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"Inglese e test, istruzione (sempre meno) per tutti", di Luciana Cimino

Test d’ingresso sempre più selettivi nelle università italiane. L’Università di Venezia Ca’ Foscari per la prima volta chiede agli studenti che intendano iscriversi alle sue lauree triennali almeno il livello B1 in Inglese. La selezione è basata sul Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue, Qcer, e va, ovviamente, certificata. Una certificazione che la scuola italiana però non offre. Di solito la posseggono coloro le cui famiglie hanno un reddito tale da consentire i viaggi di studio estivi in Gran Bretagna. La Ca’ Foscari ha pensato a una proroga per chi ne è sprovvisto: si può conseguire la certificazione entro 12 mesi, gratuitamente, al centro linguistico di ateneo ma chi non dovesse farcela sarà bloccato. «Il problema è studenti più selezionati» dice il rettore Carlo Carrano. Sovrastato dalle polemiche, il rettore trova man forte nel presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, «è impensabile ipotizzare una formazione di alto livello per i nostri giovani senza la conoscenza dell’inglese – dice il governatore leghista – e non si venga a dire che la lingua al livello richiesto da Ca’ Foscari è roba da figli di papà: io stesso non ho studiato l’inglese andando a Cambridge ma approfondendolo sui libri e continuando a farlo tuttora on line». Il rettore dice che «gli studenti dovrebbero già uscire dalle superiori con la certificazione Bl». Ma così non è. E ammette: «Il punto è che abbiamo un aumento di iscritti del 30% negli ultimi due anni” La conoscenza certificata della lingua è quindi un filtro dato che a causa della riforma Gelmini e della spending review le assunzioni di docenti sono bloccate. E gli sbarramenti arrivano anche alle scuole superiori. Da gennaio a oggi diversi sono state le prove di ammissione che alcuni istituti hanno riservato ai ragazzi di terza media. Alla base il solito problema degli spazi, sempre insufficienti mentre crescono gli alunni. L’esigenza di contenere le iscrizioni rischia però di aumentare il divario sociale. «Siamo inorriditi», dice la Rete degli studenti medi. «La scuola superiore è scuola dell’obbligo, è folle immaginare di utilizzare dei test per bloccare l’accesso ». Sulla stessa linea anche l’Unione degli studenti: «Non si può permettere – dichiara Roberto Campanelli – che l’assenza strutturale di fondi alla scuola le trasformi in luoghi della selezione e non dell’emancipazione per tutti». E di «sbaglio» parla anche il Partito democratico, perchè, spiega Francesca Puglisi, responsabile scuola, «siamo ancora nell’obbligo scolastico e perché tutte le ricerche dimostrano che classi eterogenee per abilità e origini economico- sociali degli studenti sono quelle che offrono i migliori risultati negli apprendimenti. È l’ingente danno culturale che ci lascia la destra: che la scuola debba selezionare le eccellenze abbandonando la propria funzione di ascensore sociale” Contraria anche l’Arci e, mentre le associazioni dei consumatori annunciano ricorsi, la Flc- Cgil si dice pronta «a intraprendere tutte le iniziative possibili per bloccare la deriva demagogica” «È l’ennesimo attacco al diritto all’istruzione. Non si può ostacolare l’accesso alle scuole nel nome dell’ideologia della meritocrazia», dice Mimmo Pantaleo, segretario generale. Parole su cui concorda anche il sottosegretario Marco Rossi-Doria: «le scuole superiori sono aperte a tutti: servono risorse per farle funzionare meglio, altro che numero chiuso

L’Unità 20.03.13

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“Test d’ingresso alle superiori, gli studenti insorgono: una follia incostituzionale”, di A.G.

La Rete degli Studenti pronta a fare ricorso: il principio di libero accesso alla scuola è sacro e non siamo disposti a cedere neanche mezzo centimetro. L’Unione degli Studenti: si vuole recintare l’istruzione aperta a tutti, ci opporremo duramente.
Gli studenti non tardano a scagliarsi veemente contro la volontà espressa da alcuni dirigenti di introdurre i test di accesso anche per iscriversi alla scuola superiore. La Rete degli Studenti Medi, che da sempre si batte contro il numero chiuso universitario e già a messo a disposizione lo sportello di assistenzasoccorsostudentesco@gmail.com , cui inviare qualsiasi segnalazione, spiega che non si tratta delle solite voci incontrollate e da verificare: l’associazione è infatti già venuta “a conoscenza del caso del Fermi di Mantova, del convitto nazionale di Roma, dell’Altero Spinelli di Torino”. E parla di “pratica discriminatoria e che calpesta il diritto allo studio varca le porte delle scuole non possiamo che dirci inorriditi”.
“Siamo inorriditi e molto preoccupati. – incalza Daniele Lanni, portavoce nazionale della Rete degli Studenti – Un qualsiasi test che ponga dei limiti alle iscrizioni alle scuole superiori che, lo voglio ricordare, sono scuole dell’obbligo è una follia e assolutamente incostituzionale”. Lanni annuncia anche che se il progetto andrà in porto il sindacato studentesco che rappresenta è pronto “a fare ricorso. Il principio di libero accesso alla scuola è un principio sacro e non siamo disposti a cedere neanche mezzo centimetro. La scuola dell’obbligo dovrebbe accrescere le competenze di ognuno e non valutarle all’accesso senza lasciare secondi appelli”. Per la Rete degli Studenti “il progetto, purtroppo, resta sempre lo stesso: quello di dividere le scuole in quelle di serie A e quelle di serie B. Noi diciamo no e siamo pronti a combattere per difendere la libertà di accesso alla scuola superiore.”, conclude Lanni.
Molto dura contro l’ipotesi test d’accesso alle superiori è anche l’Unione degli Studenti. “I test di iscrizione nelle scuole, tanto quanto il contributo volontario, sono l’ennesima barriera che si sta pericolosamente diffondendo con l’obiettivo di recintare l’istruzione per tutti – dichiara in una nota Roberto Campanelli, dell’Uds – Non si può permettere che l’assenza strutturale di fondi alla scuola, le trasformi in luoghi della selezione e non dell’emancipazione per tutti.”
“Sono preoccupanti – prosegue Roberto Campanelli dell’UdS – le affermazioni di numerosi dirigenti scolastici che le presentano come interessanti formule per valorizzare il merito. Trasformare le scuole in luoghi non accessibili a tutti significa tradire i principi della Costituzione in cui si ribadiscono i valori di una scuola accessibile e libera per tutti. Ci opporremo duramente a questo tipo di iniziative”.

da La Tecnica della Scuola 20.03.13

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Test di ingresso al liceo, il Ministero dice di no

È l’ultima tendenza nel mondo delle scuole superiori: i licei che impongono veri e propri test d’ingresso agli studenti di terza media che vogliono iscriversi per l’anno successivo. Il ministero dell’Istruzione però fa sapere di essere assolutamente contrario a questa pratica. Perché la selezione delle domande di iscrizione in esubero rispetto alla capacità di accoglienza della scuola «non deve essere basata su criteri che puntano a scegliere i migliori». Così hanno ribadito ieri fonti ministeriali, sottolineando che « tutti devono essere rappresentati e accolti nella scuola pubblica» e per questo sono state diffuse circolari anche recenti (l’ultima del dicembre scorso) che hanno «raccomandato di scegliere secondo criteri non parziali». E dunque, «pur nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, i criteri di precedenza deliberati dai singoli Consigli di istituto debbono rispondere a principi di ragionevolezza quali, a puro titolo di esempio, quello della vicinanza della residenza dell’alunno alla scuola o quello costituito da particolari impegni lavorativi dei genitori».
IL SORTEGGIO
Da evitare assolutamente anche il metodo dell’estrazione a sorte (adottato talvolta da qualche istituto): può essere utilizzato solo come estrema ratio quando due studenti che chiedono l’iscrizione risultano in parità in base a ogni altro criterio. Sono escluse in tutti i modi comunque le selezioni basate sulle capacità e la preparazione dell’aspirante alunno. Il perché lo ha spiegato ieri il sottosegretario (ed insegnante) Marco Rossi Doria scrivendo sul suo account di Twitter: «Le scuole superiori sono aperte a tutti. Poi servono risorse per farle funzionare meglio. Altro che numero chiuso!».
Anche i sindacati si mobilitano contro i test selettivi adottati da questi (per ora pochi) licei. «Sono una evidente violazione della Costituzione» dice Domenico Pantaleo della Flc Cgil, e aggiunge: «si punta ad una selezione di classe anche nella scuola dell’obbligo». Il sindacato autonomo Gilda parla di «storture dell’autonomia scolastica». Contrari anche gli studenti: «I test sono una follia» dichiara la Rete degli studenti medi. Solo l’Associazione nazionale dei presidi difende questo genere di iniziative, che «non bisogna demonizzare» perché – sostengono i presidi gli altri criteri come quello della vicinanza geografica sono «molto meno razionali».

