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"Alla ricerca della base perduta", di Ilvo Diamanti

Non è una scossa isolata e occasionale. Le recenti elezioni segnano, invece, una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il voto al M5S. Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica. LA PRIMA — a cui abbiamo già dedicato attenzione — colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo “sradicamento” dei partiti principali nello loro zone “tradizionali”. Il Pd: in alcune province storicamente di sinistra. Nelle Marche e in Toscana, soprattutto. La Lega: nel Nordest, nella pedemontana lombarda e piemontese. Nelle province “forza-leghiste”, un tempo “bianche”. Democristiane. Infine, il PdL, che ha perduto, in misura superiore alla media, nelle Isole. Sicilia e Sardegna. Dove è forte, fin dalle origini.
Una geografia politica di lunga durata è mutata bruscamente e in modo profondo. Almeno quanto la struttura sociale ed economica del voto. È qui la seconda “crisi”, esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento. Il centrodestra, in particolare, aveva conquistato il consenso dei ceti produttivi privati. Gli imprenditori, ma anche gli operai delle piccole e medie imprese private. E gli stessi in-occupati. Aveva, inoltre, ereditato, dai partiti di governo della prima Repubblica, il consenso delle aree del Mezzogiorno maggiormente “protette” dallo Stato.
Il Centrosinistra e soprattutto il Pd si erano, invece, caratterizzati per il consenso elettorale garantito dai ceti medi tecnici e impiegatizi. I vent’anni della seconda Repubblica, in fondo, si riassumono in questa frattura sociale e territoriale. Marcata dalla “questione settentrionale” e dai soggetti politici che, più degli altri, l’hanno interpretata. La Lega e Silvio Berlusconi. La Destra popolare opposta alla Sinistra im-popolare. Sostenuta dai professionisti, gli impiegati (soprattutto “pubblici”) e gli intellettuali.
Ebbene, oggi il marchio della Seconda Repubblica appare molto sbiadito. L’identità sociale — per non dire di “classe” — delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata.
Il centrodestra “popolare” ha perduto il suo “popolo” (lo ha rilevato anche Luca Comodo, sul Sole 24 Ore).
Il suo peso, tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, rispetto alle elezioni del 2008, è pressoché dimezzato: dal 68 al 35%. Lo stesso tra gli operai: dal 53 al 26%. Mentre, fra i disoccupati, gli elettori di centrodestra sono calati dal 47 al 24% (indagini di Demos-LaPolis, gennaio-febbraio 2013).
Anche il centrosinistra e la sinistra si sono “perduti” alla base. Hanno, infatti, intercettato il voto del 35%, tra le figure “intellettuali”, il personale tecnico e impiegatizio: 12 meno del 2008. Del 32% dei liberi professionisti: 10 meno delle precedenti elezioni.
Centrodestra e centrosinistra, soprattutto, hanno smesso di costituire i poli alternativi per i lavoratori dipendenti e indipendenti, occupati e disoccupati. Perché, in queste elezioni, non hanno, semplicemente, cambiato profilo socioeconomico. Ma sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità.
La base perduta da una delle due coalizioni principali della Seconda Repubblica, infatti, non si è rivolta all’altra. Gli operai — e i disoccupati — non si sono spostati a sinistra. Tanto meno — figurarsi — gli imprenditori e i lavoratori autonomi. I professionisti, gli impiegati e i tecnici, a loro volta, non si sono orientati a destra. I lavoratori “in fuga” si sono rivolti altrove. Hanno scelto il M5S. Per insoddisfazione — spesso: rabbia — verso le “alternative” tradizionali. Hanno votato per il soggetto politico guidato da Grillo.
Così, oggi, in Italia si assiste a una competizione politica singolare, rispetto a quel che avviene in Europa. Dove l’alternativa avviene — prevalentemente — fra Liberisti e Laburisti, Popolari e Socialdemocratici. Centrodestra e Centrosinistra. Che rappresentano, storicamente, lavoratori indipendenti e dipendenti. Imprenditori e operai oppure impiegati. Mentre oggi in Italia i due principali partiti, PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti “esterne” al mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i pensionati (37%). Quelli che guardano la tivù… Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista. Da partito di massa all’italiana. Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica. Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%). Fra i “liberi professionisti” (31%) e fra gli studenti (29%) — dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale “nazionale”. Distribuito in tutto il territorio.
Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio. Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell’area di governo gli “ultimi arrivati”. Non è così. Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato. Le stesse fratture politiche che hanno improntato la Seconda — ma anche la Prima — Repubblica oggi non riescono più a “dividere” e ad “aggregare” gli elettori. Siamo entrati in un’altra Storia. I partiti “tradizionali”, per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo. Scommettere sulla sua dis-integrazione. Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.

