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L'economia verde per lo sviluppo sostenibile. 8 punti per un Governo di cambiamento

La green economy è il volano per uno sviluppo sostenibile ed ecocompatibile del Paese e può rappresentare una grande occasione per rilanciare l’occupazione (green jobs). Soltanto la green economy, inoltre, consente di coniugare, in una logica di solidarietà tra le generazioni, gli interventi di stimolo alla produzione ecosostenibile con la necessaria salvaguardia delle risorse ambientali del Paese.
Uno dei macrosettori della green economy sui quali concentrare le iniziative di un nuovo Governo di cambiamento è quello dell’energia, nel cui ambito è possibile indicare fin d’ora, in linea con le priorità individuate dalle istituzioni comunitarie con il programma Europa 2020 e intensificando l’impegno nella lotta contro i mutamenti climatici, alcune linee di azione che consentirebbero una partenza in tempi rapidi, anche attraverso il ricorso a sussidi finanziari nazionali e comunitari, e con un significativo e pressoché immediato ritorno stimato in termini occupazionali.

– Con riferimento all’ambiente le linee di intervento della futura azione di governo possono essere tracciate come segue.

Il recupero del territorio

Lotta a ogni condono. Sono stati presentati disegni di legge dal Partito Democratico alla fine dell’ultima legislatura per spingere e premiare da un punto di vista fiscale il recupero di aree dismesse e degradate al posto del consumo di aree agricole. Si devono rendere permanenti gli incentivi per la riqualificazione del patrimonio edilizio e l’efficienza energetica (le detrazioni del 55% che scadrebbero a giugno 2013).

Il percorso giuridico-amministrativo può essere tracciato come segue:

1) Approvazione delle “Linee Strategiche per l’adattamento ai cambiamenti climatici, la gestione sostenibile e la messa in sicurezza del territorio”, predisposte dal Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare, inviate al CIPE nel novembre 2012. Il piano prevede, tra l’altro: il divieto di abitare o lavorare nelle zone ad altissimo rischio idrogeologico, l’assicurazione obbligatoria per le costruzioni nelle zone a rischio di inondazione, limiti alle costruzioni nelle zone a rischio, il contenimento dell’uso del suolo, interventi di manutenzione dei corsi d’acqua e di difesa dei centri abitati, il recupero dei terreni abbandonati, la difesa dei boschi, la protezione delle coste e delle lagune esposte all’innalzamento del mare, la riattivazione dei Bacini idrografici.

2) Approvazione del disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo.

Bonifiche dei siti inquinati

Il territorio italiano è costellato di siti industriali cresciuti in numero e diffusione in funzione delle successive fasi di industrializzazione del secolo scorso. Oggi, la progressiva delocalizzazione e dismissione degli impianti dell’industria siderurgica, di quella chimica e della meccanica pesante hanno lasciato in eredità alle comunità locali ampie porzioni di territorio interessate da pesanti fenomeni di inquinamento e di deindustrializzazione.

Il recupero dei siti inquinati, soprattutto nelle aree metropolitane, accanto alle evidenti ricadute in termini di tutela della salute delle popolazioni e di salvaguardia ambientale, può favorire l’avvio di importanti iniziative imprenditoriali di carattere industriale o commerciale, soprattutto nei numerosi casi in cui tali aree siano localizzate in aree urbane strategiche. Inoltre contribuisce alla riduzione del consumo del suolo. In tale ambito andrà affrontata la bonifica dell’area ILVA di Taranto.

Il percorso giuridico-amministrativo può essere tracciato come segue:

1) rifinanziamento (mediante Fondi Cipe e Fondi Comunitari) del “Programma straordinario nazionale per il recupero economico produttivo di siti industriali inquinati”;

2) azioni immediate di tutela ambientale nei siti di interesse strategico nazionale di cui all’art. 1 del decreto legge 3 dicembre 2012, n. 207 convertito con modificazioni dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231 con l’approvazione di una norma che preveda di finanziare, attraverso il coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti s.p.a., gli interventi di bonifica dei siti in cui sono ubicati gli stabilimenti di interesse strategico nazionale, onde attuare le azioni di precauzione, prevenzione e ripristino che dovrà proporre il Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare a norma della parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, qualora l’impresa titolare dello stabilimento non adempia agli obblighi di tutela ambientale ivi prescritti. Si prevede altresì che le spese sostenute dallo Stato in relazione alle azioni in esame siano poste a carico dell’impresa titolare dello stabilimento, inadempiente, che dovrà provvedere alla restituzione degli importi anticipati nei termini e con le modalità previste da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri: laddove detti termini dovessero decorrere inutilmente e in caso di mancata restituzione delle spese sostenute, il Ministero dello sviluppo economico disporrà, d’ufficio, l’ammissione immediata dell’impresa titolare dello stabilimento all’amministrazione straordinaria;

3) sulla base dell’esperienza sviluppata per la bonifica del sito di Porto Marghera in seguito all’accordo di programma sottoscritto il 16.4.2012, promuovere la stipula di accordi di programma con il duplice obiettivo di:

a) accelerare e semplificare le procedure di bonifica dei siti di interesse strategico nazionale, fermo restando il pieno rispetto delle norme di salvaguardia ambientale, anche supportando le imprese nell’accesso al credito per la realizzazione degli interventi di bonifica;

b) favorire lo sviluppo di iniziative industriali nelle aree interessate dalla bonifica.

Ottimizzazione del ciclo dei rifiuti

Occorre trasformare i rifiuti da costo (per lo smaltimento) in risorsa economica (a fini di riutilizzo).

I rifiuti in tutto il mondo rappresentano oggi un’importante risorsa del mercato delle materie secondarie: il loro valore di scambio va adeguatamente promosso incentivando il loro recupero e soprattutto il loro riutilizzo, favorendo l’incontro tra domanda e offerta. Sono evidenti le ricadute in termini occupazionali, di riduzione dei costi di approvvigionamento per le imprese italiane (che comprano sul mercato delle materie secondarie), di tutela ambientale (stante il minor consumo di materie prime vergini) e di contrasto alla criminalità che lucra sulle attuali inefficienze del sistema di smaltimento.

Bisogna ridurre il più possibile il ricorso alla discarica (aumentando la tassazione) e agli inceneritori (dove si deve puntare a recuperare il calore attraverso impianti di teleriscaldamento, come sta avvenendo a Torino, dove si scaldano le case facendo risparmiare le famiglie) favorendo il recupero di materia attraverso un sostegno ai Comuni e al sistema produttivo.

Per quanto riguarda lo sviluppo di un mercato dei materiali/prodotti riciclati lo strumento più efficace rimane il Green Public Procurement (c.d. acquisti verdi della PA). È ormai assodato che le materie ed i prodotti riciclati a parità di qualità prestazionali consentono un significativo “risparmio di sistema”, considerando il ciclo d’uso e i mancati costi di smaltimento.

