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"Un paese con troppe ingiustizie. Giovani esclusi e famiglie in crisi", di Marcella Ciarnelli

Cambia il metodo di valutazione ma il risultato nella sostanza non cambia. Istat e Cnel hanno messo a punto un nuovo indicatore, il Bes per misurare il «Benessere equo e sostenibile», per monitorare la situazione socio-economica del Paese, attraverso l’esame di 12 campi d’indagine, dalla salute al lavoro, dall’ambiente alle relazioni sociali. Il Bes, il cui primo rapporto è stato presentato a Roma alla presenza del presidente della Repubblica, è stato pensato come uno strumento per affiancare nella valutazione il «vecchio» Pil che comincia a mostrare qualche difficoltà di interpretazione di una situazione senza precedenti. Dunque, dati alla mano, sono 6,7 milioni le persone in Italia in grave difficoltà economica, cioè coloro che non sono in grado di affrontare una spesa imprevista anche inferiore ai mille euro, che non possono riscaldare adeguatamente casa o sono in arretrato con i pagamenti dell’abitazione o non riescono a fare un pasto a base di proteine ogni due giorni. Poca carne, molta pasta. Più obesi. In un solo anno, nel 2011, il dato sugli individui in grave difficoltà è peggiorato passando dal 6,9 per cento della popolazione pari a 4,2 milioni di persone a 6,7 milioni pari all’11,1. I più ottimisti, nonostante tutto, sono i giovani, pur protagonisti della crisi. La crisi ha fortemente intaccato il potere d’acquisto delle famiglie italiane. Il reddito disponibile in termini reali si è ridotto in 4 anni, dal 2007 al 2011, del 5%, portando molti a intaccare i risparmi per far fronte alle esigenze, risparmiano meno o addirittura indebitandosi: la quota di persone in famiglie che hanno ricevuto aiuti in denaro o in natura da parenti non coabitanti, amici, istituzioni o altri è passata da115,3% del 2010 al 18,8% del 2011 e, nei primi nove mesi del 20121a quota delle famiglie indebitate è passata dal 2,3% al 6,5%. Solo il welfare familiare ha consentito di resistere. Finora. Tanto più che alcuni segmenti di popolazione e certe zone del Paese sono stati particolarmente colpiti dalla riduzione dei posti di lavoro. La percentuale degli individui in famiglie senza occupati è passata, tra il 2007 e il 2011, dal 5,1 al 7,2 per cento, con una dinamica più accentuata tra gli under 25, per i quali è cresciuta dal 5,4 all’8 per cento e nel Mezzogiorno, dove dal 9,9 si è passati al 13,5 per cento. L’ascensore sociale, di conseguenza, è fermo ai piani bassi. Mentre cresce la disuguaglianza e i ricchi lo sono sempre di più mentre i poveri marcano una sempre più sofferente difficoltà. Il ritardo rispetto alla media europea e il fortissimo divario territoriale si riscontrano in tutti gli indicatori che rispecchiano istruzione, formazione continua e livelli di competenze. La quota di persone di 30-34 anni che hanno conseguito un titolo universitario è del 20,3% in Italia a fronte del 34,6 dell’Unione europea a 27 Paesi. Il livello di istruzione e competenze che i giovani riescono a raggiungere dipende in larga misura dall’estrazione sociale, dal contesto socio-economico e dal territorio. Il divario nelle competenze di italiano e matematica tra gli studenti dei licei e quelli degli istituti professionali è ampio e non semplicemente giustificabile con il diverso indirizzo formativo; a questo si aggiunge la qualità del sistema educativo, che è profondamente diversa tra Nord e Sud. La famiglia inoltre influenza fortemente i risultati, tanto che i figli di genitori con al massimo la scuola dell’obbligo hanno un tasso di abbandono scolastico del 27,7% che si riduce al 2,9 per i figli di genitori con almeno la laurea. Restano comunque molte criticità. In primo luogo, a causa della crisi economica che ha colpito più duramente i giovani, è aumentata la quota di Neet, ossia di giovani 15-29enni che non lavorano e non studiano (dal 19,5% del 2009 al 22,7 del 2011). Inoltre è in netta diminuzione la partecipazione culturale delle persone; dopo un periodo di stagnazione, nel 2012 l’indicatore presenta un decremento molto marcato, passando al 32,8 per cento dal 37,1 del 2011. In Italia il patrimonio storico e artistico soffre delle contenute risorse economiche destinate al settore (la spesa pubblica che l’Italia destina alle attività culturali è pari allo 0,4% del Pil) e dell’insufficiente rispetto delle norme: oltre 15 abitazioni abusive ogni cento costruite legalmente. LA PIAGA ABUSIVISMO E la costruzione di edifici non risparmia le zone tutelate: la loro densità è cresciuta del 23,6 per cento nelle aree costiere e 26,6 per cento sulle pendici vulcaniche. Il disagio che ne deriva è avvertito da una quota non marginale della popolazione. Anche se non mancano i comitati pro abusivismo, ad esempio in Campania, che nelle scorse elezioni si sono fatti sentire. Gli italiani non hanno alcuna fiducia nei partiti politici. La fiducia media dei cittadini verso i partiti, su una scala da O a 10, è pari ad appena 2,3 e si estende al Parlamento, ai consigli regionali, provinciali e comunali, nel sistema giudiziario. Le sole istituzioni verso le quali i cittadini esprimono fiducia sono i Vigili del fuoco e le Forze dell’ordine, che insieme raggiungono il 7,1.