da il Messaggero 20.03.13

"Il nostro sud è a sud della Grecia", di Antonio Sciotto

Non che non lo sapessimo, che il nostro Mezzogiorno stesse messo piuttosto male: ma insomma, sentire le cifre snocciolate ieri dal Censis è stato comunque un bel pugno sullo stomaco. E la crisi ha allargato, continua costantemente ad ampliare, il divario con il Nord e il Centro Italia. Tanto che ormai i redditi del Sud risultano più bassi (di 497 euro) rispetto a quelli della già inguaiatissima Grecia.
Tra il 2007 e il 2012, rileva l’istituto guidato da Giuseppe De Rita, nel Sud il Pil si è ridotto del 10% in termini reali a fronte di una flessione del 5,7% registrata nel Centro-Nord. Quindi un taglio della crescita quasi doppio. I dati sono contenuti nel rapporto «La crisi sociale del Mezzogiorno», presentato ieri a Roma dal presidente De Rita e da Giuseppe Roma, direttore generale del Censis.
Nel 2007 il Pil italiano era pari a 1.680 miliardi di euro, mentre cinque anni dopo si era ridotto a 1.567 miliardi. Nella crisi abbiamo perso quindi ben 113 miliardi di euro, molto più dell’intero Pil dell’Ungheria, un paese di quasi 9 milioni di abitanti. Di questi 113 miliardi, 72 si sono persi al Centro-Nord e 41 miliardi (pari al 36%) nel solo Sud. Ma la recessione attuale è solo l’ultimo tassello di una serie di criticità che si sono stratificate nel tempo, insomma che precedono di decenni – potremmo dire – la crisi globale iniziata nel 2007. «Piani di governo poco chiari, una burocrazia lenta nella gestione delle risorse pubbliche, infrastrutture scarsamente competitive, una limitata apertura ai mercati esteri e un forte razionamento del credito hanno indebolito il sistema-Mezzogiorno fino quasi a spezzarlo», spiegano gli analisti del Censis.
Ma non basta: nel confronto con i grandi sistemi dell’euro zona, l’Italia è il Paese con le più rilevanti diseguaglianze territoriali. Il Centro-Nord può contare infatti su 31.124 euro di Pil per abitante, avvicinandosi così vicino ai valori dei paesi più ricchi come la Germania, dove il Pil pro-capite è di 31.703 euro. Mentre se andiamo nel Sud, improvvisamente il termine di paragone diventano gli ultimi d’Europa. I livelli di reddito del Mezzogiorno sono infatti addirittura inferiori a quelli della Grecia: 17.957 euro a fronte dei 18.454 ellenici. Quasi 500 euro in meno, come detto.
Ancora: dei 505 mila posti di lavoro persi in Italia dall’inizio della crisi, tra il 2008 e il 2012, il 60% ha riguardato il Sud (più di 300 mila).
Un’arretratezza economica cronica che si riflette sulla condizione sociale delle famiglie meridionali: il 26% dei nuclei residenti nel Mezzogiorno (cioè oltre un quarto del totale) è materialmente povero, a fronte di una media nazionale ben più bassa, pari al 15,7% («soltanto» un sesto, in pratica). Famiglie materialmente povere, spiega l’istituto, significa «con difficoltà oggettive ad affrontare spese essenziali, o impossibilitate a sostenerle per mancanza di denaro». Ancora, nel Sud sono «a rischio di povertà» 39 famiglie su 100, a fronte di una media nazionale del 24,6% (in questo caso, si estende la definizione anche a quei nuclei che, se non sono del tutto poveri, rischiano però di precipitare a breve in quella condizione).
Non va meglio guardando ai giovani: nelle regioni meridionali, i «neet», quanti cioè tra i 15 e i 29 anni non studiano, non lavorano e non si formano, sono il 31,9%: un’incidenza decisamente superiore alla media nazionale, che si attesta al 22,7%. Peggio ancora in Campania dove la quota sale al 35,2%, e in Sicilia dove è al 35,7%: la situazione è da «emergenza sociale», evidenzia allarmato il rapporto del Censis.
Queste cifre sono così gravi, nonostante la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione nel Mezzogiorno sia molto più alta di quella destinata al resto del Paese: il 6,7% del Pil contro il 3,1% del Centro-Nord, ovvero 1.170 euro pro-capite contro 937 euro (ben il 24,9% in più). Eppure, il tasso di abbandono scolastico è del 21,2% al Sud e del 16% al Centro-Nord, i livelli di apprendimento e le competenze «peggiori».
«Il dato che preoccupa di più è quello dei neet – dice Serena Sorrentino, segretaria confederale della Cgil – Si devono rimettere al centro istruzione e occupazione». La Cisl, con il segretario confederale Luigi Sbarra, chiede al nuovo governo (quello che verrà) di «collocare le politiche per il Mezzogiorno al centro delle sue strategie di crescita».

Il Manifesto 20.03.13

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MEZZOGIORNO, UN TERZO D’ITALIA È PIÙ POVERO DELLA GRECIA

E’ davvero impressionante la serie di dati sul Mezzogiorno d’Italia messi in fila dal Censis nella presentazione dello studio “La crisi sociale del Mezzogiorno” nel corso della giornata dedicata a Gino Martinoli, che del Censis è stato uno dei fondatori.

Disegnano un parte di un paese che sembra ormai aver rotto i ponti con il Nord e si avvia ad affondare in una profondissima crisi. che coinvolge aspetti economici, sociali e demografici, in stretta correlazione tra loro.

Il Segretario del Censis. Situazione non esplosiva ma disperata
“La crisi del Mezzogiorno d’Italia non è esplosiva, è disperata” e la soluzione del problema “non è solo questione di soldi, di investimenti, ma sta nell’aumentare la socialità”.
A dirlo Giuseppe Roma, segretario del Censis che sottolinea inoltre come anche la trasformazione della composizione demografica non faccia sperare in niente di buono: 400 mila giovani in meno già oggi e, tra 15 anni, 3 milioni di anziani in più, con un saldo demografico di un milione di abitanti in meno. Si prevede al 2030 un incremento della popolazione anziana di oltre il 35% . Crescerà molto anche il numero dei non autosufficienti, destinati a superare i 783.000, con un balzo di oltre il 50%.

Persi oltre 300.000 posti di lavoro

Al Sud la crisi ha infatti colpito durissimo con redditi più bassi che in Grecia, con il Pil che si è ridotto del 10 % dal 2007 contro il meno 5,7% del Centro Nord nello stesso periodo, con la maggior parte dei posti di lavoro persi dal 2008 oltre 300.000 su 505.000 nazionali con con un terzo dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non riesce a trovare un lavoro, a fronte di un tasso nazionale al 25%. Se oltre ad essere del Sud e giovani si è anche donne la disoccupazione sale al 40%. L’’Italia si afferma come il Paese con le più rilevanti diseguaglianze territoriali fra i grandi sistemi dell’euro zona. Negli ultimi decenni il Pil pro-capite meridionale è rimasto in modo stabile intorno al 57% di quello del Centro-Nord, sancendo l’inefficacia delle politiche finora attuate per il sostegno allo sviluppo.

