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"C’era una volta la Via Emilia", di Paolo Rumiz e Francesco Guccini

«Scusi dov’è l’antica via Emilia?». Rimini. All’ufficio informazioni davanti alla stazione mi mostrano senza esitare il periplo delle mura. La strada millenaria che spacca la città come una mela e taglia dritta dall’arco di Augusto fino a Piacenza, è ignorata. Diavolo, non c’è niente di così rettilineo in tutto il Nord, la vedi persino dal satellite, ma è come se fosse sparita. Piove, il mare è immobile, il divertimentificio in letargo; in un chilometro conto 17 banche, nove negozi chiusi, centinaia di immigrati e infinite badanti.
Sono i 2200 anni della grande via romana — nel 187 a. C. il console Emilio Lepido la completava per tenere a bada i Galli della pianura — ma la regione ignora il mito fondativo della sua strada maggiore. Salvo un incontro voluto a giugno dalla soprintendenza e dall’editore Mulino in quel di Rimini, in vista c’è poco o nulla. Così vengo a dare un’occhiata, per dire cosa è diventata la più nobile delle antiche
Le sorprese cominciano subito. Chiedo un bus per Cesena, ma non si può, si arriva solo a Savignano, a trenta chilometri. Non c’è un Greyhound come sulla Route 66 transamericana. Per fare la strada più dritta d’Italia devo cucire coincidenze impossibili. Ho rimediato una strisciata di orari da mal di testa; me l’ha data un mago delle vie traverse di nome Paolo Merlini. Fino a Piacenza fanno quindici cambi, fra treno e bus. Dovrò armarmi di pazienza.
Linea 90, autoradio con spot martellanti, tre badanti rumene, due senegalesi che gridano al cellulare. Infiniti svincoli, rotonde fatte apposta per perdersi. Poi confluisco sulla via, e subito qualcosa si rimette a posto in me, come in un arabo che trova la Mecca. Rotta a Nordovest, ferrovia a destra, Appennino a sinistra. C’è anche una casa cantoniera, rosso pompeiano d’ordinanza. Spiragli di bella Italia.
A Santa Giustina con la via Emilia ce l’hanno a morte. È pavesata di lenzuolate ai balconi con scritto “Basta chiacchiere, circonvallazione subito”, “Traffico+smog, grazie sindaco”. La via è diventata Statale 9 fino a Milano, ma non taglia più i paesi: ci gira attorno. E laddove li taglia, diventa un inferno di Tir. Fabbriche, centri commercia-li, wellness, un manifesto che invita a una cena con strip maschile. Nessuna strada antica d’Europa somiglia meno di questa a ciò che è stata.
A Savignano merenda alla piadineria del ponte, con vista sulle campate romane e il Rubicone. Mi dicono che il paese pullula di cinesi negli scantinati. Il resto è anziani, e il solito gineceo romagnolo: impiegate, postine in bici, vigilesse a caccia di divieti. «Scusate, dov’è l’antica via Emilia?» chiedo alle ultime, e loro indicano perentorie la circonvallazione. Come a Rimini. Linea 95 per Cesena,
vetri sporchi da non veder fuori. Ipermercati, rotonda dedicata all’imperatore del liscio Secondo Casadei. Nella turrita Cesena patria di due papi mi raccatta Angela Arcozzi, una mora che odia le autostrade e mi porta in auto a Forlì. Piove forte, immense rotonde attorno a Forum Popili, l’attuale Forlimpopoli, patria di cuochi e briganti, Pellegrino Artusi e il Passator Cortese svaligiatore di teatri.
Forlì, fascistissimo vialone d’accesso con mega-statua della vittoria. Ora la tabella oraria mi consiglia un pezzo in treno, in fondo anche la ferrovia segue la via come un’ombra, mai più distante di duecento metri. Arriva un regionale per Imola, surriscaldato e chiacchierone, in ritardo di quaranta minuti. Edgardo, pensionato stazza Obelix, brontola che la Romagna ti infligge un rompiballe al secolo. Ieri Mussolini, oggi il riminese Moretti, rottamatore di Fs.
