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"Pista di soldi tra Pdl e De Gregorio primo giro di assegni già nel 2006", di Carlo Bonini e Giuseppe Caporali

Il senatore e “congiurato” Sergio De Gregorio non «cambiò casacca» solo nel 2008 perché corrotto da 3 milioni di euro versati da Silvio Berlusconi. Semplicemente – come documenta un giro di assegni della primavera del 2006 – è sempre stato a libro paga del Pdl. Anche dopo la sua rottura nel 2005 con Forza Italia e la candidatura con l’Idv.
E’ una storia che porta in Abruzzo e sul cui proscenio si muovono il parlamentare del Pdl Sabatino Aracu, longa manus del capogruppo del partito alla Camera Fabrizio Cicchitto e suo plenipotenziario nella Regione, Adele Caroli, vicepresidente del consiglio comunale di Pescara ed ex socia di Aracu, e, naturalmente, De Gregorio. Siamo nel febbraio del 2006, mancano 60 giorni alle elezioni politiche che vedranno prevalere l’Ulivo di Prodi sul centrodestra di soli 24 mila voti e, il 24 di quel mese, Aracu stacca dal suo conto presso l’agenzia di Montecitorio del Banco di Napoli San Paolo un assegno da 180 mila euro a favore della Caroli, cui è legato, oltre che dalla comune militanza politica, da rapporti societari nella “3G” (società di contact e call center con sede a Sulmona) e nella “Esseci”, immobiliare con proprietà in Sardegna. Ebbene, neppure una settimana dopo aver incassato la provvista, la Caroli, con un assegno tratto sulla filaliale di Pescara Unicredit-Banca di Roma, gira 100 mila euro a beneficio della Fondazione “Italiani nel Mondo – Reti televisive srl.”, la tasca in cui, nel tempo, De Gregorio farà regolarmente affluire il denaro che, a diverso titolo, e con
le più diverse giustificazioni, riceverà dal Pdl.
La circostanza, anni dopo, emerge nel calderone dell’inchiesta abruzzese sulla sanità e costringe la Caroli a una spiegazione che gli inquirenti chiosano come «poco convincente». La donna sentita a verbale nel 2009 dal colonnello Mauro Odorisio, oggi comandante provinciale della Guardia di Finanza di Pescara – sostiene infatti che quel denaro ricevuto da Aracu ha una sua giustificazione formale. Come documentato da un atto notarile è infatti il corrispettivo – spiega – della cessione al parlamentare del Pdl delle suo quote societarie in “Esseci”. Quanto poi ai 100 mila euro, versati a stretto giro dalla stessa
Caroli alla fondazione di De Gregorio, si tratta – aggiunge – di una semplice “coincidenza temporale”. «De Gregorio mi chiese un prestito a titolo personale – dice la donna alla Finanza – cui io acconsentì versando un assegno da 100 mila euro intestato a Italiani nel Mondo Reti televisive, così come lui stesso mi aveva chiesto. Prestito che poi mi venne restituito in diverse tranche nel giro di un anno».
Peccato che la Caroli, sollecitata durante la sua testimonianza, non sarà in grado di «ricordare su quali conti De Gregorio abbia tratto gli assegni» con cui avrebbe onorato il suo debito. E peccato anche che la Caroli non riesca neppure a spiegare per quale ragione avrebbe ceduto per soli 180
mila euro le quote di una società che, sulla carta, avevano un valore dieci volte superiore. Del resto, il giro di assegni non è l’unico filo che annoda la Caroli ed Aracu a De Gregorio. Dagli atti dell’inchiesta abruzzese, emerge infatti che l’immobiliare “Esseci” ha a sua volta avuto rapporti societari diretti con De Gregorio. «Fra il 2005 e il 2006 – spiega a verbale Maria Maurizio, impiegata della società – sono state fatte da parte della Esseci fatture a una società di De Gregorio che sono prettamente false». Lo stesso format si ripete con la “3G”, con un giro di fatture questa volta verso la Broadcast Video Press, altra società di De Gregorio. Ed è ancora la Maurizio a riferirne. «Era un giro di fatture tremendo. Nel 2003 e 2004, la 3G emetteva fatture false in favore della Broadcast e quest’ultima poi tornava ad emettere fatture nei confronti della 3G».
La “3G” di Aracu, del resto, società oggetto di un’inchiesta della Procura per riciclaggio (in cui risulta indagata anche la Caroli), svela un giro di fondi e finanziamenti che incrociano ancora una volta alcuni dei personaggi chiave nella vicenda della compravendita dei senatori. E’ la “3G”, infatti che paga fatture gonfiate alla International press di Valter Lavitola (il messo del Cavaliere incaricato nel 2008 di versare in contanti a De Gregorio i 3 milioni prezzo del “tradimento”). Ed è Aracu che, destino vuole, si ritrovi quale coinquilino del palazzo in cui abita in via Carducci a Pescara il senatore dell’Idv Antonio Razzi, altro transfuga che troverà la sua nuova casa proprio in coincidenza del suo cambio di casacca a Palazzo Madama.