Il percorso giuridico-amministrativo può essere tracciato come segue:

1) Indizione di una Conferenza nazionale per la definizione di una strategia unitaria per la gestione dell’intero ciclo dei rifiuti;

2) Piano straordinario per la prevenzione, riduzione, raccolta, riutilizzo, riciclo e recupero dei rifiuti che preveda, tra l’altro: l’approvazione del “Piano di Prevenzione e di riciclaggio”, l’allineamento alle migliori performances di raccolta differenziata e riciclo anche mediante incentivi o penalizzazioni per il mancato raggiungimento degli obiettivi; potenziamento dei centri comunali per la raccolta di rifiuti da destinare alla preparazione per il riutilizzo e al riciclaggio; sostegno alla ricerca e alle iniziative più innovative per il riciclaggio ed il recupero dei rifiuti (per es. plastiche, RAEE, inerti, veicoli, a fine vita ecc..); previsione di misure cogenti per l’utilizzo di materiali e prodotti riciclati per le forniture delle pubbliche amministrazioni (green procurement).
Tutela dell’acqua

L’acqua è un bene pubblico di primario interesse. Secondo l’Autorità per l’energia, ammontano a 65 miliardi di euro nei prossimi 30 anni gli investimenti necessari per ammodernare le infrastrutture e contrastare inquinamento e sprechi nel settore idrico; le perdite di rete sono stimate in oltre il 30%, le più elevate d’Europa; il 15% della popolazione risulta privo di sistema fognario, i depuratori sono insufficienti o addirittura inesistenti per un italiano su tre e persiste discontinuità nell’erogazione soprattutto nel Mezzogiorno.

Occorre intervenire sul sistema tariffario in modo da garantire l’uso dell’acqua alle fasce più deboli assicurando al contempo la copertura dei costi per l’ammodernamento della rete nelle tre componenti: acquedottistica, fognaria e di depurazione; bisogna al contempo programmare interventi di risistemazione della rete su larga scala considerando anche le positive ricadute in termini occupazionali. E’ stato stimato dall’Autorità dei Contratti Pubblici che con un miliardo di euro sarebbe possibile coinvolgere da 10.000 a 15.000 lavoratori in attività di medio-lungo termine: possiamo quindi parlare di un contributo teorico alla occupazione di migliaia e migliaia di lavoratori su tutto il territorio nazionale con un ruolo quindi anticiclico.

Il percorso giuridico-amministrativo può essere tracciato come segue:

1) Indizione di una Conferenza nazionale per la verifica dello stato di attuazione della direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23.10.2000 in materia di acque nonché per la definizione di una strategia unitaria per il governo delle risorse idriche.

2) Piano straordinario per il completamento del sistema delle infrastrutture di captazione, distribuzione, fognarie e depurative.

3) Piano di iniziative per la riduzione dei consumi idrici e delle perdite di rete.

4) Sistema tariffario che riconosca il diritto dell’acqua per tutti e la fornitura di un servizio in pareggio, nel rispetto del risultato referendario.

5) Potenziamento del ruolo della Cassa Depositi e Prestiti nel finanziamento delle opere.

Ambiente e legalità

E’ necessario prodursi in una lotta senza quartiere contro le ecomafie e impegnarsi per introdurre il perseguimento dei reati più efferati contro l’ambiente nel codice penale, previa la ricognizione e il riordino delle fattispecie penali in materia ambientale, sinora sparse in svariate leggi speciali. Si tratta di una chiave che permette di lottare contro il traffico dei rifiuti, contro il ciclo del cemento e delle cave in mano alla criminalità organizzata e di affrontare una vera e propria emergenza che dal mezzogiorno si è ormai estesa su tutto il territorio nazionale.

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Uscire dalla crisi con innovazione, tecnologia e ricerca
La presente proposta di intervento indica le linee guida per uscire dalla crisi rilanciando l’industria

Politiche per l’innovazione, la tecnologica e la ricerca

Per rilanciare la crescita sostenibile e arrestare l’emorragia occupazionale, è necessario sostenere gli investimenti in Ricerca, Innovazione e nella riconversione ecologica delle imprese, come chiave strategica per:
– recuperare competitività sui mercati
– garantire aumento della produttività e crescita dei salari
– promuovere nuovo lavoro ad alta qualificazione e mobilità sociale
– creare un circuito virtuoso tra sistema formativo università e impresa

A tal fine occorre praticare un radicale cambiamento delle politiche pubbliche attuate fino a oggi.

L’Italia, come è ampiamente noto, ha un livello di ricerca e innovazione in particolare del segmento privato largamente inferiore rispetto alla media degli altri Paesi industrializzati. Il basso livello di investimenti in ricerca si ripercuote sulla capacità competitiva in particolare delle PMI (piccole e medie imprese) e comprime la crescita delle retribuzioni dei lavoratori che oggi si attestano tra le più basse d’Europa.

In questo contesto appare evidente la necessità di mettere a punto strumenti strutturali di sostegno pubblico:

A) un consistente (1 miliardo di euro per anno) credito d’imposta strutturale come forma di intervento sistemico per sostenere le attività di R&S realizzate dalle imprese in autonomia o in collaborazione con le università;

B) la predisposizione di strumenti finanziari in grado di far leva su risorse pubbliche e private per la realizzazione di progetti Paese;

Il tema dei progetti Paese, già presente nel piano «Industria 2015», rappresenta una straordinaria leva per mobilitare risorse pubbliche e private verso obiettivi di modernizzazione comunemente condivisi.

I temi prioritari su cui realizzare il progetti nazionali di innovazione industriale sono: la realizzazione dell’agenda digitale, la green economy, le nuove tecnologie per i settori del made in Italy, le tecnologie salute e della vita, l’economia della cultura e della creatività, la bioeconomia.

Occorre superare il sistema tradizionale degli incentivi alle imprese sostituendolo integralmente con strumenti finanziari specifici dedicati al finanziamento delle attività di ricerca e di innovazione e con azioni di sistema in grado di orientare i comportamenti degli operatori finanziari e industriali.

La proposta prevede la realizzazione di un fondo di partecipazione a ripartizione del rischio per il finanziamento dei grandi progetti di innovazione tecnologica, composto da Fondi pubblici, investitori istituzionali (BEI, CDP, finanziarie regionali ) e investitori privati.

L’obiettivo del fondo è quello di finanziare progetti presentati dalle imprese anche in forma associata e preferibilmente in collaborazione con gli organismi di ricerca utilizzando meccanismi di condivisione del rischio capaci di massimizzare l’impiego dei fondi pubblici che saranno utilizzati in termini di garanzia su portafogli di prestiti a medio lungo termine, effettuati dagli altri investitori pubblici e privati coinvolti (Cassa depositi e prestiti, Banca europea per gli investimenti, finanziarie regionali, finanza privata, sistema assicurativo).

Il contributo pubblico in termini di garanzie sarà in prima istanza costituito dal fondo per lo sviluppo sostenibile che già dispone di una dotazione di 600 milioni di euro presso il Ministero per lo sviluppo economico. Tali fondi possono già generare immediatamente 4 miliardi di investimenti da parte delle imprese (stimando un finanziamento pari all’80% dell’investimento e un effetto leva stimato prudenzialmente da 1 a 4).