L’Unità 12.03.13

"Indignados in doppiopetto", di Massimo Gramellini

Si fa presto a dire Sudamerica. Certe cose non succedono più nemmeno lì. Sembra l’ultima scena del «Caimano» ma senza il Caimano, impegnato a recitare Polifemo in una fiction sulle visite fiscali. O forse è un cinepanettone fuori stagione, «Ultime vacanze a Bananas», con Danny De Vito nei panni stropicciati di Scilipoti e l’inimitabile Santanché nel ruolo di se stessa.
La storia di 150 parlamentari, eletti per ridurre le tasse ai lavoratori e restituire l’Imu ai pensionati, che invece marciano compatti sotto un tribunale della Repubblica.

Pur di rivendicare l’impunità del proprietario del loro partito, contrabbandata per emergenza nazionale.

Mi piacerebbe conoscere il parere di chi li ha votati. Immagino che avrebbe preferito vederli manifestare davanti a una fabbrica chiusa o a un ufficio di Equitalia fin troppo aperto. Il destino personale del Divo Silvio toglierà forse il sonno alla famosa casalinga di Retequattro, ammesso che esista, ma agli altri? Quelli che lo hanno scelto perché le alternative erano Monti e Bersani potranno anche non andare pazzi per i metodi della Boccassini, ma si identificano davvero nella parabola giudiziaria di un singolo uomo e nella rabbia obbediente dei suoi centurioni? Se è così, siamo perduti. Se un terzo abbondante del nostro Paese è seriamente convinto che il problema più importante, il primo di cui occuparsi, non sia il lavoro che latita o la corruzione che esagera ma l’iter processuale di Berlusconi, significa che stiamo smarrendo la speranza: non di formare un governo, ma di rifondare una comunità.

Non so se sia vero che il Capo aveva sconsigliato la marcia dei suoi indignados in doppiopetto sotto il Palazzo di Giustizia. A occhio (l’altro, naturalmente), sembrerebbe la classica pantomima padronale a cui ci ha abituato da vent’anni: io non volevo, ma loro mi hanno disobbedito per troppo amore. Chiunque abbia cercato di dissuadere i berluscones da questa piazzata ne aveva però visto le conseguenze politiche irreparabili. Adesso chi accetterà di votare un governo, ma anche un Presidente della Repubblica e una legge elettorale, insieme con dei parlamentari che sono entrati in massa dentro il tribunale di Milano e si sono messi arrogantemente in posa sotto la foto di Falcone e Borsellino? Come puoi giocare a calcio con uno che ti urla in modo intimidatorio che l’arbitro è venduto?

Le immagini di Brunetta e Scilipoti in occhiali da sole sui gradini del tribunale simbolo di Tangentopoli hanno fatto il giro del mondo e sono tornate qui, sotto i nostri sguardi sgranati. Fra due settimane toccherà ai parlamentari di Grillo marciare in Valle di Susa al fianco dei No Tav. La motivazione è diversa e più nobile (non foss’altro perché riguarda un interesse collettivo e non individuale), ma resta il fatto che due dei tre gruppi più folti del Parlamento si scagliano in massa come falangi nei punti caldi dell’Italia smarrita, dilatando mediaticamente lo scontro sociale anziché tentare di ricomporlo nel luogo deputato, per frequentare il quale erano stati votati. E il Pd si ritrova sul campo da solo, diviso come sempre in due squadre che giocano a chi fa più autogol.

La Stampa 12.03.13

"Cl@ssi 2.0? Meglio chiuderle", di Mario D'Adamo

Viale Trastevere non dà retta all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, (Ocse), alla quale il ministro dell’istruzione Profumo aveva chiesto una valutazione sul piano nazionale della scuola digitale, e incrementa il numero delle cl@ssi 2.0 invece di ridurle e puntare tutto su scuol@ 2.0.

