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Un’altra follia europea che minaccia tutti i risparmiatori", di Ronny Mazzocchi

La vicenda che sta coinvolgendo Cipro e che ha gettato nel panico le Borse di tutto il continente è solamente l’ennesimo tassello di una gestione della crisi da parte delle istituzioni europee che sarebbe riduttivo definire disastrosa. Dopo Grecia, Portogallo e Irlanda, è la piccola isola del Mediterraneo la nuova stazione di questa Via Crucis europea che appare senza fine. La crisi cipriota presenta molte analogie con quelle già viste a Madrid e Dublino: un indebitamento pubblico ben al di sotto della media europea (il 48,6% nel 2008), ma un settore bancario ipertrofico che – attirando capitali dall’estero grazie all’applicazione di tassazioni di favore – era arrivato a valere oltre cinque volte il Pil nazionale. Trovare un impiego produttivo per una mole così spropositata di denaro era diventata una missione praticamente impossibile, e gli istituti di credito ciprioti avevano quindi dirottato larga parte di questa ricchezza verso l’acquisti di titoli e obbligazioni di paesi esteri – in particolare verso la Grecia – rimanendo però pesantemente invischiati nel tracollo di Atene.
Da lì è incominciato il dramma di Nicosia che ha avuto il suo epilogo nella decisione presa l’altro giorno di avviare piano di salvataggio per il paese. Il prelievo forzoso sui depositi bancari era sul tavolo dell’Ue da oltre un mese, ma pochi credevano che l’Eurogruppo lo avrebbe davvero messo in pratica. Esso sembrava più che altro una minaccia per convincere il governo cipriota a privatizzare le organizzazioni semi-governative e alzare la bassissima tassazione sugli utili societari. Invece alla fine l’Europa ha deciso di dare il via a questa ennesima follia, con la convinzione che Cipro, per le sue ridotte dimensioni e la sua sostanziale irrilevanza nel quadro economico europeo, non avrebbe causato nessun fenomeno di contagio nella zona euro. A giudicare dalle prime reazioni di ieri c’è da ipotizzare che i mercati non abbiano però le stesse certezze. Dopotutto se passa l’idea che è possibile mettere le mani nei conti correnti dei privati cittadini appare verosimile credere che i correntisti delle banche dei Paesi più in difficoltà decidano di cautelarsi e ritirare i propri risparmi, mettendoli in salvo dai futuribili raid dell’Eurogruppo. Se ciò accadesse, gli istituti di credito soffrirebbero di una immediata crisi di liquidità che ne minerebbe le già fragilissime fondamenta. A questo si aggiungerebbe una massiccia fuga dei capitali dai paesi a rischio a quelli più sicuri, con effetti nefasti sui rendimenti dei titoli pubblici e privati. Il miracoloso meccanismo messo in piedi con grande abilità da Mario Draghi negli ultimi mesi, che ha garantito un periodo di relativa quiete ai mercati finanziari, rischia di saltare facendoci ripiombare nel panico di un anno e mezzo fa. Finora la Bce è riuscita a convincere i mercati che all’interno dell’unione monetaria tutto sia sotto controllo promettendo un intervento a sostegno dell’euro «costi quel che costi». Se però la situazione dovesse precipitare e i mercati volessero andare a verificare le effettive intenzioni dell’istituto di emissione, si aprirebbe un nuovo braccio di ferro all’interno del direttorio dell’Eurotower.
È assai probabile, infatti, che i nuovi interventi a sostegno dei titoli pubblici dei vari Paesi non siano gratis, ma vengano sottoposti a condizionalità, ovvero al rispetto di nuovi impegni sul fronte dei conti pubblici, della flessibilizzazione dei mercati del lavoro e del taglio dello stato sociale. È chiaro che ritrovarsi in una situazione di questo tipo senza un governo nel pieno delle sue funzioni rischia di indebolire non poco il nostro Paese. Non tanto nei confronti dei mercati, che ormai hanno più volte dimostrato di non credere più ai fantasmagorici piani di austerità partoriti a Bruxelles e di preferire – al contrario – progetti capaci di restituire rapidamente slancio e vigore alle economie europee. Il vero problema sarà piuttosto quello di avere la forza politica di presentarsi al tavolo delle trattative con un ventaglio di alternative capaci di contrattare per il nostro paese una soluzione equa e non penalizzante per l’interesse nazionale e il per il benessere dei cittadini.
È francamente difficile credere che questo compito possa essere assolto da un governo dimissionario, uscito sfiduciato dalle urne e con un presidente del Consiglio ormai impegnato quasi a tempo pieno per garantirsi un futuro politico, finora con scarse fortune. «Fare presto» questa volta è un imperativo che vale molto più di qualche punto di spread.