C) Capitale umano qualificato. Il raggiungimento dell’obiettivo del 3% del PIL in attività di ricerca e sviluppo previsto all’agenda Europa2020 implicherebbe nel Paese un incremento di circa 200.000 ricercatori, solo nel settore privato. E’ necessario avviare immediatamente un grande programma per la promozione del capitale umano ad alta qualificazione in impresa, che costituisce un asset fondamentale di una politica industriale innovativa ed ecologica e per la creazione di green jobs. Si propone il sostegno all’inserimento in impresa con contratto di apprendistato di 20.000 nuovi giovani ricercatori e ricercatrici all’anno (su programmi d’interesse dell’impresa in collaborazione con università ed enti). Il programma può essere realizzato anche con il supporto del Fondo Sociale Europeo e necessita di un impegno di risorse di 200 milioni di euro all’anno. Esso prevede, grazie all’impiego della rete universitaria e dei centri di ricerca e con la collaborazione delle associazioni imprenditoriali, un’azione sistemica sul capitale umano ad alta qualificazione che deve essere inserito in attività di ricerca industriale e trasferimento tecnologico nelle imprese, o impegnato nella progettazione e avvio di imprese innovative basate su conoscenza, tecnologia e creatività.

Interventi per la Capitalizzazione, gli Investimenti e le Ristrutturazioni industriali

Per favorire la capitalizzazione e la crescita dimensionale delle imprese occorre agire sul sistema fiscale rendendo più conveniente il reinvestimento degli utili in impresa e incentivando fusioni e aggregazioni (neutralità fiscale). A questo fine si propone il rafforzamento dell’ACE (allowance for capital equity), raddoppiando l’attuale agevolazione.

Viene costituito il Fondo per la capitalizzazione, gli investimenti e le ristrutturazioni industriali, partecipato dalla Cassa Depositi e prestiti (con la garanzia del Fondo Centrale), da investitori pubblici e privati, dalle finanziarie delle Regioni. Le Banche partecipano al Fondo attraverso la cartolarizzazione del credito verso le imprese che viene sostituito dalla partecipazione del Fondo al capitale delle imprese medesime. In tal modo si riduce l’indebitamento delle imprese, si aumenta la capitalizzazione e la leva creditizia, si mitiga il rischio bancario e si favoriscono gli investimenti.

Il target di riferimento del fondo saranno le PMI che hanno prospettive di sviluppo e investimento, ma con scarso accesso al credito dovuto all’alto indebitamento.

www.partitodemocratico.it

"I comuni in piazza: sbloccare i fondi o moriamo", di Bianca Di Giovanni

Nove miliardi da sbloccare subito, altrimenti si autorizzeranno tutti i pagamenti rimasti in sospeso. Con uno sforamento senza precedenti del Patto di stabilità interno. È questa in soldoni la richiesta dell’Anci, che ha indetto per il 21 una manifestazione di protesta a Roma. La questione è quella dell’ormai insostenibile rinvio dei pagamenti per lavori già fatti, che non si possono onorare per non sforare i parametri di bilancio, anche nel caso in cui si abbiano le casse piene. Tutti i tentativi per aggredire la montagna di debiti accumulati dalle pubbliche amministrazioni (si parla di circa 40 miliardi complessivi per i soli Comuni) finora sono falliti miseramente. Il sistema dello sconto dei debiti attraverso le banche ha risolto esposizioni per appena 3 milioni: nulla. Intanto le aziende chiudono, i lavoratori perdono il posto, la questione sociale irrompe su una scena già drammatica. E le amministrazioni locali sono in prima linea, come testimoniano gli ultimi episodi di Perugia e di Bari. I sindaci si riuniranno il 21 al cinema Capranica di Roma. «Abbiamo chiesto e ottenuto – ha spiegato il presidente Anci Graziano Delrio – l’adesione di numerose forze politiche sociali, che hanno in questi giorni pienamente sposato il nostro appello a sbloccare i pagamenti per salvare l’economia dal completo dissesto. Ma ci rivolgiamo anche a tutte le forze politiche in Parlamento perché assumano iniziative legislative che possano portare a soluzione le nostre richieste». Secondo il vertice dell’associazione dei Comuni, non ha bisogno di alcuna autorizzazione da Bruxelles: basterebbe un semplice decreto del governo. Del resto «se la Spagna ha rinegoziato 27 miliardi non capisco – continua Delrio – perché non lo possa fare l’Italia che è il Paese con il miglior rapporto deficit/Pil. A noi pare che l’austerità è diventata mortale, chiediamo una sobrietà intelligente». Insomma, la richiesta dell’Anci si lega a doppio filo con la «mission» di Monti in Europa, dove si punta a ottenere maggiori margini di spesa pubblica, in cambio di maggiore trasparenza sul debito accumulato. Gianni Alemanno, sindaco di Roma e presidente del consiglio nazionale dell’Associazione, ha parlato di «una scelta dell’Anci molto forte che è un segnale al governo. Come associazione ancora una volta abbiamo preso una decisione totalmente unitaria, i Comuni potrebbero dare una spinta alla crescita ma il patto di stabilità paralizza qualsiasi scelta. Per questo motivo il primo punto in agenda del nuovo governo deve essere la discussione sul patto di stabilità». LE CIFRE DEI SINDACIStando ai numeri forniti dalla stessa associazione oggi ci sarebbero circa 13 miliardi immediatamente utilizzabili (se solo fossero sbloccati) e ben 45 miliardi di residui passivi da poter utilizzare più a lungo termine. Ma tutto resta bloccato per norme miopi e senza alcun senso economico. Gli esempi di una macchina ormai impazzita si sprecano. Che dire, ad esempio, del Comune di Pavia a cui il governo chiede di assicurare una nuova sede del tribunale che accorpi quelle di Vigevano e Voghera, ma che non può sborsare neanche un euro per farlo? Oppure del rompicapo di Piobbico, un Comune delle Marche, che ha avuto la brillante idea di costruire una palestra per le scuole e per la cittadinanza, sul cui tetto ha installato i pannelli fotovoltaici. Un sistema che ha garantito all’amministrazione buoni incassi, fino al giorno in cui una abbondante nevicata non ha fatto crollare il tetto. Ebbene, l’assicurazione è pronta a rifondere le spese per ristrutturare lo stabile e ripristinare l’installazione. Ma il Comune non può spendere. Il risultato è che molto probabilmente perderà l’assegno dell’assicurazione, non riavrà l’istallazione dei pannelli fotovoltaici e la popolazione non potrà più utilizzare la palestra. Un gioco da masochisti. Eppure finora nessuno è riuscito a riscrivere questo patto perverso, ideato da Giulio Tremonti. La decisione dei Comuni ha incassato il plauso della Cgil, che con Danilo Barbi e Fabrizio Solari condivide le richieste di Delrio. E non solo. A schierarsi a fianco dei sindaci c’è anche Luca Zaia, governatore del Veneto. Dalle Regioni, poi, arriva un’altra richiesta che coinvolge comunque le amministrazioni comunali: il rinvio della Tares al 2014. La richiesta è scritta nero su bianco in una lettera inviata al presidente del Consiglio.