La Repubblica 14.03.13

"Un voto che interroga anche i sindacati", di Pippo Frisone

Dopo i “vaffa..” e “tutti a casa”, rivolti all’intera classe politica,” l’extra omnes “dei prelati a conclave, chiude il cerchio delle “esortazioni “ forti , tanto per usare un eufemismo. Il dissesto dell’intero sistema politico, uscito dalle urne il 26 febbraio è sotto gli occhi di tutti gli italiani. Uno stallo pericolosissimo che si sovrappone ad una gravissima crisi economica e sociale.
Una disoccupazione in crescita che sfiora il 40% tra i giovani , sette milioni di italiani sempre più poveri, l’inflazione al 3%, il lavoro che non c’è , i contratti fermi al palo non possono non interrogare sul dopo-voto tutte le organizzazioni sindacali, stranamente ammutoliti in questa fase.

Come spiegare questo “strano”silenzio ? Una delle spiegazioni che mi son dato è che in questa anomala competizione elettorale han perso anche loro, Cgil, Cisl e Uil .

Ufficialmente agli atti degli organismi dirigenti non c’è stata una preventiva dichiarazione di voto o un documento a favore di questo o di quel partito. Ci son stati, è vero, dichiarazioni individuali di voto anche di segretari generali nazionali e di categoria, dichiarazioni apparse non solo sui giornali ma anche in televisione. Endorcement, presenze a convegni di partito, candidature di sindacalisti, segretari nazionali e regionali molto noti, distribuiti in quasi tutte le liste.

E poi, una non tanto velata campagna elettorale di appoggio e a sostegno delle rispettive tifoserie politiche.

C’era la convinzione anche in casa confederale che il centrosinistra avrebbe vinto le elezioni e che la Lista Civica di Monti ce l’avrebbe fatta a conseguire un buon risultato che l’avrebbe reso decisivo al Senato. Previsione del resto in linea con tutti i sondaggi, almeno fino a 15gg dal voto.

Poi la doccia fredda che ammutolisce e mette all’angolo anche i sindacati.

Come uscirne ? I sindacati checché ne pensi il sig.Grillo, nel bene e nel male sono ancor oggi una grande forza di coesione nazionale e di tenuta democratica di questo Paese.

Secondo gli ultimi dati riferiti al 2012 Cgil, Cisl e Uil organizzano e rappresentano oltre 12 milioni di italiani cosi distribuiti : Cgil 5.712.642 di cui 2.997.123 pensionati, Cisl 4.442.750 di cui 2.200.206 pensionati, Uil 2.196.442 di cui 575.266 pensionati, per un totale di 12.351.834

E inoltre, se ai confederali aggiungiamo la Ugl con 2.377.529 iscritti, la Confsal con 1.818.245 e le restanti OO.SS. minori, pari a 3.176.639 si raggiunge una cifra di quasi 20milioni di iscritti, pensionati compresi.

Su 23.025.000 lavoratori attivi e 6.000 autonomi e a progetto, i lavoratori sindacalizzati raggiungono quasi 10milioni.

Da dove ripartire per far uscire dall’angolo e dal silenzio le OO.SS. ?

Basta rievocare gli scioperi del marzo del 43 a Torino, Genova, Milano sotto l’occupazione nazi-fascista, come han fatto Angeletti , Camusso e Bonanni? Certamente non basta.

Per tornare a dare voce ai lavoratori nei luoghi di lavoro in un momento di grave crisi anche il sindacato deve voltare pagina.

Per farli contare c’è un solo modo : la condivisione nelle scelte che contano, a partire dai contratti nazionali e da quelli integrativi. Occorre rovesciare l’impostazione attuale. Occorre aprirsi e non trincerarsi dietro le decisioni degli apparati. Aprirsi non solo agli iscritti ma a tutti i lavoratori che altrimenti non avrebbero altre occasioni per potersi esprimere e contare.

L’accordo sugli scatti di anzianità, tanto per restare nella scuola su una materia ancora scottante, perché non è stato sottoposto al voto di tutti i lavoratori? Dobbiamo ancora rimanere prigionieri delle logiche di apparato che decidono per tutti o è giunto il momento di voltare pagina, se vogliamo veramente imparare qualcosa dal voto del 24-25 febbraio ? E’ stato sufficiente il referendum indetto dalla sola Flc-cgil ? Sicuramente no. La semplice testimonianza non basta più.

Tutte le OO.SS. almeno le più grandi e a partire da quelle confederali devono fare molto di più.

Oltre alla sburocratizzazione interna, allo svecchiamento necessario, al rinnovamento delle procedure interne con congressi troppo lunghi, devono portare a termine i problemi irrisolti della rappresentanza, rappresentatività sindacale e della loro certificazione, della validazione dei contratti nazionali e integrativi.

Il 28 giugno 2011 è stato firmato un accordo interconfederale tra Confindustria e Cgil,Cisl e Uil proprio sulla rappresentanza sindacale.

Una prima risposta ai colpi di mano di Marchionne sui referendum ultimativi con ricatto incorporato.

Perché non partire da lì per stimolare poi una legge sulla rappresentanza? Dare seguito e applicazione a quest’ultimo accordo unitario sarebbe già un primo timido segnale, magari ancora insufficiente ma comunque un segnale importante per riprendere un cammino unitario in nome della democrazia sindacale.

Prima che sia troppo tardi anche per il sindacato .

