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"Il coraggio dell'ambasciatrice", di Francesca Caferri

La mia eroina di questa settimana si chiama Mervat Tallawy. Siete autorizzati a non sapere chi sia, perché neanche io lo sapevo qualche giorno fa. Ma quello che ha fatto mi piacerebbe raccontarvelo. La signora Tallawy occupa un posto di prestigio: ambasciatore, qualche giorno fa ha guidato la delegazione egiziana alla conferenza delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, dalla quale è uscito un documento firmato da 131 paesi che enuncia i principi a cui le nazioni firmatarie dovranno ispirarsi.

A leggerli così, non sembrerebbero contenere nulla di rivoluzionario: il testo afferma che religione, tradizioni e costumi non devono essere usati come una scusa per minare l’obbligo dei governi a contrastare la violenza, sottolinea la “piena eguaglianza nel matrimonio” fra uomini e donne, propone “la cancellazione della richiesta di consenso da parte del marito per quanto riguarda viaggi, lavoro e uso del contraccettivo” e riconosce “alla moglie il diritto di denunciare il marito per stupro o aggressione sessuale”. Non è vincolante e dunque, come tante altre carte siglate alle Nazioni Unite, ha più un valore di “buona volontà” che non di obbligo reale.

Eppure ai Fratelli musulmani che dall’uscita di scena di Mubarak dominano l’Egitto, non è andata giù: in una nota pubblicata sul loro sito, la Fratellanza ha sostenuto che il documento conteneva articoli che “vanno contro l’Islam e la Sunna (tradizione islamica ndr.) che porteranno al sabotaggio della moralemusulmana e alla demolizione della famiglia”. In particolare, il partito se la prendeva con gli articoli che “danno ad una ragazza la libertà sessuale, la libertà di scegliere il sesso del proprio partner, danno i diritti ai gay, li proteggono e li rispettano così come proteggono le prostitute, cosa che va contro i principi dell’islam”.

All’Onu, la nota dei Fratelli musulmani ha creato attimi di terrore: si temeva che il lavoro di mesi finisse nel cassonetto, che l’Egitto avrebbe non soltanto ritirato l’appoggio al documento, ma anche convinto altri Paesi a fare lo stesso. Così non è stato, anzi. L’ineffabile signora Tallawy ha firmato la dichiarazione in quanto rappresentante dell’Egitto, contro il parere del partito del Presidente della Repubblica Morsi – che è un alto esponente dei Fratelli musulmani ma ufficialmente non si era schierato e quindi non poteva richiamarla all’ordine – per poi dichiarare alla stampa che era giusto farlo, perché “le donne sono le schiave di quest’epoca. E questo è inaccettabile, in particolare nella nostra regione”. Tanto basta, ai miei occhi, per farne un’eroina.

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"La scuola non ha mai chiuso", di I.Ve.

C’è un perché spesso taciuto dietro alla capacità delle 66mila aziende dell’area terremotata, e dei loro 270mila addetti, di tornare subito al lavoro, finite le scosse e le vacanze estive: tutti i bambini sono tornati a scuola lo scorso 17 settembre, anche se i vecchi edifici non c’erano più. Ben 570 istituti inagibili, ma nessun banco mancante a tre mesi dal sisma per i 70mila alunni terremotati, un piccolo miracolo della laboriosa Emilia su cui più volte l’economista Patrizio Bianchi – chiamato tre anni fa a guidare l’assessorato regionale alla Formazione, lavoro e ricerca – ha puntato l’indice. E che domani sarà protagonista due volte nel cratere.
A Medolla si inaugura il nuovo polo scolastico per l’infanzia (nido e materna) del comune, una struttura realizzata attraverso una donazione della Onlus “Rock no War!” che ha intermediato la solidarietà di privati, aziende ed enti pubblici. E la generosità è stata tale che si è potuta realizzare non solo la scuola per l’infanzia 3-6 anni inizialmente prevista ma un grosso plesso in grado di accogliere anche i bambini da zero a tre anni. Una manciata di chilometri più a nord, sempre nel cuore del distretto biomedicale e sempre domani, arriverà il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo per una giornata di riflessione dedicata a “La scuola prima di tutto”. «L’estate scorsa l’Emilia è diventata un laboratorio di sperimentazione – ricorda l’assessore Bianchi – di tutte le tecnologie disponibili per la costruzione di scuole sicure, innovative e sostenibili. Ma non solo, nell’emergenza il meccanismo istituzionale qui non si è rotto, anzi ne è uscito rafforzato. Il terremoto ci ha insegnato che è proprio nei momenti più critici che occorre dotarsi di una visione più ampia».
Una visione che ha portato l’Emilia-Romagna a mettere sul piatto, subito dopo il sisma, un Pos-Programma operativo scuole da 224 milioni di euro per riparare immediatamente 300 strutture e costruire edifici scolastici temporanei lì dove non si potevano riaprire gli istituti entro settembre. In tre mesi sulle macerie sono spuntate scuole «funzionali, economiche, tutte in classe A, con spazi adeguati alla nuova didattica», precisa Bianchi. Una sperimentazione di modi nuovi non solo di costruire ma anche di insegnare di cui l’Emilia, ancora una volta, è pioniere nel Paese.