L’Unità 15.03.13

"Perché le agenzie di rating sono come le logge", di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

È incredibile assistere ancora una volta all’immediata genuflessione dell’intero mondo politico, economico e massmediatico del paese dinanzi alle “sentenze” delle agenzie di rating. Questa volta è avvenuto dopo che la Fitch, la più piccola delle “tre sorelle”, ha declassato l’Italia da A- a BBB+. Appena tre tacche sopra il livello di “spazzatura”! Perché il messaggio fosse chiaro e subito recepito, Fitch ha aggiunto anche un “outlook negativo”, cioè una prospettiva di futuro peggioramento. Le motivazioni del declassamento non ci sembrano davvero profonde. Sono le seguenti: «Il risultato inconcludente delle elezioni rende improbabile che l’Italia possa avere un governo stabile nelle prossime settimane.

La crescente incertezza politica e il rallentamento delle riforme strutturali costituiscono un ulteriore choc negativo per l’economia reale nel mezzo di una profonda recessione». Si prevede una probabile contrazione di 1,8% del Pil e l’aumento del debito pubblico al 130% nel 2013. Fitch afferma che «un governo debole sarebbe più lento e meno capace di rispondere a choc economici interni ed esterni». Le considerazioni di Fitch sono purtroppo quelle che un qualsiasi cittadino italiano quotidianamente fa. La differenza sta negli effetti deleteri del rating sulla nostra economia e sulla finanza pubblica.

Non si tratta quindi di ignorare le difficoltà in cui versa l’economia e la politica del nostro paese, ma di chiederci perché tanta sudditanza di fronte alle agenzie di rating.
Si ricordi che esse sono delle imprese private. Sarebbe auspicabile che le autorità economiche, sia italiane che europee, ridimensionassero la portata delle loro valutazioni.

In merito si rammenti che il governo Obama all’inizio dello scorso febbraio ha denunciato per frode la Standard & Poor’s, la maggiore delle tre agenzie, chiedendo un risarcimento di 5 miliardi di dollari. Dopo aver analizzato ben 30 milioni di documenti in 4 anni, il ministero di giustizia americano ha concluso che la S&P ha manipolato i rating sui derivati, sui titoli strutturali e su altre operazioni finanziarie, soprattutto quelli legati alle ipoteche immobiliari, coprendo i rischi reali e in questo modo aiutando a creare una gigantesca bolla speculativa. Nel nostro paese, invece, c’è chi ancora sottovaluta le indagini della procura di Trani nei confronti delle agenzie di rating.

Secondo noi fa bene la procura, in considerazione anche del fatto che negli Usa una Commissione d’indagine del senato afferma che «la crisi non è stato un disastro naturale, bensì il risultato di alti rischi, prodotti finanziari complessi, conflitti di interesse coperti, il fallimento degli organi di controllo, il ruolo delle agenzie di rating e dello stesso mercato che hanno permesso e guidato gli eccessi di Wall Street». «I rating gonfiati hanno contribuito alla crisi finanziaria mascherando i veri rischi dei titoli ipotecari», scrive ancora la Commissione.

Già nel 2010 la Financial Crisis Inquiry Commission (Fcic), la Commissione indipendente di indagine sulla crisi voluta dal Congresso, indicava le agenzie come gli attori principali del collasso finanziario. Affermava: «Noi sosteniamo che il fiasco delle Agenzie di rating sia stato un elemento essenziale del meccanismo distruttivo finanziario. Esse sono state le promotrici chiave del meltdown finanziario, cioè della dissoluzione sistemica. Non si sarebbe potuto vendere i titoli ipotecari, che sono stati al cuore della crisi, senza il loro timbro di approvazione. Gli investitori si sono ciecamente fidati dei loro giudizi. In alcuni casi il loro rating era obbligatorio. La crisi non sarebbe potuta accadere senza le Agenzie di rating.

Tra il 2007 e il 2008 il loro rating prima ha fatto salire i mercati e poi, con l’abbassamento repentino delle loro valutazioni, li ha fatti precipitare».
La recente legge di riforma finanziaria americana, la “Dodd-Frank”, stabilisce che le agenzie di rating hanno carattere commerciale e pertanto devono possedere i requisiti e sottostare ai controlli previsti per le banche di investimento.

Nonostante le disposizioni della citata legge, la loro arroganza è enorme. Tanto che la S&P accusa il governo di violazione del primo emendamento della Costituzione americana che garantisce la libertà di parola. Secondo l’agenzia di stampa Bloomberg, la S&p avrebbe speso ben oltre 3 milioni di dollari nelle azioni di lobby per annacquare la riforma Dodd-Frank.

Il potere delle agenzie di rating sembra maggiore finanche di quello delle banche. Sembrano possedere l’autorità di una “loggia superiore”. D’altronde in certi momenti cruciali della storia passata anche gli oracoli furono “istituzioni” più potenti degli stessi imperatori e degli eserciti in quanto incidevano sugli orientamenti culturali dei popoli oltre che sulle strategie operative dei governanti.

da Europa Quotidiano 15.03.13

“La disoccupazione aumenterà ancora", di Tonia Mastrobuoni

Una delle regole d’oro dei banchieri centrali della Bce è che prima di riunirsi per discutere dei tassi, ogni primo giovedì del mese, tengono la bocca ben chiusa sulle mosse che riguardano il costo del denaro. «We never pre-commit», non ci impegniamo ex ante, ripete Mario Draghi come un automa ad ogni giornalista che prova a chiedergli se abbasserà i tassi. Ma c’è chi ama invece giocare d’anticipo, e in genere sono i «falchi», gli esponenti delle banche centrali dei paesi del nord. Così, il governatore della Banca centrale austriaca Nowotny ha fatto sapere ieri che «non è opportuno impiegare misure relative ai tassi di interesse», pur riconoscendo che «la situazione attuale della crescita è insoddisfacente». Insomma, niente calo dei tassi, fosse per l’austriaco.

Eppure, guardando anche ai dati diffusi ieri dal bollettino mensile della Banca centrale europea diffuso ieri, la pessima costellazione di dati sembrerebbe favorire un alleggerimento del costo del denaro. L’economia peggiora, anche se la Bce resta dell’idea che nella seconda metà dell’anno ricomincerà la ripresa, e l’inflazione continua a scendere.

Come anticipato giovedì scorso da Draghi, le previsioni sono state riviste in peggio e per la crescita dell’eurozona la Bce prevede una forbice tra -0,9% e 2% per l’anno in corso e tra zero e 2% nel 2014, con «rischi al ribasso». Allo stesso tempo l’inflazione continua a rallentare (1,2%-2% nel 2013 e 0,6%-2% nel 2014).

La Bce ha tracciato oltretutto un quadro preoccupante che riguarda l’occupazione. La situazione nel mercato del lavoro «è ulteriormente peggiorata negli ultimi trimestri, a causa della debole attività economica e degli aggiustamenti del mercato del lavoro in corso». E gli economisti di Francoforte non vedono «alcun miglioramento nel prossimo futuro».

A gennaio il tasso di disoccupazione dell’eurozona è salito all’11,9%, due punti sopra il livello di aprile del 2011, quando ha cominciato a salire. E le previsioni non lasciano adito a ottimismi: «la scarsa creazione di posti di lavoro e le debole aspettative congiunturali emerse dalle indagini – scrive la Bce suggeriscono un ulteriore incremento della disoccupazione nel breve termine».

L’Eurotower è preoccupata in particolare per la disoccupazione giovanile. Attualmente è «importante» per i governi «far fronte alla disoccupazione giovanile e di lunga durata e dei beni e servizi per creare nuove opportunità di occupazione, promuovendo un contesto economico dinamico, flessibile e concorrenziale».