La Repubblica 11.03.13

"Così, davanti al supermercato, ho visto crescere una rivoluzione", di Michele Nicoletti

Chiunque abbia fatto la campagna elettorale volantinando fuori dai supermercati là dove hai modo di incontrare lo spaccato del Paese reale e non una sua fetta che ti scegli a piacimento perché a fare la spesa ci vanno tutti si è reso facilmente conto che era arrivato il dies irae, il giorno dell’ira e della punizione divina. «Fate campagna elettorale con i soldi nostri» dicevano i pensionati. «I soldi per pagarvi i volantini lo Stato ve li dà, a noi non dà i soldi per comprarci il pane. È giustizia questa? È uguaglianza di trattamento?» Agli imprenditori piaceva l’idea di sbloccare i crediti che le imprese vantano nei confronti dello Stato, ma la musica era la stessa: «Non ci importa quanto siete pagati, ma perché i vostri crediti non si bloccano mai? Perché ogni mese arrivano puntualmente i pagamenti delle indennità, dei costi per i gruppi consiliari, dei rimborsi elettorali e i pagamenti alle imprese non arrivano mai? Bloccate i finanziamenti ai partiti fino a che non avrete sbloccato i crediti alle imprese, così sarete più credibili e convinti quando vi batterete per sbloccare tutti i crediti, i vostri e i nostri! » Di nuovo il problema dell’uguaglianza di trattamento. Insomma non era difficile respirare l’atmosfera che prepara i grandi rivolgimenti, le grandi rivoluzioni.
E venivano alla mente le pagine straordinarie che Tocqueville, nel suo «L’ancien regime e la rivoluzione», dedica al crollo dell’aristocrazia francese allo scoppio della Rivoluzione. La nobiltà francese era morta anzitutto nel cuore della gente. Per secoli il sogno di ogni persona era stato quello di nascere nobile o di poter conquistare un qualche grado di nobiltà con la spada, il commercio o l’intrigo: la nobiltà era l’oggetto del desiderio. Ora, quasi all’improvviso, era diventata l’oggetto del disprezzo e di un odio profondo, perché aveva perduto la sua funzione sociale. Detentrice di privilegi ingiustificati, svelava la sua natura di classe parassitaria: non solo inutile, ma dannosa. E come non abbiamo fatto ad accorgercene, noi, cresciuti sui banchi di scuola imparando i versi del Parini sul «Giovin Signore»: colui «che da tutti servito a nullo serve»? Gli aristocratici come «sanguisughe» del popolo. Per questo da eliminare.
Non c’è solo sofferenza sociale e tanta rabbia dietro al voto, c’è anche risentimento. Bisogna riandare alle pagine di Nietzsche sul risentimento per capire il suo nesso profondo con il populismo novecentesco. Odio verso tutto ciò che sta in alto. Non potendo innalzare me stesso, almeno si abbassi l’altro. E dunque identificazione con chi propone di abbattere, azzerare, mandare tutti a casa. Non è vero che l’umiliazione di chi sta in alto non porta immediato giovamento alla condizione del risentito. Non si capirebbe il ruolo della satira. E non c’è forse uno strabordare della satira nella politica italiana? Nel dileggio di chi sta in alto, nel vederlo cadere, inciampare, balbettare, nella dissacrazione esasperata, nella sua spoliazione vedo compiersi un’anticipazione del giudizio finale, quando arriverà la grande Eguagliatrice. Chi ripete