Il Sole 24 Ore 22.03.13

"Gli Stellati che non brillano in Educazione", di Beppe Severgnini

«Per sfuggire ai giornalisti, ai cameramen e ai fotografi che lo inseguivano a bordo di moto e scooter, l’auto di Beppe Grillo, uscita dal Quirinale, è passata 3-4 volte col rosso, ha preso la corsia preferenziale di corso Rinascimento e ha effettuato un paio di inversioni a U dove non era consentito». Dettaglio della cronaca di ieri, che sottoponiamo agli elettori del Movimento 5 Stelle. Si fossero comportati così Berlusconi, Bersani o Monti avreste detto, giustamente: l’arroganza del potere davanti alle regole. Poiché lo ha fatto Beppe Grillo, nessuna obiezione. O almeno non ne abbiamo ancora lette, tra le migliaia di commenti sulla giornata. Anzi: traspare un certo orgoglio davanti alle gesta del capo, campione di slalom urbano e variazioni democratiche (a quale titolo era al Quirinale? Non si sa). Grillo capisce di comunicazione, non c’è dubbio. Ma quello che capisce lui ormai lo abbiamo capito anche noi. L’uomo ha intuito il valore della scarsità in tempi di eccesso. Meno si fa sentire, più viene ascoltato. Meno si fa vedere, più diventa prezioso. Le fotografie artigianali col cellulare e le immagini ballonzolanti di una diretta streaming diventano gioielli, per i media ricchi di canali d’uscita e poveri di informazioni in entrata. Produrre vetro e venderlo come diamante: il sogno erotico-professionale di ogni uomo di marketing.
Capiamo che ogni paragone tra Grillo e Berlusconi possa risultare indigesto ai sostenitori del primo. In effetti i personaggi non potrebbero essere più diversi, come storia, psicologia, ideologia e tricologia. Ma come venditori sono entrambi dei fuoriclasse. E, quando si tratta di non rispondere, sono due campioni. Perché diciamolo: tra un blog senza contraddittorio e un videomessaggio non c’è poi molta differenza.
Detto ciò: che Grillo ci provi, non è bello; ma ci sta. La delusione è vedere i suoi elettori entusiasti di queste tattiche. Non dev’essere per forza così, lo hanno dimostrato loro stessi. Dopo essersi ribellati in Rete al diktat del capo, che minacciava punizioni per i voti in Senato a Pietro Grasso, gli stellati — gli elettori del Movimento 5 Stelle — hanno ottenuto subito un risultato. Grillo ha ammorbidito i toni, nessuna punizione o espulsione. Perché non far sentire la propria voce anche in materia di trasparenza, comunicazione, accessibilità? Risposta facile: poiché in Italia, in queste materie, siamo immaturi. Gli elettori di un partito ragionano come tifosi di una squadra: i propri colori vanno difesi sempre e comunque, alla faccia dell’evidenza, della logica e del buon senso. Pensate ai comunisti degli anni 70, ai socialisti degli anni 80, ai leghisti negli anni 90, agli azzurri berlusconiani negli ultimi vent’anni. Gli stellati sono nel solco della tradizione: una brutta tradizione, però.
Prendiamo le inesattezze — al limite della falsità — ripetute come un mantra, sperando che diventino verità. Ieri la coppia Crimi-Lombardi ha spiegato: abbiamo chiesto l’incarico al presidente Napolitano «in quanto primo partito del Paese». Questo, semplicemente, non è vero. Non solo il M5S ha 162 parlamentari su 945, ma è il secondo partito anche come numero di voti: 8.784.499 contro 8.932.615 del Partito democratico. Ma chi l’ha fatto notare, in Rete, è stato sbeffeggiato. Gli stellati più educati si sono limitati a dire: al primo posto Pd si arriva calcolando anche le circoscrizioni estere, e quelle non contano. Perché? «Perché Striscia ha dimostrato che sono truccate», spiega @ludopice. E va be’.
Gli esempi non sono limitati alla giornata di ieri. Abbiamo visto conferenze stampa col divieto di porre domande. Interviste riservate alla stampa straniera. La tattica — un po’ leninista, diciamolo — di pretendere ogni apertura dal sistema che si cerca di infiltrare e conquistare; chiudendo invece la porta sulla propria organizzazione e i propri metodi.
Tutto questo cambierà solo quando iscritti, elettori e simpatizzanti del M5S lo chiederanno: non prima. Ci sono persone giovani, oneste e preparate, all’interno del Movimento. Hanno l’autorità, la serenità e il tono per chiedere un cambio di passo. Non devono farlo per compiacere i media. Devono farlo per diventare grandi: ormai è ora.