Nel documento gli economisti di Francoforte hanno dedicato anche un focus al debito, mettendo in evidenza che i paesi afflitti da un livello oltre il 90-100% – come l’Italia – subiscono «in media, un effetto negativo sulla crescita di lungo periodo» e «significativo» nel breve termine.

Quanto alle prospettive di recupero dell’economia nella seconda metà dell’anno, il bollettino sostiene che sarà favorita anzitutto dal «rafforzamento della domanda mondiale». Secondo la Bce il Pil mondiale crescerà del 3,8% nel 2013 e del 4,4% l’anno prossimo. Se d’un lato sulla ripresa peseranno ancora le misure di aggiustamento che continuano a deprimere la domanda interna, è vero anche che «si ritiene che nelle economie emergenti l’espansione contineurà vigorosa». La domanda esterna dell’area euro è prevista aumentare del 3,5% quest’anno e addirittura del 6,3% nel 2014. E sarà «solo in parte compensata dalla minore competitività dovuta al rafforzamento dell’euro».

Un elemento di preoccupazione resta la stretta al credito: le condizioni per le piccole e medie imprese restano «restrittive», scrive la Bce. Mentre del Ltro a tre anni lanciato l’inverno scorso, il 40% circa è già stato restituito dalle banche alla Bce.

La Stampa 15.03.12

Istat-Cnel: italiani meno soddisfatti della loro vita

Italiani piu’ incerti e tristi a causa della crisi: fino al 2011 quasi la meta’ della popolazione di 14 anni e piu’ dichiarava elevati livelli di soddisfazione per la propria vita nel complesso, indicando punteggi compresi tra 8 e 10 (su una scala da 0 a 10). Ma nel 2012 la quota dei soddisfatti e’ scesa dal 45,8% dell’anno prima al 35,2%. Lo certificano l’Istat e il Cnel nel “Primo rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia”.

Aumentano anche i divari territoriali e sociali nella diffusione del benessere soggettivo e se ne creano di nuovi. La soddisfazione per la propria vita decresce in misura maggiore nel Sud, attestandosi al 29,5% (contro il 40,6% del Nord), e tra le persone con titolo di studio piu’ basso e peggiori condizioni occupazionali. Nonostante il contesto non facile, nel 2012 una prospettiva di miglioramento per il futuro viene indicata da un quarto della popolazione di 14 anni e piu’. Una dimensione fondamentale della qualita’ della vita, quella del tempo libero, pur essendo ritenuta molto soddisfacente da una quota di popolazione non elevatissima (15,6%), non sembra essere coinvolta nella flessione della soddisfazione per la vita nel complesso registrata nel 2012. Anzi, rispetto all’anno precedente la quota di coloro che si dichiarano molto soddisfatti per il proprio tempo libero cresce su tutto il territorio nazionale, con una dinamica piu’ favorevole nel Nord e nel Mezzogiorno.
L’andamento positivo rilevato a livello nazionale riguarda anche altri ambiti della vita quotidiana che coinvolgono le relazioni amicali e familiari. La soddisfazione riguardante la propria situazione economica registra invece un netto peggioramento: a fronte di una stabilita’ al 2,5% della quota di chi si dichiara molto soddisfatto, aumenta non solo quella di chi e’ poco soddisfatto (dal 36,1% al 38,9%), ma anche la quota di chi non e’ affatto soddisfatto della propria situazione economica (dal 13,4% al 16,8%), a scapito di quella di chi e’ abbastanza soddisfatto (dal 45,9% al 40,3%).
Peggiora, in Italia, la condizione lavorativa soprattutto tra donne e giovani. I dati, gia’ tra i piu’ critici dell’Ue27, sono ulteriormente peggiorati negli ultimi anni a causa della crisi. Il tasso di occupazione, nella classe 20-64 anni, e’ sceso dal 63 per cento del 2008 al 61,2 per cento del 2011, mentre quello di mancata partecipazione e’ salito dal 15,6 per cento al 17,9 per cento.

Donne, giovani e Sud sono particolarmente penalizzati: il tasso di occupazione per loro e’, rispettivamente, del 49,9 per cento, 33,8 per cento tra i 20-24enni e 47,8 per cento. Il tasso di mancata partecipazione al lavoro e’ del 22,6 per cento, 41,7 per cento e 32,1 per cento. La costante incidenza dei lavoratori a termine per piu’ di 5 anni (19,2 per cento) denota una condizione d’instabilita’ che non si attenua. La mancata stabilizzazione dei contratti investe soprattutto i giovani (dal 25,7 per cento del 2008 al 20,9 per cento del 2011). Anche la presenza di lavoratori con bassa remunerazione (10,5 per cento) e di occupati irregolari (10,3 per cento) rimane stabile, mentre aumenta la percentuale di lavoratori sovra-istruiti rispetto alle attivita’ svolte (dal 15,4 per cento del 2004 al 21,1 del 2010). Tuttavia, i lavoratori italiani hanno una percezione positiva della propria condizione (voto medio 7,3).
Non mancano le disuguaglianze nell’accesso al lavoro, territoriali, generazionali e di cittadinanza, ulteriormente accentuate con la crisi. Fa eccezione il divario occupazionale tra uomini e donne, dal momento che la crisi ha colpito maggiormente il settore edile e manifatturiero, che impiega quasi esclusivamente uomini. Eppure il divario di genere resta tra i piu’ elevati d’Europa: il tasso di occupazione 20-64 anni passa dal 72,6 per cento maschile al 49,9 per cento femminile.
Le donne, intanto, continuano a fare i conti con un sovraccarico di ore dedicate al lavoro, retribuito o meno: il 64 per cento lavora piu’ di 60 ore a settimana, compreso il lavoro di cura. Resta inoltre stabile al 72 per cento il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne con figli in eta’ prescolare e quello delle donne senza figli. “Le condizioni peggiori delle donne meridionali fanno supporre che ad alimentare l’insoddisfazione sia anche la carenza di servizi” scrivono i curatori del rapporto.
La crisi non ha penalizzato complessivamente la partecipazione al lavoro degli stranieri (scesa dal 69,8 per cento al 66,2 per cento), ma ha inciso molto sui tassi maschili. È inoltre rilevante e in aumento lo svantaggio nella qualita’ dell’occupazione rispetto agli italiani: l’incidenza di occupati sovra-istruiti e’ piu’ che doppia (42,3 per cento contro il dato degli italiani al 19 per cento).

