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"Università, 70mila iscritti in meno in soli dieci anni. In Italia sono sempre di meno i ragazzi che si iscrivono all’Università", di Mario Castagna

Poche settimane fa era stato il Consiglio Universitario Nazionale a dare l’allarme: le iscrizioni all’università crollano inesorabilmente. Ora arriva anche la conferma del Cineca. Questo consorzio, nato nel 1969 per costituire una struttura dedicata al super calcolo, oggi si occupa anche di quasi tutti i servizi informatici del ministero dell’Istruzione e dell’Università e di molti atenei italiani. Si trova inoltre a gestire l’elaborazione informatica delle immatricolazioni universitarie e dispone quindi della banca dati più aggiornata in materia. Secondo il Cineca, negli ultimi dieci anni le iscrizioni sono diminuite di 70.000 unità mentre, addirittura, negli ultimi tre anni sono 30.000 i ragazzi che hanno deciso di non iscriversi negli atenei italiani. Si è tornati indietro di quasi un quarto di secolo. Nel 1988-1989 gli immatricolati erano 276.249, mentre quest’anno i diplomati iscritti alle varie facoltà sono stati appena 267.076. La notizia data dal Cun qualche settimana fa aveva riempito le pagine dei giornali ma subito il ministro Profumo aveva provato a gettare acqua sul fuoco. In un’intervista sul quotidiano La Stampaaveva provato a minimizzare: «Credo che per dare giudizi si debba partire da dati che abbiano valore statistico reale. In quel caso invece è stato considerato un anno di riferimento in cui c’è stata una bolla di iscrizioni». Il Ministro si riferiva al grande numero di iscrizioni «tardive», spesso lavoratori che ricominciavano il loro percorso universitario, dimenticando però il valore sociale di queste iscrizioni. L’Italia infatti è il paese con il minor numero di lavoratori formati e qualificati durante la loro carriera lavorativa. Secondo Profumo quindi non erano diminuite le iscrizioni dei ragazzi appena diplomati. A confutare questa notizia arrivarono i dati del Cnvsu, che attraverso il proprio rapporto annuale sullo stato dell’università italiana, ha denunciato per anni il crollo, non solo delle iscrizioni universitarie, ma addirittura degli studenti che raggiungevano il traguardo del diploma di maturità. Se nel 1980 solamente un diciannovenne su tre si iscriveva all’università, dopo circa 25 anni si era arrivati al massimo storico. Infatti nell’anno accademico 2003-2004 il 56,5% dei diciannovenni decise di immatricolarsi. Da quel momento in poi è iniziato però un lungo ed inesorabile declino che ha visto crollare questa percentuale del 9%. Nel 2010 solamente il 47,7% dei ragazzi ha deciso di iniziare il lungo percorso verso una laurea, più o meno il livello raggiunto alla fine degli anni 90. Purtroppo sono due anni, da quanto Francesco Profumo si è insediato a viale Trastevere, che il CNVSU non pubblica più il proprio rapporto ed è diventato estremamente difficile avere dei dati ufficiali sullo stato dell’Università italiana. Non proprio la rivoluzione della trasparenza che tutti si aspettavano. Oggi purtroppo si deve fare affidamento ai dati forniti dal Cineca che, seppur non sia l’ufficio statistico ufficiale del ministero, è oggi la migliore fonte disponibile. I corsi di laurea triennali sono stati i più colpiti dalla diminuzione di iscritti. In dieci anni hanno perso poco più di 90.000 iscritti, un terzo del totale. Quest’anno gli iscritti sono stati 226.283, ottomila in meno rispetto ad un anno fa ed il crollo demografico purtroppo non c’entra nulla. Infatti il numero dei diplomati è cresciuto nell’ultimo anno di 11.000 unità. Gli studenti quindi decidono di non iscriversi all’università e di fermarsi al diploma di maturità. Tra le motivazioni sicuramente è l’aumento dei costi da sostenere durante la frequenza dei corsi. «Negli atenei abbiamo assistito a pesanti aumenti delle tasse: ben 283 milioni in più negli ultimi 5 anni», racconta Luca Spadon, portavoce nazionale di Link, Coordinamento universitario. Ma non sono solo i costi a rendere difficile la vita degli studenti italiani. Sempre Luca Spadon accusa il blocco del turnover: «Con la perdita di oltre il 22% dei docenti in 5 anni, molte università hanno ridotto la loro offerta didattica. Questo ha portato ad un aumento sconsiderato dei corsi a numero chiuso». Se non si fa nulla per invertire il trend, l’Italia rischia di precipitare all’ultimo posto nella classifica europea dei giovani laureati. La Norvegia surclassa tutti con il 46,1% di laureati nella fascia d’età tra i 25 ed i 34 anni. L’Italia è penultima, superando solo la Turchia.