che i tagli ai costi della politica non muterebbero di molto le condizioni del Paese, sembra non vedere questa dinamica: la condizione di privilegio è insopportabile alla vista. Tanto più quando quella «aristocrazia» non è il frutto di una conquista militare o di una potenza economica, ma quando è il frutto della rappresentanza popolare. Insopportabile non è il miliardario, ma il popolano che in forza del mandato popolare si eleva e si sottrae al destino di miseria del suo padrone: il cittadino.
«Non chiamatemi onorevole, ma cittadino» dicono i neoeletti del Movimento 5 Stelle in Parlamento. Basterebbe questo per respirare aria da Rivoluzione Francese. Come non sentire in questa parola le antiche aspirazioni dei levellers all’uguagliamento? Un po’ di Rousseau, un po’ di anarcoprimitivismo. L’onore ci insegna Montesquieu è il tratto distintivo delle monarchie e della nobiltà ad esse legata. Nelle repubbliche l’unico onore che può essere tributato è quello a chi ha servito la patria, non certo a chi si è servito di essa. E quanto molti «onorevoli» precedenti hanno disonorato la funzione di rappresentanti del popolo? Davanti ai supermercati non è facile spiegare la funzione dei partiti, snodo essenziale delle democrazie rappresentative. «Se ritenete che siano così importanti dicono perché non ve li pagate?» «Se non credete voi, fino in fondo, in ciò che fate, se non ci credete al punto di sacrificare qualcosa di vostro per questo ideale, perché dovremmo crederci noi?» E noi a parlare dei rischi del populismo e dell’involuzione autoritaria di una democrazia plebiscitaria. E allora l’inevitabile ironia: «Perché Sturzo, Gobetti, Turati e Gramsci ricevevano soldi dallo Stato?» In tanti discorsi di casa nostra sui partiti permane ancora l’idea del partito come Grande Mediatore secondo quella catena di successione teologico-politica che dal Cristo dei primi secoli va alla Chiesa medievale e poi allo Stato moderno e infine al Partito contemporaneo, secolarizzazioni successive del Corpo Mistico, retto da un funzionariato che è l’esatta replica del clero organizzato. Ma davanti al supermercato una signora si ferma davanti al nostro gazebo, posa le borse a terra e sconsolata ci dice: «Pure il Papa si è dimesso ed è tornato umano. Ed era stato eletto dallo Spirito Santo. E voi che siete stati eletti da noi, quando tornate umani?».
E dunque questo è il tempo di tornare umani, di spogliarsi della natura divina e di assumere fino in fondo la conditio humana. Al populismo non si reagisce riproponendo il paternalismo delle oligarchie o quello delle elites tecnocratiche, ma riproponendo con coraggio la via di un nuovo repubblicanesimo che metta al centro la sovranità del popolo e la centralità del Parlamento. Non sarà certo ai democratici che farà paura riprendere lo spirito della Dichiarazione dei diritti della Virginia: «Tutto il potere è nel popolo, e in conseguenza da lui è derivato; i magistrati sono i suoi fiduciari e servitori, e in ogni tempo responsabili verso di esso». Con questo sentimento nel 1789 i rappresentanti del Terzo Stato nella Sala della Pallacorda giurarono che non si sarebbero sciolti fino a che non avessero dato una Costituzione alla Francia.