Prima che arrivi qualcuno e gli gridi: Extra omnes! Fuori tutti!

da ScuolaOggi 14.03.13

"Nel segno di Francesco la speranza di un tempo nuovo", di Claudio Sardo

Francesco come il santo d’Assisi . Come nessuno dei successori di Pietro aveva fin qui scelto di chiamarsi. L’elezione di un nuovo Papa porta sempre con sé un sentimento di speranza, al tempo stesso laico e religioso. Ma questa volta, in quel nome, c’è qualcosa di prorompente: c’è uno spirito, una promessa, una domanda che scuote la Chiesa e insieme interroga «gli uomini di buona volontà». L’allegria di Francesco che sconvolge il conformismo dei benpensanti. La povertà di Francesco che ribalta le gerarchie del successo. La fraternità di Francesco che travolge l’individualismo e l’egoismo.
La Chiesa attraversa una crisi nella modernità secolarizzata. Gli scandali e i corvi sono, al fondo, l’epifenomeno di numerose difficoltà. Il messaggio evangelico va controcorrente rispetto ai valori oggi dominanti. L’anelito alla trascendenza si scontra con un pensiero che vive solo nell’immanenza, e talvolta solo nel presente.
Il perdono, che è parte essenziale della fraternità cristiana, è oggi una parola quasi impronunciabile tra mille paure e rancori. Eppure la testimonianza della Chiesa, in questo passaggio epocale, spesso non è all’altezza. Non sono all’altezza le sue strutture, le relazioni tra chiese locali e chiesa romana, la scarsa collegialità. E talvolta la sua immagine tradisce conservazione del potere, privilegio, distacco. C’è anche un difficile adattamento alla società globale della comunicazione: e forse non potrebbe essere altrimenti, essendo il cristianesimo fondato su un incontro «personale» che cambia la vita.

La Chiesa, come scrive don Giovanni Nicolini in un articolo sul nostro giornale, non è una società di giusti, ma una comunità di peccatori. E l’umiltà del gesto di Benedetto XVI le ha offerto una straordinaria opportunità di cambiamento. Una ripartenza. Dalla coscienza di un limite alla speranza di un tempo nuovo, che faccia rifiorire i germogli del Concilio, che trasmetta una fede autentica, che riporti i cristiani sulle strade del mondo accanto a tanti altri uomini, che magari non credono ma recano nel loro volto e nei loro gesti la stessa domanda di giustizia.
Papa Francesco è oggi una promessa per la Chiesa. Lo conosceremo. Ha un’origine italiana ma parla spagnolo, come ormai la maggioranza dei battezzati. Abbiamo intuito che in quel definirsi «soltanto» vescovo di Roma c’è un’idea di Chiesa universale come condivisione tra chiese locali. Ma quel che ha più colpito nelle prime parole da Papa è stato il richiamo al «popolo», la richiesta al «popolo» di benedirlo (attraverso la preghiera): dopo le dimissioni di Ratzinger il ministero di Pietro è meno regale, e più proiettato nella dimensione conciliare della fraternità. Francesco fu un innovatore, e partì da una rottura con la gerarchia del tempo. I cattolici hanno capito, guardando il nuovo Papa in tv, che saranno chiamati a partecipare al rinnovamento. Perché non ci sarà cambiamento senza popolo, senza condivisione, senza rimettersi in gioco. Ma la sfida va oltre la comunità dei credenti. Riguarda le società occidentali, i Paesi ricchi, le inaccettabili diseguaglianze mondiali, lo sfruttamento, le libertà negate, gli egoismi individuali e di classe, i diritti delle donne, e si potrebbe continuare a lungo.
La fede religiosa è una riserva di speranza per il futuro dell’uomo e per un cambiamento nel segno dell’uguaglianza. È una riserva anche quando la stessa Chiesa zoppica o si mette di traverso, per qualche ragione storica o politica. Speriamo che Francesco mantenga la grande, emozionante promessa contenuta nel suo nome. La povertà, il sorriso, la fiducia, la condivisione: quanto ne ha bisogno l’uomo moderno. Abbiamo bisogno di andare oltre gli errori compiuti. Abbiamo bisogno di ritrovare un popolo che salvi la persona dalla sua solitudine di fronte ai «mercati». Il cambiamento nel segno dell’uguaglianza è oggi anche la più alta aspirazione laica e civile.

L’Unità 14.03.13

Napolitano: non ho offerto nessuno “scudo”

