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"I dati del Paese che non può più aspettare", di Fabrizio Forquet

La distinzione tra Paese reale e Paese legale appartiene al dna dell’Italia. Stato unitario nato tardi, con istituzioni deboli, minoritarie, lontane dai cittadini. Ma in giornate come quella di ieri la distanza si allarga fino a diventare una voragine. Un buco nero che rischia di inghiottire il futuro stesso del Paese.

Al Senato e alla Camera la macchina della politica ha girato a vuoto, tra votazioni senza possibili esiti positivi e, soprattutto, nessuna ipotesi di accordo tra forze politiche divise da un’incomunicabilità e un rancore senza precedenti. Fuori, nel Paese, nelle stesse ore 3.749 lavoratori venivano messi in esubero temporaneo all’Ilva, gli esercenti denunciavano un crollo del 50% nelle nuove aperture di attività commerciali, si assisteva all’ennesima revisione al ribasso delle previsioni del Pil.

Mai come in queste settimane è stata forte la percezione del rischio di una caduta senza ritorno dell’economia italiana. Lo dicono i dati della produzione industriale, che è tornata a diminuire a febbraio, con una contrazione record del 25,1% rispetto ai picchi pre-crisi. Le immatricolazioni di auto sono cadute ai livelli del 1979. Sono 70mila le imprese manifatturiere perse tra il 2007 e il 2012. Oltre 220mila i posti di lavoro bruciati nei soli mesi di novembre, dicembre, gennaio. La disoccupazione giovanile ha superato il 38 per cento. Le famiglie hanno visto contrarsi i redditi pro-capite di 3mila euro fino a tornare ai livelli del ’97. Un’ulteriore riduzione dei consumi è in arrivo, gli ordinativi delle imprese sono in calo e si teme una terza ondata di credit crunch.

Non ci si può permettere, in questa situazione, di non essere governati. Nessuno ha la bacchetta magica. Ma un esecutivo in grado politicamente di agire potrebbe, per esempio, sbloccare immediatamente almeno una quota di quei 100 miliardi di crediti che le imprese vantano con la pubblica amministrazione. Una boccata d’ossigeno fondamentale per aziende strozzate da una liquidità che ormai non circola più a nessun livello.

Ecco perché l’economia reale non può aspettare il Paese legale. Non perché le votazioni di ieri sono «costate 420mila euro», come ha osservato la capogruppo dei grillini alla Camera (sarebbero soldi ben spesi, se la democrazia funzionasse). Ma perché le centinaia di migliaia che contano davvero sono i lavoratori che perdono il posto e le imprese che chiudono mentre si attendono le schermaglie dei partiti. E questa volta i Cinque stelle sono dentro, non fuori dal Palazzo. Sono dentro e sono forse la forza più attiva nel determinare – cinicamente – lo stallo, senza alcuna responsabilità per le esigenze di quel Paese reale da cui si vantano di provenire.

Il Sole 24 Ore 16.03.13