L’Unità 10.03.13

"Se la diagnosi clinica svela l’ultimo inganno", di Francesco Merlo

L’imboscato, il disertore vile, il pavido che si rintana in un letto … Attenti a ridere perché questa è l’Italia rancida dove Silvio Berlusconi ha ormai corrotto tutto, anche la medicina e persino il linguaggio dei suoi servi che parlano letteralmente di «medici nazisti» e «di tribunali stalinisti» evocando dunque le tragedia della grande storia.
Ma solo per spiegare il più misero degli inguaccchi. Com’è possibile che un poveraccio così debba ancora avere in mano le sorti del governo di un paese nonostante tutto civile, come si può ancora pensare di fare accordi o brigare sotto banco per realizzare inciuci con lui, offrire poltrone a uno che si finge malato come i fannulloni del suo Brunetta, i travet sleali che hanno alimentato la commedia all’italiana?
Anche gli italiani di destra capiscono quanto sia tristemente comica l’idea che un’équipe di medici nazisti sia stata assoldata dai giudici stalinisti contro un malato misteriosamente colpito ad un occhio. E va bene che la medicina è una scienza incerta e barcollante ma non si era ancora vista un’infiammazione che subisce l’influsso maligno del potere giudiziario e, allo scoccare dell’udienza, l’agente patogeno si scatena imprevedibile, imprendibile e inqualificabile. Insomma, questo è un delirio ancora più tristemente comico della stessa visita fiscale che ha sgamato l’uomo di Stato.
Quale che sia l’appartenenza politica di ciascuno, è evidente a tutti che nella diagnosi di simulazione c’è l’epitaffio di un leader politico, la fine di ogni residua illusione di trovarsi davanti ad uno statista perché la finta malattia è la risorsa dello studente pelandrone che, per marinare la scuola, pasticcia quadri clinici e alza il mercurio al fuoco di un cerino, o della recluta che si infilava il mezzo toscano sotto l’ascella, o del coscritto che si infliggeva ferite di ogni genere sino al taglio di un dito o, ancora, del disertore che simulava la pazzia. Berlusconi finto malato è il Badoglio di tutti a casa, il generale che si rivela più fellone dell’ultimo dei suoi fanti.
Berlusconi già aveva corrotto il Parlamento, le prostitute minorenni, i giudici, gli avvocati, i giornalisti, la protezione civile, i geologi, gli scienziati del terremoto… Ebbene, adesso ha corrotto anche i medici e la stessa medicina, ridotta a sua scienza personale e a chiacchiera, con i professori del San Raffaele che non dicono certo il falso ma chiariscono che un conto è partecipare a un’udienza e un altro leggervi una dichiarazione spontanea, e ancora discettano sulla differenza tra diagnosi clinica e diagnosi giudiziaria. Così una cosa semplice questione – può o non può andare in aula con le sue gambe? – è diventata esercitazione retorica, talk show con Alfano, Gasparri e Cicchitto che tutto mostrano di sapere sulle infiammazioni oculari, i cortisonici, i mali ordinari che a volte si rivelano più resistenti e perniciosi dei grandi mali; e, allo stesso tempo, i dottoroni del San Raffaele sembrano essersi trasformati in tante Santanchè che dirimono, spiegano, proprio come gli scienziati di Pinocchio: «Quando il morto piange è segno che è in via di guarigione», disse solennemente il Corvo. «Mi duole contraddire il mio illustre amico e collega– soggiunse la civetta – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace morire ».
E qui, in questo canovaccio, non c’è neppure il realismo pietoso dei personaggi della Napoli milionaria di Edurado, il contrabbandiere che simulava la malattia e riceveva una folla di finti addolorati ai quali vendeva le sigarette che teneva nascoste sotto il letto. Oggi la vita di espedienti rimanda infatti alle periferie, ai naufraghi e alla schiuma della terra, agli extracomunitari clandestini senza mestieri che vivono dentro case di lamiera e di cartone e si allacciano all’elettricità pubblica, protetti dalla pietà ma anche dallo schifo dei vicini. E si capisce che, per ostacolare la giustizia, si fingano malati gli accattoni che espongono arti infermi ma sono pronti a scattare come centometristi all’arrivo dei vigili urbani. Meno si capisce la patacca di Berlusconi che, anche se fosse innocente e anzi, soprattutto se lo fosse, dovrebbe affrontare con dignità i suoi giudici invece di esibirsi nella sua vera malattia che è la furbizia della peggiore Italia, quella dei finti invalidi che godono di sussidi pubblici, i finti ciechi, i finti zoppi, i finti cardiopatici.
Attenti dunque a ridere di Silvio Berlusconi smagato dai medici fiscali nel suo ricovero nell’ospedale di famiglia, l’ospedale del suo don Verzè che è stato costruito anche con i suoi soldi e che è stato teatro dei suoi traffici e di quelli di Formigoni. Non è un segno di forza ma di estrema debolezza, un documento d’epoca, perché quello di Berlusconi, come hanno dimostrato i medici, più che un ricovero è un rifugio, come la botola del Malpassoto, il boss di Belpasso che si era rintanato sotto terra con tutti i confort, e anche lui aveva accanto a sé la scienza, la religione, gli avvocati, la politica e, vecchio deformato dalla vita, pure una giovanissima fimmina, la bruna Pippina, che gli teneva la mano, proprio come la Pascale la tiene a Berlusconi nella stanza-botola del San Raffaele.

La Repubblica 10.03.13

"L'emergenza è il lavoro. Servono scelte immediate", di Maria Zegarelli

«La risposta a un voto che nella sua articolazione può apparire di sfiducia o di prevalente sfiducia – che da un lato si affida ai sogni e dall’altro alla rottamazione e non è sufficiente a indicare una prospettiva di cambiamento – deve rafforzare le ragioni del cambiamento che si propone. E questo è possibile se si va alla sostanza delle esigenze delle persone». E per Susanna Camusso, segretaria Cgil, le esigenze delle persone ruotano attorno a due grandi questioni: il lavoro e l’equità. Da qui, dice Camusso alla vigilia della sua partenza per New York, dove andrà a rappresentare il sindacato mondiale nella plenaria Onu sulla violenza contro le donne, dovrebbe partire l’azione del prossimo governo.