Le due Italie fermano lo sviluppo. Secondo il Censis fra i grandi sistemi dell’euro zona l’Italia è il Paese con le più rilevanti diseguaglianze territoriali. Il Censis mette infatti a confronto il reddito pro-capite delle tre regioni più ricche e più povere dei grandi Paesi dell’area dell’euro, confronto da cui emerge come l’Italia abbia il maggior numero di regioni con meno di 20.000 euro pro-capite, ben 7 rispetto alle 6 della Spagna, le 4 della Francia e una sola della Germania.
Al capo opposto della classifica la Germania ha 10 regioni con oltre 30.000 euro pro-capite, la Francia la sola Ile-de-France, mentre l’Italia ne ha 5 e la Spagna nessuna.
In particolare il Centro-Nord, con i suoi 31.124 euro di Pil per abitante, registra livelli vicini a quelli della Germania e ai suoi 31.703 euro. Al capo opposto i livelli di reddito del Mezzogiorno, 17.957 euro pro capite, sono inferiori a quelli della Grecia, 18.454 euro. Sono ormai due Italie

Più povertà e più disuguaglianza
Calabria, Sicilia, Campania e Puglia registrano indici di diseguaglianza più elevati della media nazionale. Il 26% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno è materialmente povero, ovvero 1 famiglia su 4 ha difficoltà oggettive ad affrontare spese essenziali o è impossibilitate a sostenere tali spese per mancanza di denaro. La media nazionale è al 15,7%. E nel Sud sono a rischio di povertà 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6%.

Fondi europei. O non spesi o spesi inutilmente
I contributi assegnati per i programmi dell’Obiettivo Convergenza destinati alle regioni meridionali ammontano a 43,6 miliardi di euro per il periodo 2007-2013. Di questi fondi a 9 mesi dalla chiusura del periodo sono impegnate appena il 53% delle risorse disponibili e spesi 9,2 miliardi, un quinto.
Ma le spese sembrano essere state effettuate inutilmente, tanto che nel prossimo ciclo di programmazione l’Ue stima che la popolazione sottoposta all’Obiettivo Convergenza passerà in Italia dall’11% al 14% del totale, mentre altri Paesi vedranno calare drasticamente tale quota: la Germania passerà dal 5,4% allo 0% e la Spagna dal 9,1% allo 0,9%.

Scuola e formazione. Si spende di più e si ottiene di meno
La spesa pubblica per l’istruzione e la formazione nel Mezzogiorno è molto più alta di quella destinata al resto del Paese: il 6,7% del Pil contro il 3,1% del Centro-Nord, ovvero 1.170 euro pro-capite nel Mezzogiorno rispetto ai 937 del resto d’Italia (ovvero il 24,9% in più). Nonostante ciò il tasso di abbandono scolastico è del 21,2% al Sud e del 16% al Centro-Nord e i livelli di apprendimento e le competenze sono decisamente peggiori. Preoccupante poi il fenomeno Neet con le regioni meridionali che presentano una incidenza superiore alla media nazionale: il 31,9% dei giovani di 15-29 anni non studiano e non lavorano. Dati da emergenza sociale in Campania, 35,2%, e in Sicilia, 35,7%.

Sanità Pubblica in via di chiusura. Per chi se lo può permettere c’è il “turismo sanitario”
Il giudizio dei cittadini in termini di qualità dei servizi sanitari è nettamente peggiorato negli ultimi cinque anni. A dirlo sono il 7,5% dei cittadini nel Nord-Ovest e il 32,1% al Sud. Come conseguenza di ciò ben il 17,1% dei residenti meridionali si è spostato in un’altra regione per farsi curare.

Dazebao.org

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“IL SUD E’ ABBANDONATO A SE STESSO, REDDITI PIU’ BASSI CHE IN GRECIA”. IL RAPPORTO DEL CENSIS

Al Sud redditi piu’ bassi che in Grecia. Qui il 60% dei posti di lavoro persi dall’inizio della crisi. Spesa pubblica per l’istruzione superiore del 25% a quella del Centro-Nord, ma i livelli di apprendimento sono peggiori. E si fugge dalla bassa qualita’ dei servizi nella sanita’ e all’universita’. E’ quanto emerge dal rapporto Censis ‘La crisi sociale del Mezzogiorno’.

La crisi degli ultimi anni, spiega il Censis, ha allargato il divario Nord-Sud. Tra il 2007 e il 2012 nel Mezzogiorno il Pil si e’ ridotto del 10% in termini reali a fronte di una flessione del 5,7% registrata nel Centro-Nord. Nel 2007 il Pil italiano era pari a 1.680 miliardi di euro, cinque anni dopo si era ridotto a 1.567 miliardi. Nella crisi abbiamo perso quindi 113 miliardi di
euro, molto piu’ dell’intero Pil dell’Ungheria, un Paese di quasi 9 milioni d’abitanti. Di questi, 72 miliardi di euro si sono persi al Centro-Nord e 41 miliardi (pari al 36%) al Sud. Ma la recessione attuale e’ solo l’ultimo tassello di una serie di criticita’ che si sono stratificate nel tempo: piani di governo poco chiari, una burocrazia lenta nella gestione delle risorse pubbliche, infrastrutture scarsamente competitive, una limitata apertura ai mercati esteri e un forte razionamento del credito hanno indebolito il sistema-Mezzogiorno fino quasi a
spezzarlo.

Negli ultimi decenni il Pil pro-capite meridionale e’ rimasto in modo stabile intorno al 57% di quello del Centro-Nord, testimoniando l’inefficacia delle politiche di sostegno allo sviluppo messe in atto, che non hanno saputo garantire maggiore occupazione, nuova imprenditorialita’, migliore coesione sociale, modernizzazione dell’offerta dei servizi pubblici.
La bassa crescita del nostro Paese e’ fortemente influenzata dal dualismo territoriale. Fra i grandi sistemi dell’euro zona l’Italia e’ il Paese con le piu’ rilevanti diseguaglianze territoriali.

Se si confronta il reddito pro-capite delle tre regioni piu’ ricche e piu’ povere dei grandi Paesi dell’area dell’euro emerge che l’Italia ha il maggior numero di regioni con meno di 20.000 euro pro-capite: sono 7 rispetto alle 6 della Spagna, le 4 della Francia e una sola della Germania. All’estremo opposto, la Germania ha 10 regioni con oltre 30.000 euro pro-capite, la Francia la sola Ile-de-France, mentre l’Italia ne ha 5 e la Spagna nessuna. Il Centro-Nord (31.124 euro di Pil per abitante) e’ vicino ai valori dei Paesi piu’ ricchi come la Germania, dove il Pil pro-capite e’ di 31.703 euro. Mentre i livelli di reddito del Mezzogiorno sono inferiori a quelli della Grecia (17.957 euro il Sud, 18.454 euro la Grecia).

Il mercato del lavoro si destruttura e si impoverisce ulteriormente. Dei 505.000 posti di lavoro persi in Italia dall’inizio della crisi, tra il 2008 e il 2012, il 60% ha riguardato il Mezzogiorno (piu’ di 300.000). Il Sud paga la parte piu’ cospicua di un costo gia’ insopportabile per il Paese e si conferma come un territorio di emarginazione di alcune categorie sociali, come i giovani e le donne. Un terzo dei giovani tra i 15 e i 29 anni non riesce a trovare un lavoro (in Italia il tasso di disoccupazione giovanile e’ al 25%). Se poi oltre a essere giovani si e’ donne, la disoccupazione sale al 40%. Il tasso di disoccupazione femminile totale e’ del 19% al Sud a fronte di un valore medio nazionale dell’11%. I disoccupati con laurea sono in Italia il 6,7% a fronte del 10% nel Mezzogiorno.

