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"Un lavoro dignitoso alle donne per combattere la violenza", di Susanna Camusso

La violenza contro le donne e le ragazze resta una delle forme più gravi di violazione strutturale dei diritti umani a livello mondiale. Qualunque sia la forma della violenza, è sempre dovuta a un comportamento violento ed inaccettabile. Una ragazza su tre oggi nel mondo si troverà ad affrontare alcune forme di violenza nella sua vita. La violenza esiste in tutte le società, in tutti i Paesi, in tutte le aree geografiche e colpisce ovunque i gruppi di donne e ragazze in tutti gli strati della società. In molti Paesi, come l’Italia, mentre le uccisioni in generale mostrano una diminuzione, le ricerche indicano che il femminicidio rappresenta un dato costante nel tempo, da lungo tempo. A nome del movimento sindacale internazionale, rappresentato in questa sede dalla Confederazione internazionale dei sindacati , dell’Internazionale dell’educazione e dell’Internazionale dei servizi pubblici, riteniamo necessario sottolineare che le azioni di prevenzione, contrasto e punizione intraprese dai governi e da importanti attori istituzionali non sono state sufficienti a frenare la violenza fino ad ora. La violenza rimane, pertanto, il principale problema sociale che rischia di cadere nel silenzio se non viene contrastato adeguatamente: se le donne non si sentono adeguatamente protette, la conseguenza sarà una maggiore paura e una maggiore difficoltà a denunciare la violenza. Non ci sono dubbi che una prima risposta a questa sfida consista nel dare alle donne opportunità di un lavoro dignitoso, dato che il lavoro dignitoso significa sicurezza, empowerment e autonomia necessarie che permettono alle donne stesse di denunciare apertamente i responsabili. La violenza contro le donne si compie per lo più nei luoghi protetti, in famiglia, in casa e nei luoghi di lavoro. La violenza di genere è un fenomeno diffuso ancora molto sottostimato. Interessa milioni di donne e comporta conseguenze sproporzionate sui gruppi di donne vulnerabili come le lavoratrici domestiche, migranti e precarie. Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la grave situazione della violenza di genere nei luoghi di lavoro che nega alle donne il diritto fondamentale di vivere in dignità e libertà. Come sindacati chiediamo che siano adottate misure urgenti a livello internazionale per assistere le lavoratrici nel contrastare la gravità della massiccia violenza e per stabilire una strategia per prevenire ed eliminare queste pratiche. La Commissione sulla condizione delle donne del 2013 deve adottare delle Conclusioni finali forti che prevedano un forte impegno a sviluppare un Piano d’azione globale vincolante per porre fine alla violenza sulle donne e sulle ragazze, con una particolare attenzione alla prevenzione della violenza, fornendo una guida operativa per il monitoraggio degli obblighi internazionali esistenti, come la Convenzione Cedaw e la piattaforma d’azione di Pechino. Le disuguaglianza di genere e le discriminazioni inaspriscono la violenza. In cinque anni di profonda crisi economica e sociale globale, per la maggior parte delle donne sono aumentati gli ostacoli, i problemi, i ricatti e le pressioni sul lavoro. La crisi viene usata come pretesto per ridimensionare i diritti del lavoro e per eliminare posti di lavoro, indebolendo la condizione delle donne e la tutela giuridica sul posto di lavoro. La struttura attuale del mercato del lavoro, sia che impedisca la partecipazione delle donne e sia che le renda sempre più precarie, rappresenta uno dei principali ostacoli per l’autonomia e l’ empowennent delle donne. La privatizzazione, il riaggiustamento strutturale e le varie misure di «austerità» hanno comportato la perdita di importanti servizi pubblici e posti di lavoro nel settore pubblico. Dal momento che in molti Paesi esiste un’alta concentrazione di donne nel lavoro del settore pubblico, le donne sono colpite in modo sproporzionato come lavoratrici e per la loro dipendenza dai servizi pubblici. Inoltre, i tagli alla spesa pubblica hanno un impatto negativo sull’efficacia delle misure preventive e dei servizi sociali forniti alle vittime della violenza. L’eliminazione della violenza richiede un intervento forte delle autorità pubbliche per definire e attuare adeguate misure preventive, per garantire una tutela giuridica, il perseguimento dei reati e per fornire sostegno e risarcimento alle vittime. Per questo motivo, crediamo che debba essere adottata un’azione globale che lavori su tre direzioni e attuarla, senza ulteriori ritardi, in termini culturali e istituzionali. La prima direzione dovrebbe essere la prevenzione che si concentra sull’istruzione delle ragazze e dei ragazzi, delle donne e degli uomini, l’inaugurazione di campagne pubbliche sulle questioni del rispetto della persona, la sicurezza nelle città, norme a tutela delle donne vittime della violenza, centri di consulenza per donne bisognose di aiuto. La seconda dovrebbe contrastare la violenza e garantire la certezza della pena. La terza dovrebbe garantire l’assistenza a coloro che hanno subito a violenza. In altre parole, si tratta di garantire che le donne possano godere pienamente dei diritti umani e delle libertà fondamentali, perché la violenza sulle donne e sulle ragazze è una sconfitta per tutti.