Il piano, secondo il comunicato reso pubblico il 5 marzo sul sito del ministero, «presenta numerosi punti di forza e interesse, seppur in un quadro nel quale non mancano problemi e criticità», ma sarebbe stato meglio invertire i termini e ammettere che la valutazione è stata negativa, mentre ridotto è il numero degli elementi positivi, per lo più confinati nelle buone intenzioni, nella disponibilità del personale e in vaghe prospettive di crescita. E non si tratta di guardare al bicchiere mezzo vuoto, poiché agli attuali ritmi per l’estensione del piano a tutte le classi, con tanto di tablet e lavagne Lim per tutti, dovranno passare almeno quindici anni, quando ne saranno trascorsi ventisette dall’annuncio del 2001 delle tre “I” del ministro Moratti e del presidente del consiglio Berlusconi. Per l’Ocse, infatti, è un grosso limite che le risorse annuali a disposizione del piano siano così scarse da rappresentare l’1 per mille del budget del ministero dell’istruzione, anche se in cifre assolute la somma è pur sempre elevata, trenta milioni di euro, solo cinque per ogni alunno. Troppo ridotto il numero delle classi coinvolte nei progetti cl@sse 2.0 (416) e scuol@ 2.0 (14+15), poche le risorse didattiche digitali a disposizione dei docenti, non sufficiente lo sviluppo professionale del personale, quest’ultimo punto compare solo nella versione inglese del rapporto. Tra i punti di forza c’è «la volontà dell’Amministrazione di incrementare l’uso delle tecnologie e di internet nelle scuole italiane». L’obiettivo sarebbe in sintonia con quello di altri paesi, che però hanno superato l’Italia non tanto nella volontà di dotare le scuole di strumentazioni, le buone intenzioni non ci mancano, quanto nell’assegnazione concreta di risorse. In Gran Bretagna, infatti, ben l’ottanta per cento delle classi può contare già oggi su strumenti didattici e digitali. È positivo poi che la Lim, lavagna multimediale interattiva, possa essere utilizzata a costi iniziali non elevati e sia compatibile con tutti i metodi di apprendimento e didattici, e che si sia «rivelata (_) una sorta di cavallo di Troia che incoraggia la maggior parte dei docenti a incrementare l’uso delle tecnologie (internet e PC) nella loro attività professionale». È anche positivo l’approccio utilizzato per l’introduzione del piano: non un’imposizione dall’alto, destinata a creare resistenze, ma una risposta alle richieste di adesione che volontariamente provengono dalle scuole. Ciò dovrebbe ridurre al minimo il rischio che le nuove tecnologie non siano utilizzate, ma l’osservazione non è sostenuta con dei dati che smentiscano le lamentele di genitori e alunni che vedono deperire le Lim. E infine, sono positive le procedure di acquisto delle lavagne, dei pc e dei portatili attraverso gruppi di acquisto temporanei costituiti dalle scuole e sostenute da Consip. Sono tutti elementi, però, destinati a non far fare un passo in avanti alla diffusione del piano, se contemporaneamente alle scuole non saranno aumentati i finanziamenti, è la raccomandazione principale dell’Ocse, che si spinge a suggerire «di concentrare le risorse su Scuol@ 2.0 e interrompere l’iniziativa Cl@sse 2.0». Ma è una raccomandazione che, senza affermarlo, il ministero è costretto a respingere, avendo già stipulato il 18 settembre scorso una serie di accordi con le regioni, che prevedono dal prossimo anno scolastico l’installazione di altre 4.200 lavagne interattive e l’attivazione di altre 2.700 cl@ssi 2.0 e solo 17 scuole 2.0.

da ItaliaOggi 12.03.13

"I caimani", di Ezio Mauro

Un presunto uomo di Stato, che ha avuto l’onore di guidare per tre volte il governo di un Paese democratico, ieri ha organizzato una gazzarra davanti al Tribunale di Milano schierando i deputati e i senatori Pdl contro la magistratura che lo indaga per reati comuni e portandoli addirittura a rumoreggiare di fronte all’aula del processo Ruby. La scena finale resterà nelle memorie peggiori del Paese, con i parlamentari in fila contro lo Stato come dei caimani in versione Lacoste, che purtroppo trasformano in piazza l’Inno di Mameli in una marcia antirepubblicana ed eversiva.
L’ordalia finale di un leader soffocato dalla sventura costruita con le sue stesse mani – nella dismisura degli abusi e della corruzione, all’ombra dell’impunità – ha travolto infine i sedicenti moderati della destra, cancellandoli in un’omologazione estremista che annulla ogni autonomia di destino per il Pdl, costretto all’identificazione fanatica col destino padronale, nella vita come nella morte politica.
La verità è che non c’è più politica, in questo salto nel cerchio di fuoco che tutto consuma, compresi (per fortuna) i piani di qualche statista per arrivare ad un governo Pd-Pdl. Ma prima ancora, l’avventurismo berlusconiano brucia ogni ruolo istituzionale della destra, qualsiasi condivisione riformista, persino l’agibilità del Parlamento, che infatti Alfano minaccia di abbandonare come protesta per “l’emergenza democratica”.
Ci aspettavamo che Napolitano non ricevesse al Colle chi dopo aver chiesto udienza al Quirinale trascina il Parlamento in piazza. Ma dal Capo dello Stato Alfano e Berlusconi impareranno che il Quirinale non è un quarto grado di giudizio. Così come dovranno capire che in democrazia non si porta il potere legislativo in strada contro il potere giudiziario. E soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per chi alza la voce perché non può dire la verità sugli scandali che lo avvolgono: e maschera la sua disperazione politica da prova di forza, trasformando un partito in un bullo collettivo,
come se la democrazia fosse una taverna.