Napolitano dice che il Paese non può aspettare, c’è bisogno di un governo. Quale deve essere il primo punto all’ordine del giorno dell’esecutivo? «Il lavoro. È questa la vera emergenza del Paese che implica interventi immediati e di prospettiva. Il quadro diventa ogni giorno più drammatico con moltissimi posti di lavoro in pericolo, un tasso di disoccupazione allarmante e gli ammortizzatori sociali a rischio. Il tema non può essere soltanto quello delle coperture del reddito, che sono importanti, ma come si reimpostano le condizioni per poter guardare al futuro e porre rimedio a ciò che non si è fatto con i governi che abbiamo alle spalle, quello Berlusconi e quello Monti».

Come si reimposta il futuro che intere generazioni non riescono a vedere?«Intanto sbloccando i pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni alle imprese per non mandare a gambe all’aria tutti coloro che stanno ancora resistendo e dando la possibilità ai cantieri di iniziare i lavori. E poi bisogna delineare due o tre grandi indirizzi di politica industriale che ricomincino ad attrarre investimenti utilizzando esplicitamente anche le grandi imprese pubbliche, come Eni, che ha alti ricavi, e Finmeccanica. Altro tema: la giustizia sociale. Non possiamo continuare a dare stipendi altissimi ai manager pubblici e delle imprese private e lasciare che i lavoratori continuino a percepire un reddito non sufficiente a garantire una vita dignitosa. Intervenire in questo modo vuol dire dare un segno ai cittadini, mettendoli di nuovo al centro dell’azione politica, questione di cui ci si è preoccupati poco in questi ultimi anni dando l’impressione che l’Italia sia un Paese che non ha risorse e possibilità di farcela ».

Anche lei teme una situazione di instabilità che possa aggravare lo stato di cose di cui ha parlato? «Il governo non è un’astrazione, ha il compito di indicare delle priorità, decidere e fare delle scelte: non si può lasciare un Paese nel nulla. Capisco e condivido l’urgenza del rinnovamento delle istituzioni, di responsabilità e della politica, ma non basta e non credo che la situazione vada cercata in un governissimo ».

Non le sembra che gli elettori abbiano voluto dare più importanza a questo aspetto, il rinnovamento, che all’emergenza lavoro? «Non condivido questa lettura perché questo è stato un voto complesso. È vero che molti hanno anteposto il cambiamento e il rinnovamento a tutto il resto, ma c’è anche un terzo del Paese che ha votato di nuovo per chi ci ha portato in questo grave stato di crisi. In questo voto c’è un segno della sfiducia dopo anni che non cambiavano le cose, e c’è il segno delle paure rispetto alla propria condizione e di una profonda divisione in un Paese dove le diseguaglianze sono fortemente cresciute. Oggi la domanda da porsi è soprattutto una: da dove si ricostruisce una dimensione unitaria del Paese? Non ricomporre la frattura che la maggiore povertà e le diseguaglianze hanno provocato significa mettere l’Italia in condizione di non farcela a superare la crisi che non è finita, sia chiaro, e che nei prossimi mesi è destinata ad acuirsi».

Lei dice non abbiamo bisogno di un governissimo. Eppure sono in molti a invocarlo. «Come Cgil abbiamo detto con chiarezza che secondo noi non si può tornare alle logiche del governissimo o dell’esecutivo di unità nazionale perché si deve rispettare l’esito del voto. Credo che la risposta che gli elettori si aspettano è quella di un governo politico che possa dare il via a misure concrete per migliorare le condizioni di vita, che guardi all’economia reale, ai redditi, ai posti di lavoro. Soltanto in questo modo si rafforzano gli interventi, altrettanto necessari, sulla trasparenza, la sobrietà e i costi della politica. Quella che stiamo attraversando non è una situazione dalla quale si esce facendo a gara a chi urla di più, bisogna rimettere in moto una tendenza positiva e non ci si può permettere di aspettare tempi migliori: ogni aggravamento della crisi avrà un effetto moltiplicatore perché si somma ad un insieme di fattori già drammatico. Abbiamo un giovane su tre senza lavoro, al Mezzogiorno è uno su due, c’è una popolazione “più anziana” che non riesce a rientrare nel mercato del lavoro e ci sono aziende che ogni giorno chiudono. Questo è il quadro con il quale bisogna fare i conti».

Bersani ha presentato i suoi otto punti e su quelli intende chiedere la fiducia in Parlamento. Le sembrano una risposta efficace? «Possono esserlo, ma c’è bisogno di sviluppare quei titoli, di tradurli. Ad esempio, c’è molta attenzione a riformare i livelli istituzionali. Giusto, ma è necessario affrontare questo tema insieme ad un altro: la riorganizzazione della pubblica amministrazione per renderla efficace e qualificare maggiormente il lavoro pubblico. Non si può immaginare una diversa concezione delle istituzioni senza contemporaneamente avere una visione avanzata del lavoro pubblico. C’è bisogno di efficienza per far sì che i servizi pubblici locali funzionino e servano ai cittadini, di risparmio che arrivando da uno snellimento delle istituzioni possa diventare volano per i grandi servizi come l’istruzione e la scuola. C’è poi bisogno di qualità nei servizi e nelle istituzioni, che è una delle ragioni dello scollamento con i cittadini. Tutti temi difficilmente risolvibili senza il coinvolgimento di quei lavoratori e un completamento della riforma del lavoro pubblico».