L’Unità 13.03.13

"Il Pilota Automatico nei palazzi del potere", di Barbara Spinelli

SI È creata d’improvviso quiete, il 7 marzo all’Eurotower di Francoforte, quando Mario Draghi ha parlato dell’Italia. Il Presidente della Bce ha il carisma dello statista che non conosce intranquillità, e quasi ironizza sull’«eccitazione dei politici e dei giornalisti» di fronte ai verdetti delle urne.
I giornalisti in sala stampa ridono, grati a chi li deride. Il messaggio è stato presto interpretato come un elogio della democrazia, imprevedibile di per sé: «I mercati sono stati meno impressionati dei politici e di voi giornalisti. Capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, ognuno ha due turni elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34 elezioni in 3-4 anni: penso sia questa la democrazia, a noi tutti assai cara». Ecco uno che dice pane al pane – è stato detto – e non si eccita per lo strepitoso successo di Grillo: qui da noi c’è crisi di nervi, ma non lontano, nell’Unione, tutto è come nel canto di Goethe sugli alberi che svettano verso il cielo notturno: « Su tutte le cime, è pace; in ogni chioma, senti appena un alito; tacciono gli uccellini nella selva. Aspetta, presto anche per te c’è pace» (pace sta per morte, nel poema).
Ma Draghi ha detto qualcosa di meno placido, sul voto italiano e le sorprese (brutte o belle) che la democrazia ci riserva, specie nei paesi debitori. Ha spiegato il perché di tanta quiete, ai vertici d’Europa. Ha parlato ai mercati, e a loro nome. Dopo essersi inchinato alla democrazia ha aggiunto, quasi
en passant, che l’austerità continuerà tale e quale, divinamente indifferente a quel che mugghia nei bassi mondi. In altre parole: la democrazia può emettere le sentenze che vuole, ma nelle chiome dell’Unione e dei mercati se ne udirà appena l’alito. Perché non c’è da preoccuparsi? «Dovete considerare – così Draghi completa il ragionamento – che gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico». Nulla turba «l’unità d’intenti dei governi».
L’intranquillità è d’obbligo invece, è anzi utile in epoche di crisi-trasformazione, e l’immagine del Pilota Automatico conviene pensarla, discuterla, in Italia e Spagna, Grecia, Portogallo. L’autopilota, com’è noto, è il dispositivo che fa avanzare il veicolo senza assistenza umana. È impersonale, non si cura del singolo e degli elettorati, ed è il contrario della democrazia. Molti arguiscono che Draghi prende magnanimamente atto del gioco d’azzardo racchiuso nell’urna: «È la democrazia, bellezza! ». In effetti il governatore ha detto altro, facendosi paracleto dei nostri creditori, quindi dei mercati: «È il pilota automatico, bellezza!». Gli Stati possono osare, perfino inciampare, proprio perché sono ormai guidati da dispositivi esterni (trojke, Patti inviolabili), e nulla possono contro di essi. Di fatto, l’Italia è già commissariata, dunque calma e gesso, fatti giunco, la tempesta passerà. Dice passerà:
non come, né se sarebbe forse meglio sostituire al dispositivo un governo fatto di uomini, e avere statisti europei con carisma non solo alla Bce.
In realtà viviamo da decenni in queste condizioni: fin dall’ascesa politica di un boss delle Tv che era ineleggibile (una legge del ’57 poteva impedirlo, e l’appello di Micromega che lo rammenta ha raccolto oltre 180.000 firme). I parametri di Maastricht che regolano i deficit pubblici, e fecero nascere l’Euro nel 2002, spiegano la tenuta dell’Unione e al tempo stesso la sua strana impassibilità, che è segno sia di forza sia di immobilità. Da vent’anni esistono vincoli economici tali, nell’eurozona, che negli Stati si può temporaneamente giocare a far politica.
L’euro ci evita disastri non solo economici, ma senza Europa politica può sortire questi effetti. Ogni Stato diventa una specie di rione municipale, dove le più varie sperimentazioni (buone e non) diventano possibili: il pilota automatico le incanalerà. Il potere vero ha cambiato sede ed è una virtual machineche simula il politico. Quella macchina varrà la pena trasformarla in sovranità del popolo europeo, se non vogliamo che ci bombardi come un drone.
Ecco come stanno le cose, che i governi, i giornalisti, la Rete stessa fingono di non vedere. Ecco il momento che viviamo, e non è la prima volta che la letteratura lo racconta meglio dei politici. Chi non conosce il Saggio sulla Lucidità di José Saramago, corra a leggerlo (mirabile la traduzione di Rita Desti): perché descrive quel che ci sta accadendo, così come a suo tempo L’Uomo senza Qualità narrò l’impero austro-ungarico che tracollava nonostante le pompose Azioni Parallele decise a salvarlo.
Il romanzo apre sulle elezioni che si svolgono nella capitale d’un paese europeo (è Lisbona, esperta in terremoti). Anche qui, fenomenale sorpresa. Nonostante la boria dei 3 partiti dominanti (il Partito di destra, Pdd — il Partito di Mezzo, Pdm — il Partito di sinistra, Pds), gli elettori emettono il seguente inaudito verdetto, chiamato spregiativamente «biancoso»: voti validi 25 per cento, Pdd 13, Pdm 9, Pds 2,5. Pochissimi voti nulli, pochissime astensioni. Le altre schede, più del 70 per cento: bianche.
Subito è catastrofe nei palazzi del potere, e una settimana dopo si rivota: i partiti cadono ancora, schede nulle più astenuti zero, schede bianche 83 per cento. Segue lo stato d’eccezione. A un certo punto il governo diserta la capitale, s’insedia altrove, accerchia la città per piegarne l’incaponita, incredibilmente mansueta riottosità. Tronfio, minaccioso, il Capo dello Stato interviene in Tv: «Vi parlo con il cuore in mano… ora siete una città senza legge… non avrete un governo… Prendete la severità dei miei avvertimenti non come una minaccia ma come un cauterio per l’infetta suppurazione politica che avete generato nel vostro seno». I giornalisti, che nulla avevano subodorato, «condannano con energica tinta d’indignazione civica la strana funesta perversione» cittadina.
I piloti automatici possono tuttavia schiantarsi, non hanno la stoffa degli alberi goethiani. E si schianteranno, se l’Europa non si trasformerà e subito: non quando gli Stati avranno fatto, come dicono i custodi dei dogmi, «i compiti a casa». Il voto italiano dice una gran voglia di cambiare, ma è una prima e disordinata tappa. La seconda sarà il rinnovo del Parlamento europeo fra solo un anno. È allora che toccherà mettere al posto del pilota automatico poteri sovrani legittimati democraticamente. Il Presidente della Commissione dovranno stavolta sceglierlo i cittadini europei, non gli Stati fatiscenti.
È il senso della lettera che Luigi Zanzi, federalista, docente di teoria della storia all’Università di Pavia, ha inviato a Monti, Bersani, Renzi, al M5S e a Napolitano e Draghi, subito dopo il voto italiano: dobbiamo «cogliere al volo l’occasione delle elezioni europee del 2014 per proporre al Popolo Europeo di votare un mandato al Parlamento europeo per la convocazione di un’Assemblea Costituente», che riformi le istituzioni comunitarie «in vista di uno Stato federale in Europa». Così i popoli verrebbero chiamati a «intervenire nel governo d’Europa e, finalmente, i grandi problemi politici potrebbero essere affrontati nella giusta dimensione continentale che essi richiedono».
La tragedia è che tutti i politici italiani (M5S compreso), fanno come se avessero tempo in abbondanza. Non ne hanno. La casa brucia, e noi stiamo qui a dissertare sul ruolo degli intellettuali. Ci inventiamo perfino un Grillo antisemita. Consideriamo la disperazione cui è giunta Atene: l’indecenza di una cura mortifera, gli ospedali impossibilitati a comprare medicine, l’ascesa d’un partito nazista, l’indifferenza dei mercati a questo sfascio. L’impoverimento deprime, senza redimere: è peggio di una recessione. Non per molto tempo Grillo riuscirà a incanalare le paure. A dare una mano per mettere uomini, al posto del caporalesco Pilota Automatico.