La Repubblica 12.03.13

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La sfida di Silvio al Colle “Fermare le udienze o ci difenderemo e sarà il caos”, di CARMELO LOPAPA e UMBERTO ROSSO

Non gli è piaciuta affatto quell’irruzione al Palazzo di giustizia di Milano. Giorgio Napolitano, mentre in tv scorrevano le immagini della clamorosa protesta berlusconiana, si è fatto chiamare al telefono Gianni Letta. Parole dure, dal capo dello Stato, che avrebbe fatto notare come la materia della giustizia sia un tema troppo delicato, come occorra «senso di responsabilità» e «rispetto delle istituzioni» per affrontarlo.
Quanto avvenuto è stato vissuto dal Colle né più né meno che come uno sgarbo. Tanto più perché gli eventi precipitano dopo che Alfano aveva chiesto e ottenuto un colloquio col capo dello Stato per domani. Pare che al Quirinale ci sia stata perfino la tentazione di annullare il tutto, superata poi dalla decisione di non gettare altra benzina sul fuoco. Di certo permane la sorpresa, per la chiamata in causa del capo dello Stato come “garante” per vicende processuali il cui iter è tutto e soltanto nelle mani della magistratura. Già. Perché alle 11 di oggi Alfano, Cicchitto e Gasparri avanzeranno una vera e propria proposta politica, con offerta annessa. Messe a punto, neanche a dirlo, col Cavaliere ricoverato. «Ci rivolgeremo a lui in qualità di presidente del Csm e di supremo garante delle istituzioni» ha spiegato il segretario Pdl ad alcuni dei dirigenti presenti a Milano a margine della «occupazione» del Tribunale. «E in quella veste gli chiederemo di fermare i processi e le inchieste che rischiano di trasformarsi in un vero e proprio golpe ai danni di Berlusconi». Tradotto: uno stop di due-tre mesi, i prossimi. Una sorta di lodo Alfano a termine, una moratoria «limitata, giusto a questa fase politica delicata e rischiosa per il Paese». Settimane cruciali in cui il leader che rappresenta il 30 per cento dell’elettorato pretende di avere mani libere dalle udienze per giocarsi tutte le sue
carte. Nella partita per la formazione del nuovo governo, ma soprattutto quella ritenuta ancor più importante, in prospettiva, per l’elezione del presidente della Repubblica.
Non solo. A Napolitano, con tutti i riguardi del caso, verrà chiesto anche di intervenire, forte della sua moral suasion, nei confronti della Procura di Napoli che si avvia a spron battuto verso il giudizio immediato a carico di Berlusconi. Se non verso una — da loro temutissima — richiesta di arresto che grillini e democratici al Senato già nelle chiacchiere da Transatlantico a Palazzo Madama
sognano di approvare. «La situazione è insostenibile, presidente, siamo in emergenza democratica » sarà la premesse di Alfano, elencando la sequenza di processi al traguardo e di inchieste nascenti. Se nulla cambierà, «allora reagiremo adeguatamente, diserteremo le Camere, sarà il caos».
Di contro, verrà offerta la disponibilità al via libera a un esecutivo del presidente, fosse pure una prorogatio a Monti, «per senso di responsabilità». Ma il piano messo a punto da Berlusconi dal letto della clinica è articolato. A Napolitano i pidiellini chiederanno anche la disponibilità a una riconferma alla più alta carica dello Stato. È dal presidente uscente che ormai i berlusconiani si sentono «garantiti» in forza della sua terzietà. Di certo, molto più di quanto non si possano sentire al sicuro con un Prodi, giusto per fare un nome tra quelli finiti già nel frullatore. «Diciamo no a un presidente di sinistra scelto da un Parlamento magari sciolto da qui a qualche settimana».
Tutto è in bilico, tutto pericolosamente a rischio, per il futuro personale e politico del Cavaliere. Furente ieri mattina quando in rapida sequenza da Napoli giunge notizia della richiesta di giudizio immediato (sono le 12.30) e da Milano dell’invio di una nuova visita fiscale. È a quel punto che Angelino Alfano lo chiama e ha la conferma che bisogna abbandonare la linea morbida. «Non è più momento di stare a guardare, servono i fatti» si inalbera il capo. Vince la linea dei duri alla Santanché e Verdini. Soddisfatta la deputata a fine giornata: «Non c’è più spazio per le colombe, adesso tutti falchi o rischiamo di fare la fine dei piccioni ».
Ma di fronte al teorema della «persecuzione giudiziaria» di Berlusconi e ad una raffica di simili richieste, non potrà che esserci il muro del Quirinale. «Sanno bene quel che il presidente potrà fare», mettono le mani avanti al Colle in vista dell’incontro di stamattina, anticipando appunto che non è nei poteri e nelle intenzioni di Napolitano garantire immunità, o «perdoni» presidenziali. Se il capo dello Stato nonostante tutto ha deciso di confermare l’appuntameno con Alfano, nato da formale richiesta venuta dal secondo partito in Parlamento, non vuol dire certo chiudere un occhio di fronte ad una violenta campagna «in cambio» di una disponibilità del Pdl al varo di un nuovo governo. E il capo dello Stato, se il partito di Berlusconi nel colloquio non cambierà i toni, potrebbe anche intervenire apertamente.

