordo, infatti, si riducono al 54%. I contrari al 45%. Cioè: circa metà e metà.
Questa s-composizione dipende, come si è detto, dalla provenienza dell’elettorato. Il consenso all’intesa, infatti, sale al 63% fra gli elettori che nel 2008 avevano votato per il centrosinistra. Ma tra gli elettori provenienti dal centrodestra, quasi, si dimezza: 36%.
In altri termini, la partecipazione a un governo guidato da Bersani spaccherebbe in due l’elettorato del M5S. Ma anche la base più “fedele”. Fra coloro che si definiscono “molto vicini” al MoVimento, infatti, i favorevoli all’intesa sono esattamente la metà: 50%. Per questo Grillo, oltre a esprimere il proprio dissenso, chiama “fuori” il M5S da ogni discussione. Al governo? Da soli o non se ne parla. Perché qualsiasi altra decisione rischierebbe di produrre lacerazioni e opposizioni. All’interno e alla base. L’accordo con Bersani: susciterebbe disagio, se non rifiuto, da parte di quasi metà dei suoi elettori. Soprattutto, di quelli che provengono dal centrodestra. Tuttavia, anche una rottura esplicita con il Centrosinistra solleverebbe malessere. Perché il M5S nasce da una costola della Sinistra, ma l’altra è di Destra. E, per ora, il MoVimento non dispone di un’identità definita e precisa, che permetta agli elettori di distinguersi e di distanziarsi dagli altri. Certo, il M5S della prima fase è sorto e si è sviluppato sull’azione dei comitati e dei movimenti locali, impegnati sul tema dei “beni comuni”. Ma il successo elettorale è avvenuto intorno alle rivendicazioni sulla trasparenza e sui costi della politica. Infine: contro la Casta e le oligarchie di partito. In definitiva: contro i partiti.
Da ciò la differenza rispetto alla Lega degli anni Novanta, che ha raccolto anch’essa il malessere contro il sistema dei partiti e contro il ceto politico, ormai al collasso. Ma disponeva di un’idea — meglio, di un’ideologia — forte. La Questione Settentrionale, poi: la Padania. Inoltre, si riconosceva in un leader carismatico ed era organizzata, come un partito di massa, radicato sul territorio. Il M5S, invece, non ha radici né organizzazione sociale e territoriale. È una rete. Esposta alle “incursioni”, sul Web, dei dissidenti e dei “trolls”, come li definisce Grillo. Inoltre, Grillo non è un leader carismatico. Il grado di identificazione personale nei suoi confronti, presso gli attivisti e gli elettori, è analogo, ma non superiore, rispetto a quello degli altri partiti (come mostra il recente saggio di Bordignon e Ceccarini pubblicato sulla rivista ComPol).
Il M5S non è, dunque, un partito tradizionale e neppure “personale”. Semmai “personalizzato”. Per riprendere la metafora che ho già usato una settimana fa: è come un Autobus. Sul quale sono saliti molti passeggeri. Alcuni diretti alla Terra dei Beni Comuni e della Democrazia Diretta. Altri, i più, “fuggiti” dalle loro case (politiche). Mossi da risentimenti — più che da sentimenti — verso i partiti maggiori. Per questo il Conducente, per ora, non si può fermare. E, anzi, accelera, sempre più veloce. Perché, se si fermasse a una stazione, molti passeggeri potrebbero scendere. Senza più risalire. Così continua a correre. In attesa che le case “politiche”, vecchie e nuove, crollino definitivamente. E altri passeggeri, in fuga, salgano in corsa sull’Autobus 5 Stelle. Un’attesa che potrebbe essere breve, visto il clima politico ed economico generale. Ma, in un paesaggio ridotto in macerie: che farebbero Grillo e il suo Autobus?