La Repubblica 13.03.13

"Il voto-bis e la solitudine del Presidente", di Luigi La Spina

Il compito per Napolitano è già difficile, molto difficile. Sotto l’incubo di una crisi economica che potrebbe di nuovo precipitare anche in una emergenza finanziaria, risolvere il rebus per dare un governo al Paese è davvero arduo. Ora il rischio, però, è ancor più grave perché tocca il fondamentale impegno che deve garantire, secondo la Costituzione, il presidente della Repubblica italiana: quello di impedire uno scontro istituzionale fra poteri dello Stato.

Se non si ricorda questa sua funzione primaria, ci si può perdere, in queste giornate convulse e confuse, nel ginepraio delle polemiche, delle mosse tattiche, delle ambizioni e delle tentazioni di una politica che, dopo il voto, sembra aver perso il senso della realtà. Quella che vivono, tutti i giorni, tanti italiani alle prese con bilanci familiari prosciugati e tanti giovani alla ricerca affannosa di un lavoro che non c’è.

Ecco perché Napolitano, in queste ore, sembra sostenere i momenti di maggior solitudine del settennato che sta per concludersi. Il presidente si è reso conto, infatti, che si sta coagulando, per motivi diversi ma obiettivamente convergenti, una maggioranza nel nuovo Parlamento che punta a un immediato nuovo voto e che, pur di ottenerlo, è disposta persino a rischiare un inaudito scontro tra poteri dello Stato, quello tra la politica e la magistratura. Una somma di interessi, meglio di convenienze, che porterebbe il Paese a un altro scontro elettorale con un esito, senza una nuova legge, probabilmente simile a quello che, ora, impedisce la governabilità dell’Italia.

La sciagurata manifestazione dei parlamentari pdl al tribunale di Milano, di cui pudicamente Napolitano si è detto “rammaricato”, con la rivendicazione della prossima presidenza della Repubblica per un esponente del centrodestra affermata ieri da Berlusconi, hanno fatto capire chiaramente come in quello schieramento si sia persa la speranza di un governo di grande coalizione che tuteli, in qualche modo, la sorte giudiziaria del Cavaliere. E che, ormai, questo destino sia appeso a un unico, disperato tentativo. Quello di anticipare le sentenze di condanna con l’interdizione dei pubblici uffici che potrebbero arrivare tra qualche settimana in varie aule di giustizia, con una nuova scoppiettante campagna elettorale estiva, tutta centrata sulla denuncia di una magistratura che vuole alterare l’esito del voto popolare .

Sull’altro campo, il confronto con il movimento di Grillo che il Pd ha avviato ieri sembra confermare l’estrema difficoltà di trovare, nella plateale compattezza dei parlamentari “cinque stelle”, quelle crepe che potrebbero consentire la fiducia a un governo guidato da Bersani. Il tentativo sarà portato fino in fondo, ma davanti al probabile suo infausto esito, la radicalizzazione del Pdl nello scontro con i magistrati costituirà un ottimo alibi per imboccare con decisione il “piano B” che più conviene ai democratici: quello di un subitaneo scontro elettorale che convinca l’elettorato di sinistra sedotto da Grillo dell’inutilità di un voto mai disposto a collaborare per cambiare la rotta del Paese.

Stesso obbiettivo, con motivazioni opposte naturalmente, ha il nuovo “terzo polo” della politica italiana, quello rappresentato dal M5S. Deve dimostrare, infatti, l’impossibilità di unirsi a quelle forze che “hanno portato l’Italia alla rovina”, preservare la purezza di una verginità politica insensibile alle lusinghe del potere e rilanciare, sull’onda dello straordinario successo ottenuto a fine febbraio, una nuova offerta elettorale che riesca a raggiungere una maggioranza di consensi tale da rivendicare la guida, in prima persona, del prossimo governo.

L’appello drammatico alla responsabilità lanciato ieri da Napolitano, alle forze politiche, ma anche ai magistrati con un comunicato tutt’altro che sibillino dopo l’incontro con il Csm, segnala proprio la solitudine del presidente. Un presidente tanto autorevole e stimato da tutti, quanto inascoltato da una classe politica, ma anche da una parte della magistratura che non si rendono conto, forse, delle conseguenze di atteggiamenti esasperatamente volti a quella vittoria di parte che oggi, in Italia, non è possibile. Finchè questa consapevolezza non sarà maturata, l’esito più probabile sarà la sconfitta di tutti.