«Scusi dov’è l’antica via Emilia? », richiedo nella pulitissima Imola. Un tipo con valigia ventiquattr’ore mi indica la parallela. A confonderlo forse c’è il viale della stazione, che si chiama via Appia. L’incrocio col vero Decumano è una meraviglia in pietra e mattoni, ma tutto è sigillato in una teca pedonale con negozi alla moda.
Il bus Tpr 101 per Bologna fa cinquanta fermate in 33 chilometri, roba da crisi di nervi. Al capolinea un bambino grasso, una donna con un sacchetto di pesci rossi, la solita badante e un africano ben vestito; poi si parte verso la capitale dei Boi in un balletto di saliscendi alle portiere. Donne, di tutte le età. La via è massacrata dalla sua stessa geniale funzionalità trasportistica. Imola centro commerciale, Toscanella, Dozza, Osteria Grande: nessuna fermata che ricordi le legioni.
Mucchi di neve sporca, frutteti spogli e l’eterna domanda: chissà dove finisce la Romagna e comincia l’Emilia? Mah.
Alle porte di Bologna già annotta.
Rotaie, negozi, argini, fabbriche, canali, fari nelle pozzanghere. A bordo si discute di Grillo e del Mago Gargamella (Bersani) mentre la radio gracchia di Balotelli se gioca o non gioca e due ragazze in hijab digitano freneticamente sul telefonino. Nemmeno l’Emilia, terra di vie dritte, sa più dove andare. Al capolinea, fuggi-fuggi nella pioggia, poi camminata solitaria lungo il cardo di via Galliera solo per chiacchierare con la russa al bancone di “Kalinka”, posto di vodke e caviali.
Afferro brandelli di mito solo con Gianni Brizzi, il prof di storia romana più annibalico che ci sia. Tra verdure padellate e un lambrusco, ecco venir fuori che fu il grande spavento punico a convincere Roma ad attrezzare quella strada per tenere buoni i Galli con una fascia- cuscinetto che non fosse solo militare. Una via capace di essere anche spazio di colonizzazione, mercato, e al tempo stesso un confine, l’antenato di tutti i Limes. La cena finisce con una panna cotta e un anatema: «Questa è la prima frontiera dell’Italia romana. E in Emilia non lo capiscono».
Come è vuota Bologna la notte; sento l’eco dei miei passi tra le Torri e il Nettuno. Tutto, mi dicono, è risucchiato dai centri commerciali. È incredibile: questa è l’unica regione al mondo che prende il nome da una strada, ma a quella strada non dedica una sola iscrizione turistica visibile. Nulla che proclami: qui sono passate le legioni, qui abita la nostra identità. Ma come fai a sapere dove vai, se non sai da dove vieni?
In auto per Modena con l’amico Alex Scillitani. Insegne trasparenti: Gelateria Delirius, Più compri e più risparmi, Affittasi capannoni, Compro oro. Tra Borgo Panigale e Casalecchio densità mai vista di seminude con ombrello, tacchi alti e iPod. Il consumo di suolo è terrificante, non c’è più spazio per la campagna. L’antico è disprezzato, lasciato morire. Ogni tanto un segnale dal mondo di ieri: un grandioso rudere in mattoni, una laterale di nome “Via del cantastorie”.
Castelfranco è il primo paese senza tangenziale, la SS9 lo attraversa tra i portici come ai tempi della Millemiglia. Altrove ti deviano spietatamente, come a Modena, dove appena la strada si fa bella ti sparano sulla rotonda Maserati. L’unico modo di fare la via romana integrale sarebbe la bici, che però negli anni del Sol dell’Avvenire è stata bollata come retaggio della miseria, col risultato che oggi sull’Emilia ti arrotano se te la fai sul sellino.
Alla “Bruciata”, oltre lo svincolo di Modena Nord, una volta c’era il West; oggi hai le signorine da marciapiede, russe o africane, a prezzi popolari. Puoi fartene una dopo una cena in pizzeria o un giro all’ipermercato. Poco prima, al ponte sul Panaro, c’erano i ruderi della discoteca Mac2, rugginosa base spaziale dimenticata. Poi fari nella pioggia, luminarie, e qualche varco di prateria. Ma la regione Emilia esiste davvero o è solo un’idea?