L’Unità 19.03.13

"Alle medie test d’ingresso per meritarsi il liceo", di Corrado Zunino

I test d’ingresso, che in alcuni casi preludono a un vero e proprio numero chiuso, entrano nelle scuole medie. Alcuni licei, linguistici, istituti tecnici, convitti hanno fissato diverse prove tra gennaio e febbraio (scorsi). Sono scritti di matematica e italiano, inglese e tedesco, di logica e di musica destinati a chi sta frequentando la terza media e con largo anticipo ha già scelto la scuola dove approdare.
I RISULTATI di questi test serviranno a presidi e rettori delle superiori per fare selezione basandosi sui meriti, le conoscenze e le attitudini. Il test “in età dell’obbligo” è un inedito pericoloso per la scuola pubblica italiana.
L’ultimo annuncio è arrivato dall’Istituto tecnico (e liceo delle scienze applicate) Fermi di Mantova. La preside Cristina Bonaglia, verificata la forte crescita delle iscrizioni on line, ha annunciato: «Siamo oltre i trenta alunni per ognuna delle nostre sei prime, troppi. Faremo come all’università: prova d’ammissione e numero chiuso. Useremo il criterio della meritocrazia, come ha già deciso il consiglio d’istituto. Invito i genitori a non allarmarsi». Con una circolare, la dirigente del provveditorato provinciale ha chiesto alle famiglie “in eccedenza” di accettare lo spostamento del figlio all’istituto indicato come seconda scelta. A Mantova, però, anche nel pari grado Belfiore le richieste d’iscrizione sono in crescita e il numero delle aule sempre fermo.
Come per l’università, il test per le scuole superiori nasce per esigenze di sopravvivenza — poche classi, troppi alunni —, ma rischia di diventare una discriminazione per quattordicenni in piena evoluzione. Il liceo europeo Altiero Spinelli di Torino propone il test dal 2007. La struttura ha introdotto addirittura la prova selezionante per le medie: in quinta elementare, chi vuole entrare allo Spinelli, si deve sottoporre a test. Deve conoscere pronomi personali e aggettivi possessivi in almeno due lingue straniere, a dieci anni. La preside Carola Garosci ne parla con rammarico: «Il test setaccio non ci piace per niente, ma dobbiamo farlo. Da anni chiediamo più spazio alla Provincia, condividiamo il palazzo con altre due scuole. L’ultima risposta è stata una circolare: non abbiamo la possibilità di dare a voi né ad altri nuove aule. Con cinque classi e trecento richieste dovremmo stipare sessanta ragazzi per classe e allora abbiamo optato per le prove annunciate sei mesi prima dell’iscrizione. Chi non passa, e quest’anno sono stati centosettanta, farà in tempo a provare altrove.
I test si basano sulle competenze dei ragazzi, da noi contano le lingue straniere. Altre scuole, raggiunto il quorum degli studenti ospitabili, lasciano a casa tutti gli altri, a primavera inoltrata. Noi, almeno, diamo un criterio e una logica alla nostra selezione». La logica del merito in età adolescenziale. La prova di ingresso non determina solo una graduatoria per l’ammissione, ma, si legge nel-l’offerta formativa della scuola, «fornisce uno strumento per la formazione delle classi». Intelligenze omogenee tutte insieme.
Anche il convitto Umberto I, sempre a Torino, ha organizzato il test d’ingresso a gennaio, «per motivare maggiormente i futuri alunni del liceo». La griglia di correzione consentirà di valutare, testuale dal sito: la capacità di attenersi alle consegne e di concentrazione, la velocità, la conoscenza della lingua italiana e dei rudimenti di quella inglese, le conoscenze logicomatematiche, le capacità di organizzazione del lavoro. Tolti di mezzo i non abili, i primi giorni dei quattordicenni prescelti serviranno a «sdrammatizzare il passaggio dalla scuola media alla scuola superiore allentando la tensione». Il convitto nazionale di Roma, Vittorio Emanuele II, seleziona con i test. Fra le materie da studiare c’è il cinese e, qui, le attitudini sono necessarie. Così come sono necessarie le inclinazioni per entrare in un liceo musicale, l’unico per il quale il test d’ingresso è previsto da una legge nazionale.
Carmela Palumbo, direttore generale del ministero dell’Istruzione, dice: «I test d’accesso per scremare sono discutibili, ma per ora limitati. Nelle circolari diffuse abbiamo chiesto ai consigli d’istituto di non selezionare sotto il profilo meritocratico, in una scuola e in una classe ci devono essere tutti i livelli di conoscenza». Alcune scuole (liceo classico D’Azeglio di Torino) affidano l’ingresso in aula degli alunni a un sorteggio. Altre (liceo Virgilio di Roma, sezione internazionale) usano i voti delle scuole medie. Gianna Fracassi, segretaria nazionale della Cgil scuola, attacca: «Siamo pronti a denunciare le scuole che allestiscono test d’ingresso per le prime superiori. Siamo in piena scuola dell’obbligo e ogni criterio meritocratico, qui, è solo un danno per gli alunni».