Gentile Direttore, nell’articolo “Un premio ai sediziosi”, Massimo Giannini ha dato una versione arbitraria e falsa dell’incontro con una delegazione del Pdl da me tenuto in Quirinale martedì mattina. E’ falso che mi siano stati chiesti “provvedimenti punitivi contro la magistratura”: nessuna richiesta di impropri interventi nei confronti del potere giudiziario mi è stata rivolta, come era stato subito ben chiarito nel comunicato diramato alle ore 13.00 dalla Presidenza della Repubblica. Comunicato che Giannini ha ritenuto di poter di fatto scorrettamente smentire sulla base di non si sa quale ascolto o resoconto surrettizio. Né la delegazione del Pdl mi ha “annunciato” o prospettato alcun “Aventino della destra”. L’incontro mi era stato richiesto dall’on. Alfano la domenica sera nell’annunciarmi l’annullamento della manifestazione al Palazzo di Giustizia di Milano (poi svoltasi la mattina seguente senza preavviso, da me valutata “senza precedenti” per la sua gravità).
L’incontro in Quirinale con i rappresentanti della coalizione cui è andato il favore del 29 per cento degli elettori, era stato confermato dopo mie vibrate reazioni — di cui, del resto, il suo giornale aveva ieri dato conto — espresse direttamente ai principali esponenti del Pdl per la loro presa di posizione.
Quel rammarico, ovvero deplorazione, è stato da me rinnovato, insieme con un richiamo severo a principi, regole e interessi generali del paese che, solo con tendenziosità tale da fare il giuoco di quanti egli intende colpire, Giannini ha potuto presentare come “riconoscimento al Cavaliere di un legittimo impedimento automatico, o di un ‘lodo Alfano’ provvisorio”. Nell’incontro di ieri sera (martedì serandr) con il Comitato di Presidenza del Csm — incontro da me promosso, in segno del mio costante rispetto verso la magistratura e il suo organo di autogoverno (e semplicemente omesso nell’articolo di Giannini) — è risultato ben chiaro che nessuno “scudo” è stato offerto a chi è imputato in procedimenti penali da cui non può sentirsi “esonerato in virtù dell’investitura popolare ricevuta”.
Mi auguro che da parte di Giannini, anziché deplorare aggressivamente il Capo dello Stato per non avere manifestato lo “sdegno” e la “forza” che il bravo giornalista avrebbe potuto suggerirgli, ci siano in ogni occasione rigore e zelo nei confronti di tutti i sediziosi, dovunque collocati e comunque manifestatisi.
Cordialmente. Giorgio Napolitano

La Repubblica 14.03.13

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di seguito l’articolo apparso ieri su Repubblica a cui fa riferimento il Presidente Napolitano

“UN PREMIO AI SEDIZIOSI”, di MASSIMO GIANNINI
C’È RIMASTO solo un faro, a illuminare questa lunga notte della Repubblica. Negli ultimi giorni del suo settennato, Giorgio Napolitano deve guidare il Paese fuori dalla crisi. Il “peso” di questa consapevolezza ispira ogni riga del comunicato con il quale il Capo dello Stato invita la politica e la magistratura a ritrovare il senso della «comune responsabilità istituzionale», in uno dei tornanti più critici della storia repubblicana. Ma questa volta l’appello del Colle, insieme alla condivisione istituzionale, riflette una
“sproporzione” politica. La condivisione istituzionale è ovvia. In un’Italia lacerata dal conflitto permanente tra i poteri dello Stato, innescato negli anni Novanta da Tangentopoli ed esasperato nel quasi Ventennio berlusconiano dalle torsioni cesariste del Cavaliere, il «ristabilimento di un clima corretto e costruttivo nei rapporti tra politica e giustizia» è davvero il minimo che si possa esigere. Napolitano non si è mai stancato di chiederlo, con equilibrio e con determinazione, nell’intera traiettoria del suo mandato. Che ci riprovi oggi è logico e giusto.
È giusto invocare che politici e magistrati non si percepiscano come «mondi ostili». È giusto pretendere che si evitino «tensioni destabilizzanti per il nostro sistema democratico », vista soprattutto «l’estrema importanza e delicatezza degli adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza». È giusto ricordare al Cavaliere e ai “caimani” in grisaglia schierati davanti al tribunale di Milano che nessuna «investitura popolare ricevuta» può esonerare un politico dal «più severo controllo di legalità », che è e deve restare «un imperativo assoluto per la salute della Repubblica». Ed è altrettanto giusto rammentare ai magistrati che non si devono mai sentire depositari di «missioni improprie», ma devono limitarsi al rispetto scrupoloso dei «principi del giusto processo sanciti dal 1999 nell’articolo 111 della Costituzione».
Parole incontestabili. Suggerite dal buon senso e dal senso dello Stato. Ma Napolitano non si ferma qui. Questa volta pronuncia altre parole, che nella contesa in atto tra la “destra di piazza” e la magistratura configurano un’evidente sproporzione politica. Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo quasi con disprezzo «l’aberrante ipotesi» del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere e dalle sue truppe cammellate, giudica «comprensibile» la preoccupazione del Pdl di «veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento ».
Il movente che spinge Napolitano ad accogliere questa «preoccupazione» è chiaro. Di qui alla metà di aprile si susseguiranno appuntamenti fondamentali, per trovare una via d’uscita dalla crisi. L’insediamento delle nuove Camere, l’avvio delle consultazioni, l’elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento. Il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongano con queste scadenze, dal buon esito delle quali dipendono le sorti politiche della nazione.
L’effetto pratico di questo “monito” è rilevante. Nei fatti, è come riconoscere al Cavaliere un “legittimo impedimento” automatico, o un “Lodo Alfano” provvisorio, che da qui ai prossimi mesi gli fa scudo ai processi nei quali è ancora coinvolto, e dai quali ancora sistematicamente si sottrae, non più nella sua veste di presidente del Consiglio, ma in quella di leader «dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio».
L’effetto politico è ancora più eclatante. E non è un caso che gli “arditi” del Pdl, appena rientrati dalla “marcia su Milano”, ora festeggino il comunicato del Colle. Gli “atti sediziosi” di questa destra italiana, pronta a sfidare un Palazzo di giustizia per salvare il suo leader dai “giudici-cancro da estirpare”, non solo non vengono sanzionati come meriterebbero. Ma alla fine risultano addirittura premiati. Il comunicato del Quirinale arriva il giorno dopo quella che Christopher Lasch definirebbe un’impensabile «rivolta delle élite ». Un “assedio” simbolico, ma fino a un certo punto, di un gruppo di eletti del popolo che si ribellano contro un potere dello Stato. Un fatto enorme, mai accaduto dal 1948 ad oggi, che avrebbe dovuto sollevare una reazione sdegnata di tutte le istituzioni e di tutte le forze politiche.
E invece il presidente della Repubblica ha ricevuto una delegazione del Pdl guidata da Alfano, salito sul Colle per chiedere provvedimenti punitivi contro la magistratura e per annunciare altrimenti l’Aventino della destra. Quasi un ricatto, al Paese e alle sue istituzioni. Comunque un “atto di forza” intollerabile, che andava respinto con sdegno e con altrettanto forza. E che invece ha raggiunto il suo scopo. Assicurare un improprio “salvacondotto” a un cittadino che, per quanto “popolare”, è e dovrebbe essere uguale a tutti gli altri di fronte alla legge. Rilanciare il padre-padrone di questa destra, impresentabile perché irresponsabile, dentro uno schema politico che ora gli consente persino di rivendicare il Quirinale, oltre che di giocare a viso aperto la partita delle “larghe intese”. Nel silenzio, assordante e colpevole, della sinistra e del Pd, che difende il suo fortino mentre i vecchi “arci-nemici” e i nuovi “falsi-amici” saccheggiano quel che resta del-l’Italia.