Un tessuto d’impresa a rischio di deindustrializzazione. Un sistema imprenditoriale gia’ fragile e diradato, se messo a confronto con quello del Centro-Nord, e’ stato sottoposto negli ultimi anni a un processo di progressivo smantellamento, costellato da crisi d’impresa molto gravi come quelle dell’Ilva di Taranto e della Fiat di Termini Imerese. Tra il 2007 e il 2011 gli occupati nell’industria meridionale si sono ridotti del 15,5% (con una perdita di oltre 147.000 unita’) a fronte di una flessione del 5,5% nel Centro-Nord. Oltre 7.600 imprese manifatturiere del Mezzogiorno (su un totale di 137.000 aziende) sono uscite dal mercato tra il 2009 e il 2012, con una flessione del 5,1% e punte superiori al 6% in Puglia e Campania.

Si allargano le distanze sociali. Il Mezzogiorno resta un territorio in cui le forme di sperequazione della ricchezza non diminuiscono, ma anzi si allargano. Calabria, Sicilia, Campania e Puglia registrano indici di diseguaglianza piu’ elevati della media nazionale. Il 26% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno e’ materialmente povero (cioe’ con difficolta’ oggettive ad affrontare spese essenziali o impossibilitate a sostenere tali spese per mancanza di denaro) a fronte di una media nazionale del 15,7%. E nel Sud sono a rischio di poverta’ 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6%. Il persistere di meccanismi clientelari, di circuiti di potere impermeabili alla societa’ civile e la diffusione di intermediazioni improprie nella gestione dei finanziamenti pubblici contribuiscono ad alimentare ulteriormente le distanze sociali impedendo il dispiegarsi di normali processi di sviluppo.

Fondi europei: risorse non spese e programmi inefficaci. I contributi assegnati per i programmi dell’Obiettivo Convergenza destinati alle regioni meridionali ammontano a 43,6 miliardi di euro per il periodo 2007-2013. A meno di un anno dalla chiusura del periodo di programmazione risulta impegnato appena il 53% delle risorse disponibili e spesi 9,2 miliardi (il 21,2%). Anche l’efficacia dei programmi attivati con i fondi europei e’ discutibile. Al contrario di cio’ che e’ accaduto in altri Paesi con un marcato dualismo territoriale, in Italia la convergenza tra Sud e Nord non si e’ mai realmente affermata. Prova ne e’ il fatto che nel prossimo ciclo di programmazione l’Ue stima che la popolazione sottoposta all’Obiettivo Convergenza passera’ in Italia dall’11% al 14% del totale, mentre altri Paesi vedranno calare drasticamente tale quota: la Germania passera’ dal 5,4% allo 0% e la Spagna dal 9,1% allo 0,9%.

Le risorse spese nelle regioni meridionali non solo hanno contribuito debolmente al riequilibrio territoriale, ma hanno rafforzato i circuiti meno trasparenti e congelato l’iniziativa imprenditoriale con incentivi senza obbligo di risultato e progetti spesso estranei alle vere esigenze delle economie locali.Scuola e formazione: si spende di piu’ che nel resto del Paese, ma i risultati sono peggiori.

Uno dei principali fattori di debolezza del Sud e’ ancora oggi l’incapacita’ del sistema educativo di accompagnare i processi di sviluppo attraverso la formazione di un capitale umano qualificato, contribuendo cosi’ a contrastare il disagio sociale ed economico della popolazione. La spesa pubblica per l’istruzione e la formazione nel Mezzogiorno e’ molto piu’ alta di quella destinata al resto del Paese: il 6,7% del Pil contro il 3,1% del Centro-Nord, ovvero 1.170 euro pro-capite nel Mezzogiorno rispetto ai 937 del resto d’Italia (ovvero il 24,9% in piu’). Eppure, il tasso di abbandono scolastico e’ del 21,2% al Sud e del 16% al Centro-Nord, i livelli di apprendimento e le competenze sono decisamente peggiori, tutte le regioni meridionali si caratterizzano per una incidenza del ½fenomeno Neet» superiore alla media nazionale: il 31,9% dei giovani di 15-29 anni non studiano e non lavorano, con una situazione da emergenza sociale in Campania (35,2%) e in Sicilia (35,7%). E il 23,7% degli iscritti meridionali all’universita’ si e’ spostato verso una localizzazione centro-settentrionale, contro una mobilita’ di solo il 2% dei loro colleghi del Centro e del Nord.

L’abbandono della sanita’ pubblica e i bisogni assistenziali crescenti. Il progressivo deterioramento dei servizi sanitari negli ultimi cinque anni e’ riferito dal giudizio dei cittadini:
lo afferma il 7,5% al Nord-Ovest, l’8,7% al Nord-Est, il 25,6% al Centro e addirittura il 32,1% al Sud. Il 17,1% dei residenti meridionali si e’ spostato in un’altra regione per farsi curare, non fidandosi della qualita’ e della professionalita’ disponibili nella propria. Forte e’ la tendenza all’aumento della longevita’. Si prevede al 2030 un incremento della popolazione anziana di oltre il 35% contro dinamiche di crescita meno marcate nelle altre aree geografiche. In parallelo crescera’ molto anche il numero dei non autosufficienti, destinati a superare i 783.000, con un balzo di oltre il 50%.