L’Unità 10.03.13

"L’opportunità del cambiamento", di Claudio Sardo

Fa paura lo stallo post-elettorale. Perché c’è un’Italia che soffre, perché l’Europa è tuttora intrappolata in una politica suicida di austerità, perché la quiete dei mercati non durerà a lungo senza risposte efficaci, perché siamo alle prese con una frattura politica e sociale che mette a rischio la stessa unità del Paese. È una crisi di sistema quella che il voto ha squadernato. Ma in questo risultato c’è anche l’opportunità di cambiare e di ripartire. Anzi, si può ripartire proprio perché gli elettori hanno chiesto un cambiamento profondo. Il Pd pensava che il suo progetto avesse la capacità di rassicurare sulla tenuta dell’Italia, e al tempo stesso la forza di promuovere un’opera di ricostruzione. Gli elettori invece lo hanno percepito al di sotto della necessità di innovazione della politica. Ora il passaggio è reso difficile non solo dai numeri, ma anche dall’urgenza di una soluzione. Il Pdl, purtroppo, non aiuta: il Paese avrebbe bisogno di una destra democratica, europea, capace di assumersi all’occorrenza una responsabilità nazionale. Invece è sempre più arroccata in difesa di Berlusconi, una difesa addirittura nei processi e dai processi, fino a minacciare conflitti istituzionali devastanti, senza neppure un dubbio di fronte ad ipotesi di corruzione politica (come la compravendita di senatori per ribaltare la maggioranza scaturita dal voto) che si configurano come un sostanziale attentato alla Costituzione.
Anche il tandem Grillo-Casaleggio, che deve la fortuna elettorale al carattere anti-sistema della contestazione, rappresenta oggi un ostacolo alla trasformazione della domanda di rinnovamento in riforma politica. Grillo ha una visione tendenzialmente autoritaria e farà di tutto per sottrarsi alle responsabilità conseguenti al consenso ricevuto: il suo desiderio è che, alla fine, Pd, Pdl e centro si raccolgano attorno a un governo di cui i Cinque Stelle siano i soli oppositori. Eppure al di là del pericolo che Grillo obiettivamente rappresenta per la democrazia costituzionale, i voti raccolti dal suo movimento sono l’espressione di un’esigenza di cambiamento, alla quale solo dei pazzi possono rispondere con una chiusura o con trovate tattiche.
Le forze del cambiamento debbono raccogliere la sfida. Il che non vuol dire piegarsi all’onda, perdere lo spirito critico, oppure abbandonare quelle convinzioni che affondano le radici nella Costituzione (e nel sacrificio di una grande generazione di italiani, i nostri padri, che ci hanno regalato decenni di prosperità e di crescita nei diritti). Il confronto sarà duro. Ma l’opportunità è concreta. Il cambiamento, negli ultimi dieci anni di dominio berlusconiano, era impossibile. Persino nei mesi del governo Monti, nonostante il premier fosse favorevole a norme con standard europei, è stata bloccata una legge anti-corruzione, capace finalmente di colpire il falso in bilancio e il reato di autoriciclaggio, soprattutto capace di consentire le sentenze prima che scatti la prescrizione breve. E il cambiamento è ancora più necessario quando si affronta la questione sociale, cioè il lavoro che manca, le imprese che vengono tassate più delle rendite, le disuguaglianze crescenti, l’impoverimento dei ceti medi, le famiglie che non nascono perché si ha paura del futuro. La svolta politica serve anzitutto ad un cambio di rotta su questo terreno: se la politica resta impotente sui temi decisivi per la vita delle persone, sarà travolta dall’accusa di costare troppo e di non servire a nulla.
Il Pd e il centrosinistra hanno subito una sconfitta. Ma se la sinistra è il cambiamento – nel senso della democrazia, dell’uguaglianza, del lavoro – deve usare le leve dell’innovazione che il risultato elettorale le ha messo a disposizione. È un sentiero stretto, strettissimo. Sull’orlo di un burrone che minaccia la nazione. Anzi l’intera Europa, per la quale vale lo stesso principio: l’unica speranza di salvezza è il cambiamento. Senza innovazione (che vuol dire integrazione democratica e cambio delle politiche economiche) l’Europa potrebbe non esserci più. Bisogna dire la verità e chiedere a tutti, avversari politici compresi, che è tempo di prendersi le responsabilità che il voto ha posto sulle spalle di ciascuno.
Bersani si è detto pronto a guidare un governo, anche se esso non avrà una maggioranza precostituita e dovrà guadagnarsi legge per legge il consenso del Parlamento. Per sostenere questa proposta, ha disegnato un nuovo rapporto tra governo e Parlamento. Il Pd è disposto a sostenere presidenze di Camere e di commissioni di altri partiti, senza esclusioni. Si potrebbe adottare il metodo vigente a Strasburgo: presidenze di commissione distribuite con criterio proporzionale tra i gruppi. Sarebbe una rivoluzione nella vita parlamentare: dopo due decenni di declino delle Camere (fino all’abuso dei maxi-emendamenti governativi e ai ripetuti voti di fiducia), si potrebbe tornare a un rapporto trasparente e dialettico tra esecutivo e Parlamento, con le forze che non fanno parte del governo impegnate a svolgere in modo più penetrante il loro potere di controllo.
Un punto, però, deve essere chiaro: neppure al movimento di Grillo è consentito di scappare. La soluzione «greca» – con Pd, Pdl e centro costretti in una sorta di maggioranza obbligata – è l’esempio da non seguire. Non per ragioni di convenienza politica, ma perché sarebbe una catastrofe democratica e perché ha già dimostrato, appunto in Grecia, che conduce al peggio. Centrodestra e Cinque Stelle coltivino pure la loro diversità politica, ma accettino il confronto in Parlamento senza spingere l’Italia alle urne. Per Grillo non si tratta di compromettersi con il Pd in un’alleanza politica che nessuno pretende, bensì di utilizzare l’apertura del centrosinistra per ottenere alcuni risultati programmatici e per verificare altre sue proposte in un libero confronto. Il tema è l’Italia e l’Europa che vogliamo. Se qualcuno vuole solo lo sfascio, lo dica chiaramente.