La Repubblica 19.03.13

"La cittadina e la strega", di Massimo Gramellini

Gentile cittadina Gessica Rostellato, ho letto su Facebook il racconto in prima persona del suo atto di eroismo. Era una notte buia e tempestosa, e lei stava lasciando l’antro di Montecitorio in compagnia di alcuni valorosi concittadini a Cinquestelle, quand’ecco profilarsi sull’uscio un’ombra terrificante: Rosy Bindi. La fattucchiera democratica, che a causa di un incantesimo del mago Porcellum è condannata a non staccarsi mai dalla sua poltrona. La strega Casta ha sorriso, falsamente benevola: «Ma presentiamoci, così cominciamo a conoscerci!». Poi vi ha teso una mano, mentre con l’altra armeggiava nella borsa per estrarne il fluido che vi avrebbe trasformato in seguaci di Mastella. Qualche ingenuo concittadino ha ricambiato il saluto: di lui si sono perse le tracce. Pare lo abbiano visto in una stalla del Pd inneggiare alla santità di D’Alema e al raddoppio del numero dei parlamentari. Ma lei, Gessica, no. Lei ha tirato dritto e se n’è andata, perché – lo ha scritto orgogliosamente – «ti pare che io ti do la mano e ti dico pure piacere? No, guarda, forse non hai capito, non è un piacere!».

Così si fa. Meglio sembrare maleducati che essere falsi come loro. Perché, diciamola tutta, se un politico tende la mano a un cittadino è solo perché intende sfilargli l’orologio. Nessuna intelligenza con il nemico. Da sempre i cambi di regime non si realizzano con il dialogo ma con la ghigliottina, nei casi meno violenti con il disprezzo. Un dubbio però mi assale, cittadina: e se fosse proprio per questo che le rivoluzioni non hanno mai cambiato la natura del potere, ma solo il volto del suo (provvisorio) detentore?

"La democrazia dell’anatema", di Nadia Urbinati

Molti cittadini hanno espresso il loro disappunto per l’anatema lanciato da Beppe Grillo contro i “traditori” che in Senato non se la sono sentita di considerare Schifani e Grasso equivalenti. Quei cittadini hanno messo il dito nella piaga di un movimento che crede che la democrazia implichi unanimità (salvo poi praticare la regola di maggioranza quando deve espellere i traditori!).
E hanno messo in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche libertà di decisione di chi siede in Parlamento. Come sanno bene i partiti, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. E le espulsioni dal partito non si traducono in decadenza del mandato parlamentare. La nostra libertà come cittadini dipende da questa intraducibilità, e cioè dalla libertà dei nostri rappresentanti. Nel libero mandato sta la forza della democrazia elettorale. Senza il quale i deputati sarebbero dipendenti al servizio di un padrone che sta al di sopra dell’interesse generale.
Ha colto nel segno quel blogger che ha scritto, rivolgendosi a Grillo e alla sua minaccia di espellere chi ha votato Grasso, queste parole: “E voi sareste contro la partitocrazia? Ma è proprio questo! Limitare la libertà di scelta perché fa comodo al partito. Siete peggio dei peggiori partiti della prima repubblica. Viva la libertà di pensiero. Viva i cittadini che hanno scelto di dire no al padrone del partito. Così hanno reso un servizio alla
gente”.
La libertà dei rappresentanti si incontra con quella dei cittadini e,
se la prima viene meno, anche la seconda è violata. Il mandato libero, ripetiamolo a chi ne ha dato una definizione distorta e sbagliatissima, non serve a dare all’eletto la libertà di saltare i fossi e passare da uno schieramento a un altro — se questo avviene, non si deve concludere che la norma è sbagliata. Ad essere “sbagliato” – nel senso di eticamente riprovevole – è il comportamento del deputato. Ma meglio rischiare queste violazioni (e, se necessario, lasciare che la legge le punisca se il salto è stato pagato con moneta sonante) che volere una violazione fatale: quella che ci sarebbe se non ci fosse mandato libero.
La libertà di essere responsabili di fronte ai cittadini significa anche rendersi conto chi siede in Parlamento è come un pezzettino del popolo sovrano e che, quando si trova a dover decidere su questioni istituzionali, dovrebbe ragionare mettendosi dal punto di vista dell’interesse generale, ovvero del “come se” al suo posso ci fosse il popolo tutto. Un processo che potrebbe sembrare astratto, ma non lo è perché tutti noi siamo capaci di ragionare mettendoci dal punto di vista degli altri, anzi di tutti. Questa visione larga del giudizio politico che ci consente di pensare a noi come parte di un tutto grande è alla base della nostra capacità di cittadinanza. Il parlamentare si identifica certamente con una bandiera ma sa che perfino mettendosi dal suo punto di vista può riuscire a vedere il tutto, il generale. Un po’ come avviene con la prospettiva pittorica: certo, diversi punti di vista ci danno diverse visioni dello stesso luogo. Diverse idee politiche, anche opposte, ci portano a vedere una stessa cosa da diverse angolature e però sappiamo che si tratta della stessa cosa. Il disonesto non diventa onesto se visto da una diversa prospettiva. E quando si impongono scelte istituzionali (come quelle che portano all’elezione dei presidenti di Camera e Senato), scelte che dovrebbero interrogare proprio quel giudizio largo sull’interesse generale, questo lo si vede con facilità… a meno che l’identità di partito non faccia ombra al giudizio. È questo che Grillo si ostina a chiedere ai suoi che siedono in Parlamento.
Ed è questo che ha fatto il gruppo dei montiani, del quale desta particolare stupore la decisione di votare scheda bianca. Poiché la filosofia nel nome della quale è nata la lista montiana è la competenza e l’oggettività, la dirittura morale e l’onestà, contro le ideologie di destra e di sinistra. E quindi ci si sarebbe aspettati che non decidessero per ideologia, come hanno invece fatto votando scheda bianca. La similitudine di M5S e montiani è sorprendente: si sono entrambi candidati appellandosi all’antipolitica contro i partiti (nel nome della totale trasparenza, sia essa della moralità o della verità) ed entrambi si sono comportanti come i partiti, anzi i peggiori dei partiti: con ideologia e per disciplina di partito.