La repubblica 25.03.13

"C’era una volta la Via Emilia", di Paolo Rumiz e Francesco Guccini

«Scusi dov’è l’antica via Emilia?». Rimini. All’ufficio informazioni davanti alla stazione mi mostrano senza esitare il periplo delle mura. La strada millenaria che spacca la città come una mela e taglia dritta dall’arco di Augusto fino a Piacenza, è ignorata. Diavolo, non c’è niente di così rettilineo in tutto il Nord, la vedi persino dal satellite, ma è come se fosse sparita. Piove, il mare è immobile, il divertimentificio in letargo; in un chilometro conto 17 banche, nove negozi chiusi, centinaia di immigrati e infinite badanti.
Sono i 2200 anni della grande via romana — nel 187 a. C. il console Emilio Lepido la completava per tenere a bada i Galli della pianura — ma la regione ignora il mito fondativo della sua strada maggiore. Salvo un incontro voluto a giugno dalla soprintendenza e dall’editore Mulino in quel di Rimini, in vista c’è poco o nulla. Così vengo a dare un’occhiata, per dire cosa è diventata la più nobile delle antiche
Le sorprese cominciano subito. Chiedo un bus per Cesena, ma non si può, si arriva solo a Savignano, a trenta chilometri. Non c’è un Greyhound come sulla Route 66 transamericana. Per fare la strada più dritta d’Italia devo cucire coincidenze impossibili. Ho rimediato una strisciata di orari da mal di testa; me l’ha data un mago delle vie traverse di nome Paolo Merlini. Fino a Piacenza fanno quindici cambi, fra treno e bus. Dovrò armarmi di pazienza.
Linea 90, autoradio con spot martellanti, tre badanti rumene, due senegalesi che gridano al cellulare. Infiniti svincoli, rotonde fatte apposta per perdersi. Poi confluisco sulla via, e subito qualcosa si rimette a posto in me, come in un arabo che trova la Mecca. Rotta a Nordovest, ferrovia a destra, Appennino a sinistra. C’è anche una casa cantoniera, rosso pompeiano d’ordinanza. Spiragli di bella Italia.
A Santa Giustina con la via Emilia ce l’hanno a morte. È pavesata di lenzuolate ai balconi con scritto “Basta chiacchiere, circonvallazione subito”, “Traffico+smog, grazie sindaco”. La via è diventata Statale 9 fino a Milano, ma non taglia più i paesi: ci gira attorno. E laddove li taglia, diventa un inferno di Tir. Fabbriche, centri commercia-li, wellness, un manifesto che invita a una cena con strip maschile. Nessuna strada antica d’Europa somiglia meno di questa a ciò che è stata.
A Savignano merenda alla piadineria del ponte, con vista sulle campate romane e il Rubicone. Mi dicono che il paese pullula di cinesi negli scantinati. Il resto è anziani, e il solito gineceo romagnolo: impiegate, postine in bici, vigilesse a caccia di divieti. «Scusate, dov’è l’antica via Emilia?» chiedo alle ultime, e loro indicano perentorie la circonvallazione. Come a Rimini. Linea 95 per Cesena,
vetri sporchi da non veder fuori. Ipermercati, rotonda dedicata all’imperatore del liscio Secondo Casadei. Nella turrita Cesena patria di due papi mi raccatta Angela Arcozzi, una mora che odia le autostrade e mi porta in auto a Forlì. Piove forte, immense rotonde attorno a Forum Popili, l’attuale Forlimpopoli, patria di cuochi e briganti, Pellegrino Artusi e il Passator Cortese svaligiatore di teatri.
Forlì, fascistissimo vialone d’accesso con mega-statua della vittoria. Ora la tabella oraria mi consiglia un pezzo in treno, in fondo anche la ferrovia segue la via come un’ombra, mai più distante di duecento metri. Arriva un regionale per Imola, surriscaldato e chiacchierone, in ritardo di quaranta minuti. Edgardo, pensionato stazza Obelix, brontola che la Romagna ti infligge un rompiballe al secolo. Ieri Mussolini, oggi il riminese Moretti, rottamatore di Fs.