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“Il Quirinale non è cerchiobottista le toghe evitino tentazioni di piazza”, di Liana Milella

Non è una giornata come le altre al Csm. La tensione si taglia a fette. La voglia di protestare tra i togati è fortissima. Dice il vice presidente Michele Vietti: «È il momento di tenere i nervi saldi».
Non era mai accaduto che nel plenum non si discutesse di un fatto rilevante come la nota di Napolitano e la manifestazione del Pdl a Milano. Perché il presidente ha chiesto di soprassedere e lei ha insistito perché si facesse così? C’era il timore di dure contestazioni?
«Per la verità il presidente non ha chiesto nulla e tantomeno di rinunciare a una discussione. È stata una scelta autonoma, condivisa da tutti i consiglieri, quella di evitare, in un momento così delicato per la vita politica e istituzionale del Paese, un dibattito che avrebbe rischiato di dare all’esterno l’immagine di una magistratura o assediata o all’attacco».
Avete discusso a lungo prima del plenum, e anche litigato. Due consiglieri, Di Rosa e Carfì, sono usciti. Non le pare che il Colle stia giocando troppo a favore del Pdl e contro i giudici?
«In due anni e mezzo non ho mai litigato con nessun collega consigliere e non l’ho fatto neanche oggi. Non so se qualcuno è uscito perché non l’ha messo a verbale. La posizione di Napolitano è ineccepibile e non può essere accusata di partigianeria».
Un ex vice presidente del Csm come Grosso si chiede, ma non è il solo, cosa sarebbe successo se un gruppo di magistrati fosse andato a protestare davanti al Parlamento.
Il passo del Pdl non andava sanzionato più duramente? Perché lei non lo ha fatto subito?
«Quando il presidente del Csm parla, il vice tace. Il capo dello Stato ha definito la manifestazione politica all’interno del palazzo di giustizia di Milano di una gravità senza precedenti. Per fortuna i magistrati non fanno sit-in davanti alle Camere».
Le toghe non hanno giudicato affatto bene la nota di Napolitano. C’è chi lo accusa di cerchiobottismo…
«Consiglio a costoro di leggere bene tutte le dichiarazioni del presidente, da quella successiva all’incontro con il Pdl, a quella fatta dopo il vertice con il comitato di presidenza. Certo il capo dello Stato, in questo momento, deve farsi carico della gestione del difficile passaggio post elettorale ed è comprensibile che tra le sue preoccupazioni ci sia anche quella di evitare turbative ai già precari equilibri politici».
Non è un cattivo segnale per i cittadini comuni che Berlusconi ritenga di aver ottenuto una moratoria ai processi avallata dal Quirinale?
«Non ho sentito nessuno, e tantomeno Napolitano, parlare di moratoria. Si è detto che un leader politico deve poter “partecipare adeguatamente alla fase politicoistituzionale in pieno svolgimento” ».
Napolitano ha sempre richiamato i magistrati all’equilibrio. Ma farlo adesso non diventa una reprimenda?
«L’equilibrio è una qualità sempre indispensabile, in particolare per la giurisdizione. Richiamarlo non fa mai male e i magistrati non devono interpretarlo come una ramanzina».
Le sembra forse che i due fatti — la manifestazione del Pdl e il comportamento dei magistrati di Milano e di Napoli — possano essere messi sullo stesso piano?
«No, tant’è che non mi pare nessuno l’abbia fatto. Quei magistrati hanno rispettato le regole, né ciò viene loro contestato. Ho sentito solo considerazioni di opportunità cronologica che attengono ai tempi delle decisioni processuali rispetto al contesto politico».
Ma quando Napolitano parla di «missioni improprie» delle toghe, a cosa si riferisce?
«La citazione è estrapolata da un discorso più generale sui rapporti tra politica e giustizia. Napolitano ricorda ciò che ha detto negli anni anche al Csm, premettendo che “il più severo controllo di legalità è un imperativo assoluto per la salute della Repubblica da cui nessuno può considerarsi esonerato in virtù dell’investitura popolare”. E chi ha orecchie per intendere, intenda».
L’invito del capo dello Stato a rispettare i diritti delle difese è una critica alle visite fiscali di Milano e alla decisione di Napoli di andare al giudizio immediato per Berlusconi?
«No».
Eppure tutti hanno pensato a quelle scelte processuali.
«Invece anche in questo caso di tratta di espressioni riferite a precedenti interventi di Napolitano che vanno lette nella continuità del suo magistero in materia di giustizia e non le ridurrei a notazioni di cronaca».
Ma è vero che lei ha mediato con Napolitano per ammorbidire la nota?
«La nota è sua. E non dico altro».
Come giudica la richiesta di un magistrato — Andrea Reale di Proposta B — all’Anm di chiedere subito un incontro urgente al Colle?
«L’Anm è una libera associazione che ha una libera dialettica con i propri iscritti. Se deciderà di chiedere un incontro al capo dello Stato non ho ragione di dubitare che gli verrà concesso».
E quella di manifestare sotto il Quirinale con la Costituzione in mano?
«I magistrati esercitano una funzione che ha come presupposto indispensabile l’autorevolezza. Non credo che iniziative di piazza la rafforzino».