Lei ha anche detto che in quegli otto punti dovrebbero esserci le politiche industriali. «Ci vorrebbe più coraggio su quel fronte, sul ruolo delle grandi aziende pubbliche, perché da lì si può invertire la rotta. Queste aziende sono partecipate dello Stato e quindi spetta anche a loro in questa fase avere un ruolo. Si deve aprire una stagione di discussione in cui al centro ci siano le persone e l’economia reale. È una discussione che può dar forza alla nostra idea di Euro- pa che è contemporaneamente una questione essenziale ma anche sottotraccia nella discussione. L’Europa è vissuta da tanta parte del nostro Paese come uno dei nemici e non come una possibilità di avere un’economia più forte. Bisogna essere inequivoci su questo punto e dire che la politica europea, come così come è stata finora, ha allontanato i cittadini dall’Europa e per una serie di Paesi come il nostro ha provocato un’accelerazione dell’ineguaglianza e dell’emergenza sociale. C’è bisogno di un doppio messaggio: cambiamo l’Europa e iniziamo noi a fare le cose necessarie a cambiare il segno fin qui dato».

In questo fase della crisi sempre più spesso si dice che gli interessi di imprese e lavoratori sono comuni. «È un concetto che sento sempre più spesso ma le cose non stanno esattamente così. In questi anni la precarietà è stata largamente usata per abbassare i redditi mentre intere generazioni non hanno mai conosciuto un contratto. Mi sembra semplicistico dire che impresa e lavoratori hanno interessi ormai comuni ».

L’Unità 10.03.13

"Le donne chiedono un new deal anti-crisi", di Roberta Agostini

L’8 marzo non è una festa, e mai come quest’anno questa considerazione viene ripetuta nei blog e sui social network. Non è una festa, perché come sappiamo, c`è ben poco da festeggiare in un Paese dove la crisi economica fa aumentare a livelli allarmanti l`esercito di precarie, povere e disoccupate; non è una festa perché le donne continuano ad essere uccise al ritmo di una ogni due giorni.

Il voto di febbraio è uno spartiacque che sconvolge la geografia politica, che può avere effetti pericolosi sulla stabilità del Paese che affronta una crisi difficilissima. Esprime una critica radicale verso i partiti incapaci di dare le risposte che servono e verso le forme tradizionali della democrazia. Ci interroga tutti, noi per prime che abbiamo proposto il terreno della democrazia paritaria come risposta alla crisi democratica e della rappresentanza.

È un voto che ci parla dell`Europa e delle politiche di austerità e rigore rispetto alle quali paghiamo il prezzo dell`assenza di veri partiti continentali, di una politica che sappia uscire dalle pura dimensione nazionale. Il voto ci parla delle fratture storiche che attraversano il Paese e dei divari che la crisi aggrava: tra nord e sud, tra città e campagna, tra vecchi e giovani.

Possiamo dire di aver visto con chiarezza e per tempo l`incedere di una crisi che si sta rivelando la peggiore del secolo, di aver messo a tema la questione del rapporto tra cittadini ed istituzioni (le primarie sono state un esercizio democratico), di aver indicato l`intreccio tra questione economica sociale, democratica.

Ma dobbiamo dirci che rispetto alla crisi strutturale, un vero e proprio movimento tellurico che rimette in discussione il nostro modo di vivere e lavorare, e dove i mercati finanziari mettono sotto scacco le istituzioni democratiche, la nostra proposta non è stata sufficiente, non è stata percepita come una proposta adeguata di cambiamento. Dobbiamo indagare meglio il voto.

Alcune scelte di fondo, però ci hanno però consentito di conquistare una credibilità soggettiva rispetto alla radicalità delle questioni che si agitavano nel Paese, e la scelta di campo della democrazia paritaria non può non segnare in maniera irreversibile il profilo e la proposta politica della sinistra e del Partito democratico. Per la prima volta nella storia del Paese la presenza femminile in Parlamento arriva al 30 per cento, soprattutto grazie al Partito democratico che porta 155 tra deputate e senatrici, il 40% circa dei gruppi.

Non abbiamo mai pensato, quando abbiamo lavorato sui regolamenti che hanno reso possibile questo obiettivo (a partire dalla doppia preferenza nelle primarie) che si trattasse di un semplice fatto formale, ma al contrario di qualità della rappresentanza e di sostanza della proposta. Tante donne si sono affermate nelle primarie perché nell`opinione pubblica le donne sono state percepite come forza di cambiamento.

Questa presenza di tante elette è il cuore del cambiamento che vogliamo vedere nel Paese e rafforza il nostro profilo di alternativa ad una destra che ha calpestato la dignità delle donne, che ci ha colpite nelle condizioni di vita e nei diritti e che porta la responsabilità delle politiche che hanno provocato la crisi.

La nostra sfida è ora sul terreno del cambiamento e della responsabilità, con proposte concrete, a partire dagli 8 punti approvati in Direzione e che riguardano il lavoro, il welfare, l`investimento in politiche pubbliche rinnovate. Chiediamo subito una legge contro il femminicidio e di approvare la ratifica della Convenzione di Istanbul.