Il Corriere della Sera 22.03.13

"Doppio allentamento del patto", di Eugenio Bruno

I sindaci si aggiudicano la battaglia sul patto di stabilità interno. Stando agli annunci del Governo, i primi cittadini potranno sforare per pagare le imprese. Ma per sapere se hanno vinto anche la guerra bisogna attendere che arrivi il decreto. Solo allora si capirà se l’allentamento dei vincoli sarà totale o parziale. Al momento questa certezza non c’è. E non è un dubbio da poco perché solo nel primo caso gli enti locali potranno usare tutti gli 11 miliardi (9 dei Comuni e 2 delle Province) bloccati.
Il sì del Consiglio dei ministri al piano da 40 miliardi in due anni per il pagamento dei debiti delle Pa arriva mentre la manifestazione “Italia fondata dal lavoro. Pagare le imprese per sbloccare il Paese” – organizzata ieri dall’Anci e dall’Ance al cinema Capranica di Roma – sta volgendo al termine. E i 750 amministratori con fascia tricolore stanno lasciando la sala insieme ai rappresentanti dei sindacati e delle associazioni di categoria e ai neoparlamentari che hanno appoggiato l’iniziativa.
L’ok dell’Esecutivo giunge poco dopo l’apertura di credito che una delegazione composta dai presidenti dell’Anci (Graziano Delrio) e dell’Upi (Antonio Saitta) e dai primi cittadini di Roma (Gianni Alemanno), Napoli (Luigi de Magistris), Torino (Piero Fassino) e Bari (Michele Emiliano) ha incassato nel doppio incontro con i presidenti di Camera e Senato. Nel testimoniare la massima attenzione al tema dei pagamenti alle imprese sia Laura Boldrini che Pietro Grasso si sono infatti detti «pronti a incardinare il decreto sullo sblocco dei pagamenti in una commissione speciale per approvarlo velocemente».
E veniamo così al Dl. Di scritto per ora c’è solo la relazione al Parlamento sui saldi di finanza pubblica, che Il Sole 24 ore è in grado di anticipare e che, ricalcando la nota di ieri di Palazzo Chigi, punta a smaltire i debiti delle amministrazioni locali attraverso tre strumenti: un allentamento dei vincoli del patto di stabilità interno per consentire l’utilizzo degli «avanzi di amministrazione disponibili»; l’esclusione dal patto dei pagamenti effettuati dalle Regioni sui residui passivi a cui corrispondono residui attivi di Comuni e Province; l’istituzione di «fondi rotativi» per assicurare liquidità a chi non ce l’ha.
Al momento tutte e tre le misure suscitano degli interrogativi. Sull’allentamento del patto, va capito se lo sblocco riguarderà esclusivamente gli «avanzi di amministrazione» o anche le altre forme di liquidità a bilancio per pagare stati di avanzamento lavori ma bloccate per l’esigenza di rispettare i saldi. Solo in quest’ultimo caso gli enti locali potranno liberare gli 11 miliardi già pronti (anticipati sul Sole 24 ore e ribaditi anche durante la manifestazione di Anci e costruttori). Quanto al secondo intervento, andrebbe precisato meglio per capire quanti fondi consentirà di rimettere in circolo perché per ora sembra una semplice autorizzazione alle Regioni a derogare al tetto alla spesa corrente a cui sono sottoposte e corrispondere agli enti locali le somme da questi contabilizzate come residui attivi. E c’è poi il terzo punto (la creazione di fondi rotativi per finanziare gli enti che non hanno liquidità). Qui il nodo non è solo l’ammontare delle risorse interessate o le modalità per sterilizzarne gli effetti sui saldi di finanza pubblica ma c’è anche un problema di copertura. Che potrebbe essere risolto attraverso l’utilizzo dei fondi a suo tempo trasferiti dagli enti locali alla Tesoreria unica oppure coinvolgendo la Cassa depositi e prestiti. Laddove appare remota l’ipotesi di un’emissione ad hoc di titoli di Stato.
Dalle risposte che il Governo fornirà con il decreto dipenderà la reazione dei primi cittadini. Come precisa lo stesso Delrio che si dice «contento e soddisfatto» per le promesse dell’Esecutivo ma vuole «prima vedere le carte». Anche perché se le soluzioni messe in campo non saranno soddisfacenti a risolvere una volta per tutte il problema i sindaci sono pronti a sforare il patto e a pagare lo stesso. Come sottolineato da tutti gli amministratori che si sono avvicendati ieri sul palco del Capranica.
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9 miliardi