da Agenzia Dire 20.03.12

"Viaggio nella strada dei negozi perduti", di Jenner Meletti

C’era il rumore leggero delle saracinesche ben oliate che si alzavano girando una chiavetta. C’erano i saluti allegri fra chi cominciava una giornata di lavoro. «Buongiorno, buona giornata». Le eleganti ragazze del negozio con abiti da duemila euro e i più anziani commessi della rivendita di pantofole si incontravano con i ragazzi pronti a passare la giornata cuocendo hamburger e patate fritte. Adesso c’è troppo silenzio, in via Amendola. Troppe serrande sono state abbassate per l’ultima volta. Sono state tolte anche le insegne. Via il nome dalle tre vetrine di Trussardi, via un nome antico, Vindigni, dove i torinesi andavano a comprare l’abito della festa. «Prossimamente aprirà enoteca», annuncia un cartello. Spente e rottamate le friggitrici e le piastre del Burger King, che un tempo attirava giovani anche dalle periferie, perché era il primo fast food aperto nella città dei Savoia.
Adesso, per conoscere «chi c’era qui», devi chiedere all’uomo che porta fuori il cane o alla commessa della tabaccheria. «Dietro quelle serrande c’erano le calzature Modenesi. Sì, erano specializzati in pantofole e in scarpe classiche». Quando una strada entra in crisi — anche se è fra le più famose in una città che da secoli compra e vende — chi sta ancora bene ha voglia di andarsene, perché una vetrina chiusa danneggia quella che resta aperta.
Un centro Tim ha trovato un’altra strada, si è trasferita anche l’ottica Cavalli. Arrivi in piazza Cln e anche qui ci sono i buchi neri. Se ne sono andati la profumeria Piera Giordano, il Plaisir che vendeva tutto per “la salute del corpo”, e anche “Pantaloni e pantaloni”. Svolti in via Roma — la via Condotti di Torino — e vedi i segni lasciati dalle insegne divelte. “Affittasi”, annuncia un grande cartello su quello che era il negozio di Cartier. Chiuse le vetrine sfavillanti di due gioiellerie, Fasano e Palmerio, dove migliaia di torinesi avevano comprato le fedi per il matrimonio e lasciato gli occhi sugli altri gioielli.
«E stiamo parlando — raccontano Antonio Carta e Morena Sighinolfi, presidente e direttore della Confesercenti sotto la Mole — delle strade più ricche della città. Immagini cosa succede nelle periferie». I numeri parlano chiaro. Nei soli due mesi di gennaio e febbraio nel capoluogo il saldo fra aperture e chiusure è stato di meno 231 per i negozi e meno 250 per le «somministrazioni», vale a dire bar, ristoranti, pizzerie, kebab… Ogni giorno 15 serrande non vengono rialzate. «In centro la crisi è provocata dal caro-affitti e dal fatto che i clienti sono attratti dai grandi centri commerciali che, da gennaio, hanno deciso di restare
aperti tutte le domeniche ». La vicenda degli affitti in centro ricorda la favola della rana di Fedro, che si gonfiava per sembrare grossa come un bue. I proprietari dei muri hanno continuato ad aumentare i prezzi — in via Roma e dintorni 150 ma anche 200 euro al metro quadro ogni mese, e così per 100 metri si debbono pagare fino a 20 mila euro — con il risultato di avere centinaia di proprietà «scoppiate» e senza reddito.
«Ormai solo i grandi marchi — dice Antonio Carta — riescono a resistere in centro. I negozi appartengono per il 90 per cento ad assicurazioni e banche che — mi ha spiegato un loro dirigente — preferiscono lasciarli sfitti piuttosto di abbassare i prezzi, per “non deprimere il mercato”. Fino al 2011 c’erano tante chiusure ma il numero di chi apriva era superiore. Questo perché i genitori, con la liquidazione della Fiat e la pensione, costruivano un posto di lavoro per il figlio, aprendogli un negozietto o una videoteca. Ora quei soldi sono finiti. E migliaia di operai in cassa integrazione, con il 30 per cento di reddito in meno, non possono certo fare investimenti: fanno fatica a fare la spesa».
Le strade con le serrande bloccate ci sono «anche perché alcuni commercianti hanno fatto degli errori». «C’è stato qualche collega — racconta Franco Orecchia della Vestil, negozio di abbigliamento di tre piani in piazza Statuto — che per ridurre i costi ha abbassato la qualità. Ed ha pagato caro. Se uno è abituato a cenare in un buon ristorante, con la crisi non va al fast food. Torna al ristorante, ma solo quando se lo può permettere. Così succede nell’abbigliamento. Se sei servito bene, compri meno capi ma non cambi negozio». Diciassette dipendenti più quattro della famiglia. «Qui trovi abiti da 480 a 3.500 euro. Solo per la taglia 50, ad esempio, lei può scegliere fra 200 pantaloni diversi. Investire nell’offerta è un obbligo: il cliente che non trova ciò che vuole va a cercarlo da un’altra parte». Vetrine illuminate dal 1957 ma aperte al nuovo. «Al secondo piano ho un angolo dedicato a pasta, salse e vino di alta qualità. È un’offerta che funziona nelle librerie. Perché non provare anche noi?».
C’è anche chi, pur puntando sulle eccellenze, si deve arrendere. «In tutta la mattinata — dice Luciano Ferrarese, con mini market in via Cibrario — ho incassato 40 euro. Ho frutta e verdura biologiche e anche se siamo a marzo i primi meloni di Mantova. Le colombe pasquali sono di pasticceria. Fino a due anni fa in questi giorni le avevo esaurite, quest’anno non ne ho venduta una». Luciano Ferrarese, negli anni buoni, si è comprato i muri. «Anche senza pagare l’affitto, devo chiudere. Con gli incassi troppo magri, uso la mia pensione per pagare le spese generali. E me ne vado senza “liquidazione”, perché la licenza con la legge Bersani non si vende ma si riconsegna gratis in Comune. L’avevo comprata nel 1985, con 50 milioni di lire. Allora avrei potuto comprarmi due piccoli appartamenti. Ma non oso lamentarmi, c’è chi sta peggio. Vedo dei miei ex clienti che all’alba vanno a cercare nei cassonetti…».
«Lo spartiacque — dicono Antonio Carta e Morena Sighinolfi della Confesercenti — arriverà a Pasqua. Se non ci sarà una ripresa dei consumi, altre centinaia di saracinesche si abbasseranno in pochi giorni. Sarà un disastro. Noi curiamo i bilanci delle imprese e nell’ultimo anno abbiamo rilevato un dato allarmante: non chiudono solo le aziende con problemi — mutui troppo alti, esposizioni bancarie, merci sbagliate — ma anche quelle finanziariamente sane e con una buona clientela. Questo significa che le famiglie stanno davvero finendo i soldi: hanno rinunciato prima al voluttuario (scarpe, jeans …) poi agli alimentari, con tagli alla carne, alla verdura, al pesce. Ora chiudono bar e pizzerie: devi fare i conti prima di andare a prenderti un caffè».
C’è chi la crisi la può pesare a quintali. «Prima vendevo — racconta Luigi Frasca, titolare della “Bottega della carne, Da Natalino” — due mezzene di vitello piemontese, 260 — 270 chili l’una — alla settimana. Adesso ne vendo solo una. Chi vendeva una mezzena, ora vende un quarto. I miei genitori e i miei nonni con la macelleria si compravano le case e le macchine e facevano studiare i figli. Noi facciamo fatica a stare in piedi». A Porta Palazzo, nella galleria Umberto I, Gianni Berteti dice di avere cambiato mestiere. «Vendo profumi ma soprattutto faccio lo psichiatra. Vengono in bottega colleghi e clienti che mi raccontano che così non si può andare avanti, che se devi scegliere fra la pastasciutta e un profumo ovviamente scegli il cibo. Si sta qui a parlare e il registratore di cassa resta muto». Qualche serranda è chiusa (un ristorante, il negozio del primo cinese arrivato a Torino…) e le altre vetrine sono ancora illuminate. Ma nessun passo di cliente viene a disturbare il silenzio nella galleria.

La Repubblica 20.03.13

Non c'è democrazia senza istruzione

Restituire risorse, stabilità, fiducia a Scuola e Università
– Riportare gli studenti all’Università: più borse di studio, meno tasse
– Contratto unico di ricerca, con standard retributivi certi e diritti assistenziali e previdenziali. No ai dottorati senza borsa
– Aumentare gli investimenti pubblici, ripristinare almeno le risorse del Fondo di Finanziamento Ordinario del 2012.
– No a finanziamento pubblico alle università telematiche
– Piano straordinario di 7,5 miliardi in 3 anni per mettere in sicurezza gli edifici scolastici
– Dimezzare l’abbandono scolastico entro il 2020, con formazione ai docenti, nuove tecnologie, scuole aperte tutto il giorno e rilancio dell’istruzione tecnica
– Stabilità è sinonimo di qualità. Assegnare ad ogni scuola una dotazione di personale stabile. Collocare il personale nelle graduatorie ad esaurimento al massimo in 5 anni
– Piano triennale per aumentare gli asili nido con l’obiettivo di coprire il 33% dei posti e con un Fondo statale di 350 milioni di euro in 3 anni
– Autonomia e semplificazione per il governo della scuola

DATI NEGATIVI
– Negli ultimi 20 anni spesa per istruzione e ricerca -5,4%.
– Investimenti nell’università 0,8% del Pil in Italia contro l’1,3% della media Ue
– Fuga dall’università. Immatricolazioni calate del 17% negli ultimi dieci anni
– Il 64% delle scuole non rispetta le norme su sicurezza dell’edilizia scolastica
– Solo il 10% dei giovani con il padre non diplomato riesce a laurearsi (40% in Gran Bretagna, 35% in Francia)

PER UNA SCUOLA GIUSTA

Dopo i tagli degli ultimi 5 anni e le riforme sbagliate o contraddittorie, dobbiamo restituire all’istruzione risorse, stabilita’, fiducia. Se c’è un settore per il quale è giusto che altri ambiti della spesa statale rinuncino a qualcosa, è quello della formazione dei nostri giovani: la scuola, l’Università, la ricerca. L’istruzione e la ricerca sono gli strumenti più importanti per assicurare la dignità del lavoro, combattere le disuguaglianze, dare forza e prospettiva allo sviluppo. Scuola e universita` sono i luoghi della nuova questione sociale: oggi solo il 10% dei giovani italiani con il padre non diplomato riesce a laurearsi, mentre sono il 40% in Gran Bretagna, il 35% in Francia, il 33% in Spagna. Non c’è democrazia senza istruzione. La scuola è un bene comune, che oggi ha bisogno di cura e di un impegno collettivo per restituirle il giusto rango Costituzionale che le spetta. Dobbiamo affrontare da subito alcune vere e proprie emergenze.