«Scusi dov’è l’antica via Emilia? », richiedo nella pulitissima Imola. Un tipo con valigia ventiquattr’ore mi indica la parallela. A confonderlo forse c’è il viale della stazione, che si chiama via Appia. L’incrocio col vero Decumano è una meraviglia in pietra e mattoni, ma tutto è sigillato in una teca pedonale con negozi alla moda.
Il bus Tpr 101 per Bologna fa cinquanta fermate in 33 chilometri, roba da crisi di nervi. Al capolinea un bambino grasso, una donna con un sacchetto di pesci rossi, la solita badante e un africano ben vestito; poi si parte verso la capitale dei Boi in un balletto di saliscendi alle portiere. Donne, di tutte le età. La via è massacrata dalla sua stessa geniale funzionalità trasportistica. Imola centro commerciale, Toscanella, Dozza, Osteria Grande: nessuna fermata che ricordi le legioni.
Mucchi di neve sporca, frutteti spogli e l’eterna domanda: chissà dove finisce la Romagna e comincia l’Emilia? Mah.
Alle porte di Bologna già annotta.
Rotaie, negozi, argini, fabbriche, canali, fari nelle pozzanghere. A bordo si discute di Grillo e del Mago Gargamella (Bersani) mentre la radio gracchia di Balotelli se gioca o non gioca e due ragazze in hijab digitano freneticamente sul telefonino. Nemmeno l’Emilia, terra di vie dritte, sa più dove andare. Al capolinea, fuggi-fuggi nella pioggia, poi camminata solitaria lungo il cardo di via Galliera solo per chiacchierare con la russa al bancone di “Kalinka”, posto di vodke e caviali.
Afferro brandelli di mito solo con Gianni Brizzi, il prof di storia romana più annibalico che ci sia. Tra verdure padellate e un lambrusco, ecco venir fuori che fu il grande spavento punico a convincere Roma ad attrezzare quella strada per tenere buoni i Galli con una fascia- cuscinetto che non fosse solo militare. Una via capace di essere anche spazio di colonizzazione, mercato, e al tempo stesso un confine, l’antenato di tutti i Limes. La cena finisce con una panna cotta e un anatema: «Questa è la prima frontiera dell’Italia romana. E in Emilia non lo capiscono».
Come è vuota Bologna la notte; sento l’eco dei miei passi tra le Torri e il Nettuno. Tutto, mi dicono, è risucchiato dai centri commerciali. È incredibile: questa è l’unica regione al mondo che prende il nome da una strada, ma a quella strada non dedica una sola iscrizione turistica visibile. Nulla che proclami: qui sono passate le legioni, qui abita la nostra identità. Ma come fai a sapere dove vai, se non sai da dove vieni?
In auto per Modena con l’amico Alex Scillitani. Insegne trasparenti: Gelateria Delirius, Più compri e più risparmi, Affittasi capannoni, Compro oro. Tra Borgo Panigale e Casalecchio densità mai vista di seminude con ombrello, tacchi alti e iPod. Il consumo di suolo è terrificante, non c’è più spazio per la campagna. L’antico è disprezzato, lasciato morire. Ogni tanto un segnale dal mondo di ieri: un grandioso rudere in mattoni, una laterale di nome “Via del cantastorie”.
Castelfranco è il primo paese senza tangenziale, la SS9 lo attraversa tra i portici come ai tempi della Millemiglia. Altrove ti deviano spietatamente, come a Modena, dove appena la strada si fa bella ti sparano sulla rotonda Maserati. L’unico modo di fare la via romana integrale sarebbe la bici, che però negli anni del Sol dell’Avvenire è stata bollata come retaggio della miseria, col risultato che oggi sull’Emilia ti arrotano se te la fai sul sellino.