Il senso della nostra iniziativa è che la crisi si contrasta con un nuovo «new deal», anche per le donne. Il recente discorso di Obama sullo stato dell`Unione può rappresentare un punto di riferimento per i progressisti. Dunque 1`8 marzo non è una festa, ma un`occasione di mobilitazione intorno ai grandi problemi del Paese.

da www.partitodemocratico.it

"Dalle operazioni di Previti alla conversione di Razzi e Scilipoti tutte le campagne acquisti di Silvio", di Sebastiano Messina

E ancora una volta gli aveva affidato il comando delle operazioni, diciamo così, sotto copertura. Il guaio numero uno, il Grosso Guaio, era che il Polo aveva vinto le elezioni del 27 marzo 1994 ma non aveva la maggioranza al Senato: servivano almeno altri tre voti, oltre ai suoi 156, per ottenere la fiducia. Il guaio numero due, il problema del giorno, era che alla prima votazione per il presidente del Senato era in vantaggio Giovanni Spadolini. Ed era stato proprio Previti, quando Berlusconi era tornato dal Quirinale rivelando di aver confidato a Scalfaro la propria disponibilità a votare per Spadolini, a stopparlo seccamente: «Abbiamo vinto noi, le presidenze ce le prendiamo tutte e due: la Pivetti alla Camera e Scognamiglio al Senato ». Berlusconi, alla fine, si era convinto. Ma adesso le cose non stavano andando come dovevano andare, e Previti era a caccia di voti. «Ci hanno presi uno per uno, promettendoci questo e quello» confidò sottovoce a un cronista il romagnolo Romano Baccarini, senatore centrista e dunque – sulla carta – corteggiabile. Previti non saltò nessuno. Dagli autonomisti altoatesini agli ex democristiani siciliani, li prendeva sottobraccio e li mollava solo dopo aver avuto una risposta: sì o no. Luigi Grillo, senatore ligure, confessò a un amico: «Quel Previti mi ha fatto impressione. Mi ha detto: noi siamo vincenti, vogliamo vincere e siamo certi di vincere».
Nessuno sapeva cosa stesse promettendo Previti, ma il capogruppo dei popolari, Nicola Mancino, mise le mani avanti: «Spero che non sia in atto un mercato delle vacche». Berlusconi fingeva di disinteressarsene: «Ma quale campagna acquisti! Altri spendono il mio nome, io non ne so niente ».
Il momento della verità arrivò il giorno dopo, quando venne il momento della quarta votazione, quella decisiva. «Votanti 325, Scognamiglio 162 voti, Spadolini 161. Proclamo eletto…». Per un voto, un solo voto, Scognamiglio aveva conquistato la seconda carica della Repubblica. Previti aveva portato a termine un’altra missione.
A differenza dei voti di fiducia, quando si elegge un presidente il voto è sempre segreto, e dunque non sapremo mai chi fu a passare dall’altra parte. Eppure, osservando con gli occhi di oggi la tecnica, i protagonisti e il risultato, potremmo dire che quella fu assai probabilmente la prima “Operazione Libertà” organizzata da Silvio Berlusconi, tredici anni prima di lanciare quella per la caduta del secondo governo Prodi, comprando il senatore Sergio De Gregorio con tre milioni di euro.
Poi Previti si occupò anche del Grosso Guaio: i numeri per la fiducia. Ma quella fu una manovra più raffinata, ad amplissimo raggio e con tutto il campionario degli argomenti persuasivi. Ce n’era uno oggettivo, limpido: Berlusconi aveva vinto la sfida con la «gioiosa macchina da guerra» della sinistra, perciò aveva il diritto politico di governare. Questa tesi aveva convinto tre senatori a vita, Cossiga, Leone e Agnelli, ma non altri cinque: Andreotti, De Martino, Valiani, Spadolini e Taviani, e dunque le cose si stavano mettendo male. Bisognava che qualcuno, invece di votare no, votasse sì. O almeno che uscisse dall’aula, facendo abbassare il quorum (e il numero dei no). E quel qualcuno arrivò. La mattina del 18 maggio, quando Palazzo Madama votò la fiducia, quattro senatori del Ppi non risposero all’appello. Il primo era Luigi Grillo: già, proprio quello che era rimasto
«impressionato» dalla capacità persuasiva di Previti. Gli altri erano Stefano Cusumano e Tommaso Zanoletti. Più il produttore Vittorio Cecchi Gori, la cui assenza fece perdere le staffe al più flemmatico dei suoi compagni di partito, Romualdo Coviello: «Diceva sempre: gli faccio un culo così. E poi al momento di votare se ne va al festival di Cannes».
Fu così che il primo governo Berlusconi ebbe la fiducia: 159 voti contro 153, più due astensioni (che al Senato valgono come voto contrario). Se i quattro parlamentari mancanti fossero stati al loro posto, e avessero votato no, il governo sarebbe stato bocciato. Ma cosa era stato offerto, in cambio di quelle preziose assenze? «Lo abbiamo fatto per il Paese, non avremo poltrone» risposero in coro Cusumano, Zanoletti e Grillo. Effettivamente, nessuno dei primi due ottenne un incarico. Grillo, invece, fu premiato con una poltronissima: sottosegretario alla presidenza del Consiglio. C’è gente che passa la vita sui banchi del Parlamento, una votazione dopo l’altra, sperando di far carriera con lo stakanovismo presenzialista, e invece a lui era bastato uscire dall’aula, per dare una svolta alla sua storia politica.
Delle spese folli di Berlusconi per comprare i senatori disposti a buttare giù il secondo governo Prodi, grazie a De Gregorio sappiamo già tutto, o quasi. Ma è difficile allontanare il dubbio che anche il primo governo Prodi sia stato abbattuto con lo stesso metodo dell’«Operazione Libertà». Si votò, stavolta alla Camera, il 9 ottobre 1998. Il presidente del Consiglio ulivista era convinto in anticipo che la differenza sarebbe stata di un solo voto. A favore suo, però. Doveva mettere nel conto,
gli avevano fatto sapere gli alleati diessini, l’assenza del diniano Silvio Liotta, il quale pareva tormentato dai dubbi. Ma anche senza Liotta il governo dell’Ulivo poteva farcela. C’era solo un problema: la Pivetti, anche lei diniana, aveva partorito dodici giorni prima, e i doveri dell’allattamento la trattenevano a Milano. Prodi la chiamò al telefono la sera prima, per accertarsi che venisse. Sembrava fatta. Quello che Prodi non sapeva è che in quelle stesse ore anche Berlusconi stava chiamando tutti gli avversari tentennanti. Compresa la Pivetti. Compreso Liotta. Lo confessò lui stesso, subito dopo il voto decisivo, senza però rivelare quali argomenti avesse usato. «Ho chiamato Liotta e anche altri. Ma non ho fatto avances. Ho detto che le porte di Forza Italia per loro sono aperte».
Il risultato fu che l’indomani le cose non andarono come Prodi aveva previsto. La Pivetti, che sarebbe dovuta arrivare con l’aereo militare, non arrivò mai. Spuntò invece, lasciando tutti a bocca aperta, Liotta. E disse subito in aula: «Non voterò la fiducia”. Berlusconi sorrise. Prodi impallidì, realizzando in quell’istante quale sarebbe stato il risultato finale: 312 sì, 313 no, il suo governo non c’era più. Cosa era stato promesso, a Liotta? Nulla, giurò lui. «Nessuno mi ha promesso nulla, non ho chiesto nulla e non ho avuto nulla». Fatta eccezione, si capisce, per la rielezione al Senato nel collegio di Partinico sotto il simbolo della Casa delle Libertà.
Un seggio in Parlamento. Dodicimila euro al mese. Più i viaggi gratis. Più i rimborsi. Più il portaborse. Può essere una buona ragione per cambiare opinione? Chissà. E’ lo stesso premio che alle elezioni di febbraio Domenico Scilipoti e Antonio Razzi hanno chiesto e ottenuto alla luce del sole da Berlusconi, dopo avergli salvato il governo alla fine del 2010. Ricordate? Fini aveva messo in calendario il 14 dicembre le mozioni di sfiducia. Senza i voti dei finiani, il Cavaliere non poteva più farcela. Le cifre parlavano chiaro.
Eppure lui ostentava un inspiegabile ottimismo. «Avremo la fiducia » dichiarò il 6 dicembre alla radio. «Escludo che Berlusconi ottenga la fiducia» gli rispose subito Fini, dopo aver controllato un’ultima volta i numeri. Non poteva farcela, il governo. Eppure ce la fece. Alla vigilia del voto, tre deputati dell’opposizione uscirono allo scoperto e passarono dalla sua parte. Il primo era proprio Scilipoti, eletto con l’Idv. Il secondo era Antonio Razzi, anche lui – come Scilipoti, e come De Gregorio – eletto grazie a Di Pietro. Il terzo invece veniva dal Pd, ed era stato addirittura il capolista nel Veneto: Massimo Calearo, ex presidente degli industriali vicentini. E Berlusconi scampò alla sfiducia proprio per tre voti, 314 contro 311.
Anche allora, come era successo dopo il salto di De Gregorio, in Parlamento si sparse l’odore dei soldi. Di Pietro denunciò i due traditori alla Procura della Repubblica. «Io non ho preso neppure un centesimo, solo un abbraccio e l’amicizia del presidente Berlusconi » ha garantito Razzi. E Scilipoti è stato ancora più categorico: «Se qualcuno ha documenti che dimostrano che ho preso soldi da Berlusconi, li consegni alla magistratura. Chi si vende venga arrestato e si butti via la chiave».
Certo, solo loro (e Berlusconi) conoscono la verità. Ma resta agli atti la motivazione con cui Scilipoti abbandonò al loro destino il manipolo di voltagabbana che proprio lui aveva trasformato in gruppo parlamentare: “I responsabili”. «Sono solo un’accozzaglia di persone – dichiarò al “Fatto” – che hanno pensato solo ai loro interessi. Si vergognavano di chiamarsi Responsabili però poi andavano da Berlusconi a fare ricatti». Che gente.