12.03.13

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L’ultima grande sceneggiata delle donne del Cavaliere “Abbiamo disobbedito a Silvio”, di NATALIA ASPESI

CAMMINANO piano, ondeggiando, stretti uno all’altro, forse il luogo maestoso gli incute soggezione, addirittura paura, non si sa mai, con tutti quei severi carabinieri in giro, e le transenne, a impedire che qualcuno, anche gli onorevoli, tenti di entrare nell’aula, del resto vuota. Naturalmente il fior fiore dei pidiellini si sono sobbarcati questa fatica per protestare contro la «magistratura politicizzata» e il suo «accanimento giudiziario» (le frasi sono sempre quelle) che è quella milanese: peccato che lo sia anche quella napoletana, che proprio mentre arrancano nel labirinto del palazzo, fa sapere che processerà Berlusconi per direttissima.
Come si sa, il Cavaliere è ricoverato al San Raffaele da venerdì, giorno in cui Ilda Boccassini doveva pronunciare la sua requisitoria e formulare la richiesta di condanna. Accolto quel giorno il legittimo impedimento per uveite (occhi rossi, dolenti e lacrimosi), sabato per il processo Mediaset altri magistrati non hanno creduto ai fumosi certificati e hanno mandato il medico fiscale, che non ha trovato l’ex premier così grave da non poter assistere a un’udienza. Ma ieri, il patatrac, tanto che Formigoni si è sentito in dovere di esclamare, «per il tribunale anche un malato in coma irreversibile è trasportabile!». Non è mai capitato, ma chissà. Troppo per il partito delle Libertà, tanto che i suoi neoeletti, in riunione a Milano hanno deciso di prendere la Bastiglia della giustizia milanese, soprattutto contro chi aveva osato richiedere e questa volta ottenere per il processo Ruby, la visita fiscale, il sostituto procuratore Sangermano e il procuratore aggiunto Boccassini, quella che la mente più fine delle signore pdl, Daniela Santanchè, ha chiamato ieri con la massima scempiaggine, «l’Ingroia con la gonna»: essendo la Boccassini non solo non in sintonia con quel magistrato, ma addirittura in pantaloni.
A un certo punto della riunione di partito, non sapendo forse di cosa discutere senza la presenza elettrizzante di Berlusconi, il patriottico Alfano ha incitato la truppa in pesante cappotto malgrado il tepore primaverile: «Tutti a Palazzo di Giustizia!». Mancavano bandiere e stendardi, e un avanzare ardito da Quarto Stato: comunque tutti a piedi, nella speranza, frustrata, di trascinare con loro qualche volontario incuriosito. Poi davanti alla scalinata infinita, sotto la grande foto di Falcone e Borsellino, i coraggiosi onorevoli si sono messi a semicerchio e si sono fatti fotografare
come per le gite scolastiche, e hanno anche incongruamente accennato all’Inno di Mameli. Poi su, senza tralasciare nessun microfono o iPhone: raccontando un’Italia che pur essendo in cattive acque per conto suo, nelle loro parole è un immenso gulag degli anni ’50.
Le definizioni sono allarmanti, ma ormai la fantasia horror in difesa del capo è stata superata da tempo, e quindi è ripetitiva, non lascia traccia, suscita qualche sbadiglio, anche tra gli astanti disinteressati allo straordinario evento: un tribunale assediato al suo interno, da gente che, una volta lì, non sa assolutamente cosa fare, se non filarsela a testa bassa dopo una ventina di minuti. Ma intanto, Carfagna ha deplorato «il solito gruppo di magistrati fuori controllo», mentre la Biancofiore, più Abu Ghraib, grida «Siamo alla tortura!», banale come sempre Capezzone, «E’ in atto un assedio alla democrazia! »; la Bernini è apocalittica: «C’è una macchina da guerra per la sistematica distruzione fisica morale e politica del leader più amato dagli italiani!». Oratoria la Ronzulli: «Si metta l’animo in pace la magistratura militante di sinistra!». Fantasioso Scilipoti: «Ci sono gli estremi di denuncia per abuso di ufficio!». Galan preveggente e malaugurante: «Con questa persecuzione ci sono due possibilità, la prima è scappare, la seconda andare in carcere!». Gelmini con gli occhi rossi di commozione assicura, «per una volta gli abbiamo disubbidito! ». Si perché lui, l’ammalato Silvio non voleva assolutamente, glielo aveva proibito, di manifestare, in un momento così delicato del Paese, meglio concentrarsi su come governarlo, loro che hanno avuto il voto di 8, oppure 9, oppure10 milioni di italiani (ognuno aveva una cifra sua). Ma loro, i suoi neoeletti, tra cui sovrabbondano i rieletti, non hanno voluto sentire. E per la prima e ultima volta nella loro carriera pidiellina, han fatto di testa loro. Diciamo che anche da un punto di vista politico, il centinaio e passa di berlusconiani che occuperanno il nuovo parlamento, è fermo lì, alla sinistra malvagia: non si sono accorti o ancora non sono entrati nel loro linguaggio di battaglia, i grillini, e la loro promessa di spazzare via tutti e di essere d’accordo con l’esclusione di Berlusconi dalle cariche istituzionali e non contrari al suo arresto. In ogni caso, scomparsi i manifestanti, estenuati per le ore e ore di attesa i giornalisti, i magistrati, i cancellieri, i carabinieri e i rari curiosi, finalmente i responsabili della visita fiscale hanno detto, sì il dottor Berlusconi ha un legittimo impedimento di salute. Spettacolo ridicolo, casino inutile, tutti a casa; l’avvocato difensore Ghedini, più verde del solito per la soddisfazione, annuncia che l’imputato malato ne avrà per 15 giorni.