La Repubblica 19.03.13

Democrazia, moralità e trasparenza della vita pubblica. Misure per la riduzione dei costi della politica e della burocrazia

I costi eccessivi di politica e burocrazia sono da tempo denunciati, sia nella dimensione del fenomeno che nei suoi dati numerici. La riduzione di tali costi ha un significato non solo economico di riduzione della spesa pubblica, ma anche sociale e morale, di abbattimento di ingiustificati privilegi e di ripristino di una vera parità tra governanti e governati.
Occorre intervenire in parte con legge costituzionale e in parte con legge ordinaria (o decreto legge).

A) LA NOSTRA PROPOSTA SUL FINANZIAMENTO E LA DEMOCRAZIA DEI PARTITI E DEI MOVIMENTI POLITICI

La politica è un bene comune che non può essere lasciato solo nelle mani dei miliardari o dei padroni dei mezzi di comunicazione di massa.
Per questa ragione in Europa esistono forme di finanziamento pubblico attraverso le quali i cittadini, anche meno abbienti, possono partecipare alla vita politica del Paese.
L’attuale sistema di finanziamento della vita politica nazionale è però caratterizzato da incongruenze e opacità tali da giustificare le critiche che l’opinione pubblica rivolge in modo sempre più acuto e crescente.
Dunque è opportuno intervenire, tenendo insieme il tema del finanziamento della vita politica e quello di una legge che regoli la vita interna dei partiti e dei movimenti politici.
Più in particolare, noi proponiamo di lasciare ai cittadini la scelta se finanziare o no i partiti e i movimenti politici. Siamo cioè pronti a superare il finanziamento pubblico e a prevedere un sistema di piccole contribuzioni private di carattere liberale e volontario assistite da parziali detrazioni fiscali.
Nello stesso tempo, siamo pronti a votare un provvedimento che sospenda da subito il flusso dei finanziamenti per il tempo necessario, secondo scadenze da concordare, ad approvare una legge sui partiti e sui movimenti politici che dia piena attuazione all’articolo 49 della Costituzione. Cioè una legge che fissi le regole per la formazione degli organismi dirigenti, i codici etici, la trasparenza per l’accesso alle candidature e le regole per il finanziamento.
Per rendere effettiva questa nuova disciplina sarà necessario anche rafforzare il regime dei controlli sui bilanci e il grado di trasparenza della gestione finanziaria dei partiti, prevedendo la pubblicazione online dei documenti contabili e dei redditi e della situazione patrimoniale dei leader dei partiti e dei movimenti politici, in base al principio che la vita pubblica e la responsabilità che ne consegue devono essere assolutamente visibili per ogni cittadino.