Edilizia Scolastica

Anzitutto le condizioni di sicurezza dell’edilizia scolastica. Oggi il 64% delle scuole non ne rispetta le norme. Dopo le ferite di Rivoli e di San Giuliano, non possiamo permettere il ripetersi di tragedie mentre si sta seduti in un banco di scuola. Investiremo 7 mld e mezzo in tre anni per l’edilizia scolastica. Taglieremo gli F35 e libereremo risorse allentando il patto di stabilita’ interno per quegli enti locali che investono nella ristrutturazione o nella edificazione di nuove scuole, incentivando la costruzione di scuole con ambienti di apprendimento innovativi ed eco sostenibili. E’ un investimento che con l’apertura di tanti cantieri in tutto il Paese attiverà 17.000 posti di lavoro solo nel centro sud, permetterà di risparmiare 2 milioni di euro di energia grazie all’utilizzo di pannelli fotovoltaici e materiali per il risparmio energetico, genererà un gettito fiscale di oltre 500 milioni di euro.

Abbiamo già depositato alla Camera e al Senato la legge scritta con l’associazione Libera per offrire ai cittadini e alle cittadine la possibilità di destinare l’8 x mille dello Stato, in modo mirato all’edilizia scolastica.

I Fondi non dovranno essere più frammentati tra Ministero delle Infrastrutture, Miur e Tesoro, ma devono finanziare la Legge 23 del ’97 che ha un ottimo modello di programmazione e governance delle risorse e degli interventi.

Autonomia e governance della scuola. Riorganizzazione Istituzionale per sottrarre il MIUR dal Ministero dell’Economia

Oggi il governo della scuola è frammentato su troppi livelli: Ministero dell’Istruzione, con competenza sulle regole generali e gli ordinamenti; Ministero dell’Economia, con competenza sugli stipendi degli insegnanti; Regioni, responsabili del dimensionamento, ovvero del numero e della localizzazione degli istituti, e della formazione professionale; Province, a cui spetta la manutenzione degli edifici nella secondaria di secondo grado (le superiori); Comuni, a cui spettano gli edifici della scuola primaria e secondaria di primo grado, oltre a tutta la scuola dell’infanzia; Istituzioni scolastiche autonome, cui oggi di fatto competono solo le supplenze brevi e le attività extra-curriculari.

L’autonomia delle scuole, che è la più importante riforma degli ultimi 13 anni, è stata voluta da Luigi Berlinguer e dal governo di centro-sinistra: ben presto, però, il processo si è interrotto e con i ministri Gelmini e Profumo si è ritornati a un ruolo centrale del Ministero; inoltre non è mai stata data attuazione alla riforma del Titolo V della Costituzione, che prevede un ampio trasferimento di poteri alle Regioni.

Un efficace coordinamento fra tanti livelli di governo della scuola è difficile da realizzare: sarebbe necessario semplificare e chiarire le diverse responsabilità. Una strada possibile è quella di svuotare il Miur e decentrare verso le Regioni: il rischio di aumentare ulteriormente i già enormi divari territoriali è però molto elevato. La soluzione preferibile, è quella di realizzare pienamente l’autonomia delle singole scuole in campo didattico, finanziario, amministrativo e gestionale, rafforzando al contempo la verifica dei risultati dal parte del centro. Il centro rinuncia quindi ai compiti di autorizzazione amministrativa a priori, ma mantiene il ruolo di valutatore a posteriori, oltre a fissare le indicazioni nazionali (i programmi) e le competenze richieste al termine di ogni ciclo scolastico. E’ chiaro che gli organi interni alle 8127 istituzioni scolastiche (di cui 1.500 ancora prive di dirigente scolastico) dovrebbero essere adattati alla maggiore autonomia decisionale delle scuole: il dirigente scolastico non può rimanere senza un controllo efficace da parte del consiglio di istituto, in modo da garantire una verifica di qualità.

Lotta alla dispersione scolastica

Vogliamo cambiare la scuola insieme agli insegnanti per combattere la dispersione scolastica. Questo fenomeno è il vero nemico della crescita economica, della legalità e del successo formativo personale. Per dimezzarla, come ci chiede di fare l’Europa entro il 2020, servono interventi mirati, percorsi individualizzati e tempi distesi per l’apprendimento.

Dobbiamo impegnarci con ogni mezzo per affrontare questa situazione: da una formazione in servizio offerta ai docenti per innovare la didattica, alle nuove tecnologie, dalle scuole aperte tutto il giorno al rilancio dell’istruzione e formazione tecnica e professionale che dovrà diventare il vero laboratorio di innovazione di cui ha bisogno il Paese per rilanciare il Made in Italy nel mondo e contrastare la disoccupazione giovanile.

Stabilità è sinonimo di qualità

a) Per migliorare la qualità della scuola di tutti dobbiamo eliminare la precarietà, assegnando a ogni scuola una dotazione di personale stabile, stabilizzando coloro che da troppi anni stanno lavorando su posti vacanti con contratti annuali e quegli insegnanti di sostegno che sono fra i più precari e che invece dovrebbero garantire continuità didattica agli studenti più deboli. Si tratta di 50.000 posti che si possono stabilizzare subito per garantire continuità e qualità alla scuola e dare concretezza all’organico funzionale, senza spese aggiuntive per lo Stato. Aumentare dal 70 al 90% il personale di sostegno stabile in organico di diritto.

b) Dobbiamo procedere alla stabilizzazione degli Ata cancellando la norma sugli insegnanti inidonei e gli ITP che tiene bloccate le stabilizzazioni;

c) Mandare in pensione gli insegnanti Quota 96, come previsto da proposta di legge che stiamo ripresentando alla Camera e al Senato (4000 posti);

d) Riusciremo ad esaurire le graduatorie ad esaurimento in massimo 5 anni.

Emergenza infanzia

Poi c’è un’emergenza infanzia. Siamo lontanissimi, soprattutto nel mezzogiorno, dal raggiungimento dell’obiettivo del 33% di copertura dei posti all’asilo nido e nella scuola dell’infanzia sono tornate a crescere le liste d’attesa in tutto il Paese, mentre dovremmo garantire a tutti i bambini e le bambine l’opportunità di frequentarla. La lotta alla dispersione scolastica per noi deve iniziare da qui. Investendo in educazione di qualità nell’età dell’oro, consapevoli che darà frutti certi al successo scolastico futuro dei bambini e delle bambine e che costituirà anche una spinta fondamentale per l’occupazione femminile.

Un nuovo piano triennale per l’estensione della rete di asili nido, per raggiungere l’obiettivo della copertura del 33% dei posti che possa contare su un fondo Statale di 350 milioni di euro in tre anni, su fondi europei erogati alle regioni secondo obiettivi verificabili da raggiungere e su una quota di quel risparmio che lo Stato ha ottenuto dall’allungamento dell’età pensionabile delle donne.

Un investimento per 500 nuove sezioni di scuola dell’infanzia perché nessun bambino e bambina tra i 3 e i 5 anni resti a casa. Per questo piano costituiremo una cabina di regia presso il Miur.

UNIVERSITÀ E RICERCA

Negli ultimi 20 anni istruzione e ricerca sono le uniche voci del bilancio pubblico che sono scese drasticamente in termini di composizione della spesa (-5,4%). In istruzione universitaria l’Italia investe poco più della metà della media UE (0,8% contro 1,3%). Il risultato è una fuga dalle università, con un calo di immatricolazioni significativo (17%) negli scorsi dieci anni. Alla base è un modello sbagliato che coniuga tasse universitarie molto elevate (l’Italia è terza in Europa dopo Gran Bretagna e Paesi Bassi) e il peggior sistema di diritto allo studio (solo il 7% degli studenti ottiene una borsa di studio, contro il 25/30% di Francia e Germania). Senza contare che anche la classe docente è in calo (-10% in tre anni) oltre ad avere il triste primato di essere la più anziana d’Europa. Questo immobilismo alimenta la “emigrazione intellettuale”, con la triste conseguenza che i giovani laureati che abbandonano l’Italia sono più che raddoppiati dal 2002 al 2011, mentre l’attrattività del Paese verso i ricercatori stranieri è quasi nulla.