La Repubblica 12.03.13

"Per gli statali un taglio a doppio effetto", di Gianni Trovati

Approvato il «codice di comportamento», che impedisce di ricevere regali troppo pregiati e di usare dotazioni di lavoro per fini privati, i dipendenti pubblici aspettano un provvedimento decisamente più pesante. Il bilancio dello Stato l’aveva messo in conto fin dal luglio del 2011, quando la prima manovra estiva dell’anno dello spread aveva “ipotizzato” un nuovo blocco di rinnovi contrattuali e stipendi individuali negli uffici pubblici anche per il 2013-14, da attivare per decreto dopo il primo congelamento triennale del 2010-2012. Ora però, archiviate le cautele elettorali, il regolamento preparato da Economia e Funzione pubblica è in arrivo, e a fare i calcoli sono i diretti interessati: una platea da quasi quattro milioni di persone, che ai dipendenti della Pubblica amministrazione unisce quelli delle società in house e degli enti strumentali (si veda anche l’articolo a fianco). Per avere un quadro completo, i calcoli dovranno considerare anche i riflessi previdenziali, particolarmente pesanti per chi andrà in pensione nei prossimi anni. La cifra pagata da ogni dipendente pubblico sull’altare della crisi, come mostrano i conti in tasca alle varie categorie riprodotti nel grafico qui a fianco, è importante, tanto più che nel nuovo congelamento dovrebbe essere compresa anche l’indennità di vacanza contrattuale (e proprio questo fattore spinge il provvedimento all’approdo in Gazzetta Ufficiale entro il mese di aprile). Il sacrificio è ovviamente proporzionale allo stipendio che ogni profilo di dipendente pubblico aveva all’inizio del congelamento, ed è calcolato su un doppio indicatore: per la prima tornata contrattuale saltata, quella del 2010-2012, il taglio è misurato sulla base delle risorse che erano state messe a disposizione dei vecchi rinnovi, mentre per il nuovo congelamento biennale il punto di riferimento è l’Ipca, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo che esclude i prodotti energetici importati e offre il punto di riferimento di tutti i nuovi contratti biennali. Risultato: nei cinque anni “congelati” gli statali e i loro colleghi delle Pubbliche amministrazioni territoriali hanno rinunciato in termini di mancati aumenti a circa il 9,2% dello stipendio. Un dato che, soprattutto per il 2013-2014 visti i meccanismi di calcolo, tende a coincidere con la perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione.
Tradotto in cifre, significa 2.575 euro all’anno a regime in meno per gli impiegati degli enti locali, che con il loro stipendio medio inferiore ai 28mila euro lordi annui sono sul gradino più basso della categoria. Per i loro colleghi di Palazzo Chigi, che di euro ne guadagnano in media quasi 43mila, la tagliola vale a regime poco meno di 4mila euro, e le cifre crescono ovviamente man mano che si sale la scala gerarchica delle amministrazioni. Per chi sta in cima, e ha stipendi superiori ai 90mila euro lordi annui, in realtà il conto avrebbe dovuto essere ben più salato, a causa del contributo di solidarietà che chiedeva il 5% della quota di stipendio superiore ai 90mila euro e il 10% di quella sopra i 150mila. Il meccanismo, però, è caduto sotto i colpi della Corte costituzionale, e quindi è uscito dal conto.
Il sacrificio è permanente, perché le norme escludono espressamente ogni possibilità di recupero di quanto perso alla ripresa dei rinnovi. Ma a rendere “eterna” la sforbiciata sono anche i suoi effetti sugli assegni previdenziali, in particolare per chi va in pensione in questi anni: chi si avvicina all’uscita oggi ha circa la metà della pensione calcolata con il sistema retributivo, e sconterà sull’assegno circa l’80% del costo complessivo del blocco. In altri termini, chi ha “perso” 7mila euro come mancati aumenti e andrà in pensione nel 2014-15 riceverà una pensione più leggera di circa 5.500 euro annui rispetto a quella che avrebbe ottenuto in tempi normali. L’effetto si diluirà poi nel tempo, ovviamente con il ritorno ai rinnovi contrattuali.
La prospettiva, insomma, non è leggera. Complice il quadro frastagliato uscito dalle urne, anche il fuoco di fila da parte dei sindacati è un dato quasi scontato, basato com’è sull’argomento non secondario che contesta l’opportunità da parte di un Governo uscente di adottare un provvedimento di questo peso, tra l’altro perfettamente in linea con la «politica del rigore» uscita malconcia dal voto di febbraio. Altrettanto scontato, però, sembra l’arrivo al traguardo del decreto, perché proprio dal nuovo blocco di contratti e stipendi dipende gran parte del miliardo di euro di risparmi messi a bilancio per il 2013-2015 dalla manovra estiva numero uno del luglio di due anni fa.