L’Italia e’ sempre piu’ anziana: il nostro paese e’ tra i piu’ longevi d’Europa, ma questo non va di pari passo con un aumento della qualita’ della sopravvivenza, soprattutto per le donne. In media, infatti, oltre un terzo della loro vita e’ vissuto in condizioni di salute non buone.
Va peggio nel Mezzogiorno, dove a una vita mediamente piu’ breve si aggiunge un numero minore di anni vissuti senza limitazioni. Se al Nord le donne a 65 anni possono contare di vivere in media ancora 10,4 anni, al Sud il dato scende a 7,3. Calano, nel lungo periodo, la mortalita’ infantile (34,2 ogni 10mila), da incidenti stradali (1,1 ogni 10mila) e da tumori (9,3 ogni 10mila). Tuttavia, la mortalita’ infantile registra una crescita nell’ultimo anno per gli immigrati. Aumentano i decessi per demenza senile e malattie del sistema nervoso: dal 20,7 ogni 10mila del 2006 al 25,8 ogni 10mila del 2009).
Non aiutano i comportamenti a rischio adottati dalla popolazione. L’obesita’ e’ in crescita (nel 2001 42,4% di persone di 18 anni, diventate 44,5 per cento nel 2011) e i sedentari sono il 40 per cento delle persone di 14 anni e piu’. Tra questi, si mantengono forti disuguaglianze sociali: sono il 48,4 per cento tra le persone di 25-44 anni con basso titolo di studio e il 24,5 per cento tra i coetanei con titolo di studio alto.
L’abitudine al fumo in 10 anni ha registrato solo una lieve flessione: nel 2001 i fumatori erano il 23,7 per cento della popolazione di 14 anni e piu’, nel 2011 sono il 22,7 per cento, quota stabile dal 2004. Cresce tra i giovani il consumo di alcool: nel 2011 il 15,4 per cento dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni e il 16,1 per cento di quelli tra i 20 e i 24 anni ha adottato almeno un comportamento a rischio nel consumo di alcol.

L’Italia non riesce ancora a garantire un’istruzione adeguata. La quota dei Neet, gli under30 che non studiano ne’ lavorano, sale dal 19,5% del 2009 al 22,7% del 2011. Gli under34 laureati sono il 20,3%, contro il 34,6% dell’Ue. I diplomati sono il 56 per cento in Italia contro il 73,4 europeo. Il tasso di abbandono scolastico e’ al 18,2%, mentre nell’Ue27 si ferma al 12,3.
Le donne sono mediamente piu’ istruite e formate degli uomini: il 57,2% sono diplomate, contro il 54,8 degli uomini. Le 30-34enni laureate sono il 24,7%, mentre gli uomini si fermano a quota 15,9%. Il tasso di partecipazione alla formazione continua e’ al 6%, mentre per gli uomini e’ del 5,3. Ancora: l’abbandono scolastico si ferma al 15,2%, inferiore rispetto al 21 per cento maschile. Oltre alle differenze di genere sono presenti anche differenze territoriali. Nel 2011 la quota di di 25-64enni con almeno il diploma superiore e’ del 59 per cento al Nord e al 48,7% a Sud, mentre i Neet sono il 31,9% nel Mezzogiorno, il doppio della quota relativa al Nord (15,4%).
La famiglia e’ un fattore di grande influenza: nei casi in cui i genitori hanno al massimo la scuola dell’obbligo l’abbandono scolastico arriva al 27,7%, mentre in presenza di genitori laureati si riduce al 2,9. Infine, e’ in forte calo la partecipazione culturale delle persone: dal 37,1% del 2011 al 32,8% del 2012. “Un miglioramento del livello d’istruzione e del livello di competenze- scrivono i curatori del Rapporto- che intervenga a ridurre le disuguaglianze territoriali e sociali e garantisca maggiori opportunita’ ai giovani provenienti da contesti svantaggiati appare una priorita’ nel nostro paese”.

Negli ultimi 5 anni la crisi ha avuto profonde ripercussioni sul tessuto sociale italiano, causando l’aumento delle disuguaglianze e delle differenze territoriali e riducendo la gia’ scarsa mobilita’ sociale. La percentuale di individui in famiglie senza occupati e’ passata, tra il 2007 e il 2011, dal 5,1 per cento al 7,2 per cento. Ne hanno fatto maggiormente le spese i giovani under25, per i quali il dato e’ cresciuto dal 5,4 all’8 per cento, e il Mezzogiorno, dove dal 9,9 si e’ passati al 13,5 per cento. Parallelamente, si e’ registrata una diminuzione del 5 per cento del potere d’acquisto dal 2007 al 2011. Il complessivo peggioramento del benessere economico e’ certificato da Istat e Cnel, nel loro primo rapporto sul benessere equo e sostenibile in Italia.
Fino al 2009 i colpi della crisi sono stati parati grazie al potenziamento degli interventi di sostegno al reddito e al funzionamento delle reti di solidarieta’ familiare. Questo ha permesso di mantenere stabili i tassi di poverta’ e deprivazione grave (rispettivamente al 18,4 per cento e al 7 per cento). Ma poi l’equilibrio si e’ rotto. Nel 2011 la grave deprivazione e’ aumentata di 4,2 punti, passando dal 6,9 per cento all’11,1 per cento, preceduta da un incremento, nel 2010, del rischio di poverta’ nel Centro (dal 13,6 per cento al 15,1 per cento) e nel Mezzogiorno (dal 31 per cento al 34,5 per cento) e da un aumento della disuguaglianza del reddito (il rapporto tra il reddito posseduto dal 20 per cento piu’ ricco della popolazione e il 20 per cento piu’ povero dal 5,2 sale al 5,6).
Le famiglie hanno tamponato la progressiva erosione del potere d’acquisto intaccando il patrimonio, risparmiando meno e, in alcuni casi, indebitandosi. La quota di persone in famiglie che hanno ricevuto aiuti in denaro o in natura da parenti non coabitanti, amici, istituzioni o altri e’ passata dal 15,3 per cento del 2010 al 18,8 per cento del 2011 e, nei primi nove mesi del 2012 la quota delle famiglie indebitate e’ passata dal 2,3 per cento al 6,5 per cento.