Le nostre proposte

1) Riportare gli studenti all’università: più borse, meno tasse. Contrastare la “fuga dall’università” e riattivare l’ascensore sociale è il primo impegno politico per il governo del sistema. Per questo, serve un sistema di diritto allo studio mobile e un servizio di orientamento già nella scuola secondaria superiore. Per fare questo lanceremo un Programma nazionale per il merito e il diritto allo studio che affianchi gli interventi regionali (su cui è necessario adeguare il livello essenziale delle prestazioni). Occorre inoltre individuare strumenti per conciliare studio e lavoro, definendo in modo chiaro la categoria degli studenti part-time. La riduzione delle risorse non può certo essere compensata con aumenti della tassazione studentesca: al contrario, la tassazione deve essere riportata nella media dell’Europa continentale. Ciò significa ridurre decisamente le tasse universitarie (ristabilendo il limite del 20% rispetto al FFO) e rendendo il sistema maggiormente progressivo e più omogeneo territorialmente.

Le proposte del PD:
– Programma nazionale per il merito e il diritto allo studio, per giungere in 5 anni alla media europea di studenti che percepiscono borse di studio;
– Riduzione delle tasse universitarie.

2) Riaprire l’università a nuovi giovani docenti, con regole semplici e percorsi rapidi. L’università italiana soffre anche di una fuga dei docenti a causa dei vincoli al turn-over, ma anche alla diffusione endemica di precarietà e perfino attività gratuite.

Per dare dignità e certezza alla carriera universitaria, partiremo dal rispetto della Carta europea dei ricercatori, e proponiamo la semplificazione delle figure pre-ruolo, con un Contratto unico di ricerca (con garanzie assistenziali e previdenziali) e un percorso di tenure track, con proporzioni certe per l’ingresso in ruolo. Investiremo sulla mobilità, per impedire lo svolgimento di tutta la carriera sempre nella stessa sede. Proporremo bandi nazionali per posizioni post-doc e di tenure track che offrano ai vincitori il budget e i fondi, lasciando loro la possibilità di scelta dell’ateneo in cui svolgere l’attività (escluso l’ateneo di origine). Pensiamo, infine, a un sistema di controllo e all’introduzione di limiti per il part-time, e all’ancoraggio al beneficio dell’università delle attività libero-professionali dei docenti, come avviene in molti altri Paesi.

Le proposte del PD:
– Contratto unico di ricerca, con standard retributivi certi e diritti assistenziali e previdenziali;
– Tenure track per professori junior;
– No ai dottorati senza borsa e altri contratti a “zero euro”;
– Mobilità dei docenti;
– Beneficio per l’università dai proventi delle attività esterne dei docenti.

3) Aumento delle risorse pubbliche e degli investimenti privati per ripartire dalle idee e dalla conoscenza. L’illusione di “riforme senza risorse” è finita. Gli investimenti in università e ricerca devono essere aumentati, con l’obiettivo di fondo di una graduale convergenza verso la media UE. Quindi, Il primo obiettivo è quindi ripristinare le risorse del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) del 2012, rimediando al taglio di 300 milioni operato dal governo Mont con quote crescenti in base a criteri valutativi (numero di studenti, valutazione di ricerca e didattica, contemperati da obiettivi di coesione del sistema, impatto della formazione). Inoltre, i progetti bandiera saranno finanziati con risorse aggiuntive e stabiliti secondo le priorità attribuite da Parlamento e governo, senza attingere a risorse già previste. Il percorso prevede un lavoro adeguato sulla revisione del sistema fiscale, sull’utilizzo delle risorse europee dei Fondi Strutturali, su un nuovo e adeguato regime giuridico per incentivare i contributi privati, sui finanziamenti derivanti dall’attività di ricerca e dalle attività esterne dei docenti.

Le proposte del PD:
– Ripristinare, nell’immediato, almeno le risorse del FFO del 2012;
– Riattivazione degli investimenti nell’università, verso media UE;
– Criteri trasparenti per assegnazione risorse agli Atenei;
– Nessun finanziamento pubblico alle università telematiche;
– Interventi per favorire la diversificazione delle fonti di finanziamento;
– Ripristino dei finanziamenti per la ricerca fondamentale almeno ai livelli pre-2008.

www.partitodemocratico.it

"La crisi chiude anche le imprese sane", di Fabio Pavesi

Non bastava il record dei fallimenti o il balzo strepitoso delle procedure concorsuali che stanno fiaccando il sistema delle imprese italiane. Un nuovo fenomeno, per certi aspetti più allarmante, sta emergendo con evidenza.
È il numero in costante crescita delle aziende che scelgono la via della liquidazione volontaria. Un fenomeno entrato con prepotenza dall’autunno scorso nei radar del Cerved, il leader nel settore business information, che ha rilevato come nel 2012 le chiusure di aziende con i conti in ordine siano state 45mila con un incremento del 16% sul 2011.
Quel che allarma è la progressione costante degli imprenditori che di fatto rinunciano, gettano la spugna. Un fenomeno che non è altro che la cartina di tornasole della grave crisi del Paese che affronta la sua seconda e grave recessione dal crac di Lehman in poi. Ma in questo caso non si tratta di una resa a fronte del precipitare della situazione finanziaria dell’azienda; o al tentativo di rifugiarsi tra le braccia delle procedure concorsuali per bloccare le richieste dei creditori.
Se chiudono le aziende sane
Qui siamo in presenza di aziende che hanno bilanci in ordine, che non hanno ferite aperte sul fronte dell’eccessivo indebitamento e che nonostante ciò chiudono i battenti. Una scelta amara cui concorrono più fattori. C’è chi chiude per le difficoltà legate al passaggio generazionale; chi liquida in Italia per aprire successivamente all’estero, ma secondo il Cerved c’è una quota di abbandono legata al futuro, alle prospettive. Insomma molti imprenditori vedono nero e credono che il gioco di fare impresa non valga la candela. Del resto basta sfogliare qualche numero. Spiega Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved Group: «Abbiamo assistito negli ultimi 4 anni a una drammatica caduta della profittabilità delle imprese. Dal 2007 al 2011 c’è stato un calo dei fatturati nell’ordine del 5,4% in termini reali e del 19% a livello di margine operativo lordo. La minor redditività si colloca in un contesto di leva finanziaria già tirata; di difficoltà di incasso dei crediti e di credit crunch da parte del sistema bancario. Non stupisce che in questo quadro gli imprenditori decidano di mollare». Non solo il Cerved fotografa la sofferenza dell’economia italiana. L’ultimo rapporto IntesaSanpaolo-Prometeia di Analisi dei settori industriali parla di «apnea dell’industria italiana penalizzata soprattutto dalla debolezza dei consumi interni» che ha visto cali dal 2007 al 2012 del 40% per i beni legati alla mobilità e del 15% per i prodotti per la casa. E in generale la doppia caduta della produzione industriale ha portato a una perdita dalla crisi Lehman nell’ordine del 20 per cento.
Livelli pre-crisi lontani
Un quadro critico, ma ciò che inquieta di più sono le prospettive. Secondo le simulazioni del Cerved occorreranno ancora anni per recuperare i livelli di ricavi e redditività pre-crisi cioè i livelli del 2007. Anche nel caso di un’improbabile ripresa dell’economia quest’anno i livelli di fatturato in termini reali non saranno recuperati neanche nel 2014. Peggio ancora sul fronte della profittabilità. Per i ricercatori del Cerved infatti anche in uno scenario-base molto cauto il livello del Mol, il margine operativo lordo, in termini reali sarebbe di un quarto più basso dei livelli pre-crisi. Occorrerebbe un boom senza precedenti per riagguantare i livelli pre-crisi. Ma come è intuibile per ora di quel boom non c’è traccia. Anzi. Ma c’è di più. Anche in caso di ripresa con un Pil in crescita del 2% su base annua il livello di profittabilità industriale del 2007 verrebbe riacciuffato dalle imprese solo nel 2018. Un tempo maledettemente lungo. È questo più di ogni altra cosa a far desistere gli imprenditori dal proseguire l’attività. Senza un recupero di redditività adeguata infatti non possono che acuirsi le problematiche legate alla sostenibilità finanziaria delle società, dato che cadrebbe la quota di auto-finanziamento. E senza prospettive investire in capitale di rischio, qual è l’impresa, pare sempre più azzardato. Rendimenti sempre più risicati sul capitale scoraggiano nuovi investimenti. E alla fine fanno apparire le rendite finanziarie più appetibili di quelle in capitale produttivo. Una lusinga, certo amara, cui però a volte è difficile resistere.