B) LEGGE SUI PARTITI: DEMOCRAZIA INTERNA, CODICE ETICO, ORGANISMI E PARTECIPAZIONE

In materia di partiti politici sono urgenti due interventi, attuabili con legge ordinaria o decreto legge.

Occorre anzitutto disciplinare, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, i principi di democrazia interna di partiti e movimenti politici, prevedendo un onere di adozione di atti costitutivi e statuti rispettosi di tali principi, quale condizione per l’accesso alle competizioni elettorali, alle campagne referendarie, ai finanziamenti pubblici e privati e agli altri benefici pubblici previsti dalle leggi vigenti.

Occorre coerentemente prevedere un organo neutrale e super partes preposto al controllo di atti costitutivi e statuti.

Si può ipotizzare, sulla falsariga del modello Commissione per la trasparenza dei rendiconti dei partiti politici, introdotta dall’art. 9, l. n. 96 del 2012, una Commissione composta di cinque magistrati delle giurisdizioni superiori (tre della Corte di cassazione, un consigliere di Stato e un consigliere della Corte dei conti), con sede presso la Corte di cassazione, che effettui il controllo con un procedimento accelerato. La Commissione non percepirebbe alcun compenso o indennità. Andrebbe anche previsto il regime di tutela giurisdizionale contro gli atti di controllo di tale Commissione.

C) RIFORMA ISTITUZIONALE

1) Riduzione numero parlamentari: sono 945, troppi per poter garantire la qualità del dibattito e delle decisioni: ci impegniamo a ridurli: da 630 a 300 deputati e da 315 a 150 senatori elettivi, da 5 a 2 i senatori a vita nominabili da ciascun Presidente della Repubblica

2) Manca un Senato delle Regioni e delle autonomie, riforma necessaria per far funzionare il federalismo: il Senato della Repubblica diventa il Senato delle Regioni e delle Autonomie. I senatori sono eletti contestualmente alla elezione dei Consigli regionali e decadono in caso di scioglimento anticipato del C.R. della loro regione. Per la prima elezione sono eletti insieme alla Camera e decadono al momento delle prime elezioni regionali generali. Il Senato ha il compito di tenere il raccordo tra Stato, Regioni e Autonomie Locali.

D) COSTI DELLA POLITICA E DELLA BUROCRAZIA: STIPENDIO PARLAMENTARE E DEGLI AMMINISTRATORI REGIONALI PARI AL SINDACO CAPOLUOGO. DISBOSCAMENTO SOCIETÀ ED ENTI PARTECIPATE. RIVISTAZIONE DEI BENEFIT DELLE CARICHE ISTITUZIONALI A OGNI LIVELLO

Occorre intervenire in parte con legge costituzionale e in parte con legge ordinaria (decreto legge).

Alcuni interventi con legge costituzionale sono semplici e rapidamente attuabili se si raggiunge il necessario consenso politico e dunque la maggioranza qualificata richiesta per le leggi costituzionali.
In particolare è possibile:

1) Abolire le Province dalla Costituzione.

2) Ridurre il numero dei Comuni; i Comuni italiani sono attualmente 8.092, di cui oltre 3.000 con meno di cinquemila abitanti; ogni tentativo fatto con legge ordinaria per incentivare la fusione di Comuni è sinora fallito; si può fissare in Costituzione un numero massimo di Comuni fissando un procedimento imperativo per la fusione o incorporazione dei Comuni minori.

3) Quanto agli interventi con legge ordinaria essi attengono alla riduzione del trattamento economico dei parlamentari e dei consiglieri regionali, dei titolari di cariche di governo, dei membri delle Autorità indipendenti, dei Presidenti degli enti pubblici, della dirigenza pubblica, del personale delle Camere, degli amministratori e dirigenti delle società pubbliche, ivi comprese le quotate, nonché sul trattamento economico dei consulenti degli organi costituzionali.
Si può razionalizzare e portare a ulteriore sviluppo il percorso già avviato durante la pregressa legislatura, che ha fissato un tetto massimo dei trattamenti economici erogati da pubbliche amministrazioni, con il parametro dello stipendio annuo lordo onnicomprensivo del primo presidente della Corte di cassazione (attualmente circa 302.000 euro), escludendone però le società pubbliche quotate in borsa.

Esemplificando in generale, la legge potrebbe stabilire che il trattamento annuo lordo onnicomprensivo del parlamentare non sia superiore al 50%-60% del trattamento complessivo annuo lordo del primo presidente della Corte di cassazione, fissando un importo netto comparabile con quello di un sindaco di un comune capoluogo.

4) Per quanto riguarda i compensi per incarichi professionali (conferiti in ambito ministeriale, etc.), va razionalizzato il sistema introdotto dal Governo Monti, vale a dire il tetto del 25% rispetto allo stipendio base del percettore.