Alla “Bruciata”, oltre lo svincolo di Modena Nord, una volta c’era il West; oggi hai le signorine da marciapiede, russe o africane, a prezzi popolari. Puoi fartene una dopo una cena in pizzeria o un giro all’ipermercato. Poco prima, al ponte sul Panaro, c’erano i ruderi della discoteca Mac2, rugginosa base spaziale dimenticata. Poi fari nella pioggia, luminarie, e qualche varco di prateria. Ma la regione Emilia esiste davvero o è solo un’idea?
A Reggio il sindaco, noto per le “panchine parlanti” (fortunatamente guaste) e una mirabile rotonda attorno a una chiesa, ha pensato di ritombare un pezzo della via romana originale, in nome della modernità. In città la vivono come striscio, non come asse di collegamento. E se ti ostini a usarla come tale, ti dicono che la via è sbarrata. I bus non entrano nel granducato di Parma. Si va solo fino alla frontiera, come ai tempi delle dogane pre-unitarie.
La linea 2 verso il granducato è un bus urbano con posti in piedi. Coerente, in una via che è solo città lineare. E via, per rotonde megalitiche, in mezzo a cartelli di Vendesi e Affittasi. A Villa Cella c’è un venerabile cimelio, un cinema aperto, poi ti taglia la strada un funebre sovrappasso pedonale inaugurato con ascensore per disabili, e mai entrato in esercizio. Sembra Sicilia, ma è Emilia. Poi di nuovo campagna, monti innevati in lontananza, pavoni, oche, anatre.
Arrivo a Sant’Ilario in un bus vuoto, in un capolinea vuoto, in un quartiere vuoto. Piove anche nel chiosco d’attesa e non c’è nessuna coincidenza. Dopo le otto del mattino più niente collega il Reggiano al Parmense. Resta solo il treno, ma per arrivare alla stazione sono due chilometri a piedi. C’è solo l’autostop per passare l’Enza, gonfio e marrone, e con il ponte una nuova parata di adescatrici automunite, e una rete di sterrati per il mestiere.
Da un capo all’altro di Parma, la via di Emilio Lepido svela la sua storia ospedaliera. Lazzaretti, ricoveri per pellegrini, vecchi manicomi, la meraviglia di un ospedale rinascimentale. «Tutti segni — mi dice al bar l’assessore grillino Laura Maria Ferraris — di una rilettura non solo verdiana della città». Ma è dura risalire la china dopo anni di sfascio e ruberie. Col disastro Parmalat è scoppiata la crisi, il commercio va male anche in centro. Chiara Cabassi, bibliotecaria, mi porta sotto il ponte di mezzo, nell’antro che contiene le campate del suo predecessore romano. Oggi il sottopasso è terra di nessuno, ieri era pieno di negozi. E via di nuovo tra capannoni in disuso come balene spiaggiate.
Ponte sul Taro, grandioso, con statue di donna; poi la bellissima Fidenza disertata dai suoi stessi abitanti. La gente va al “Fidenza Village”, preferisce l’antico finto all’antico vero. I Tir non danno requie. «Con la crisi, i camionisti risparmiano sulle autostrade. Rovoleto e Pontenure sono annichilite dai passaggi», lamenta Mauro Nicoli, ufficio urbanistico di Fiorenzuola. «Ma la catastrofe vera è che la via non è più sentita come tale. Solo dall’aereo la percepisci come segno del territorio».
Ultimo caffè al bar Mocambo, ex balera sulla ferrovia, poi via in treno fino al paracarro finale: Piacenza, 197° miglio romano, piantata sull’ultimo guado del Po. Per fare tutta la strada dovrei continuare fino al dazio milanese di Porta Romana, ma sono sazio di badanti, Tir, belle-di-giorno, serrande abbassate e centri commerciali. Non ho trovato il mito; non so dove vada la regione-guida d’Italia. Piove troppo, Cristo santo, e ho pure le scarpe fradice.