L’Unità 10.03.13

"Dal Pd voto «last minute» per Grillo", di Luca Comodo

I risultati delle elezioni politiche hanno prodotto una scossa che sembra andare in profondità e mettere in discussione gli assetti e lo scacchiere politico come lo abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni. La crescita dell’astensione è stata netta: 5 punti in più rispetto alle politiche 2008. Tuttavia la fuga dalle urne che emergeva dai sondaggi sino a poche settimane prima del voto non si è verificata. La delusione si è tramutata in voto per Grillo. Gli astensionisti, che nei momenti in cui erano più alti nei sondaggi avevano attratto fette di elettorato “dinamico”, tornano ad essere molto simili al profilo tradizionale di chi non vota: età elevata, basso titolo di studio, con la televisione come veicolo principale quando non esclusivo di informazione.
Tutti i partiti tradizionali vengono fortemente penalizzati: il Pdl perde oltre 6 milioni di voti, quasi 3 milioni e mezzo il Pd, 1 milione e mezzo l’Udc, la Lega smarrisce più di metà dei propri elettori, ma anche Rivoluzione civile, rispetto alle forze che la sostenevano perde quasi due milioni di voti. Queste perdite vengono catalizzate soprattutto dal MoVimento 5 Stelle. Una quota quasi analoga di elettori Pdl (16%) e Pd (14%) del 2008 convergono verso Grillo. Quote più rilevanti in termini percentuali (anche se meno importanti in quantità di elettori) arrivano al M5S dall’Idv (32%), dalla Sinistra Arcobaleno (31%) e dalla Lega Nord (24%). Dalla stessa Udc il 12% degli elettori 2008 si dirige verso Grillo. In particolare il M5S raccoglie, nell’ultima settimana precedente il voto, un flusso importante di elettori ex-Pd. Questo flusso, che nessun sondaggio è riuscito ad intercettare, ha contribuito in misura decisiva a determinare l’attuale situazione di stallo.
L’altra novità di queste elezioni, la coalizione centrista di Monti, ha una bassa trasversalità: il flusso principale viene dall’Udc, quote inferiori al 10% dagli altri partiti. Tuttavia la composizione dell’elettorato attuale della lista di Monti vede provenienze diversificate, per circa un quarto da Pdl e Udc, per circa il 20% da elettori ex Pd. I piccoli flussi dai grandi partiti sono, infatti, in valori assoluti, paragonabili al flusso più rilevante proveniente dall’Udc.
Per quel che riguarda le caratterizzazioni degli elettori dei principali partiti, curioso risulta essere il confronto fra la radiografia del voto Pd e quella del voto al Movimento 5 Stelle: dal punto di vista anagrafico, del livello di scolarizzazione e della composizione professionale, l’una sembra essere il negativo dell’altra. Dove il Pd raggiunge i suoi massimi (55-64enni, ultra 65enni, licenza elementare, pensionati, lettori di quotidiani), il Movimento 5 Stelle si ferma sui valori minimi. Viceversa tra i 18-24enni, i 35-54enni, laureati e diplomati, lavoratori autonomi, disoccupati, studenti, dipendenti privati, quanti si informano prevalentemente su internet, categorie nelle quali il Movimento di Grillo esplode, il Pd risulta in evidente difficoltà.
Il Pdl mantiene uno zoccolo duro fra i più anziani (ultra 65enni), gli elettori con licenza elementare, le casalinghe, quanti si informano soltanto il tv, specie nel centro-sud e nel profondo sud del Paese. Scelta civica ha attratto soprattutto elettori laureati, imprenditori e liberi professionisti, cattolici praticanti, specie nelle regioni del nord Italia, mentre il suo appeal è risultato minimo fra i 25-34enni, i disoccupati, quanti non hanno nessuna pratica religiosa e quanti si informano soprattutto tramite internet.
Ma detto questo, è interessante analizzare le dinamiche sviluppatesi nel corso della campagna elettorale. Se prendiamo i valori dei nostri sondaggi prima e dopo il voto, possiamo dare conto delle perdite subite dal Pd, del recupero (rispetto alle aspettative) del Pdl, delle aree di conquista di Grillo. I tre partiti principali dell’agone politico italiano sembravano infatti aver raggiunto, a dicembre, i propri massimi per il Partito democratico (galvanizzato dalle primarie) e i propri minimi per Popolo della libertà (in piena crisi da mancanza di leadership) e per il Movimento 5 Stelle (alle prese con le polemiche sull’assenza di democrazia interna).
Il Partito democratico cede consensi in alcuni dei suoi segmenti più tradizionali e identificanti, fra gli elettori collocati più a sinistra, specie nelle regioni del sud e nelle isole, fra i laureati, il ceto medio, i dipendenti privati. Specularmente, per il Popolo della libertà il recupero di voti sembra essersi concentrato soprattutto fra quanti avevano storicamente sempre votato per questa formazione, ma nei mesi più duri di crisi del partito avevano momentaneamente abbandonato l’idea di votarlo: collocati al centro-destra o a destra, 55-64enni, residenti nel centro-sud, casalinghe.
Lo sfondamento di Grillo, infine, sembra caratterizzarsi soprattutto per una straordinaria crescita di consensi nel corso della campagna elettorale nelle aree di elettorato collocate più sinistra, fra i più giovani (18-24enni), gli studenti, i disoccupati, i dipendenti privati, ma anche i lavoratori autonomi, specie nelle (ex?) regioni “rosse” (con l’uscita di voti dal Pd), ma anche nel Nord Est e in Veneto in particolare (con l’uscita di voti dalla Lega). Sembrano quindi tre i punti da sottolineare. La “mancata vittoria” del Pd. La sua offerta, nell’ultima parte della campagna elettorale, non è stata all’altezza delle attese createsi con le primarie. La “mancata sconfitta” del Pdl. La rimonta percepita non è stata frutto di un aumento significativo del consenso al Pdl quanto piuttosto dalla riduzione del consenso per il Pd. Il Pdl non ha perso perché il Pd non ha vinto. La “anomala sconfitta” della Lega. Rinchiusa sempre più nei piccoli comuni e nelle aree territoriali che hanno visto la sua nascita, ottiene però una vittoria politica straordinaria: governa le tre regioni del Nord, le principali produttrici di ricchezza del paese.
Il voto ci lascia uno scacchiere politico quadripolare (di cui tre poli equivalenti), con un superamento del bipolarismo del ventennio. Si affaccia quindi il tema, non solo della governabilità, ma anche, e forse soprattutto, della ricomposizione del paese in una situazione economica e sociale che permane drammatica.