Infatti a legislazione vigente tale tetto riguarda solo gli incarichi direttivi, e solo presso amministrazioni statali (dunque non tocca gli incarichi di consigliere giuridico presso ministeri, o gli incarichi di capo di gabinetto o consigliere giuridico presso enti non statali); il sistema va generalizzato.

Tutte le misure dei trattamenti economici sono da intendere come tetti massimi e dunque non comportano incrementi dei trattamenti in godimento.

Altre misure per la riduzione dei costi della burocrazia non afferiscono ai trattamenti economici e sono le seguenti:

a) possibile riduzione del numero massimo vigente dei componenti del governo (oggi 65);

b) interventi sulle società pubbliche, quanto: (i) al controllo interno di gestione; (ii) all’assoggettamento dei dipendenti allo statuto del pubblico impiego (t.u. n. 165/2001), ivi compreso il reclutamento mediante concorso pubblico; (iii) alla previsione di criteri concorsuali, trasparenti, e secondo requisiti di professionalità, per la nomina degli amministratori; (iv) all’impulso per l’attuazione delle riforme già approvate, per la liquidazione delle società pubbliche inutili; (v) se del caso, ma il tema richiede approfondimento, rigorosa delimitazione con legge della possibilità di utilizzo del modello società mista pubblico-privato, che è spesso fonte di inefficienze e fenomeni corruttivi, e di sottrazione di quote di mercato alla concorrenza.

c) intervento soppressivo di enti locali diversi dai Comuni, quali le comunità montane.

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Il ragazzo ama il latino (ed è subito polemica), di Stefano Bartezzaghi