La Stampa 13.03.13

"Dica sì a una parte del programma 5 Stelle" di Adriano Celentano

Caro Direttore, in questi giorni non si parla che del confronto Bersani-Grillo, e ogni giorno sembra un anno da quel lontano 24 febbraio 2013, in cui l’uragano-Grillo si è abbattuto come una furia sull’Italia elettorale. Quell’Italia che non voleva cambiare, sempre con lo stesso abito grigio, ormai sfilacciato e pieno di macchie, piccole e grandi, alcune con dei grossi buchi al centro dove nessun rammendo è possibile. E sono proprio queste le macchie peggiori, che per ‘non dimenticare’, come si dice per l’Olocausto, vengono catalogate sotto la dicitura di ‘FALSO benessere’, in nome del quale ci si è potuti accanire e stravolgere, il ‘bel sembiante’ dell’Italia che fu. Sembrano passati anni e invece siamo a poco più di due settimane dal meteoritico voto. Il pericolo più imminente dello stallo Grillo-Bersani è che tutto possa invecchiare di colpo, compresi i vari ‘trionfi’.
I punti sui quali ragionare non sono poi tanti. Ed è forse questo il problema. È come se ad un tratto il Paese fosse imprigionato da due o più alternative contrarie, ed entrambe possibili. Un dilemma dal quale cominciano a spuntare ipotesi di un possibile governo al di fuori dei contendenti, come ad esempio quello lanciato da ‘Servizio pubblico’: «Si tratta di un governo ideale – annuncia Santoro, ma premette – naturalmente senza Bersani». Ora, con tutto il rispetto per le persone scelte, impeccabili direi, a partire da Rodotà, che stimo molto, al grande Carlin Petrini, alla Gabanelli, tutte persone validissime certo, ma io continuo a credere che il leader debba essere Bersani con il SUO governo. Se non altro perché, fra quelli che sono arrivati primi e non hanno vinto, lui è quello che è arrivato più PRIMO degli altri. Però, c’è un però: Grillo non fa che ripetere (e insultare) che lui non darà la fiducia a nessun partito. E sotto un certo profilo può anche essere giusto, come è giusto e sarebbe saggio secondo me che anche tu, ‘amico parlante’ sarebbe ora che cominciassi a cambiare registro ai tuoi toni: fregatene se gli altri ti insultano e inventano società che non esistono e, anche se fosse, te le saresti guadagnate col tuo lavoro. Chi ti ha votato conosce bene il gioco meschino dei POTERI forti quando vengono disturbati. Ma la cosa che più di tutti preoccupa in questo momento è un’altra. Pare che Bersani non abbia scelta: «Se Grillo
non accetterà il confronto non ci rimane che tornare alle urne, poiché neanche a parlarne accetterei di allearmi con il terzo vincitore, Berlusconi ». E allora?
Poche sere fa, l’affascinante Lilli Gruber ha chiesto a Bersani: «Se ci fosse Grillo qui davanti a lei, cosa gli direbbe? ». Bersani l’ha guardata, e abbozzando un sorriso ha sentenziato: «Gli direi… dimmi!». Ecco il punto. Caro
Pierluigi, è più probabile che Grillo smetta di insultarti piuttosto che dirti quello che tu vorresti sentirti dire. Io, invece, ti dico qualcosa: sono fermamente convinto che nessuno meglio di te, può cavalcare il vento di queste ore. Devi però ammettere che è in atto un forte cambiamento e l’artefice di questo cambiamento è Grillo. Anche tu lo riconosci e dici che a questo punto la priorità assoluta, prima ancora
dei partiti, è il bene del Paese e io ci credo. E se è il caso, dici anche che non ci penseresti due volte a cedere il posto a qualcun altro. Ma sarebbe un ER-RORE. Perché solo tu puoi fare la MOSSA giusta. La mossa che i tempi di questo grande momento ti chiedono. Che sono poi gli stessi che hanno chiesto al Papa l’urgenza di una SCOSSA per la chiesa degli scandali mentre un METEORITE si abbatteva sulla Russia.
Una mossa la tua, che indurrebbe i ‘grillini’ a chiedere al loro fondatore per quale motivo non dovrebbero accettare una proposta che non possono rifiutare. Per cui se davvero vuoi evitare agli italiani un altro tormento alle urne, con chissà quali conseguenze, non solo per il tuo partito ma temo anche per lo stesso Grillo, ben lontano secondo me da quel 100% che dovrebbe essere lui il primo a non ambire di ottenere (ma si sa che a volte può succedere di dire cose che non pensiamo).
Mentre questo non sarebbe il caso che ti riguarda, poiché il tuo pensiero, come dici, è rivolto alla soluzione meno peggiore per gli italiani. Ma se è così allora sii tu a dare la FIDUCIA a Grillo. Non nel significato che la parola assume quando per esempio un governo chiede alle camere il voto di fiducia. Ma in un patto tra te e Grillo di fronte agli italiani dove si dice che: «Io, Pierluigi Bersani sarò il PREMIER che accetta tutti i punti del tuo programma che entrambi riteniamo fondamentali per il bene dell’Italia e sono
pronto a discutere anche su quelli che sono in totale contrasto con il mio modo di pensare». Sarebbe una ‘mossa’ STORICA che permetterebbe al Paese di approvare le riforme più urgenti e incamminarsi davvero sulla via del CAMBIAMENTO. Almeno fino a quando l’idillio fra te e Grillo reggerà.
Sarebbe un gesto così innovativo, che pur sul nascere di un eventuale disaccordo, potrebbe dar luogo a un vero e proprio dibattito DEMOCRATI-CO, dove anche nei momenti di maggior contrasto potrebbe non mancare quel punto di ‘strana convergenza’ che è tipica dell’italiano saggio. Quando hai presentato il piano A hai detto che non ci sarebbe stato un piano B e francamente anch’io l’ho pensato. Quello che ti ho appena prospettato è certamente fuori da ogni tipo di continuità. Poiché non è neanche un piano C. Ma un piano Z. Poiché è esattamente dalla fine che si ricomincia.