Il Sole 24 Ore 11.03.13

Delrio: «Ordinanze per pagare le imprese», di Massimo Franchi

Sbloccare 8-9 miliardi di pagamenti pubblici dovuti alle imprese tramite ordinanze dei sindaci o delibere di giunta per motivi di sicurezza sociale. Per evitare la bancarotta e la chiusura di migliaia di aziende e perdere di conseguenza centinaia di migliaia di posti di lavoro, i sindaci sono pronti a prendersi la responsabilità di derogare al Patto di stabilità interno.

A lanciare la proposta è il presidente dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio. Che, forte dell’appoggio di imprese e sindacati, giovedì nell’Ufficio di presidenza dell’associazione dei Comuni proporrà a tutti i colleghi di fare lo stesso. «Come sindaci ogni giorno siamo davanti ad una tragedia, le aziende che chiudono, i lavoratori che vengono a chiederci aiuto. E la cosa grave è che noi Comuni potremmo benissimo pagare gran parte delle imprese, ma è il Patto di stabilità che ci blocca».

Il quadro dei conti è presto fatto: dei 79 miliardi di debiti della pubblica amministrazione verso le imprese, 12-13 miliardi sono dei Comuni. «Si tratta di 20-25mila opere pubbliche, appalti con lavori già cantierizzati – spiega Delrio – E alla voce investimenti abbiamo almeno 8-9 miliardi a disposizione per pagarne la gran parte o garantire alle aziende una parte dei pagamenti per evitare che vadano in bancarotta, chiudano e licenzino i lavoratori e non finiscano neanche lavori di pubblica utilità».

Il sistema delle imprese intanto è sempre più vicino all’implosione. Prima fra tutte a rischiare sono quelle edili che nel giro di qualche settimana si troveranno davanti a un vero cataclisma con rischio di blocco per tutto il sistema appena le aziende che lavorano per loro in subappalto inizieranno a presentare ingiunzioni di pagamento. Con ricadute sui Comuni, i loro bilanci e, con un effetto domino sull’intera impalcatura statale. Il grido d’allarme lanciato dal presidente dell’Ance (associazione dei costruttori edili) Paolo Buzzetti assieme a tutte le associazioni datoriali della filiera dell’edilizia (Ance, Anaepa Confartigianato, Cna Costruzioni, Fiae-Casartigiani, Alleanza delle Cooperative italiane, Aniem e Federcostruzioni) per definire un piano di pagamento dei debiti pregressi della pubblica amministrazione, sembra caduta nel vuoto.

Ecco allora la proposta: «Abbiamo già avuto l’appoggio dell’Ance (l’associazione delle imprese edili, ndr), dei sindacati e delle Regioni. Bisogna fare qualcosa subito e allora io propongo che noi sindaci ci prendiamo la respon- sabilità politica di pagare i crediti sforando il Patto di stabilità. Per pagare però i nostri Ragionieri, i responsabili del bilancio di ogni Comune, hanno bisogno di una ordinanza del sindaco o di una delibera di giunta: i nostri legali stanno studiano quale sia lo strumento migliore e giovedì lo decideremo insieme all’Anci».

IL FLOP DELLA CERTIFICAZIONE

La situazione esplosiva è poi figlia del flop delle misure del governo Monti sullo sblocco dei crediti. Il sistema di certificazione dei crediti voluto dal ministro Corrado Passera ha prodotto pagamenti per la miseria di 3 miliardi sui 79 totali, considerando poi tutti gli 8 mesi di procedure. «Le procedure già farraginose – commenta Delrio – si sono allungate a causa dei ritardi della Consip (società del ministero dell’Economia che fornisce servizi di consulenza a ministeri e Pubblica amministazione, ndr) che ha impiegato mesi per predisporre la piattaforma informatica necessaria alle imprese per fare le domande. In più le banche che fattivamente devono effettuare il pagamento devono essere certe che le aziende non abbiano ceduto il credito ad altri e per questo devono fare lunghi controlli incrociati che prendono altri mesi di tempo». La constatazione è amara: «Qua i mesi passano e le aziende muoiono di austerità, il governo ci ha sempre fatto capire che una soluzione si sarebbe trovata per derogare al Patto di stabilità e invece l’unica cosa che ha fatto è stata allargare la stretta anche sui Comuni sotto i 5mila abitanti. Adesso non possiamo più aspettare o le nostre città scoppieranno di rabbia e di disoccupati», attacca Delrio.