Risorse utilizzabili dai Comuni

È la quota che i sindaci potrebbero
sbloccare su 13 miliardi in cassa

2 miliardi

Risorse utilizzabili dalle Province

Il Sole 24 ore 22.03.13

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“Senza riforma rischio di nuovi blocchi”, di Gianni Trovati

Gli occhi di imprenditori e della politica sono tutti puntati sullo sblocco degli arretrati, che ovviamente rappresenta la prima emergenza nel panorama sterminato dei pagamenti bloccati. Appena dietro al sintomo più evidente, e alla cura urgente per combatterlo, ci sono però le cause vere della malattia. Se una grossa fetta dei debiti commerciali, e in particolare quelli di Comuni e Province, sono stati alimentati dal patto di stabilità interno, e se i vincoli del patto 2013 sono ancora più severi di quelli degli anni scorsi, la conseguenza è ovvia: senza rivedere la regola generale del patto, si formerà presto una fila ulteriore di imprese in lista d’attesa per pagamenti che non arrivano.
Il numero chiave ricordato ieri dai sindaci, cioè i 4,5 miliardi di avanzi “obbligatori” per rispettare il patto, indica con chiarezza le dimensioni del problema. Nel linguaggio della finanza pubblica, l’avanzo rappresenta in sostanza l’«utile», ma si tratta di un utile che viene costruito sui mancati pagamenti, e che non può essere re-investito perché serve al consolidato pubblico. Il nodo è intricato da anni, ma dal 1° gennaio scorso conosce due aggravanti in più: l’estensione dei vincoli del patto di stabilità ai Comuni che contano fra mille e 5mila abitanti, fino a ieri esclusi da questa disciplina, e l’entrata in vigore della disciplina che attua l’obbligo europeo per i pagamenti entro 30-60 giorni. Una regola, quest’ultima, essenziale per garantire l’operatività delle imprese che lavorano con la Pa, ma se il patto continua a frenare tutti i pagamenti rischia di avere come principale effetto la sola applicazione automatica degli interessi di mora, con un aumento della spesa pubblica senza effetti di spinta sulla produzione.
Per superare il problema, nell’agenda dei sindaci campeggia da tempo la richiesta della «golden rule» europea, che imporrebbe agli enti locali il pareggio di bilancio e un vincolo all’indebitamento, aprendo però maggiori spazi di manovra sugli investimenti e sui pagamenti collegati. Una richiesta che dopo l’apertura di Bruxelles trova nuova forza, ma che ha bisogno di un Governo che la elabori e trovi una diversa distribuzione delle coperture nell’ambito del bilancio pubblico consolidato.

Il Sole 24 Ore 22.03.13

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“Il governo allenta il patto di stabilità: 40 miliardi alle imprese. Ma non ora”, di Raffaella Cascioli

Il consiglio dei ministri sblocca il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Un percorso in due tappe, ma il fattore tempo può rivelarsi decisivo: prima la relazione di variazione delle stime di deficit in parlamento, che dovrà approvarla, poi il varo del decreto. Squinzi: un passo nella giusta direzione. Sangalli: ennesimo rinvio, così le imprese chiudono

Quaranta miliardi di euro. Così vicini. Eppure così lontani. Tanti ne possono essere sbloccati in due tranche tra la seconda metà del 2013 e il 2014. Una liquidità necessaria per rilanciare l’economia e dare ossigeno alle imprese. Ma non è per nulla scontato che, alla fine, arrivino a destinazione nei tempi indicati. E il perché è presto detto.