La Repubblica 12.03.13

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Caro Celentano, ecco i miei sì a Grillo

«CARO Bersani, fai tu il premier e accetta tutti i punti del programma di Grillo su cui ti trovi d’accordo per il bene del Paese». Così ieri Celentano su “Repubblica”, oggi risponde il segretario del Pd spiegando il confine fino a dove si può spingere. Il politico e il cantante, una strana coppia. I due ieri pomeriggio si sono sentiti al telefono, è stato Bersani a chiamare Celentano per un confronto di idee che è durato alcuni minuti. Il segretario pd ha spiegato che è pronto a fare ogni sforzo. Celentano ha sintetizzato così il colloquio: «Pierluigi mi è sembrato disponibile a compiere ulteriori passi avanti nei confronti di Grillo, a lavorare solo nell’interesse dell’Italia».

CARO Adriano Celentano,
ti ringrazio per la lettera che hai pubblicato ieri su “la Repubblica” e ti rispondo.
Ecco la mia idea: avviare la legislatura con un programma essenziale di cambiamento da rivolgere a un Parlamento davvero nuovo. Ciò significa ascoltare anche le ragioni degli altri, purché si rivolgano al cambiamento.
Ci sono, ad esempio, nel programma del Movimento 5 Stelle punti non lontani dai nostri nel campo dell’ambiente e dell’economia verde, dell’agenda digitale e dei temi dell’innovazione tecnologica, dei costi e della sobrietà della politica e della semplificazione burocratica. Sarei pronto ad accoglierli.
Altri punti sono invece per me inaccettabili. Come avrai visto, nelle proposte che per parte mia ho avanzato, ho fatto in modo che non ci fosse nulla di inaccettabile. Questo è il punto. Se nessuno mette davanti all’altro qualcosa di inaccettabile, allora si vedrà uno spazio enorme di cambiamento finalmente possibile. Perché ora si può e prima non si poteva. Ora si può, se si vuole. A presto.

La Repubblica 13.03.13

"Orbán l’autocrate sfida Bruxelles “golpe” bianco sulla Costituzione", di Andrea Tarquini

Il premier ungherese ha voluto modifiche che limitano i poteri dell’Alta Corte e tagliano pesantemente le libertà Ignorate le preoccupazioni dell’Europa. Per l’opposizione e per gli esperti internazionali è un addio allo Stato di diritto

«Spero di no, ma forse un giorno potrebbe divenire necessario sostituire la democrazia con un altro sistema». Parole sue, dell’anno scorso. La Weltanschauung di Viktor Orbán, classe 1963, carriera iniziata nella gioventù comunista sotto il vecchio regime, poi dissidente radicale, oggi premier-autocrate ungherese, alto dirigente del Partito popolare europeo, al sodo è tutta qui. Ieri dalle parole è passato ai fatti. Sfidando l’Europa e l’intero mondo libero, come ama fare sempre più. A Budapest il Parlamento dominato dal suo partito (la Fidesz), ha approvato modifiche alla Costituzione che secondo esperti ungheresi e internazionali sono «un addio allo Stato di diritto e alla separazione dei poteri». Un golpe bianco annunciato. Invano il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, gli ha chiesto di ripensarci, e ha espresso «preoccupazione per trattati e spirito dell’Europa e primato del Diritto». Rotto solo da qualche migliaio di giovani in piazza il silenzio scende sull’Ungheria, il silenzio del Nuovo Ordine.
Laureato in legge ma spregiudicato verso l’idea occidentale di Diritto, sposato e padre di cinque figli e cattolico praticante dichiarato ma, mormorano a Budapest fonti diplomatiche, duro in casa e amico degli oligarchi, Orbán ama mostrare di non aver paura. Con lui, nulla a Budapest è più come prima. La stessa Costituzione nazionalista da lui voluta e imposta nel gennaio 2012 è umiliata e annullata, scrive Die Welt, il quotidiano liberalconservatore tedesco più vicino ad Angela Merkel.
Esautorata per vendetta la Corte costituzionale che ricusava leggi liberticide ora diventate articoli della Costituzione, via libera a limiti alla libertà d’espressione se offende una non meglio definita «dignità della nazione magiara», frontiere chiuse come un nuovo Muro di Berlino ai laureati che sognano di fuggire dalla povertà cercando lavoro all’estero, senzatetto criminalizzati se vivono e dormono in strada, campagna elettorale vietata sui media privati, cioè i pochi ultimi media indipendenti. Quelli su cui per volere di Orbán vigila come un Grande fratello stalinista di destra la Nemzeti Mèdia-es Hìrkoezlési Hatosàg, l’autorità di controllo sui media, mentre il governo nega frequenze e gli oligarchi tolgono pubblicità. E poi: chi si ama e convive senza sposarsi né avere figli, omo o etero che sia, non ha la stessa dignità della famiglia etero ufficiale. E il vecchio Partito comunista, da cui scaturì dopo il 1989 (come altrove all’Est) il Partito socialista oggi prima forza d’opposizione, alleato a Strasburgo di Pd, Spd tedesca, Ps francese, New Labour o socialdemocratici finnici e svedesi, è organizzazione criminale. Minaccia di processi politici travestiti da altro.
«L’Europa politica e dell’euro è un fallimento, il nostro modello euroasiatico si rivelerà vincente », ecco un altro estratto recente dell’Orbán-pensiero. Ieri il premier in Parlamento si è spinto a dire che «al popolo interessano le bollette troppo care che pagano alle multinazionali, non la Costituzione». Ancor più chiaramente, ha parlato il suo uomo di mano Làszlò Koevér, presidente del Parlamento: «Il capitale internazionale, la Ue, gli Usa, conducono una guerra fredda contro l’Ungheria perché rifiutiamo la camicia di forza liberal, ma sono improbabili compromessi con chi accetta persino matrimoni omosessuali».
Recessione, disoccupazione specie giovanile (dati Ue) a livelli greci: Orbán dà la colpa all’Europa, e chiede investimenti a Cina, Iran, Azerbaijan. Riscrive la Storia: riabilitato l’ammiraglio Horthy, il dittatore antisemita alleato più fedele di Hitler, via le statue di intellettuali, nobili o borghesi riformatori, dal “conte rosso” Karoly Mihaly che affrancò i servi della gleba al poeta Attila Jozsef amico di Thomas Mann. Chi sa se Orbán ha dimenticato il monito d’un suo professore all’università, «attento, ragazzo, lei è più assertivo d’uno stalinista». I giovani lo sfidavano in piazza ieri sera, cantavano «Viva la libertà ungherese », l’inno del Risorgimento. Strade sbarrate per loro, dai reparti antiterrorismo. Mi spezzo ma non mi piego, pensa forse Orbán.