Lo scenario
LE LIQUIDAZIONI
Liquidazioni volontarie di società di capitale senza precedenti procedure concorsuali. Dati trimestrali, destagionalizzati e corretti per le giornate lavorative
Esclude dal conteggio le c.d. “scatole vuote”, società che non hanno mai depositato un bilancio nei tre anni precedenti alla liquidazione
45mila
Liquidazioni nel 2012
+16%
L’incremento rispetto al 2011
I RICAVI
Previsioni di fatturato in base ai tre scenari di ripresa Tassi di variazione
Anche nell’improbabile caso di ripresa dell’economia, i livelli di fatturato in termini reali non sarebbero recuperati nel 2014
LA REDDITIVITÀ
Previsioni sul Mol in base ai tre scenari di ripresa
Tassi di variazione
Secondo lo scenario di base, nel 2014 la redditività delle imprese sarebbe di un quarto inferiore rispetto ai livelli pre-crisi

Il Sole 24 Ore 19.03.13

"La sinistra e la lezione di Francesco", di Alfredo Reichlin

Sono giornate difficili ma importanti, destinate a contare molto nel futuro. L’avvento di un Papa straniero col nome di Francesco, il «poverello di Assisi» è stato sorprendente ma io credo che l’entusiasmo con cui è stato accolto è il segno che qualcosa sta cambiando nella vicenda del mondo. La necessità di un grande cambiamento era già nell’animo della gente. Una svolta nel senso della giustizia era attesa. Dunque decisioni nuove e straordinarie devono essere prese.
Ma il dramma dell’Italia sta proprio in ciò: il suo sistema politico non sembra in grado di prenderle.
Io parto sempre dal Paese. E continuo a pensare che la nostra amata Italia così com’è non regge alle sfide dei nuovi tempi. La crisi economica è giunta ormai al rischio di una necrosi del tessuto produttivo (stanno chiudendo troppe imprese) di un impoverimento per grandi masse e anche di rotture serie della compagine nazionali: i ricchi e i poveri, il legame tra le generazioni, il rapporto non solo economico ma di solidarietà e di cittadinanza tra l’Italia padana e il Mezzogiorno. Credo che così si spiega l’accumulo di divisioni, di sfiducia, perfino di disprezzo di tutti contro tutti.
Eppure in questo quadro italiano c’è qualcosa che allude a un’alba. Sono le nuove soggettività. È il bisogno dirompente di cambiamento e di moralità che abbiamo sentito anche nei discorsi dei nuovi presidenti delle Camere. Io aggiungo il fatto che la crisi non riguarda solo noi e può quindi creare uno spazio nuovo che le forze del cambiamento se vogliono e se alzano il loro sguardo possono occupare. Sono sempre più convinto che la politica dovrebbe parlare qualche volta anche di questo: del fatto che siamo arrivati a un «tornante» della storia, a un tramonto dell’ordine economico e culturale (il cosiddetto «pensiero unico» liberista) finora dominante.
Anche l’elezione del nuovo Papa ci dice che si è aperta a livello mondiale una enorme questione sociale. Ed è questa che sta provocando fenomeni inusitati di ribellione anche morale. Gli uomini, ma soprattutto i giovani, sentono sia pure confusamente, che il «sistema» chiude i loro orizzonti e spegne le speranze delle loro vite, per cui si fa strada l’idea che il mondo non può essere governato da una ristretta oligarchia finanziaria, la quale è più potente di qualsiasi Stato. Il denaro prodotto col denaro, questa enorme «rendita» moderna che si mangia l’economia reale non va bene. Il risultato è un mondo coperto di debiti che tocca ai poveri pagare riducendo le loro pensioni e finendo in mezzo alla strada. È davvero una insopportabile vergogna.
Di qui l’enorme bisogno di cambiamento. Però io aggiungo cambiamento vero, non solo «facce nuove» nè quel tipo di «rottamazione» che è fuga dalla storia e dalla coscienza critica di essa. Non bisogna avere paura di andare controcorrente e dire la verità. La verità è che il cambiamento non è ostacolato dall’esistenza dei partiti politici ma dal fatto che la gran parte delle classi dirigenti italiane è così cinica che pur di fare gli affari suoi ha scambiato Berlusconi per uno statista, (e continua). Ed è così sciocca da non capire che senza una idea nuova dell’Italia, dalle sue debolezze come del suo grande passato non si può fare nessuna svolta verso il futuro.
E io credo che in qualche misura questo discorso vale anche per la sinistra. Siamo in forte ritardo, rispetto alle cose, perdiamo consenso tra i giovani e tra gli operai. Questa è la cosa amara che ci hanno detto le elezioni. Ma è anche per queste ragioni che la decisione del Conclave mi fa esultare. Hanno eletto Papa un vescovo argentino che si è dato il nome di Francesco d’Assisi, il Santo dei poveri. Questo si che è una grande notizia. Un centinaio di anziani cardinali per mezzo di vetuste liturgie ci hanno dato una lezione. Hanno dato una risposta alla crisi della Chiesa, non negando gli aspetti più contingenti di essa (la pedofilia, i complotti della Curia, ecc.) ma andando, con un colpo d’ala, alla sostanza del rinnovamento: la necessità di riscoprire il «cristiano». Ciò che è la grandezza del cattolicesimo. Il Dio che si fa uomo, che scende in terra e guida il cammino spirituale degli uomini ma stando nella storia. Quindi immergersi nella vita di oggi, nelle ingiustizie e nelle sofferenze della gente povera. Ripartire dalla fratellanza. Camminare insieme.
È chiaro. Noi siamo una cosa completamente diversa ma io vedo una analogia. Noi parliamo troppo di politica ai politici con la «lingua di legno» della politica. Non parliamo abbastanza alla gente delle cose e dei loro sentimenti, di ciò che sta letteralmente sconvolgendo le loro vite. Ci rendiamo conto delle ingiustizie del mondo di oggi? Tanto più insopportabili perché questo non è più il mondo dei servi e dell’ottuso contadiname analfabeta di una volta. E il mondo di giovani acculturati e informati ma privati del futuro.
Vorrei però chiarire bene il senso di queste mie parole. Io non sto fuggendo dalla dura realtà in nome di astratti ideali. Io parto da una analisi (forse sbagliata) ma concreta, «materiale», «strutturale» secondo la quale siamo in presenza non di una crisi ciclica ma della crisi del «meccanismo di accumulazione». Questa mi sembra la novità. Il sistema non solo è ingiusto ma non funziona. L’economia a dominanza finanziaria si è separata troppo dalla società. Il predominio della rendita finanziaria e la gravità degli squilibri alimentati dalle logiche speculative di breve periodo stanno distruggendo quel «valore aggiunto» che in definitiva è prodotto dal lavoro e dalla creatività umana. In ciò io vedo non solo la necessità ma la possibilità di una svolta che porti alla creazione di un nuovo rapporto tra l’economia e la società.
Un nuovo modello di crescita, il quale nasca non dalla buona volontà della Signora Merkel ma dalla capacità dell’iniziativa politica e delle strutture organizzate dalla democrazia di far leva su bisogni, capacità, contesti, patrimoni storici e culturali. Insomma, camminare di più (anche noi) insieme e accanto alla società italiana.
Per riformarla.

L’Unità 19.03.13