Se ieri il governo uscente, nel corso del consiglio dei ministri, ha messo a punto il percorso per l’allentamento del patto di stabilità e lo sblocco dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese, il fattore tempo non è una variabile indipendente. Affatto. Tanto più in un momento in cui in forse è anche un secondo fattore: il governo.
Se l’avvio del processo che dovrebbe portare alla liquidazione dei crediti vantati dalle aziende nei confronti della pubblica amministrazione è arrivato nel corso del Consiglio Ue del 15-16 marzo e si è concretizzato con il via libera dell’Ue espresso dai due commissari (Rehn e Tajani) ad inizio settimana, il passaggio in consiglio dei ministri è stato importante, ma non decisivo.

Infatti il governo uscente trasmetterà in Parlamento una relazione che aggiorna i conti pubblici con le nuove stime che scontano l’effetto dei 40 miliardi di euro di pagamenti e che, stando a quanto ha dichiarato il ministro del tesoro Vittorio Grilli, produrranno un aumento del deficit con un aggravio dello 0,5% su ciascun anno. E così quest’anno il deficit Pil dovrebbe passare dal 2,4% previsto dalla Commissione europea (la stima iniziale del governo era 2,1%) al 2,9% per poi scendere all’1,7%.
La relazione non sarebbe una foglia di fico per perdere tempo ma una sorta di aggiornamento del Def (documento di economia e finanza) che dovrebbe arrivare il prossimo mese insieme al piano nazionale delle riforme ma che non si sa ancora se ci sarà un nuovo governo a presentarlo.

È qui infatti che entra in gioco il fattore tempo visto che solo una volta che il parlamento avrà approvato la relazione dando copertura al pagamento, il governo (quale? quello uscente o quello incaricato, quello insediato) potrà varare un decreto «che determini le forme e le modalità». Il che implica non solo che il parlamento inizi a lavorare a regime da subito, evitando di rinviare all’insediamento del governo la formazione delle commissioni parlamentari, ma anche che non si torni “subito” al voto altrimenti non ci sarebbe il tempo per varare e approvare il decreto prima della fine dell’anno.

E se Grilli ha fatto notare che nel 2013 il Pil crollerà dell’1,3%, l’effetto della mossa sull’economia reale si avrebbe il prossimo anno con una crescita prevista dell’1,3%. Purché si rispettino i tempi che la Commissione sollecita brevi come anche ieri sottolineato dal commissario italiano Tajani. Monti ha spiegato che lo sblocco, che riguarderà le amministrazioni centrali e gli enti del servizio sanitario nazionale, è stato possibile ora che «dopo le decisioni Ue non si violano le norme europee e ci si può permettere di licenziare provvedimenti che consentono di allargare i cordoni della borsa».

Soddisfatto il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, secondo cui le decisioni assunte vanno nella giusta direzione ma devono essere finalizzate in tempi rapidi; più perplesso il presidente di Rete Imprese Italia Carlo Sangalli che parla di ennesimo rinvio: «Ogni giorno che passa molte imprese chiudono perché lo stato non onora i suoi debiti e questo è inaccettabile». Se per il Pd con Antonio Misiani si tratta di un passo fondamentale, per il sindaco di Firenze Matteo Renzi «era ora!».