La Repubblica 12.03.13

"Precari da assumere, contrordine di viale Trastevere", di Antimo Di Geronimo

Assumere i docenti che hanno maturato il diritto al’immissione in ruolo perché sono stati inseriti a pettine nelle graduatorie per ordine del giudice. Ma senza licenziare quelli che sono già stati assunti per diritto di graduatoria. E recuperare il numero di immissioni in ruolo in più sottraendole da quelle che saranno autorizzate il prossimo anno. É questo il responso della direzione generale per il personale del ministero dell’istruzione, che ha risposto così all’ufficio scolastico del Piemonte con una nota emessa il 25 febbraio scorso (1656). Il provvedimento, che porta la firma del direttore generale Luciano Chiappetta, reca un’interpretazione diametralmente opposta a quella adottata dall’ufficio scolastico regionale per la Puglia in riferimento ad un caso analogo (si veda Italia Oggi del 5 marzo 2013). Va detto subito, però, che tra la direzione generale del personale del ministero e le direzioni generali degli uffici scolastici regionali non vi è alcun rapporto gerarchico. E dunque, i direttori regionali (che sono pari grado rispetto ai capi delle direzioni generali collocate presso l’amministrazione centrale) possono legittimamente discostarsi dall’orientamento assunto dalla direzione centrale. Resta il fatto, però, che l’esistenza di un parere di fonte ministeriale potrebbe avere un certo peso davanti al giudice. E potrebbe far pendere la bilancia in favore dei lavoratori che dovrebbero essere licenziati dall’ufficio scolastico barese. Cha non hanno alcuna intenzione di accettare il verdetto dell’ufficio periferico data la posta in palio, forti anche dell’appoggio unanime dei sindacati. Insomma, la matassa si ingarbuglia sempre di più.

da ItaliaOggi 12.03.13

"Aumentano i disoccupati tra i laureati", di Alessandra Migliozzi

Sempre piu’ laureati disoccupati, anche fra chi possiede un titolo ‘forte’, come gli ingegneri. Crollano anche le retribuzioni di chi ha fatto l’universita’. Un percorso di studi che paga, si’, ma solo nel lungo periodo. È la fotografia scattata dal XV Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati che sara’ presentato ufficialmente domani a Venezia all’Universita’ Ca’ Foscari nel corso del convegno “Investire nei giovani: se non ora quando?”. Le conclusioni saranno affidate a Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia.

AlmaLaurea ha intervistato oltre 400mila laureati post-riforma di tutti i 64 atenei aderenti al Consorzio. La rilevazione 2012 ha coinvolto oltre 215 mila laureati post-riforma del 2011 – sia di primo che di secondo livello – indagati a 1 anno dal termine degli studi, tutti i laureati di secondo livello del 2009 (quasi 65 mila), interpellati a 3 anni dal termine degli studi. Per la prima volta l’indagine ha riguardato anche i laureati di secondo livello (oltre 40 mila) a 5 anni dal termine degli studi.

DISOCCUPAZIONE GENERALIZZATA – Il Rapporto evidenzia che “nell’ultimo anno si sia registrato un ulteriore deterioramento delle performance occupazionali dei laureati. Deterioramento che si riscontra non solo tra i neo-laureati, i piu’ deboli sul fronte occupazionale perche’ con minore esperienza, ma anche tra i colleghi laureatisi in tempi meno recenti”. Ecco i dati: fra il 2011 e il 2012 la disoccupazione fra i laureati triennali e’ passata dal 19 al 23% (si registra un +12% se si calcolano gli ultimi 5 anni). Dato in crescita anche fra i laureati specialistici, quelli con un percorso di studi piu’ lungo (dal 20 al 21%, che diventa un +10% se si calcolano gli ultimi 5 anni) e fra gli specialistici a ciclo unico, come i laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza (dal 19 al 21%, +12% in 5 anni). Una tendenza, fa notare AlmaLaurea, “che si registra in generale anche a livello di percorso di studio anche fra i laureati tradizionalmente caratterizzati da un piu’ favorevole posizionamento sul mercato del lavoro, come gli ingegneri”.

RETRIBUZIONI IN CALO – Le retribuzioni ad un anno dalla laurea superano di poco i 1.000 euro netti mensili: 1.049 per il primo livello, 1.059 per gli specialistici, 1.024 per gli specialistici a ciclo unico. Rispetto alla precedente rilevazione, le retribuzioni nominali risultano in calo, con una contrazione pari al 5% fra i triennali, al 2,5% fra i colleghi a ciclo unico e al 2% fra gli specialistici biennali. Se si estende il confronto temporale all’ultimo quadriennio (2008-2012), si evidenzia che le retribuzioni reali sono diminuite, per tutte e tre le lauree considerate, del 16-18%.