“Il latino non serve”. Ad affermarlo non è stato Papa Francesco, giovedì scorso, quando ha deciso di pronunciare in italiano la sua prima omelia (Ratzinger l’aveva tenuta in latino, e aveva detto messa voltato verso l’altare). La recisa opinione è stata invece espressa lo scorso sabato, in una lettera che il lettore Giuseppe Chiassarini ha inviato a Repubblica. Il figlio non aveva avuto le ore di latino previste per quel giorno, e se ne era dispiaciuto perché il «latino è cultura». Il padre si è dichiarato preda di «una grande tristezza e anche di una certa rabbia. La classe politica che per decenni ha lasciato che tanti nostri figli impegnassero molte energie per imparare una lingua morta e, peggio, che ha inculcato in loro l’idea che questa lingua morta fosse importante, è una classe politica a sua volta morta». Certamente la pensa diversamente Giovanna Chini, la giornalista dell’Ansa che unica fra i colleghi ha capito subito cosa stesse succedendo quando Benedetto XVI annunciava, in latino, le proprie dimissioni. Chirri è diventata una specie di star internazionale e alla Bbc si chiedono quanto morta sia una lingua in cui vengono ancora pronunciate parole capaci di cambiare la storia.
Procura intanto un certo compiacimento appurare come nel corso di una sola generazione (nel senso proprio della parola) le parti si siano rovesciate. Ancora negli anni Settanta, quando si può presumere che l’autore della lettera fosse lui in età scolare o pochi anni prima, il latino si studiava anche alle scuole medie inferiori: obbligatorio al secondo anno, facoltativo al terzo, per chi non prevedeva di andare al liceo. I neotredicenni passavano l’estate intermedia fra i due anni scolastici a cercare di convincere i genitori che il latino è una lingua morta e non serve. I genitori ribattevano con argomenti che oggi si rileggono nelle molte lettere di risposta a Chiassarini giunte già lo stesso sabato alla redazione di Repubblica: che il latino è «la base di tutto», che dà la «forma mentis», che permette di intuire le etimologie e che il nostro italiano non è che un suo dialetto, assieme alle lingue consorelle. Tutte cose sacrosante; tutti argomenti remotissimi dall’orizzonte di un ragazzo di dodici anni. Solo pochi genitori scaltri sorprendevano i figli dicendo loro: «Hai ragione, il latino non serve assolutamente a nulla. Però è bellissimo».
A quell’epoca, peraltro, si era ben lontani dall’attuale società, che mangia pane e inglese, googleggia a manetta, viaggia alla velocità delle fibre ottiche e tutto il resto: ai ragazzi non restava che rinunciare al loro primo serio tentativo di opposizione ai vincoli scolastici, e rassegnarsi a godere delle dubbie gioie della perifrastica attiva e passiva. Cosa ha potuto produrre questa inversione dei punti di vista?
C’è purtroppo da immaginare che, in realtà, il Chiassarini giovane abbia espresso opinioni non condivise da troppi suoi coetanei (molti e sentiti complimenti alla sua professoressa o professore). Ma quello che rende volgare (in senso tecnico) la contrapposta opinione del padre non è l’avere tenuto in poca considerazione la residua utilità del latino: è proprio la concezione delle materie scolastiche come strumenti utilitari, un’attrezzeria tecnica che a scuola ci viene consegnata perché «ci servirà» nella vita. L’inglesuccio che serve a usare il computer lo si impara facilmente usando appunto il computer; il latino si può imparare solo a scuola e morirà davvero solo il giorno in cui nessuna scuola lo insegnerà più. L’idea di quantificarne l’utilità è gemella all’idea di depurare i bilanci pubblici dagli investimenti per la cultura e dal sostegno a tutte quelle attività che l’economo considera improduttive e «senza ritorno». Certo, che non c’è ritorno! La cultura è infatti un viaggio di sola andata; l’unico modo per tornare indietro è abrogarla.
Un giorno un commissario leggerà i programmi scolastici con un paio di affilate forbici: quella sera a essere fatto a coriandoli non sarà il solo latino. La storia, non è forse “morta” per sua stessa definizione? E la filosofia? E a cosa serve la matematica, a un futuro avvocato o ortopedico? A cosa servono le lezioni di inglese, quando si sa che l’inglese lo si impara solo sul posto? La verità è che la scuola è utile né inutile: è a-utile, un’industria no-profit (la pubblica) di trasmissione del sapere in cui comunità di due generazioni diverse si scambiano insegnamenti e aggiornamenti su cosa implichi e cosa significhi essere italiani oggi. Che la scuola sia in crisi lo dimostrano i risultati elettorali, il tono e la logica del dibattito pubblico, la carenza di sentimento nazionale, la diffusione epidemica di quella malattia dell’intelligenza che si chiama furbizia.
Essere italiani oggi significa anche (e tristemente) legare immediatamente ogni scontentezza a responsabilità della «classe politica che per decenni» eccetera. Il nesso che il lettore trova fra il latino come «lingua morta» e «la classe politica a sua volta morta» non può che ricordare Beppe Grillo e il linguaggio del Movimento Cinque Stelle. È infatti Grillo ad avere introdotto la categoria terminale della “morte” nello scontro politico, riprendendo peraltro l’immagine degli zombie da maestri dell’ antipolitica come Umberto Bossi e il Francesco Cossiga delle esternazioni.
Il furore contro il passato non ha nulla a che vedere con alcun tentativo di miglioramento del presente. Se il futuro sarà migliore del presente, a renderlo tale forse non sarà qualcuno che ha studiato latino, ma certamente sarà qualcuno che a scuola ha trovato ragioni di amore verso lo studio. Perché l’amore per lo studio, quello non passa: e serve, eccome se serve.
Visto che a buttarla in politica è stato il lettore, corre l’obbligo di ricordare che Silvio Berlusconi ha sempre formato i suoi attivisti (quelli del marketing delle sue aziende, ancor prima di quelli politici) dando loro un’istruzione fondamentale: «l’italiano di ogni età, il nostro potenziale cliente è uno scolaro delle medie inferiori, e non siede neppure nei primi banchi». Ecco. Suo figlio, signor Chiassarini, anche grazie al suo latinorum si avvia a uscire dall’incantamento di un’ideologia semplice e più attraente del Paese dei Balocchi, che esorta a odiare la noia, l’insofferenza, l’indignazione spicciola, l’egoismo totalitario, l’attenzione esclusiva per il proprio tornaconto, l’intolleranza verso ogni ostacolo che impedisce il soddisfacimento immediato delle proprie pulsioni. Le dispiace così tanto?
Oggi Grillo ha problemi di quorum, Berlusconi invoca la legittima suspicione, esistono studenti dodicenni che amano studiare. Morti non siamo: tutt’altro.

da “La Repubblica”, 18 marzo 2013

Stop al conflitto di interessi. Restituiamo moralità alla politica

La legge sul conflitto di interessi è al primo punto della nostra azione di governo. Le nuove regole sul conflitto di interessi riguarderanno non solo le cariche di governo, come è oggi, ma anche quelle di Regioni, enti locali e autorità indipendenti. Vogliamo abrogare la legge attuale e riscriverla rafforzando i controlli per l’accertamento del conflitto di interessi e introducendo sanzioni più severe per chi la viola.
La nostra proposta
La politica deve reggersi su un rapporto di fiducia tra cittadini e responsabili politici e occorre cancellare tutte le situazioni nelle quali questo rapporto di fiducia potrebbe venire meno. Si pone perciò il problema di prevenire il conflitto o gli intrecci tra gli interessi privati di queste personalità e gli interessi pubblici che essi devono perseguire.