da Europa Quotidiano 22.03.13

"L'onore perduto della diplomazia", di Francesco Merlo

Dignità voleva che questi nostri poveri marò tornassero in India rispettando la parola data perché pacta sunt servanda soprattutto per i soldati scelti. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ci tornano invece sbertucciati, piegati dal fardello di un disastro diplomatico. Esposti alla gogna per colpa soprattutto di un ministro degli Esteri che ha cercato di costruire sulla loro fuga un futuro politico, ed eventualmente anche elettorale, a destra. E non stiamo parlando della destra dei valori e della patria, la destra dei tratti eroici, che so?, del duca d’Aosta o di Cesare Battisti o di Enrico Toti, ma della destra badogliana del “tutti a casa”.
Il ministro Terzi e il suo sodale Di Paola, ministro della Difesa, – nientemeno un ammiraglio che ha studiato al Morosini! – hanno infatti trasformato questi due apprendisti eroi in una coppia di esodati, esponendoli adesso, con il ritorno obbligato, al pericolo vero, il pericolo peggiore per un soldato e per un governo: il disonore. Solo ora infatti il processo diventa a rischio, perché i nostri due “marines”, vale a dire il meglio delle nostre forze armate, non saranno più considerati come due fucilieri di Marina di un Paese amico, due militari in attesa di giudizio, ma come due prove sfacciate e schiaccianti non di omicidio ma di furbizia umiliata, i rappresentanti di un’Italia volgare e truffaldina, subito piegata però dalla forza di un brutto atto di rappresaglia.
Sino a un mese fa i truffaldini sembravano gli indiani. Perché i due poveri pescatori morti forse non erano pescatori. Perché le acque in cui sono morti erano internazionali. E perché i nostri soldati si erano sempre comportati da soldati. E i soldati non sparano sui pescatori e, più in generale, sui lavoratori, in mare come in terra. E che fossero soldati lo avevano dimostrato non scappando subito dopo l’incidente, ma presentandosi alle autorità di polizia locali. E ancora, ottenuta e goduta la licenza per il Natale in patria, riconsegnandosi puntualmente ai loro giudici, benché sia controversa la legittimità del tribunale indiano.
Adesso che invece tornano perché gli indiani hanno sequestrato il nostro ambasciatore, violando a loro volta le regole internazionali, i due soldati diventano davvero prigionieri, e non più della Giustizia indiana e dei suoi tribunali ma di un’arroganza da ritorsione. L’India che li accoglierà non è infatti la stessa India che diede loro il permesso di partire: è un’India che si è sporcata con un sequestro di persona che non ha precedenti
nel mondo diplomatico civile e che l’Italia furbastra di Terzi e di Di Paola non sa più come affrontare se non con la resa, la cosiddetta calata di braghe.
C’è purtroppo una parte del-l’Italia che pensa all’India come a una terra di straccioni in costume esotico dimenticando che è invece la più grande democrazia, una potenza nucleare, un mastino dell’economia internazionale e, assieme alla Cina, agli Stati Uniti e alla Russia, uno dei paesi più importanti dello scacchiere mondiale. È inoltre uno dei principali membri delle nazioni emergenti del Brics che insidiano il primato occidentale (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e presto anche la Turchia). Ebbene, l’idea razzistoide che gli indiani siano
selvaggi, diffusa sgangheratamente dai giornali di Berlusconi, fa il paio, per stupidità, solo con l’idea che la fuga possa essere una vittoria e che il tradimento diventi un blasone. Ancora ieri sera Alfano e la Santanché definivano «orgoglio nazionale » quella fuga dalla responsabilità dei due marò che nei codici della destra a cui si richiamano è invece fellonia. È una maionese impazzita di valori: pretendono di vestire la bandiera di viltà e fondano il patriottismo sulla figuraccia internazionale.
Spiace che Mario Monti, chiamato alla massima responsabilità proprio in virtù del suo prestigio internazionale, concluda la sua vicenda di statista con questo desolante pasticcio di politica estera. In fondo, il caso dei marò è stato l’unico episodio di risonanza mondiale del governo dei tecnici. Ed è stato un episodio in due atti. Primo: darsela a gambe fedifraghe. Secondo: arrendersi senza condizioni al primo “bau”. Il tutto a conferma del pregiudizio che da sempre l’Italia si porta dietro: è la nazione vaso di coccio, è il paese di don Abbondio e del miles “vana-gloriosus”,
è lo Stato dello sbruffone che si infila a letto con un occhio rosso per evitare un processo, è l’esercito del capitano vanitoso e fellone che abbandona la Concordia nel momento del naufragio, è la Marina di “navi e poltrone”, è il governo astuto e ganzo che maramaldeggia con l’India… Fossimo in altri tempi e con altre grammatiche, onore, buon senso e fegato vorrebbero che il nobile Giulio Terzi di Sant’Agata e l’ammiraglio Giampaolo Di Paola si consegnassero agli indiani al posto dei due marò.