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Francesco Guccini

La via Emilia è un paradosso. È strada e frontiera. Unisce e separa. Collega Rimini a Piacenza, e divide i paesi che attraversa, li taglia in due. Per dare un’idea, quando nel ’52 ho cambiato casa a Modena e ho attraversato lo stradone per passare dal lato appenninico a quello Nord sulla pianura, da quel momento — c’è da non credere — tutte le mie amicizie sono cambiate. Le persone che hanno segnato la mia storia musicale le ho incontrate sistematicamente oltre la via: Bonvi, quelli dell’Equipe 84, Dodo l’arrangiatore dei Nomadi, eccetera. Gli altri sono scomparsi. Giuro: mai più visti. Rimasti dall’altra parte.
Forse il lato musicale della via Emilia è quello di pianura. Ancora oggi. Tra Parma e Modena c’è tutta la fascia del blues. E poi c’è una quantità di gruppi rock. Una volta ho fatto un giro con Ligabue, che stava facendo un film, e li ho visti, questi “americani”. È un marchio rimasto dal Dopoguerra, dalla presenza degli Alleati. In quegli anni tutto quello che era americano era bello. In bicicletta da ragazzini noi si frenava all’americana. Funzionava così: balzavi agile dal sellino e stringevi la ruota posteriore fra le cosce. Io me li ricordo gli Americani quando passarono la Linea Gotica. Ricordo il gusto della Coca Cola e la forma di quelle bottiglie verdine. Noi ragazzi si stava sempre con loro. E loro sparavano una cannonata ogni tanto, tranquilli come se andassero in ufficio.
La mia via Emilia è stata dunque soprattutto frontiera. Non era il Far West in sé, ma la linea oltre la quale c’era il Far West, specialmente sul lato appenninico. Lì per noi c’era la prateria. Si rubava l’uva, si giocava ai cowboy, si andava a morosare di nascosto. C’era, mi ricordo, il campo di un signor Magnavacca, il quale per tenerci lontani aveva messo un cartello con la scritta “terreno avvelenato”. Sapevamo benissimo che non era vero, e la proibizione aumentava il godimento della scorribanda. Era in quei campi, a primavera, che si svegliava il profumo dell’erba, e quel profumo mi accendeva la nostalgia del mulino del nonno, a Pavana sul monte. Una volta, per dire “andiamo a Modena”, bastava abitare a un chilometro dal centro. Io potevo dirlo, perché tra casa mia e il cuore della città c’erano pezzi di campagna. La Millemiglia tagliava un mondo ancora antico: verso Castelfranco c’era un
posto chiamato Cavazzona, e tutti andavano lì a vederli passare, i concorrenti, con la Gazzetta dello Sport in mano. Il grido era: “È passato Nuvolari alla Cavazzona”. Oggi per dire “vado a Modena” devi abitare per lo meno a Piacenza, perché tra le città e i paesi non c’è più campagna. Specialmente tra Bologna e Reggio non hai che case e capannoni, un’infinita metropoli lineare.
Ogni tanto mi piace immaginare com’erano le nostre città al tempo dei Romani. Le vedo come dei Fort Apache, con intorno i Celti cattivi come puzzole. E credo che, per collegare tra loro quelle città con la via Emilia, i legionari non abbiano inventato nulla e si siano limitati a usare piste già battute dai nostri antenati. Ma hanno lasciato al mondo un grande nome: “strata”.
Che è una delle pochissime parole latine passate alla lingua inglese. “Street”, stessa radice di “strada”.
L’antico basolato romano l’ho visto, nella pancia di Bologna, anni fa. L’avevano trovato scavando un sottopassaggio all’altezza di via Ugo Bassi e via Rizzoli. Quando aprirono la galleria al pubblico, i resti della via Emilia furono alla portata di tutti. Divenne un posto frequentatissimo: accanto alle vecchie pietre c’era un negozio di dischi, si tenevano riunioni politiche. Poi divenne pian piano un ricettacolo di perdigiorno, e il Comune ha finito per tombare il passaggio. I monumenti, le chiese, i ponti. Erano quelle le nostre pietre miliari. E quando scrivevo con Lucio Dalla la canzone
A emilia, era a quella misura dello spazio che mi riferivo. Lo stesso per Piccola città.
Fino agli anni Sessanta, la domenica vedevo passare sciami di ciclisti. Non andavano mica ad allenarsi, come oggi. Andavano a ballare, a trovar la morosa, al cinema. E tornavano di notte perché non c’era pericolo. Io ci sono andato in bici, una volta, da Modena a Bologna. Madonna, non si arrivava mai.
(Testo raccolto a Pavana da Paolo Rumiz)