Il dubbio, sollevato da alcuni, che una misura come questa faccia sforare all’Italia il Patto di stabilità europea viene rispedita al mittente: «Abbiamo fatto i conti – continua Delrio – con 8-9 miliardi di pagamenti si avrebbe un aumento del rapporto deficit/Pil del solo 0,3% che ci manterrebbe sotto il 3% definito dai criteri di Maastricht, dunque l’Italia non violerebbe alcun patto europeo».

L’Unità 11.03.13

"Ascolta, clicca e guarda ecco la nuova formula per insegnare ai ragazzi", di Maria Novella De Luca

La sfida è catturare la loro attenzione, le loro menti che hanno spie sempre accese e tablet, pc e cellulari sincronizzati giorno e notte. Studenti 2.0 che imparano facendo mille cose insieme, in una rivoluzione multitasking dove il libro di testo non basta più, perché il sapere arriva da mille fonti e la generazione web le mescola tutte. Così la scuola prova a diventare interattiva: la parola più il video, più l’audio, cercando un ponte con quella tribù digitale che sta riscrivendo, sembra, i meccanismi dell’apprendere e del conoscere. Nasce il libro che entra nella Rete, e la Rete che rimanda al libro, e addirittura You-Tube può servire ad approfondire temi considerati “intoccabili”, la Divina Commedia o la poesia del Trecento, ambiti fino a ieri impermeabili a ogni contaminazione. Del resto l’80 per cento dei ragazzi lo confessa apertamente: studiamo connessi a Internet, la musica di sottofondo e il cellulare che vibra, la concentrazione si frammenta sì, ma si moltiplica anche.
In tutto il mondo si stanno diffondendo “piattaforme” di studio multimediali, una sorta di laboratori dove si passa dal libro di testo al web e viceversa, attraverso una password data in dotazione a ogni studente. E cercando di catturare l’irrequieta attenzione dei nativi digitali i materiali diventano interattivi, grafici, video, audio. In Italia queste piattaforme sono da tempo diffuse da Pearson, casa editrice specializzata in materiali didattici che, dopo aver lanciato laboratori per imparare la matematica e l’inglese (MyLabMath e EnglishMy-Lab), adesso, con una versione tutta made in Italy, ha costruito MyLabLetteratura e MyLabStoria, entrando nel cuore del sapere umanistico.
L’idea è quella di creare un percorso guidato e facilitato, basato sul concetto, ancora poco noto in
Italia, del learning by doing,imparare facendo, che secondo la piramide dell’apprendimento dello psicologo americano Edgar Dale farebbe raggiungere i migliori livelli nello studio. «L’universo della scuola», spiega Matteo Lancini, che insegna Psicologia all’università Bicocca di Milano, «è oggi alla ricerca continua di strumenti che
possano andare incontro ai nativi digitali, ormai impermeabili alle modalità di insegnamento tradizionali. Parliamo di bambini e ragazzi iperstimolati, che mal sopportano la solitudine del libro. Poter invece interagire con il testo, partecipando alla costruzione del sapere, può certamente favorire la loro attenzione». Imparare facendo.
Nella piramide di Dale si riesce a conservare il 90 per cento delle informazioni ricevute, contro il 10 acquisito leggendo soltanto. Navigando nel V canto dell’Inferno nella piattaforma di My-LabLetteratura, collegata a un manuale scolastico cartaceo, ecco la voce di Gassman che recita la passione di Paolo e Francesca,mentre una “linea del tempo” sottolinea le date fondamentali della vita del poeta. E, sullo sfondo, scorrono i quadri ispirati al canto più celebre della Divina Commedia.
Sapere multitasking. Andrea Moro, professore di Linguistica allo Iuss di Pavia, è scettico. «Non credo alle piramidi dell’apprendimento,anche se sono cosciente che l’attenzione dei ragazzi è sempre più breve. Dopo mezz’ora di lezione capisci che sono altrove, ma l’unico modo che conosco per catturarli è appassionarli. Non occorrono percorsi semplificati: penso, invece, che ogni ragazzo possa creare un metodo di studio autonomo faticando tra un libro, un dizionario, anche on line, perché no, ma facendo da sé uno schema di ciò che ha appreso ».
In realtà le piattaforme sono contenitori aperti, in cui “coabitano” insegnanti e studenti, libri e web. E la multimedialità secondo le statistiche migliorerebbe del 25 per cento il profitto. Ma siamo soltanto all’inizio, aggiunge Paolo Inghilleri, ordinario di Psicologia sociale all’università di Milano. «I ragazzi vivono il loro mondo digitale come qualcosa di separato dalla scuola, e gli insegnanti faticano ad aprirsi alle tecnologie. È indubbio comunque che questi materiali “adattati” riescano a catturare l’attenzione degli studenti. E dall’unione di più linguaggi nasce sempre qualcosa di buono. Ma bisogna stimolare anche passione e spirito critico».

La Repubblica 11.03.13