La Repubblica 22.03.13

"Un pacchetto-emergenza per università e ricerca", di Marco Mancini*

La XVII legislatura della storia repubblicana si è ufficialmente avviata. Barlumi di speranza per il prossimo futuro si sono potuti già percepire nei discorsi di insediamento di Grasso e Boldrin. In particolare per quanti vivono le difficili condizioni in cui versa il mondo dell’istruzione e della ricerca ci sono segnali indubbiamente positivi. Da un canto il presidente del Senato non trascura di ricordare «tutti quei giovani che vivono una vita a metà», quegli stessi giovani in condizioni di assoluta precarietà lavorativa dei quali, nell’altro ramo del Parlamento e quasi nello stesso momento, stava parlando il presidente Boldrini. La Boldrini ha auspicato che si ascoltino le sofferenze «di una generazione che ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall’Italia». Ed è sacrosanto, infine, che il presidente Grasso pensi al mondo della scuola «nelle cui aule ogni giorno si affaccia il futuro del nostro Paese, e agli insegnanti che fra mille difficoltà si impegnano a formare cittadini attivi e responsabili». Queste parole vanno associate idealmente a quanto è andato ripetendo il presidente della Repubblica negli ultimi mesi sulla necessità di non sacrificare ulteriormente il mondo della ricerca con «tagli lineari» e simili. Aggiungiamoci, infin, l’ottavo «punto» dell’agenda di Bersani dedicato a istruzione e ricerca (con misure per gli studenti e per i ricercatori). È legittimo sperare in un’inversione di tendenza rispetto all’immediato passato. Un passato fatto soprattutto di fastidio, indifferenza, cinismo e denigrazione nei confronti del mondo dell’educazione. Fino alla sublime prova della «legge di stabilità 2013» che dava soldi ai maestri di sci e li toglieva all’università e alla ricerca. Abbiamo un Parlamento nuovo dal quale ci si attende molto. Si dimostri una vera discontinuità rispetto agli anni scorsi inserendo nei provvedimenti dei primi 100 giorni un «pacchetto-emergenza» per l’università e la ricerca. Se è vero che per ciascun punto dell’agenda-Bersani si deve costruire un disegno di legge corrispondente, è il momento di parlarne. I contenuti sono ben noti; sono stati ribaditi una settimana prima del voto da vari organismi universitari. Ci sono stati impegni pubblici da parte di alcuni candidati, fra cui lo stesso segretario del Pd. In primo luogo ci vuole maggiore attenzione per le famiglie che desiderano investire nell’università. Lo scopo è quello di evitare il decremento dei laureati e degli immatricolati, fra i più bassi d’Europa; e perseverare nella formazione superiore che – dice il rapporto di «AlmaLaurea» – ancora consente a cinque anni dal conseguimento della laurea al 90% dei giovani di trovare un’occupazione. Aiutare le famiglie significa defiscalizzare tasse e contributi universitari e incrementare il diritto allo studio che oggi non garantisce né borse per tutti i meritevoli né residenzialità. In secondo luogo facilitare l’accesso alla carriera ai tanti precari con un piano di assunzioni per posti di ricercatore che sfocino in posti di professore. L’assorbimento dei laureati nel nostro mercato dei cervelli significa non regalare all’estero qualcosa come due leggi di stabilità: più di 8 miliardi di euro. A tanto ammontano i denari regalati all’estero per la formazione dei quasi 70.000 laureati «fuggiti» negli ultimi dieci anni. In terzo luogo garantire posti per i giovani. Oggi, anche se paradossalmente gli atenei avessero soldi a sufficienza, non potrebbero assumere per il blocco del turn-over, che va, dunque, rimosso non comportando comunque spese aggiuntive per lo Stato. In quarto luogo: cifre ragionevoli per le infrastrutture delle università. I 6,6 mld di euro frutto del taglio del 13% «tre-montiano» (la lineetta è importante) bastano a stento per gli stipendi e i 38mln di euro per i Progetti della ricerca di base (Prin) sono ridicoli. In quinto luogo defiscalizzare i contributi delle imprese alla ricerca sia delle università sia degli enti per promuovere l’innovazione e superare le fragilità del nostro tessuto imprenditoriale in vista degli specifici finanziamenti europei 2014-2020. Inutile dire che ogni punto dovrebbe essere accompagnato dalle opportune semplificazioni dell’attuale giungla normativa. Se l’istruzione è una delle chiavi per l’occupazione, il problema principale oggi per più di un terzo dei giovani italiani, la ricerca è la chiave per lo sviluppo dell’Italia. Non ci può essere l’una senza l’altro.