Il Sole 24 Ore 10.03.13

L'addio del Nord-Est alla «balena verde», di Mariano Maugeri

«Quando ch’el corpo se frusta, l’anima se giusta». I leghisti veneti citano un proverbio dialettale e la buttano sul ridere. Ma è un riso amaro, artificiale, di testa. La pancia del Nordest è sempre più vuota di lavoro e colma di paura. Dice il sindaco leghista di Montebelluna con laurea in Filosofia, Marzio Favero: «Gli elettori stavolta hanno mandato a Roma un demolitore, Grillo e il Movimento cinque stelle». Quella che fu la Vandea leghista e il suo seguito di 456mila imprese con l’acqua alla gola muoiono dalla voglia di vedere i parlamentari con lo stesso terrore che paralizza lo sguardo del popolo delle partite Iva, uomini e donne che solo dieci anni fa si sentivano i padroni del mondo.
Sfogliare le pagine di un quotidiano veneto è come tenere in mano il breviario di una Spoon river contemporanea: un altro imprenditore s’impicca nel suo capannone di Quinto, Treviso; vuota il sacco davanti ai magistrati l’ex segretaria del governatore Giancarlo Galan, che emetteva fatture false da una società sanmarinese per ordine della Mantovani, la regina del project financing cui si devono opere come il Passante di Mestre, l’Ospedale dell’Angelo e il Mose di Venezia: si sospettano fondi neri per i politici; la Corte dei conti regionale accusa: spese pubbliche folli ed etica desaparecida.
Schei, sempre schei, fortissimamente schei.
Argomento utile per sancire la cesura storica delle Politiche 2013, come nota il politologo padovano Marco Almagisti: firmare un mandato alla cieca ai grillini, una sforbiciata al cordone ombelicale che negli ultimi sessant’anni aveva legato i veneti prima alla triade democristiana famiglia-lavoro-chiesa e poi alla prosecuzione con altri fini della balena bianca leghista, il partito dell’autonomia e dell’identità che per attutire il tonfo non ha trovato di meglio, copyright Flavio Tosi, che cambiare colore al cetaceo, da bianco a verde.

E ci s’intenerisce a guardare i filmati tv dove la giovane ricercatrice vicentina e grillina, Laura Treu, declina le cinque stelle nelle cinque parole d’ordine del movimento: acqua, energia, ambiente, trasporti, sviluppo. Davvero l’esercito dei produttori si è eccitato per temi sacrosanti quanto si vuole, ma con almeno quattro parole d’ordine su cinque che dovrebbero far parte dello statuto di un partito ambientalista? Da leghisti ad ambientalisti. E pure con crampi della fame per le commesse sparite, le banche con le casseforti chiuse e un futuro gravido solo di minacce. A elaborare una teoria più suggestiva è Fabrizio Zecchinati, grillino della prima ora, vigile urbano a Dueville e neolaureato in Scienze Politiche: «Noi siamo la Dc senza la c». Magari fosse vero, dicono gli imprenditori veneti, che negli ultimi vent’anni non hanno portato a casa né l’Alta velocità, né il Politecnico, né la metropolitana di superficie, Sfmr, tra Venezia, Padova, Vicenza e Treviso.
Pancia vuota e bocca asciutta. E allora si deve tornare nel Veneto profondo, zigzagare per la quindicina di paesi dell’opitergino-mottense, sinistra Piave, la roccaforte leghista che in questo bagno di sangue non è mai scesa sotto il 20% dei consensi. Qui i sindaci della Lega non hanno lauree ma sono di una franchezza impressionante. Racconta Arnaldo Pitton, primo dei non eletti alla Camera dei deputati: «Il trota, diamanti e cerchio magico: i nostri elettori queste tre parole ce le hanno rinfacciate centinaia di volte». E aggiungevano: «Ci avete traditi: dicevate Roma ladrona e poi siete diventati come loro».
Pitton sui grillini la pensa come Favero: vota Grillo, si sentiva dire dappertutto, così lui sfascia tutto. Allo sfascio giocano pure i leader della Lega, con i due grandi capi, il governatore Luca Zaia e il segretario veneto Flavio Tosi, che oramai si mandano a quel paese direttamente dalle pagine dei giornali.
A complicare le cose ci si sono messi pure i miracolati, tra i quali si staglia Santino Bozza, uno degli innumerevoli ex autisti di Umberto Bossi premiato con lo scranno di consigliere regionale. Così bossiano, antimaroniano e antitosiano da far campagna elettorale a favore del Pd, con tanto di dichiarazioni pubbliche filmate. Siamo alle comiche. E ai probiviri: l’ex autista del senatùr è stato espulso (tardivamente) dal partito, ma il suo curriculum personale dovrebbe far riflettere i leghisti sul reclutamento di una classe dirigente monopolizzata ancora dai veci. Come Giancarlo Gentilini, «il sceriffo», 83 anni suonati che in maggio scenderà di nuovo in pista per aggiudicarsi la poltrona (sarebbe la terza volta) di primo cittadino di Treviso. Idem a Vicenza, dove correrà per il posto di sindaco la sessantaseienne Manuela Del Lago, per due lustri presidente della Provincia e paladina dell’acquisto della costosissima maggioranza della società autostradale Brescia-Padova, di cui poi diventò presidente. Forza tosi, allora, ma con la t minuscola. Che in dialetto significa ragazzi. E forza schei: per pochi eletti e magari in project financing, ma non per tutti.