La Repubblica 14.03.13

"Addio a Teresa Mattei partigiana e femminista", di Simonetta Fiori

Fu sua l’idea della mimosa, per la festa dell’8 marzo. E riuscì a spuntarla su Luigi Longo, che voleva regalare le violette, come era d’uso in Francia. Ma a Teresa Mattei apparve più giusto un fiore povero, quel velluto giallo gialle diffuso nelle campagne. È morta ieri nella sua casa di Usigliano (Pisa) la più giovane dei Costituenti. Partigiana, combattente nella formazione garibaldina, Teresa era nata a Genova il primo febbraio del 1921. A 21 anni l’iscrizione al Pci, un partito ancora clandestino. “Chicchi” il suo nome di battaglia: a lei e al suo gruppo s’ispira Roberto Rossellini per l’episodio fiorentino del celebre Paisà.
Non manca il coraggio, alla combattiva Chicchi. Anni più tardi ricorderà il ruolo giocato nell’uccisione di Giovanni Gentile, che lei conosceva dai tempi dell’università, essendosi laureata a Firenze in filosofia. «Per fare in modo che i gappisti lo riconoscessero», racconterà Teresa, «alcuni giorni prima li accompagnai presso l’Accademia d’Italia della Rsi, che Gentile dirigeva». Mentre lo studioso usciva dal suo studio, lo indicò ai partigiani. «Lui mi scorse e mi salutò».
Il temperamento d’acciaio l’aveva già dimostrato nel 1938, quando venne espulsa da tutte le scuole del regno per aver rifiutato di assistere alle lezioni in difesa della razza. Forse l’unica giovane italiana a farlo, o almeno tra i pochissimi. E nel 1955 sarà cacciata dal Pci perché contraria alla linea togliattiana. D’altra parte esempi di coraggio non mancavano in famiglia. Nel 1944 suo fratello Gianfranco, partigiano dei Gap, si tolse la vita nella cella di via Tasso a Roma pur di non tradire i suoi compagni.
Anche in Parlamento la partigiana Chicchi non mancò di dare battaglia ai suoi colleghi maschi. Un saggio recente di Laura Di Nicola ricorda la sua lotta perché le donne avessero accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura. Ma le parlamentari elette alla Costituente erano 21 su 558, e passò la linea che di fatto giudicava le donne «incapaci di equo giudizio» (soltanto nel 1963 potranno entrare in magistratura). La battaglia cominciata da Bianca Bianchi e Angelina Merlin, Teresa Mattei e Maria Maddalena Rossi fu al centro di una vivace discussione sulle pagine del Mercurio diretto da Alba De Céspedes, che sostenne con argomenti modernissimi «la capacità delle donne di comprendere tutto quello che gli uomini non comprenderanno mai», proprio per la capacità di «scendere in fondo al pozzo».
In difesa dei diritti delle donne — e dei minori — Teresa Mattei continua il suo impegno nel dopoguerra, fondando prima l’Ente per la tutela morale del fanciullo, più tardi un centro studi per la progettazione di servizi e prodotti per l’infanzia. Ancora negli anni Sessanta rinnova la sua militanza dalla parte dei bambini, coniugandola con la passione per il cinema. Nel 1966 diventa presidente della Cooperativa di Monte Olimpino a Como, che con Bruno Munari e Marcello Piccardo realizza film nelle scuole.
Anticonformista nella vita pubblica, e in quella privata. Sposata due volte, suscita scandalo quando aspetta il primo figlio da Sanguinetti — suo compagno nell’azione contro Gentile — perché non ancora coniugata. Con Bruno si sposeranno a Budapest nel luglio del 1948.
Tra gli ultimi testimoni dell’antifascismo, della Resistenza e della Costituzione, Teresa Mattei portò dentro le istituzioni il punto di vista delle donne. E su posizioni spesso ribelli lo difenderà fino alla fine del suo mandato. Ora riposa nella sua casa di Lari, tra nuvole gialle di mimosa.