Il centrodestra nel 2004 ha approvato una legge sul conflitto di interessi (la cosiddetta legge Frattini) che, per espressa ripetuta dichiarazione dell’ autorità Antitrust (delegata alla sua applicazione) è del tutto inefficace. Quella legge va sostituita con misure più efficaci che si pongono nel solco del dibattito avutosi nella legislatura appena conclusa e che si ispirano all’impianto complessivo del testo approvato dalla I Commissione della Camera dei deputati l’11 maggio 2007 (http://www.senato.it/leg/15/BGT/Schede/Ddliter/26112.htm) e alla proposta Elia-Onida-Cheli-Bassanini e altri (www.astrid.eu/ASTRID-La-disciplina-del-conflitto-d-interessi.pdf).

Anzitutto occorre abrogare la cosiddetta «legge Frattini» del 20 luglio 2004 che disciplina il conflitto di interessi e dettare una disciplina diversa.

La legge Frattini infatti contiene una serie di criticità e inefficienze sia per quanto riguarda l’ambito soggettivo (circoscritto ai soli titolari di cariche di governo nello Stato), sia per quanto concerne l’ambito oggettivo (la qualità di socio di società concessionarie pubbliche, ad esempio, non è causa di conflitto di interesse) e i meccanismi per accertare e sanzionare i conflitti di interesse.In particolare, rispetto alla disciplina attualmente in vigore, si rende necessario:

a) ampliare il novero dei soggetti sottoposti alla disciplina, comprendendo non solo i titolari di cariche di governo, ma anche i presidenti e i componenti delle più rilevanti autorità indipendenti, i titolari di cariche nelle Regioni e enti locali, prevedendo anche per costoro gli stessi obblighi di condotta;termini una situazione di conflitto di interessi;

b) attribuire all’Autorità garante della concorrenza e del mercato una serie di poteri, strumenti e responsabilità per agire efficacemente contro le situazioni di conflitto, mentre la legge attualmente vigente dispone unicamente che l’Autorità, incaricata di una mera azione generale di sorveglianza, si limiti a “promuovere” le misure necessarie, non meglio specificate;

c) stabilire un diverso sistema valevole anche nei confronti della stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato, a cui parimenti si applica la disciplina qui introdotta; d) rendere il nuovo sistema di controllo e sanzione immediatamente applicabile anche alle cariche attualmente ricoperte.

e) estendere le situazioni di incompatibilità assoluta all’esercizio di cariche nel governo o nelle autorità indipendenti o nelle Regioni e enti locali (cosiddetta fase statica), comprendendo, a differenza della norma ora vigente, non solo le incompatibilità derivanti da attività di gestione in società aventi fini di lucro o in attività di rilievo imprenditoriale, ma anche la “mera proprietà” di impresa, di azioni o di quote di una società;

f) trasformare il concetto di conflitto di interesse (cosiddetta fase dinamica) in una situazione di pericolo che lo rende controllabile ancora prima che si verifichi una lesione concreta dell’imparzialità del titolare della carica;

g) costruire un sistema di controllo ex ante, introducendo istituti, quali le dichiarazioni preventive e i poteri istruttori in capo all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (in alternativa si può stabilire la competenza dell’Autorità nazionale anticorruzione), apprestati al fine di prevenire le situazioni di conflitto di interessi dei titolari di cariche di governo;

h) individuare le ipotesi che consentono l’eliminazione delle situazioni proprietarie che sono fonti di conflitto, imponendo, come strumenti alternativi per evitare la sanzione della decadenza, il mandato irrevocabile a vendere oppure il trasferimento della gestione a un terzo indipendente (il cosiddetto blind trust). Quest’ultima alternativa scatterebbe soltanto in talune ipotesi, quelle in cui il conflitto di interessi economici è di minore importanza e può essere rimediato con il trasferimento della gestione del patrimonio;

i) costruire un sistema di sanzioni ex post, introducendo istituti idonei a sanzionare, con estrema incisività e fino alla decadenza dalla carica, i casi in cui si registri la violazione delle disposizioni di prevenzione e si determini una situazione di conflitto di interessi;

j) attribuire all’Autorità garante della concorrenza e del mercato una serie di poteri, strumenti e responsabilità per agire efficacemente contro le situazioni di conflitto, mentre la legge attualmente vigente dispone unicamente che l’Autorità, incaricata di una mera azione generale di sorveglianza, si limiti a “promuovere” le misure necessarie, non meglio specificate;k) stabilire un diverso sistema valevole anche nei confronti della stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato, a cui parimenti si applica la disciplina qui introdotta;

l) rendere il nuovo sistema di controllo e sanzione immediatamente applicabile anche alle cariche attualmente ricoperte.

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