Il Sole 24 ore 10.03.13

"La solitudine di chi subisce molestie sessuali sul lavoro", di Elena Lattuada

Nel 2012 la Cgil ha lanciato un’importante campagna nazionale focalizzata sulla violenza contro donne e ragazze. Questo triste fenomeno è molto diffuso in Italia ed è in costante crescita, nonostante una buona normativa. Sulla facciata della nostra sede centrale a Roma e delle nostre 134 sedi locali in tutto il Paese, abbiamo esposto un grande striscione che recita «La violenza sulle donne è una sconfitta per tutti ». Con la nostra campagna riteniamo necessario sottolineare che le azioni di prevenzione, contrasto e punizione, intraprese da importanti organismi istituzionali, non sono state finora sufficienti a ridurre la violenza. La violenza sulle donne e le ragazze colpisce ora tutti gli strati della società italiana e episodi di violenza fisica, psicologica ed economica vengono rilevati soprattutto nelle famiglie, ma anche nei posti di lavoro. Secondo dati rilevati dall’Istat, il femminicidio e la violenza sulle donne hanno caratteri strutturali: si riducono gli omicidi tra uomini, ma non cala il fenomeno degli omicidi verso le donne: 127 solo nel 2012, per lo più consumati nell’ambito familiare; 840mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito ricatti e/o molestie sul luogo di lavoro: la cifra supera lmilione e 200mila se si contano coloro per le quali il luogo di lavoro ha rappresentato e rappresenta un rischio rispetto alla possibilità di subire reati sessuali. Negli ultimi tre anni di rilevazione, sono stati dichiarati 347mi1a casi di molestie: in particolare donne con più di 35 anni, con alto titolo di studio, per lo più nei settori dei trasporti, delle comunicazioni e della pubblica amministrazione. Le molestie e i ricatti hanno riguardato molte generazioni nel tempo, anche se appare che vi sia una correlazione diretta tra aumento dell’occupazione femminile e riduzione delle molestie. Tassi di occupazione inferiori, precarietà, difficoltà di carriera sono tutti elementi che producono ulteriore vulnerabilità anche per le donne. Nelle interviste viene dichiarato che le molestie e i ricatti sono percepiti in gran parte come gravi; il ricatto è spesso una richiesta di disponibilità sessuale in cambio di assunzioni (19%), progressioni di carriera o mantenimento del posto di lavoro (43%). La maggior parte di donne intervistate esprime difficoltà a rompere il silenzio e denunciare il ricatto/molestia subiti. Le ragioni sono riconducibili ad una scarsa fiducia nella denuncia e nell’avere «prove sufficienti» per poter andare fino in fondo; altre ragioni riguardano il sentimento di vergogna e di auto-colpevolizzazione. Inoltre la molestia viene vissuta in solitudine: 1’81,7% di donne non ne parla con nessuno. L’esito molto spesso è l’abbandono del luogo di lavoro, anche se la crisi degli ultimi anni riduce, ovviamente, questa possibilità. Una forma particolare di «vessazione » riguarda le dimissioni in bianco: all’ atto dell’assunzione la donna firma al datore di lavoro una lettera di dimissioni senza mettere alcuna data, che può essere usata in caso, ad esempio, di maternità. Si tratta di una pratica che ha riguardato 800mila donne. Su questo tema i diversi governi hanno legiferato, riducendo negli ultimi anni la possibilità di controllo pubblico sul fenomeno. In Europa esistono risoluzioni e convenzioni del Consiglio d’Europa che trattano l’argomento della violenza sulle donne; direttive della Commissione europea sul principio della parità e un importante accordo quadro europeo sottoscritto nel 2007 dalle parti sociali europee sulle molestie e la violenza sul luogo di lavoro. Il Parlamento italiano ha varato nel 1966 una legge contro la violenza sessuale (n.66) che però non prevede specificità legate al luogo di lavoro; sono stati adottati strumenti e convenzioni internazionali in materia di tutela di non discriminazione. L’atto più recente è una mozione parlamentare, votata all’unanimità, per la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, compresa la violenza domestica (Istanbul 2011), che però non è stata seguita da alcuna norma legislativa da parte del governo Italiano. Le organizzazioni sindacali nazionali hanno proposto recentemente un protocollo, da tradurre in intese nazionali e locali, in materie di molestie nei luoghi di lavoro, a partire dal recepimento dell’accordo quadro di Bruxelles del 2007 che, a causa di resistenze delle controparti datoriali, non ha ancora trovato una traduzione comune e un suo recepimento. L’Italia inoltre, per prima in Europa ha ratificato la Convenzione dell’ Oil (l’Organizzazione internazionale del lavoro) sul lavoro dignitoso per le lavoratrici e i lavoratori domestici. Nel nostro Paese il lavoro domestico è cresciuto negli ultimi 10 anni del 43%, superando 1, 5 milioni di addetti, di cui le donne sono 1’83%. L’Italia è inoltre l’unico Paese europeo ad avere per queste lavoratrici un contratto collettivo nazionale di lavoro. I contratti collettivi nazionali hanno introdotto norme e protocolli in materia di violenza sessuale e mobbing, in cui: 1. si definisce la fattispecie di «molestia » e si stabiliscono azioni finalizzate alla cessazione della stessa, facendo spesso discendere la norma alla Raccomandazione europea 92/131; 2. si definiscono i doveri dei datori di lavoro, laddove si imputa la responsabilità all’impresa di garantire un ambiente di lavoro rispondente alla Raccomandazione europea e, laddove sussistano denunce di molestie, di porre in atto procedure tempestive ed imparziali di accertamento, assicurando riservatezza ed avvalendosi, laddove esistenti, dei Comitati pari opportunità; 3. si assegna il compito di monitorare il fenomeno, produrre azioni di sensibilizzazione e gestire i singoli casi, soprattutto individuando comportamenti e percorsi idonei alla soluzione del caso attraverso Commissioni, Comitati di pari opportunità o organismi analoghi; 4. nei contratti collettivi nazionali di lavoro di alcuni settori del pubblico impiego sono stati introdotti codici di condotta volti alla lotta alle molestie, che fanno seguito alle precedenti sanzioni disciplinari. Tali codici prevedono: una chiara definizione di molestia sessuale definendo obiettivi di prevenzione del fenomeno; l’introduzione della figura del consigliere o consigliera di fiducia, per l’avvio di una procedura informale per la risoluzione del caso; qualora accertato il fatto, l’amministrazione dovrà attivare il dirigente per la rimozione del fenomeno, comprese tutte le misure organizzative utili a tal fine.