TITOLO PAGA, MA NEL LUNGO PERIODO – La laurea paga, ma nel lungo periodo. Anche a causa dei tempi lunghi di inserimento nel mondo del lavoro dei giovani dottori. Per i laureati intervistati a 5 anni dalla laurea il tasso di disoccupazione si riduce a valori “fisiologici” (6%), nonostante la crisi. A cinque anni, l’occupazione indipendentemente dal tipo di laurea e’ prossima al 90%. Anche per quanto riguarda la stabilita’ del lavoro e il guadagno, tra uno e cinque anni dal conseguimento del titolo si evidenzia un generale miglioramento. Quelli che trovano piu’ facilmente posto sono i laureati in medicina, economia-statistica, ingegneria (oltre il 90% e’ occupato a 5 anni dal titolo). la paga piu’ alta a 5 anni dalla laurea va agli ingegneri (1.748 euro medi). Seguono medici 1.662) e laureati economico-statistici (1.603). La laurea vale di piu’ del diploma: i laureati hanno presentato un tasso di occupazione di oltre 12 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati.

Agenzia Dire 12.03.13

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“VALORE E POTERE DELLA LAUREA”, di CHIARA SARACENO

Chi ottiene una laurea – triennale, specialistica o a ciclo unico – anche in questo periodo di crisi è più avvantaggiato sul mercato del lavoro rispetto a chi si ferma al diploma. Trova più facilmente lavoro e, nel medio-lungo periodo, ottiene una remunerazione più alta. Questo vantaggio competitivo, tuttavia, si è sensibilmente ridotto nel quadriennio 2008-2011. La percentuale di chi è disoccupato a un anno dalla laurea è aumentata di un punto nel quadriennio tra i laureati triennali e di 12 tra i laureati specialistici, e le retribuzioni mensili (attorno ai mille euro al mese) di chi è occupato sono diminuite sia in termini nominali sia, soprattutto, in valore reale. Sono, inoltre, aumentati coloro che hanno un contratto di lavoro atipico ed anche chi non ha contratto regolare. Ci sono buone probabilità che le cose siano ulteriormente peggiorate per chi ha concluso gli studi universitari nell’ultimo anno. È il quadro che emerge dall’ultima indagine Almalaurea sul destino occupazionale dei neo-laureati.
La ricerca sfata anche alcuni luoghi comuni, in primo luogo quello della scarsa spendibilità della laurea triennale perché poco professionalizzante. Se ciò è vero per alcune, non lo è per molte altre, specie nel settore medico e scientifico. Inoltre, a un anno dalla laurea non c’è differenza nel tasso di occupazione tra laureati triennali e specialistici. La disoccupazione e sottooccupazione dei laureati in Italia è piuttosto dovuta alla scarsità della domanda in un sistema produttivo e amministrativo che — anche nel settore pubblico ed anche ai livelli medio alti del management — è largamente controllato da persone con livelli di istruzione medio-bassa,
poco capaci di valorizzare e investire nel capitale umano. Ciò a sua volta spiega perché il sistema Italia sia così poco competitivo, nonostante singole eccellenze, e perché esportiamo lavoratori molto qualificati mentre ne importiamo di poco qualificati. È vero, quindi, che in Italia ci sono “troppi” laureati rispetto alla domanda, ma è la qualità della domanda a fare problema, con il rischio di produrre circoli viziosi senza futuro.
Così, l’Italia è l’unico Paese europeo, insieme alla Romania, ad avere fissato per il 2020 un obiettivo di incidenza dei laureati nella popolazione di 30-34enni largamente inferiore a quello comune europeo del 40%, riducendolo al 26-27%. Ciò significa non investire non solo in sviluppo e innovazione, ma anche in quella larghissima parte della popolazione giovanile che non ha genitori laureati. È solo da qui, infatti, che può avvenire un aumento dei laureati, stante che la minoranza di chi ha genitori laureati di norma si iscrive già all’università e di solito sceglie anche i percorsi più forti. Gli studenti che sono i primi nella loro famiglia ad iscriversi all’università costituiscono oltre il 70% di tutti gli iscritti. Ma sono anche coloro che frequentano più spesso i corsi di laurea meno forti sul mercato del lavoro. E le loro famiglie possono avere più difficoltà a mantenerli agli studi. È una situazione che rischia di svantaggiare soprattutto i maschi nelle famiglie economicamente più modeste, perché da loro ancora ci si aspetta di più che si trovino un lavoro presto. Tra i 30 e i 34 anni ha la laurea solo il 16% dei maschi, a fronte del 25% delle femmine. Invece di lamentarsi di un eccesso inesistente di laureati e della schizzinosità dei giovani italiani, parlamentari e
classe imprenditoriale dovrebbero interrogarsi sulla miopia di una politica dell’istruzione e del lavoro che non forma bene e non valorizza né chi farà lavori manuali né chi dovrebbe e potrebbe contribuire alla innovazione.

La Repubblica 12.03.13

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Lauree e diplomi, processo all’Italia “Imparate da tedeschi e norvegesi”, di Andrea Tarquini