*Presidente Conferenza Rettori

L’Unità 22.03.13

"La strada stretta", di Massimo Giannini

La missione che oggi il Capo dello Stato affiderà a Bersani è ai limiti del temerario. Costruire la Terza Repubblica su una piccola maggioranza «da combattimento» e due grandi minoranze «di blocco». Il leader del Pd deve tentare un «governo strano», che per nascere ha bisogno di non essere sfiduciato dal Pdl e per durare ha bisogno di non essere impallinato dall’M5S.
Un’equazione quasi impossibile, per l’aritmetica e per la politica. Ma l’unica in campo, per evitare il ritorno alle urne.
Al termine di un giro di consultazioni che non sono bastate a diradare i «banchi di nebbia» paventati fin dall’inizio dal presidente della Repubblica, è logico e giusto che Napolitano dia l’incarico a Bersani, sia pure con riserva. Ed è logico e giusto che lui ci voglia provare: è pur sempre il «vincitoresconfitto » nel voto del 24 febbraio. In questa veste (già di per sé molto scomoda) la strada che il segretario dei democratici deve percorrere si fa sempre più stretta e pericolosa. Si muove tra due paletti, resi espliciti dall’esito degli incontri al Quirinale.
Il primo paletto è interno: il Pd è indisponibile a ogni ipotesi di coalizione o forma di alleanza, palese od occulta, con il Pdl: dunque ribadisce il suo no pregiudiziale alle larghe intese riproposte da Berlusconi, «pillole avvelenate » che il Cavaliere prova ad offrire al centrosinistra, con l’unico obiettivo di rientrare in un gioco politico dal quale al momento è escluso. Il secondo paletto è esterno: Beppe Grillo è indisponibile a ogni ipotesi di fiducia o forma di sostegno, palese od occulto, a un governo diverso da quello guidato dal suo stesso non-partito: dunque il Movimento 5Stelle ribadisce la sua vocazione «totalitaria» e si rifiuta di condividere con qualunque altra forza politica le insegne del cambiamento, di cui si ritiene unico proprietario o intestatario.
Con questi vincoli, quello che da oggi è il nuovo «presidente incaricato» prova a mettere in piedi un governo non auto-sufficiente, che non può contare su una maggioranza pre-costituita, ma che deve tentare di costituirla con il metodo delle geometrie variabili. Queste geometrie vanno ricercate su due piani diversi.
C’è un piano politico, che si articola sulla necessità di far fronte all’emergenza della crisi (allentando la morsa del rigore fiscale, ridando liquidità al sistema delle imprese, sbloccando gli investimenti degli enti locali) e alla questione morale (varando una legge severa contro la corruzione e tagliando i costi della «casta»). Su questi temi la convergenza in Parlamento non è legata alle pregiudiziali tattiche, ma è dettata dalle posizioni «ideologiche»: una seria legge sul finanziamento ai partiti potrà forse contare sulla stampella di Grillo, mentre una vera legge sul conflitto di interessi escluderà automaticamente Berlusconi dal perimetro della maggioranza.
C’è poi un piano istituzionale, che si articola sulla necessità di riscrivere la legge elettorale, sul dimezzamento del numero dei parlamentari e sulla creazione di un Senato delle autonomie. Riforme largamente condivise, almeno
sulla carta, che a parte la prima devono passare attraverso l’iter della revisione costituzionale fissata dall’articolo 138, e che dunque devono essere approvate con la maggioranza dei due terzi. E qui Bersani deve necessariamente puntare a una convergenza trasversale e più ampia, «per il bene del Paese». Ma per poter attuare queste riforme di sistema, avvertite come urgenti da tutti, nel Palazzo e nel Paese, è necessario che il governo guidato dal leader del Pd possa vedere la luce, e dunque ottenga una fiducia, o quanto meno una «non sfiducia», in Parlamento.
Il ragionamento del leader è chiaro: chi si chiama fuori, a questo punto, si assume la responsabilità di impedire che l’Italia possa uscire dalla palude nella quale sta sprofondando. Chi affonda il suo «governo del cambiamento » si assume la responsabilità di portare il Paese esattamente dove nessuno (tranne Grillo e Casaleggio) sembra disposto ad andare: e cioè verso nuove elezioni. Con lo stesso orribile Porcellum che produce solo ingovernabilità, e senza le misure che possono tamponare la recessione, arginare la povertà e fermare la tragica emorragia di posti di lavoro.
Il «piano A» del leader del centrosinistra è lodevole. Ma oggettivamente ha un solo punto di forza: è l’unica soluzione in campo, prima di risciogliere nuovamente le Camere e tornare ancora una volta alle urne. Il gioco dei veti incrociati e delle reciproche incompatibilità sembra aver già bruciato tutti i possibili piani B, C o D. Governi tecnici o istituzionali, governi del presidente o dell’esploratore: ormai tutte le alternative sembrano precluse. Dalla logica ferrea dei numeri, dall’irriducibile irredentismo dei grillini o dall’irresponsabile tatticismo del Cavaliere.
Non osiamo nemmeno immaginare quali contropartite potrebbe pretendere Berlusconi (a partire proprio dall’elezione del successore di Napolitano sul Colle) per non intralciare il cammino di Bersani. Già basta questo, per capire quanto sia rischioso e accidentato il sentiero che dovrebbe portare il Pd a Palazzo Chigi. Stavolta in gioco, oltre al governo del Paese, c’è il destino della sinistra italiana.

La repubblica 22.03.13