da Redattore Sociale

"Rivoluzione a S. Pietro", di Ezio Mauro

Un Papa a sorpresa, venuto dalla fine del mondo quasi a dire basta agli intrighi e ai ricatti italiani della Curia e alla paralisi di governo che ha indebolito la vecchiaia di Benedetto XVI fino alla rinuncia. Ma un Papa che evidentemente la Chiesa preparava da tempo, se è vero che già nel 2005 Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, era uno dei due candidati forti del Conclave, sostenuto dai riformatori che poi lui stesso portò a convergere su Ratzinger, per evitare una scelta più conservatrice.
Per due volte a distanza di otto anni, dunque, due Conclavi hanno elaborato la candidatura a Papa del cardinale argentino, e bisogna tener presente che nel frattempo la composizione del Sacro Collegio è cambiata per quasi il 50 per cento. La considerazione di Bergoglio è dunque alta, forte e costante nei vertici della Chiesa universale. Ma questa volta gli scandali vaticani hanno pesato in suo favore. E hanno chiuso la porta al ritorno di un Papa italiano (cioè a Scola, il vescovo più qualificato e conosciuto) per metter fine a un sistema di potere simbolicamente impersonato dalle figure del Decano del Collegio Cardinalizio e del Camerlengo, Sodano e Bertone, che scadono con la fine della Sede Vacante.
L’addio al pontificato di Ratzinger ha dunque lasciato un “segno” visibile nel Conclave. La scelta di successione a Benedetto XVI rappresenta infatti un rovesciamento geografico e culturale del potere curiale vaticano talmente evidente e simbolico da diventare un gesto politico che scuote Roma parlando al mondo. Un gesto di apertura e di speranza che chiude un’epoca e porta il Papa fuori dai Sacri Palazzi, liberandolo dal potere per sperare di ritrovarlo pastore.
Questo significato del Conclave, che ha appreso fino in fondo il “mistero” dell’impotenza coraggiosa di Ratzinger, è stato potenziato ed ampliato dalle primissime mosse del nuovo Papa, ben consapevole fin dal suo apparire sulla Loggia di San Pietro della necessità di una rottura con un mondo e un modello di potere che ha finito per imprigionare se stesso, fino a consumare la stessa azione di Ratzinger, in una sovranità infine esausta perché immobile. Bergoglio infatti nelle sue prime parole non si è mai definito Papa (cioè sovrano e Vicario di Cristo) ma vescovo, quindi pastore, e ha annunciato che il vescovo di Roma e il suo popolo cammineranno insieme.
Un richiamo quasi giovanneo, tanti anni dopo, un conferimento della maestà alla comunità cristiana, una suggestione di collegialità, in quell’invito insistito e convinto – prima della benedizione apostolica del Pontefice ai fedeli – alla preghiera della piazza e del mondo per il Papa, per non lasciarlo solo, per dargli quella forza che deriva certo da Dio per chi crede, ma anche dalla convinta e fraterna partecipazione del popolo cristiano. Mentre questa preghiera avveniva in silenzio, per la prima volta durante il rito solenne dell’Habemus Papam Jorge Bergoglio ha curvato la maestà papale verso la folla, nell’umiltà di un inchino del Sommo Pontefice che sulla Loggia non si era mai visto.
Tutto questo senza titubanze e cedimenti, ma con la sicurezza spontanea di chi si sente pronto, il sorriso di chi chiede aiuto non per timore, ma per scelta. E la prova più grande di questa umiltà personale unita all’ambizione del cambiamento viene dalla scelta del nome, che nessun Papa aveva mai osato pronunciare per sé come successore di Pietro: Francesco. Un nome che è un progetto e un vincolo per il pontificato, quasi la denuncia programmatica della necessità di un gesto estremo, un ritorno alle origini, al Vangelo, all’Annuncio, alla missione di una Chiesa disincarnata dal potere e dalle sue pompe.
Quasi un punto e a capo, nella scelta di un nome che non ha precedenti nella lunga storia del pontificato, e che suona come una promessa agli ultimi e una minaccia ai potenti. L’indicazione di un Papa che sa di dover camminare tra i lupi, che è pronto a spogliare il Vaticano dei suoi ricchi mantelli, che proverà a rinunciare alle ricchezze occulte dello Ior, che testimonierà col solo risuonare del suo nome nei Sacri Palazzi quel sogno che spinse il frate di Assisi a Roma da Innocenzo III, dopo aver avuto la visione terribile del Laterano – sede del Papato – che minacciava di crollare disfacendosi.
È come se il Papa, già anziano nei suoi 76 anni, sentisse di non avere molto tempo di fronte all’irreparabile, la consunzione del ruolo della Chiesa attraverso gli scandali, le lotte di potere, i corvi, i peccati di Curia contro il sesto e il settimo comandamento, la rete di ricatti che da tutto ciò è cresciuta, avviluppando il visibile e l’invisibile della potestà vaticana e deturpandone il volto, come dice l’ultima drammatica denuncia di Ratzinger dopo la rinuncia. Papa Francesco potrà essere soltanto un uomo di rottura con questo viluppo di bassi poteri. Nel segno della preghiera come affidamento, della sobrietà come obbligo di coerenza coi valori di fede, della povertà come scelta. Quella croce semplice, di metallo su una veste tutta bianca era già la conferma di uno stile diverso anche per il Capo della Chiesa cattolica. In coerenza con la predicazione pratica del vescovo di Buenos Aires, ortodosso e fermo nella dottrina (la fede in Cristo come “alleanza” non solo “informativa ma performativa”, perché non è un semplice annuncio, ma un cambiamento di tutta la vita), rivoluzionario nella scelta di stare dalla parte degli ultimi, dei più poveri, degli sconfitti e degli “schiavi”, nella convinzione che su questo si svolgerà il Giudizio nell’ultimo giorno.
Questo avvento di pontificato che ribalta evidentemente la geopolitica eurocentrica della Chiesa, probabilmente grazie ad una convergenza su Bergoglio dei cardinali americani, avviene dunque nella scelta di un nome che è una profezia di cambiamento, come se dopo l’immediata preghiera con la piazza per Joseph Ratzinger il nuovo pontefice avesse fretta di voltare pagina. Il rinnovamento ha naturalmente un costo. Papa Francesco dovrà capire che nei suoi doveri universali c’è anche quello della piena trasparenza sui suoi rapporti con la dittatura militare argentina, sugli scandali di compromissione che lo hanno chiamato in causa come gesuita in vicende mai chiarite. Dovrà farlo per avere le mani libere. E poi, non potrà tornare indietro rispetto alla novità che rappresenta, al mondo finito che lo ha preceduto, alle necessità di rinnovamento dell’istituzione cristiana, al rapporto tra l’universalità della Chiesa e la chiusura del Vaticano. Al peso, al dovere e all’obbligo che deriva dalla scelta di chiamarsi Francesco.

La Repubblica 14.03.13

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Il gesuita amico dei poveri che nel Conclave del 2005 non volle diventare Papa”, di MARCO ANSALDO