La Repubblica 13.03.13

"Start up, la creatività non basta cresciute del 20% le aziende che emigrano all’estero", di Federico Rampini

Anche le start-up emigrano. Sempre più spesso le neonate imprese innovative scelgono la strada dell’estero. Di preferenza spiccano il volo verso la Silicon Valley. E questo nuovo tipo di “fuga” — che con le imprese trasporta all’estero cervelli, idee, brevetti — ha avuto una brusca accelerazione proprio nell’ultimo anno. È il risultato di un’indagine presentata ieri nella Silicon Valley in occasione dell’Italian Innovation Day. La ricerca rivela un balzo del 20% in un solo anno, nel numero di neoimprese che hanno abbandonato l’Italia per costituire la sede sociale altrove. Nel 2012 sono state ben l’11% del totale, quelle che hanno deciso di abbandonare il nostro paese, la maggioranza ha scelto di venire negli Stati Uniti.
Corporate drain è il neologismo coniato per designare questo fenomeno che si accentua e fa da moltiplicatore rispetto ad altri drain, flussi in arrivo di talenti, risorse umane, brevetti e idee, tutti fattori riuniti dentro le start-up. Altra rivelazione importante di questa inchiesta: non è tanto la mancanza di finanziamenti a far fuggire i giovani inventori-imprenditori dall’Italia. Certo la Silicon Valley è l’Eden mondiale del venture capital, eppure questa facilità di accesso ai fondi figura solo al quinto posto tra le motivazioni della fuga. Al primo posto, col 69% di risposte nell’indagine, c’è un fattore ben diverso. E’ il “network di contatti”, seguito dalla possibilità di accesso a risorse umane di alto livello (ingegneri, programmatori, manager), e la prossimità con centri di ricerca. A loro volta, questi centri di ricerca (per lo più universitari) sono il bacino principale a cui attingere per cultura manageriale, invenzioni, reclutamento di personale altamente qualificato. La conclusione della ricerca sfata alcuni luoghi comuni. La leadership mondiale della Silicon Valley californiana non è legata tanto all’abbondanza del capitale di rischio; è totalmente indifferente ai criteri di costo (la California ha una pressione fiscale tra le più elevate degli Stati Uniti e i salari al top). Quello che rende unica la Silicon Valley è “l’ambiente”, la vicinanza delle grandi università (Stanford, Berkeley e molte altre) che forniscono materia grigia e capacità di ricerca. A loro volta queste università hanno una marcia in più grazie alla dotazione di fondi (privati più ancora che pubblici), la meritocrazia, l’apertura alle relazioni con il business.
Se la Silicon Valley accoglie a braccia aperte tante start-up italiane, però, è anche un riconoscimento della loro qualità. L’Italian Innovation Day si è aperto in un luogo simbolico, il nuovo museo di storia dei computer a Mountain View (a poca distanza dal quartier generale di Google) e rendendo omaggio a un grande italiano, Federico Faggin, che inventò il primo microchip per Intel. A organizzare l’evento è stata Mind the Bridge, la fondazione non-profit creata da Marco Marinucci (ex di Google) a San Francisco per fare da “ponte” tra California e Italia con borse di studio, premi, “scuole” d’incubazione di neoimprenditori. La ricerca è di Alberto Onetti, un altro pendolare tra Italia e West Coast americana, economista del Cresit all’università Insubria di Varese e alla San Francisco State University. Dal suo studio emerge una tenace vitalità italiana: ogni anno da noi nascono tra 800 e mille start-up. Con questo termine si definiscono imprese giovanissime (o addirittura progetti d’impresa allo stadio embrionale) ma con forte vocazione a crescere, e una spiccata tendenza all’innovazione. Le start-up sono un mondo a parte, rispetto al ben più vasto universo delle piccole imprese italiane: anzitutto perché non hanno la vocazione a restare piccole; in seguito per la tensione creativa che ne fa un motore di crescita “contagioso” verso il resto dell’economia. Tra le italiane il 49% hanno attività legate a Internet, il 22% all’informatica, restano marginali le tecnologie verdi e le bioscienze. Il Norditalia concentra il massimo di questi giovani imprenditori (52%), ma la quota del Mezzogiorno è in crescita. Il 69% di queste neoimprese decide di «stabilirsi dove il network dei contatti è più ricco».
La ricerca di Onetti va confrontata con quella realizzata in parallelo sulle start-up americane dalla Fondazione Kauffman. Ecco le differenze più significative. Nel mondo delle start-up americane le donne rappresentano un terzo degli imprenditori, mentre in Italia sono solo l’11%. Il 44% non è alla sua prima start-up, mentre da noi gli “imprenditori seriali” sono solo il 25%. Infine il 40% dei neoimprenditori innovativi di qui dichiara di «non avere incontrato alcun ostacolo nella costituzione della propria società». E questo ha a che vedere con la qualità dell’“ambiente” normativo, burocratico e legale.