La Repubblica 09.03.13

«Quello che emerge è un attacco alla democrazia», di Giulio Santagata

Giulio Santagata non è stato chiamato a testimoniare dalla procura di Napoli. Oggi è un consulente di Nomisma, fuori dalle luci della politica. All’epoca dei fatti su cui si indaga, però, era forse l’uomo più vicino al premier Romano Prodi, in qualità di ministro per l’Attuazione del programma. E ripensando a quei tempi, a quelle sedute al cardiopalma, con i Turigliatto, i Mastella, i senatori a vita da richiamare, vede un filo rosso che da quella tormentata vicenda porta al «momento complicato» di cui parla Napolitano. Ebbe la sensazione allora che ci fossero queste compravendite di parlamentari? «Mi auguro ancora che le vicende ipotizzate non siano vere, cioè più che altro continuo a sperarlo, a sperare che in questo Paese non sia stato raggiunto un simile livello di degrado dell’azione politica. Ma non mi stupisco più di niente. E quando vedo il distacco che c’è tra i cittadini e la politica, il disgusto che accomuna tutti, trovo una giustificazione. Ora si ricorda di quel tempo solo la litigiosità ma Prodi non galleggiava, governava, riuscendo a tenere in piedi la pur risicata maggioranza».

Il clima era pesante però.