A Reggio il sindaco, noto per le “panchine parlanti” (fortunatamente guaste) e una mirabile rotonda attorno a una chiesa, ha pensato di ritombare un pezzo della via romana originale, in nome della modernità. In città la vivono come striscio, non come asse di collegamento. E se ti ostini a usarla come tale, ti dicono che la via è sbarrata. I bus non entrano nel granducato di Parma. Si va solo fino alla frontiera, come ai tempi delle dogane pre-unitarie.
La linea 2 verso il granducato è un bus urbano con posti in piedi. Coerente, in una via che è solo città lineare. E via, per rotonde megalitiche, in mezzo a cartelli di Vendesi e Affittasi. A Villa Cella c’è un venerabile cimelio, un cinema aperto, poi ti taglia la strada un funebre sovrappasso pedonale inaugurato con ascensore per disabili, e mai entrato in esercizio. Sembra Sicilia, ma è Emilia. Poi di nuovo campagna, monti innevati in lontananza, pavoni, oche, anatre.
Arrivo a Sant’Ilario in un bus vuoto, in un capolinea vuoto, in un quartiere vuoto. Piove anche nel chiosco d’attesa e non c’è nessuna coincidenza. Dopo le otto del mattino più niente collega il Reggiano al Parmense. Resta solo il treno, ma per arrivare alla stazione sono due chilometri a piedi. C’è solo l’autostop per passare l’Enza, gonfio e marrone, e con il ponte una nuova parata di adescatrici automunite, e una rete di sterrati per il mestiere.
Da un capo all’altro di Parma, la via di Emilio Lepido svela la sua storia ospedaliera. Lazzaretti, ricoveri per pellegrini, vecchi manicomi, la meraviglia di un ospedale rinascimentale. «Tutti segni — mi dice al bar l’assessore grillino Laura Maria Ferraris — di una rilettura non solo verdiana della città». Ma è dura risalire la china dopo anni di sfascio e ruberie. Col disastro Parmalat è scoppiata la crisi, il commercio va male anche in centro. Chiara Cabassi, bibliotecaria, mi porta sotto il ponte di mezzo, nell’antro che contiene le campate del suo predecessore romano. Oggi il sottopasso è terra di nessuno, ieri era pieno di negozi. E via di nuovo tra capannoni in disuso come balene spiaggiate.
Ponte sul Taro, grandioso, con statue di donna; poi la bellissima Fidenza disertata dai suoi stessi abitanti. La gente va al “Fidenza Village”, preferisce l’antico finto all’antico vero. I Tir non danno requie. «Con la crisi, i camionisti risparmiano sulle autostrade. Rovoleto e Pontenure sono annichilite dai passaggi», lamenta Mauro Nicoli, ufficio urbanistico di Fiorenzuola. «Ma la catastrofe vera è che la via non è più sentita come tale. Solo dall’aereo la percepisci come segno del territorio».
Ultimo caffè al bar Mocambo, ex balera sulla ferrovia, poi via in treno fino al paracarro finale: Piacenza, 197° miglio romano, piantata sull’ultimo guado del Po. Per fare tutta la strada dovrei continuare fino al dazio milanese di Porta Romana, ma sono sazio di badanti, Tir, belle-di-giorno, serrande abbassate e centri commerciali. Non ho trovato il mito; non so dove vada la regione-guida d’Italia. Piove troppo, Cristo santo, e ho pure le scarpe fradice.

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Francesco Guccini

La via Emilia è un paradosso. È strada e frontiera. Unisce e separa. Collega Rimini a Piacenza, e divide i paesi che attraversa, li taglia in due. Per dare un’idea, quando nel ’52 ho cambiato casa a Modena e ho attraversato lo stradone per passare dal lato appenninico a quello Nord sulla pianura, da quel momento — c’è da non credere — tutte le mie amicizie sono cambiate. Le persone che hanno segnato la mia storia musicale le ho incontrate sistematicamente oltre la via: Bonvi, quelli dell’Equipe 84, Dodo l’arrangiatore dei Nomadi, eccetera. Gli altri sono scomparsi. Giuro: mai più visti. Rimasti dall’altra parte.