L’Europa ci dà un pessimo rating anche per quanto riguarda la pubblica istruzione. Il sistema va riformato a fondo. I suoi difetti si ripercuotono pesantemente sulla produttività, sull’economia e sugli sbocchi professionali dei nostri laureati e diplomati superiori. Insomma, una delle radici della disoccupazione giovanile, quella sfida che Mario Draghi la settimana scorsa ha definito “una tragedia”, è nel nostro sistema scolastico e universitario. O almeno, così ha raccontato alla Süddeutsche Zeitung Andreas Schleicher, esperto di pubblica istruzione dell’Ocse (organizzazione dell’Onu per la cooperazione e lo sviluppo economico). Chiamato anche “Mister Pisa” perché ideatore del Programma per la valutazione internazionale degli allievi della stessa organizzazione.
È un paradosso, dice Schleicher guardando le nostre scuole e i nostri atenei: nel paese che ospita l’università più antica del mondo, il sistema non funziona. Il cahier des doléances di Schleicher è una lunga lista di accuse. Primo, nella maggior parte degli altri Stati membri dell’Ocse la gamma di offerte di lauree e specializzazioni è più ampia che da noi. E nei paesi più avanzati — la Germania solo in parte, di più e meglio i paesi scandinavi, a cominciare dalla Finlandia col sistema scolastico, tutto pubblico, giudicato il migliore del mondo, e dalla Norvegia — offrono un contatto strutturale e che funziona bene tra lo studio teorico, accademico e la pratica della formazione professionale. «L’Italia», dice Schleicher, «è rimasta legata molto a lungo a un sistema classico, tradizionale, di studi universitari, per questo il numero dei laureati e diplomati non è cresciuto come in altri paesi».
Siamo rimasti decisamente al di sotto della media nell’Unione europea, nota l’esperto con i dati dell’organizzazione alla mano. Più precisamente, quanto a numero di laureati e diplomati solo la Turchia nell’ambito europeo ha risultati peggiori dei nostri.
Ed ecco, almeno secondo “Mister Pisa”, i mali strutturali più gravi del nostro sistema d’istruzione e le loro cause. Primo, molti laureati e diplomati superiori non trovano un’occupazione, o vengono pagati poco e male, «perché le università danno una preparazione accademica, non preparano ad avere successo sul lavoro». Secondo, a differenza che in molti altri paesi europei «non c’è aiuto finanziario dello Stato agli studenti, nulla di paragonabile a sistemi come il Bafög tedesco (che prevede l’erogazione di borse di studio in base al reddito di appartenenza) o quelli scandinavi». Terzo, comunque lauree e diplomi «sono irrilevanti sul mercato del lavoro». Poi un altro difetto strutturale: «Il personale insegnante è numeroso ma poco qualificato rispetto alle esigenze di una società e un’economia moderne». A lungo termine, ammonisce, «si crea un legame tra qualità del sistema della pubblica istruzione e capacità economiche di un paese». Il solito invito rivoltoci a imitare i tedeschi? No, piuttosto finnici e norvegesi: «Hanno un sistema educativo differenziato, personalizzato, molto attento al singolo, sponsorizzato dalle aziende, e rafforzato dalla convinzione della gente che è opportuno continuare a studiare e imparare per tutta la vita».

La Repubblica 12.03.13

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“La laurea non è più una garanzia”, di Claudio Tucci

Buste paga piuttosto leggere (a un anno dalla laurea la retribuzione viaggia intorno ai mille euro al mese), impieghi meno stabili e una disoccupazione in aumento che colpisce anche profili «tradizionalmente caratterizzati da un più favorevole posizionamento sul mercato del lavoro, come per esempio gli ingegneri».
Certo, la laurea rimane un buon investimento (in prospettiva garantisce maggiori tassi di occupazione e salari più elevati). Ma non c’è dubbio che (anche per la crisi) le performance occupazionali dei laureati si siano «deteriorate».
Oggi all’università «Cà Foscari» di Venezia, alla presenza del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, AlmaLaurea presenterà i nuovi dati 2012 (per la prima volta sono stati indagati anche i laureati di secondo livello a cinque anni dal termine degli studi). E se a un anno dalla laurea la disoccupazione fra i diplomati triennali cresce dal 19% al 23%, e dal 20% al 21% fra i laureati specialistici, nel periodo più lungo (a 5 anni dalla laurea, cioè) la disoccupazione si riduce a valori “fisiologici” (6%) e l’occupazione, indipendentemente dal tipo di diploma, sale all’85,8% (a un anno dal conseguimento del titolo è invece al 66%). Di qui l’importanza «di investire in capitale umano», ha sottolineato il direttore di AlmaLaurea, Andrea Cammelli. Che chiede anche di «generalizzare gli stage curriculari» che fanno crescere la probabilità di occupazione del 12% (rispetto a chi non può vantare tale esperienza formativa). Del resto, non è un mistero che in Italia «abbiamo un numero di laureati più basso degli altri paesi», ha evidenziato il rettore della «Cà Foscari», Carlo Carraro: « Bisogna quindi invertire la rotta. E la laurea rappresenta un buon investimento anti-crisi. Nel Nord-Est, per esempio, i laureati occupati sono cresciuti del 5% l’anno negli ultimi 5 anni». Snocciolando ancora i dati del rapporto (che ha coinvolto più di 400mila laureati post-riforma) spicca pure come, a un anno dal titolo, il lavoro stabile (contratto a tempo indeterminato o veri autonomi) riguardi il 41% dei laureati occupati di primo livello (-1% rispetto all’indagine 2011) e il 34% dei laureati specialistici. A 5 anni dalla laurea la stabilità sale al 70% degli occupati. Ma rispetto all’indagine 2008 la stabilità lavorativa ha subito una forte contrazione: -10 punti percentuali tra i triennali e -6 punti tra gli specialistici, per effetto essenzialmente del crollo dei contratti a tempo indeterminato. In crescita invece il lavoro nero (laureati senza contratto): riguarda il 7% dei “colletti bianchi” di primo livello e degli specialisti e il 12,5% dei laureati a ciclo unico (vale a dire i dottori in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza).
A un anno dalla laurea, poi, il guadagno mensile netto è di circa mille euro. Anche qui però, con il tempo, si migliora: a 5 anni dal titolo la retribuzione sale a 1.440 euro al mese. Ma con forti disparità per livello e percorso di studio. Gli psicologi, per esempio, sono ai minimi, con un guadagno di appena 963 euro. Poco meglio fanno i professori con 1.122 euro. Cifre decisamente più elevate si registrano per gli ingegneri (1.748 euro) e per i medici (1.662 euro netti al mese).

Il Sole 24 Ore 12.03.13