DA QUEL momento in poi, con Benedetto Pontefice, Bergoglio si era ritirato in patria, parlando poco con i media, ma agendo molto. Con stile e comportamento tipico da gesuita. E anche quando Ratzinger decise, lo scorso 11 febbraio, di rinunciare al Pontificato, in pochi tornarono a pensare alla scelta di Bergoglio. Solo negli ultimi giorni, quasi nelle ultime ore, il nome dell’arcivescovo di Buenos Aires era circolato tra i papabili, dietro l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, e al porporato canadese Marc Ouellet.
Bergoglio è il primo Papa sudamericano. E un Pontefice che viene dall’America Latina ha un significato geopolitico e religioso molto preciso, con una scelta non solo rapida da parte degli eminentissimi (al quinto scrutinio, Ratzinger fu eletto al quarto), ma che punta a guardare a un continente dove la fede cristiana è in crescita e può prosperare laddove in altre zone, come l’Europa, appare in forte calo.
L’argentino Bergoglio è però anche il primo Pontefice gesuita nella storia del Papato. L’ordine fondato da Ignazio di Loyola nel 1534, pur essendo considerato come molto potente, non è tuttavia mai riuscito a dare un Papa, avendo fra le altre cose una gerarchia molto strutturata con in testa un preposito generale, tradizionalmente chiamato il “Papa nero”.
Bergoglio è un pastore, ma anche un intellettuale. È una persona che ama e serve i poveri, come spiegava ieri notte un suo confratello. Solito spostarsi in autobus, vive in un appartamento molto semplice ed è abituato a cucinare da solo i suoi pasti. In questi giorni, ai giornalisti che lo chiamavano, se non riusciva a rispondere subito, poco dopo arrivava comunque la sua chiamata di ritorno. Quando fu creato cardinale, alle persone che intendevano seguirlo a Roma per festeggiare l’evento, disse di destinare piuttosto quei proventi alla gente che aveva nulla.
È conosciuto come un personaggio molto spirituale, ma anche come un leader. È infatti stato Provinciale dei gesuiti in patria, e benché non abbia avuto incarichi nei dicasteri pontifici, sono in molti ora pronti a scommettere che mostrerà la voglia di mettere mano alla riforma della Curia per far ripartire la macchina vaticana. Scontrandosi se necessario con chi gli impedirà di farlo.
Il nuovo Papa ha persino conosciuto l’amore per una donna. Nel libro-intervista “Il gesuita”, infatti, scritto dai giornalisti Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin nel 2010, il capitolo “Mi piace il tango”’ è il capitolo più intimista con il porporato argentino. E in quel testo Bergoglio rivela di aver avuto una fidanzata: «Era del gruppo di amici con i quali andavamo a ballare — diceva — Poi ho scoperto la vocazione religiosa». Ma da buon argentino ama il calcio e il tango. La sua squadra preferita è il San Lorenzo di Almagro. Tra i suoi scrittori preferiti ci sono Jorge Luis Borges e il russo Dostojevski. Al cinema gli piacciono i film del neorealismo italiano. Non si sa se abbia visto “Habemus Papam” di Nanni Moretti.
Nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, Jorge Mario Bergoglio, è oggi il 266º Pontefice della Chiesa cattolica. Non un Papa giovanissimo, dunque, come molti forse si attendevano dopo le dimissioni per salute di Ratzinger. L’origine è quella di una famiglia piemontese, uno dei cinque figli di un impiegato delle ferrovie dell’astigiano, Mario, e di Regina Sivori, una casalinga.
È ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina e sprovvisti di ordinario del proprio rito. Ha studiato e si è diplomato come tecnico chimico, ma poi ha scelto il sacerdozio ed è entrato nel seminario di Villa Devoto. È in questo periodo che ha gravi problemi respiratori, che lo portano all’asportazione di un polmone. Nel 1958 la sua decisione di diventare novizio nella Compagnia di Gesù. Il giovane Bergoglio ha poi compiuto studi umanistici in Cile e nel 1963, di ritorno a Buenos Aires, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Facoltà di Filosofia del collegio massimo “San José” di San Miguel. Per mantenersi gli studi per un breve periodo ha lavorato anche come buttafuori in un locale malfamato di Còrdoba.
Fra il 1964 e il 1965 è stato professore di letteratura e di psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fe e nel 1966 ha insegnato le stesse materie nel collegio del Salvatore di Buenos Aires. Il 13 dicembre 1969 è stato ordinato sacerdote. Caratteristica dei gesuiti è di guardare ai bisogni della Chiesa universale. Con uno sguardo largo verso le questioni di carattere internazionale. E la sua elezione sembra andare verso il senso di una chiamata forte, e non di una ricerca di autorità e di potere.
Nel 1973 è stato eletto Provinciale dell’Argentina, incarico che ha esercitato per sei anni. Anni difficili, quelli della dittatura argentina. E sono controversi i suoi rapporti con il regime: di contrasto secondo alcuni, e di sottomissione secondo altri. Sicura è invece l’adesione, temporanea, alla Teologia della liberazione. Fra il 1980 e il 1986 è stato rettore del collegio massimo e delle Facoltà di Filosofia e Teologia della stessa Casa e parroco della parrocchia del Patriarca San José, nella Diocesi di San Miguel. Nel marzo 1986 è andato in Germania per ultimare la sua tesi dottorale; quindi i superiori lo hanno destinato al collegio del Salvatore, da dove è passato alla chiesa della Compagnia nella città di Cordoba come direttore spirituale e confessore. Giovanni Paolo II il 20 maggio 1992 lo ha nominato Vescovo titolare di Auca e Ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno dello stesso anno ha ricevuto nella cattedrale di Buenos Aires l’ordinazione episcopale.
Ha scritto tre libri: «Meditaciones para religiosos », che risale al 1982, «Reflexiones sobre la vida apostólica» del 1986, e «Reflexiones de
esperanza» del 1992. Dopo la nomina cardinalizia da parte di Papa Giovanni Paolo II, il 21 febbraio 2001 è stato eletto a capo della Conferenza episcopale argentina, dal 2005 al 2011.
Ieri la stampa latinoamericana ha accolto con gioia e entusiasmo l’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires. Diversi sono stati però anche i titoli critici di alcuni quotidiani che hanno insistito su aspetti più polemici della storia e personalità del nuovo Pontefice o sui suoi rapporti politici in patria. E in Argentina il quotidiano progressista “Clarin” ha ricordato «l’aspra relazione di Bergoglio con i Kirchner», soprattutto con il defunto ex presidente Nestor.
Fermamente contrario al matrimonio gay, Bergoglio ha però guadagnato popolarità nel suo Continente per aver lavato i piedi dei malati di Aids. Schivo, colto, è sempre stato restio ad accettare ruoli curiali. Molti nunzi apostolici, però, lo apprezzano, e non da oggi. È infatti uno strenuo oppositore del lusso e degli sprechi.

La Repubblica 14.03.13

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Francesco, un nome che è un programma di Pierluigi Castagnetti

Finalmente è arrivato papa Francesco. Un nome che è un programma. Volevamo un papa italiano, è arrivato un italiano emigrato dall’altra parte del mondo. Quel suo esordio: “Fratelli e sorelle buonasera” ci ha portato improvvisamente alla mente l’immagine di papa Giovanni, così come il congedo: “Buonanotte e buon riposo”.

Sappiamo che Giorgio Mario Bergoglio era stato votato già nel Conclave precedente che elesse poi Benedetto XVI, e sappiamo che in quella occasione a un certo punto ha implorato i suoi confratelli di non insistere sul suo nome. Probabilmente questa volta attorno a lui si è formato un consenso larghissimo, forse unanime, che gli ha impedito ogni libertà rispetto all’accettazione della volontà del Signore.

Questa chiesa ha veramente mostrato con l’elezione di papa Francesco I la sua capacità di sorprendere il mondo, cambiando se stessa come era nell’auspicio del gesto finale di Benedetto XVI. Quelle dimissioni avevano in sé la richiesta e la forza del cambiamento che questo Conclave ci ha donato. Un Conclave che ha spostato l’asse della chiesa, portandolo fuori dall’Europa, là dove oggi vive la maggior parte dei cristiani cattolici, al centro della scena del mondo nuovo.

In quelle poche parole che papa Francesco ha pronunciato in Piazza San Pietro ieri sera si intravede già il segno dell’intenzione di aprire la chiesa a una gestione veramente collegiale, consapevole che – senza mettere in discussione il primato petrino – la chiesa non può rimanere chiusa dentro strutture troppo distanti dalla vita del suo popolo. Papa Francesco ha insistito a definirsi vescovo di Roma, rivolgendosi al popolo presente in piazza San Pietro come al popolo della chiesa di Roma, salutando, oltre al suo predecessore definito “vescovo emerito di Roma”, unicamente un altro vescovo, il suo vicario nella diocesi di Roma e, evocando Sant’Ignazio, ha parlato della chiesa di Roma come quella che presiede nella carità tutte le altre chiese locali.

Attendevamo una novità ed è arrivata, e molte altre se ne annunciano.

da Europa Quotidiano 14.03.13