«La maggioranza dei cittadini si era espressa con il voto e il governo nella difficoltà dei numeri riusciva a prendere iniziative rilevanti. Riuscimmo ad approvare la Finanziaria 2007 senza chiedere la fiducia al Senato. Avevamo risistemato i conti ottenendo un avanzo primario, con il deficit sotto controllo, riportato dal 4,5 al 3 per cento che ci chiedeva l’Europa. Aavevamo mantenuto un tasso di crescita che, seppur lento, nei due anni è stato il più alto del decennio. E tenendo dentro operazioni sociali non banali come l’accordo sul welfare, la 14esima ai pensionati al minimo, gli incapienti. Avevamo abolito l’Ici sulla prima casa di valore medio, per le famiglie normali. Cose con il sapore dell’equità». Poi ci fu il tonfo, sta dicendo che fu una sor- presa?.

«Io non ho motivi o elementi per sapere se la compravendita ci fu. So che pensavamo di convincere casomai qualcuno a sostenerci e invece vedevamo andar via pezzi. Se venisse accertato, sarebbe una questione che non attiene ai comportamenti illeciti di un singolo, sarebbe un vulnus per la democrazia».

Un attentato alle istituzioni, un golpe?

«Non arrivo a dire golpe, ma certo un comportamento fuori dalle regole e dalle modalità democratiche. Ripeto: non ci voglio credere. Perché se fosse, sarebbe stata messa a rischio la credibilità stessa dell’intero sistema. Il sistema funziona così: c’è chi vince e chi aspetta il giro per provare a vincere e l’ultima parola spetta sempre ai cittadini. Se il Parlamento diventa il luogo della compra-vendita, è questo modello che viene get- tato nel discredito».

La verità fattuale dev’essere accertata ma i cittadini percepirono questo?
«Mi pare sia stato percepito il degrado della politica ma non le responsabilità. Il rischio in questi anni è venuto dal livello di assuefazione mentre non veniva fatta una reale graduatoria delle gravità dei casi. Perché è grave un atto di corruzio- ne che getta discredito su un singolo o su un gruppo ma questo caso è diverso. È una modifica strutturale dell’esito di un processo democratico. Penso che tutti i politici, di destra di sinistra di centro, dovrebbero oggi chiedere che la verità venga a galla rapidamente e si accertino le responsabilità. Specialmente se fossi un parlamentare di destra, non vorrei essere accusato di aver forzato il gioco».

Fu il partito-azienda a creare le premesse?
«Penso venga dal concepire i cittadini come sudditi. Ora si dà la colpa ai partiti ma è piuttosto dai partiti personali che discende questa logica, da una volontà, non di governare il Paese, ma di comandare usando tutti i mezzi. E sono tutti partiti personali ormai, tranne il Pd». Non crede che i grillini rubricheranno tutto solo come l’ennesimo inciucio?

«Ogni cittadino trarrà le proprie conseguenze. Io so che il golpe non c’è stato, siamo ancora una democrazia anche se affaticata e l’ultimo voto lo dimostra. I cittadini hanno dimostrato di voler essere protagonisti delle scelte, anche se magari in modo ingarbugliato. I grillini, io li capisco. Mi preoccupa se il loro discorso va fuori dal modello parlamentare verso uno utopico, perché può creare involuzioni d’altro tipo».

Quale esito teme?

«Se il risultato finale sarà l’ingovernabilità temo che più che una democrazia diretta, saremo eterodiretti. Dai mercati, dalle pressione esterne, come è stato per la Grecia e già in parte anche per noi».