La repubblica 24.03.13

Napolitano e Gauck a Stazzema "Qui il mio ultimo atto pubblico", di Massimo Vanni

Per la prima volta insieme dentro la ferita di Sant’Anna di Stazzema. Per la prima volta i presidenti di Italia e Germania, Giorgio Napolitano e Joachim Gauck salgono uno accanto all’altro al Monumento ossario che ricorda i 560 morti della strage, avvenuta il 12 agosto 1944 nel piccolo paese dell’entroterra versiliese. “La conciliazione non può essere oblio” ha detto il presidente tedesco -I crimini compiuti qui non possono essere dimenticati”. E il presidente Napolitano ha aggiunto poco dopo: “Sto per concludere il mio mandato di presidente e questo è probabilmente l’ultimo atto pubblico che compio e sono felice che sia qui”. E poi: “Porterò come memoria preziosa di questo settennnato l’esempio che lei mi dà di nobiltà d’animo e d’amicizia”.

E’ un viaggio dentro una delle pagine più buie della storia del Novecento, ma anche un viaggio dentro una nuova pagina dell’Europa e della democrazia. Si abbracciano i due presidenti e quell’abbraccio commuove la gente che assiste sotto la pioggia: ci sono anche i superstiti dell’eccidio e i familiari delle vittime. “Pace e fraternità” sono le prime parole di Napolitano a Stazzema. “Davanti a questo simbolo, memoria perenne delle atrocità della guerra e della barbarie nazista e fascista, nel rendere omaggio alle vittime inermi, ci incontriamo fratelli tra fratelli, cittadini dell’Europa Unita, alfieri dei principi di pace, democrazia, libertà e giustizia” è quello che si legge (in doppia lingua, italiano e tedesco) sulla targa alla memoria, scoperta dai due presidenti.

“Siamo certi che la nostra presenza qui sia una condanna per quello che accaduto” ha detto Napolitano. “Caro Enrico Pieri è vero, sarebbe inaudito se lasciassimo dissolvere questo patrimonio di fratellanza e unità che abbiamo costruito insieme nell’Europa” dice il presidente Napolitano. “Sto per concludere il mio mandato e forse questo è l’ultimo atto pubblico che io compio” ha aggiunto Napolitano.

Dopo aver deposto una corona di fiori, il presidente della Repubblica italiana Napolitano e il presidente della Germania Gauck hanno salutato i superstiti e i patenti delle vittime. Un stretta di mano e un abbraccio sentito anche a Enrico Pieri, il sopravvissuto della strage che era un bambino, proprio Pieri si è molto adoperato per lo storico incontro. Poi, i due presidenti si sono trasferiti al museo.

Il sindaco del piccolo paese toscano dell’entroterra versiliese, Michele Silicani è stato il primo a prendere la parola: “Oggi Stazzema è il centro del mondo, qui è l’incontro in nome della fratellanza”. Quindi è toccato a Pieri che è anche presidente associazione vittime di Stazzema e che in quell’agosto 1944 aveva dieci anni e perse il resto della sua famiglia: “Ho sempre creduto nell’Europa, la vorrei più umana” ha detto tra le lacrime. Commosso anche il presidente tedesco: “Non è semplice per un tedesco essere qui a Stazzema. Sono grato a Napolitano essere qui. So che lei ha combattuto contro il nazismo e il fascismo. È per me era importante essere qui. Ringrazio per la fratellanza tra i due nostri paesi”.

La visita è stata decisa dopo che due superstiti della strage, Enrico Pieri e Mario Marsili, avevano inviato a Gauck una lettera già consegnata a Napolitano in cui invitavano i due presidenti nei luoghi del Parco della Pace.

Napolitano e Gauck anche nel museo, ristrutturato nel 2007″, ha aggiunto Silicani secondo il quale la visita dei due Capi di Stato “corona un percorso che abbiamo intrapreso in questi anni per promuovere i valori di pace e la memoria storica degli avvenimenti, con riguardo ai giovani che a migliaia salgono ogni anni per rendere omaggio ai Martiri di Sant’Anna”.

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