La Repubblica 13.03.13

"Quello che non abbiamo capito", di Pierluigi Castagnetti

È già stato detto tanto del risultato elettorale, ma c’è ancora da riflettere e da discutere. Un risultato oggettivamente molto preoccupante e ancor di più se si guarda alle motivazioni di chi l’ha determinato. Stanno uscendo analisi elettorali sempre più precise che aiutano a capire cosa è successo. S’è spezzato qualcosa di vitale nel rapporto fra i partiti, il Pd in particolare, e una parte della società, che rende in gran parte superate le nostre discussioni più o meno di geometria politica del tipo: bisogna spostare più a sinistra o più al centro la barra del partito. No, questo risultato ha spiazzato gli assi del dibattito politico, ponendo al centro la questione della credibilità, dell’affidabilità, dell’utilizzabilità dei tradizionali strumenti politici compreso il personale dirigente. S’è rotto qualcosa, dunque. Personalmente rivivo il clima e molte delle sensazioni del 1994. Anche allora (io ero dirigente Dc) a fronte di militanti che mi dicevano che sarebbe bastato tornare a votare per consentire a una parte di elettori di Forza Italia pentiti di tornare indietro, bastava uscire dal recinto per rendersi conto che le cose stavano in altro modo, era semplicemente iniziata un’altra fase.
Oggi mi pare sia necessario distinguere Grillo, Casaleggio e i loro disegni, su cui occorrerà fare un discorso molto ma molto serio, dai loro elettori. Dobbiamo concentrarci su questi ultimi e sulle loro motivazioni, che non avevamo intuito nella loro intenzionale dirompenza. In un primo tempo si poteva pensare che il Pd avesse pagato il sostegno al governo Monti e poi, guardando il risultato dei grandi oppositori Idv e Sel, ci si accorge che c’è dell’altro. Le due ricerche post elettorali illustrate da Luca Comodo (Il Sole 24 ore, domenica 10 marzo) e Ilvo Diamanti (la Repubblica, lunedì 11 marzo) ci fanno una fotografia spietata: laureati, diplomati, imprenditori-dirigenti, lavoratori autonomi, impiegati-insegnanti, operai, disoccupati, studenti, dipendenti pubblici, dipendenti privati, hanno tutti votato più il M5S che il Pd. Il Pd prevale solo tra i pensionati. C’è cioè un intero Paese – fasce emotivamente più suggestionabili e fasce solitamente più razionali – che ha scelto uno strumento elettorale oggetto-contundente, esplicitamente orientato a «far saltare» il sistema. Risultato: l’ingovernabilità.
Possibile che tanti laureati, dirigenti, imprenditori, non prevedessero l’effetto e, se sì, non misurassero le drammatiche conseguenze che si sarebbero abbattute su tutto e su tutti? Che neppure i ceti in qualche misura garantiti, dipendenti pubblici e privati, non si siano lasciati guidare da una qualche pulsione conservativa? Che gli operai o i disoccupati non abbiano riflettuto sul fatto che l’ingovernabilità avrebbe prodotto caos e allontanamento di ogni prospettiva di uscita dalla crisi? Sì, possibile. Un Paese che per almeno una decina d’anni ha mostrato apparente indifferenza verso il futuro, improvvisamente s’è risvegliato ed è esploso. Improvvisamente? Molto probabilmente no. Si sentiva che qualcosa stava maturando, ma non ci si è accorti che era prossima l’esplosione. Come una cosa – ha scritto Michele Serra – che fa parte del tuo campo visivo, ma non l’hai messa a fuoco.
Se allarghiamo l’orizzonte ci si accorge peraltro che il fenomeno non è solo italiano, anche se non può consolare. Quel milione di portoghesi (su 10 milioni di abitanti) che scende in piazza sotto lo slogan «la troika si fotta» (senza parlare di altri Paesi), ci dice che la crisi è quantomeno europea ed evoca in primo luogo una risposta politica europea. Gli articoli di Cuperlo, Fassina e Reichlin mettono giustamente in evidenza la necessità urgentissima di porre mano ad una nuova strategia dell’Unione. Persino economisti della solidità e moderazione di Alberto Quadrio Curzio sono giunti alla conclusione che non si possa attendere le elezioni tedesche per bloccare l’ossessione finanziaria di quel governo, che sta mettendo in ginocchio le economie del continente. Ci sarebbe bisogno, nell’Italia di questa ora, di un governo in grado di proiettarsi con forza sulla scena europea. Ma il risultato elettorale del 25 febbraio non lo consente. Anzi, proprio quel risultato ci «costringe» all’assunzione della responsabilità nuova di un discorso chiaro e inevitabilmente drammatico al Paese. Cioè al popolo italiano tutto intero. Dal Parlamento, ma oltre il Parlamento. Ciò che potevamo fare per avvicinare e avvicinarci al messaggio di M5S, Bersani lo ha già fatto. Di più non è possibile. La diversità fra chi vuole fare saltare tutto e chi ha un’idea della politica come responsabilità, non regge cedimenti culturali ed etici smisurati. E tutto ciò dobbiamo dirlo al Paese, farglielo capire bene, con modestia, forza, e chiarezza: le nostre persone (di gruppo dirigente) non sono importanti, lo stesso nostro modello di partito può essere cambiato radicalmente, ma il valore della responsabilità democratica e civile per l’oggi e per le generazioni di domani, non può essere rinunciato. Sarebbe un imperdonabile «reato simoniaco». Dobbiamo mettere il senso della nostra disponibilità estrema, il nostro cuore oltreché la nostra intelligenza nelle mani del Paese, cercando di aiutarlo a capire il processo storico in corso, e a cogliere la nostra irriducibile determinazione a cambiare l’attuale situazione di paralisi e ingiustizia, in un quadro duraturo. Dobbiamo far capire che senza governo solido, ancor più dopo inevitabili nuove elezioni, non si va da nessuna parte. E farlo con la serenità di chi sa il proprio dovere, e sa anche «che non tutto è nelle nostre mani».

l’Unità 13.03.13