L’Unità 09.03.13

"Ultima chiamata", di Massimo Giannini

Solo i miopi attori del provinciale teatrino italiano possono credere alla quiete apparente che regna sui mercati finanziari. L’Italia non è il Belgio. Né per estensione geopolitica, né per dimensione socio- economica. Di fronte a un Paese «sgovernato» la comunità degli affari e l’establishment internazionale non possono indulgere troppo a lungo. Lo spread sui nostri titoli di Stato, che da tre giorni staziona miracolosamente intorno a quota 300, è solo «caos calmo». Pronto a riesplodere e a rifarsi «violento » di fronte al perdurare dell’instabilità.
DUNQUE c’è poco da illudersi. Come dice giustamente il presidente della Repubblica, «la crisi non aspetta». L’Italia deve superare in fretta questo momento, e «darsi al più presto un governo ». In questa chiave la bocciatura decisa da Fitch, che ha retrocesso il nostro debito sovrano appena due gradini al di sopra del girone infernale denominato «spazzatura», suona davvero come l’ultima chiamata.
I «signori del rating», per fortuna, non sono più da tempo i padroni del nostro destino. Le agenzie che decidono, spesso in conflitto di interessi, sul «merito» delle nazioni, sono screditate e delegittimate. Obama le ha persino denunciate, per aver inflitto un downgrading immeritato all’America. La mossa di Fitch, che segue quelle analoghe di S&P e Moody’s, non va quindi giudicata con enfasi eccessiva. Ma nella palude in cui sta sprofondando l’Italia può rivelarsi una scossa salutare, ai partiti e alle istituzioni.
Perché si muovano. Perché facciano presto a riportare il Paese alla normalità politica e alla funzionalità democratica.
Le motivazioni usate dagli analisti, per giustificare la retrocessione italiana e l’outlook negativo che ne consegue, sono inequivoche. Oltre al debito pubblico (che viaggia verso il 130% del Pil), oltre alla recessione ormai strutturale (che si conferma «una delle più profonde in Europa»), pesa soprattutto «il risultato inconcludente delle elezioni». E il prevedibile sbocco verso «un governo debole che potrebbe essere più lento e meno capace di rispondere agli shock economici interni e internazionali». Una volta tanto, le agenzie di rating esprimono valutazioni condivisibili, e oggettivamente incontrovertibili.
Questo preoccupa, nella commedia italiana che precipita pericolosamente verso la tragedia greca. Non solo l’affermazione di una forza esplicitamente anti-sistema, come il Movimento di Beppe Grillo, che incarna una forma nuova di «populismo digitale» capace di rimettere in discussione le regole della democrazia rappresentativa. Non solo la formazione di una «stranissima maggioranza» trasversale tendenzialmente anti-europea, come la somma di M5S-Pdl-Lega, che esprime un ribellismo radicale capace di rimettere in discussione i patti sottoscritti con l’Unione. Quanto piuttosto l’assenza di una prospettiva di governabilità di medio-lungo termine, che possa fare dell’Italia un interlocutore affidabile per le cancellerie e credibile per i mercati.
Nel Palazzo si discute, nell’economia reale si muore. Nel 2012 sono scomparse dalla scena industriale 104 mila imprese. Due famiglie su tre dichiarano un livello di reddito che non gli permette di arrivare a fine mese. Le banche non danno più credito. A gennaio i prestiti al settore privato sono diminuiti di un altro 1,6%, e le sofferenze sono esplose al 17,5%. La morsa della crisi si stringe ormai non più solo sulle aziende manifatturiere, ma sulle stesse aziende di credito, alle quali le regole severissime di Basilea III impongono un rafforzamento dei ratios patrimoniali e le norme durissime della Banca d’Italia ingiungono una svalutazione del 20-25% sulle garanzie reali accantonate a fronte dei prestiti «difficili ». Questo riduce i margini di bilancio, abbatte utili e dividendi e stringe ancora di più il cappio di un già soffocante
credit crunch.
Il fatto che la speculazione mondiale, per adesso, sia rimasta in finestra a osservare le convulsioni economiche e le contorsioni politiche dell’Italia non può tranquillizzare nessuno. È vero che il differenziale dei rendimenti sui Btp, anche rispetto a quelli spagnoli, non sembra riflettere l’insorgenza di un rischio- Italia incombente. Ed è altrettanto vero che, a confermarlo, gli stessi cds (le «polizze di assicurazione » contro il default di un Paese) sono scesi nel nostro caso a quota 270. Ma tutto questo non nasce dalla benevolenza dei mercati verso l’Italia. Ad agire, in positivo, è un più generalizzato mutamento dello scenario nell’Eurozona.
La gravità della recessione ha inchiodato quasi tutti i Paesi a scostamenti sempre più marcati rispetto agli obiettivi di bilancio fissati dai fiscal compact. Questo produrrà un allentamento diffuso del «rigore necessario», e una frenata concordata nel processo di consolidamento fiscale dell’Unione, per la prima volta con la benedizione dei «falchi luterani» del Nord e di Angela Merkel, che di qui alle elezioni tedesche di settembre non vuole turbolenze. Di questo si avvantaggia l’Italia che di fatto, pur essendo il Paese più disastrato sul piano della crescita e dell’occupazione, ha raggiunto il pareggio di bilancio strutturale, cioè corretto per il ciclo economico.
L’ha pagato carissimo, in termini di distruzione di ricchezza e di posti di lavoro. Anche per questo la tregua sui mercati non durerà. Senza un «governo qualunque», che affronti almeno le emergenze economiche più pesanti e le scadenze europee più stringenti, il Paese finirà di nuovo e inevitabilmente nel mirino della business community.
Qualche avvisaglia minima c’è già stata, se è vero che nel solo mese di febbraio, cioè tra il prima e il dopoelezioni, gli operatori esteri hanno già dirottato altrove almeno 20 miliardi di euro, disinvestendo dai bond tricolore. Ma questo è niente, rispetto a quello che può ancora
succedere se Giorgio Napolitano non riuscirà a convincere i leader a trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui siamo finiti dopo il voto di due settimane fa.
Si sbaglia chi immagina che a salvarci possa essere di nuovo Mario Draghi, con il generoso ombrello della Bce che ci ha abbondantemente coperto nell’ultimo anno e mezzo. Non c’è alcun «pilota automatico » a garantire l’Italia in Europa e nel mondo. Quella pronunciata da Draghi giovedì scorso è solo una «bugia vera», tanto rassicurante quanto inconsistente. Da italiano, il presidente dell’Eurotower ha cercato di farsi garante del Belpaese, in un momento di entropia politica senza precedenti. Il tentativo è encomiabile, ma la spiegazione non regge.
Non è vero che «i mercati sono ragionevoli» e «comprendono che viviamo in democrazia»: se fosse davvero così non avrebbero sfiduciato il governo Berlusconi, come per altro meritava. E non è vero che i mercati «sono meno impressionati dei giornalisti e dei politici italiani » per quello che sta accadendo a Roma: se fosse davvero così due giorni dopo l’esito rovinoso delle elezioni, e alla vigilia della visita in Germania del Capo dello Stato, non sarebbe stato il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble in persona a dire che «l’Italia deve avere un governo stabile rapidamente», per evitare «un rischio di contagio che ora si può allargare anche agli altri Paesi Ue».
Aspettiamo, prostrati, sotto il vulcano. Tra una metafora zoologica di Bersani, un’intemerata demagogica di Grillo, e una congiuntivite «psico-somatica» di Berlusconi. Per questo persino l’ultima chiamata di Fitch può aiutare, sempre ammesso che qualcuno la ascolti.

La Repubblica 09.03.13