*Intervento all’incontro promosso dall’Organizzazione internazionale del lavoro, su «Violenza di genere nel mondo del lavoro». Segretario confederale CGIL

L’Unità 10.03.13

"Lo strappo dei sindaci: 9 miliardi alle aziende contro il patto di Stabilità", di Antonella Baccaro

«Non si può aspettare ancora: serve un decreto che autorizzi i Comuni a rivedere il patto di Stabilità». I sindaci dell’Anci vogliono risolvere il problema dei debiti della pubblica amministrazione (ammontano a più di 80 miliardi), una piaga che ha messo in ginocchio le imprese. La proposta: pagare almeno 8-9 miliardi di crediti per circa 20 mila appalti già assegnati. La certificazione dei crediti non ha funzionato, sostengono i sindaci: bisogna cambiare il patto. Pronti a tutto. Anche a infrangere il patto di Stabilità interno pur di salvare milioni di piccole e medie imprese. Pagandole finalmente. Sì, perché i sindaci dell’Anci, guidati da Graziano Delrio, hanno in mente una mobilitazione senza precedenti per risolvere il problema dei mancati pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese che ormai ammontano a più di 80 miliardi.
Una piaga che sta mettendo in ginocchio il tessuto produttivo del Paese e rispetto alla quale l’Anci ha una sola ricetta: «Pagare almeno 8-9 miliardi di crediti riferiti a circa 20 mila appalti già assegnati — dice Delrio — per rimettere in moto l’economia». Con quali effetti sul debito pubblico del Paese? «Nessuno — assicura il sindaco di Reggio Emilia —: si tratta di un aggravio dello 0,3% che non ci fa sforare il rapporto debito/Pil che ci è imposto. Quello che dovrà cambiare però, e spetta solo a noi farlo, è il patto di Stabilità interno che oggi impedisce ai Comuni di pagare».
Eppure il governo Monti aveva trovato una strada per ottenere lo stesso risultato: la certificazione dei crediti. Una normativa che il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, aveva fortemente voluto, conscio della sua necessità. Quel meccanismo però si è inceppato, e solo a gennaio scorso è stato possibile utilizzarlo: l’imprenditore può farsi certificare il credito e poi andare in banca e farselo anticipare. «I ritardi della messa in opera di questo meccanismo hanno un nome e cognome: è la Consip che ha fornito solo adesso le modalità per la certificazione. Risultato: solo tre milioni di crediti certificati su 80 miliardi. Per non parlare delle banche che fanno molte difficoltà a anticipare il pagamento se il debito non è tracciabile». Quindi? «Non si può più aspettare: serve un decreto che autorizzi i Comuni a rivedere il patto di Stabilità 2013. Monti ha bene in mente il problema e in sede europea può fare quello che gli altri governanti hanno già fatto: ottenere che i vincoli si allentino sulle spese per investimenti».
Delrio appare più che deciso a sbloccare la situazione: «Non c’è alternativa: venite a vedere quel che avviene sul territorio. Le imprese chiudono al ritmo di mille al giorno. Faremo tutto il necessario per sbloccare almeno 8-9 miliardi di pagamenti». E cioè? «All’ufficio di presidenza dell’Anci, che si riunirà giovedì prossimo, proporrò una formula di pagamento per cui il sindaco, certificando l’emergenza sociale, potrà emettere un’ordinanza per pagare le imprese». Una bella responsabilità erariale per un «primo cittadino». «Io sono pronto a farlo» dichiara il presidente dell’Anci. Al suo fianco è scesa già l’Ance, l’associazione dei costruttori che ogni giorno denuncia una crisi del settore senza precedenti. «Ma vogliamo coinvolgere tutti: proporremo una mobilitazione anche ai sindacati: l’emergenza delle imprese è quella del lavoro. È ora di fare fronte comune».

Il Corriere della Sera 10.03.13