Forse il lato musicale della via Emilia è quello di pianura. Ancora oggi. Tra Parma e Modena c’è tutta la fascia del blues. E poi c’è una quantità di gruppi rock. Una volta ho fatto un giro con Ligabue, che stava facendo un film, e li ho visti, questi “americani”. È un marchio rimasto dal Dopoguerra, dalla presenza degli Alleati. In quegli anni tutto quello che era americano era bello. In bicicletta da ragazzini noi si frenava all’americana. Funzionava così: balzavi agile dal sellino e stringevi la ruota posteriore fra le cosce. Io me li ricordo gli Americani quando passarono la Linea Gotica. Ricordo il gusto della Coca Cola e la forma di quelle bottiglie verdine. Noi ragazzi si stava sempre con loro. E loro sparavano una cannonata ogni tanto, tranquilli come se andassero in ufficio.
La mia via Emilia è stata dunque soprattutto frontiera. Non era il Far West in sé, ma la linea oltre la quale c’era il Far West, specialmente sul lato appenninico. Lì per noi c’era la prateria. Si rubava l’uva, si giocava ai cowboy, si andava a morosare di nascosto. C’era, mi ricordo, il campo di un signor Magnavacca, il quale per tenerci lontani aveva messo un cartello con la scritta “terreno avvelenato”. Sapevamo benissimo che non era vero, e la proibizione aumentava il godimento della scorribanda. Era in quei campi, a primavera, che si svegliava il profumo dell’erba, e quel profumo mi accendeva la nostalgia del mulino del nonno, a Pavana sul monte. Una volta, per dire “andiamo a Modena”, bastava abitare a un chilometro dal centro. Io potevo dirlo, perché tra casa mia e il cuore della città c’erano pezzi di campagna. La Millemiglia tagliava un mondo ancora antico: verso Castelfranco c’era un
posto chiamato Cavazzona, e tutti andavano lì a vederli passare, i concorrenti, con la Gazzetta dello Sport in mano. Il grido era: “È passato Nuvolari alla Cavazzona”. Oggi per dire “vado a Modena” devi abitare per lo meno a Piacenza, perché tra le città e i paesi non c’è più campagna. Specialmente tra Bologna e Reggio non hai che case e capannoni, un’infinita metropoli lineare.
Ogni tanto mi piace immaginare com’erano le nostre città al tempo dei Romani. Le vedo come dei Fort Apache, con intorno i Celti cattivi come puzzole. E credo che, per collegare tra loro quelle città con la via Emilia, i legionari non abbiano inventato nulla e si siano limitati a usare piste già battute dai nostri antenati. Ma hanno lasciato al mondo un grande nome: “strata”.
Che è una delle pochissime parole latine passate alla lingua inglese. “Street”, stessa radice di “strada”.
L’antico basolato romano l’ho visto, nella pancia di Bologna, anni fa. L’avevano trovato scavando un sottopassaggio all’altezza di via Ugo Bassi e via Rizzoli. Quando aprirono la galleria al pubblico, i resti della via Emilia furono alla portata di tutti. Divenne un posto frequentatissimo: accanto alle vecchie pietre c’era un negozio di dischi, si tenevano riunioni politiche. Poi divenne pian piano un ricettacolo di perdigiorno, e il Comune ha finito per tombare il passaggio. I monumenti, le chiese, i ponti. Erano quelle le nostre pietre miliari. E quando scrivevo con Lucio Dalla la canzone
A emilia, era a quella misura dello spazio che mi riferivo. Lo stesso per Piccola città.
Fino agli anni Sessanta, la domenica vedevo passare sciami di ciclisti. Non andavano mica ad allenarsi, come oggi. Andavano a ballare, a trovar la morosa, al cinema. E tornavano di notte perché non c’era pericolo. Io ci sono andato in bici, una volta, da Modena a Bologna. Madonna, non si arrivava mai.
(Testo raccolto a Pavana da Paolo Rumiz)

La repubblica 24.03.13