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"Il Pd: il governo non lo nomina Grillo", di Maria Zegarelli

Quello che dirà con molta chiarezza in Direzione è che per quanto lo riguarda non farà mai un governo con il Pdl di Silvio Berlusconi. Illustrerà gli otto punti programmatici su cui intende andare in Parlamento a chiedere la fiducia e a quel punto sarà la Direzione ad esprimersi. Pier Luigi Bersani non ha tentennamenti, ha tracciato la strada che intende percorrere e aspetta di sapere se il parlamentino democratico gli darà quell’appoggio di cui ha bisogno per salire al Quirinale e giocarsi l’unica carta che ha in mano: ottenere l’incarico e chiedere a Grillo (e a Monti) i voti di cui ha bisogno al Senato per dare vita ad un governo di scopo, ancorato attorno ai punti illustrati l’altra sera dal leader Pd da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Massimo D’Alema appoggia la linea del segretario, «escludiamo qualsiasi accordo con il Pdl», idem Enrico Letta e Dario Franceschini, che «ha sempre condiviso le scelte del segretario ed è quello che farà anche mercoledì», dice uno dei suoi fedelissimi.

Ed è probabile che domani Bersani incassi un voto unitario o quasi (c’è chi ha messo nel conto delle astensioni, anche «eccellenti») ma molto dipenderà dalle cose che dirà. I lavori saranno «aperti», in diretta streaming sul sito del partito a partire dalle dieci, «per segnare la differenza tra una passerella e un confronto vero», dicono in aperta polemica con la diretta di Grillo.

Walter Veltroni, ad esempio, preferisce aspettare: è d’accordo con il segretario sul fatto che spetti al Pd fare una proposta in Parlamento per tentare di dar vita ad un governo ma è altrettanto convinto che non si debbano porre aut aut tali «da rendere ancora più stretta la via che può e deve percorrere il presidente della Repubblica». Veltroni non crede alla tenuta di un governo senza maggioranza precostituita e per questo ritiene che la strada non possa che essere un governo del presidente. Tace per ora Rosy Bindi, e ci sono malumori anche nell’Areadem di Franceschini (che si riunisce stasera), dove c’è chi suggerisce a Stefano Fassina di smetterla di evocare le urne come unica alternativa al governo Bersani, o «addirittura di prospettare nuove elezioni con lo stesso leader candidato», ma nessuno viene allo scoperto.

Gli stessi «perplessi» sanno che in questo momento aprire fronti interni di polemica potrebbe essere un errore fatale. Le voci fuori dal coro sono poche, arrivano soprattutto dal fronte renziano ma non da Renzi che domani potrebbe essere a Roma per la Direzione. Roberto Giachetti sul suo blog dice «meno male che c’è Napolitano, affidare oggi nelle sue mani la gestione di uno dei percorsi più delicati della vita politica e istituzionale non è solo l’unica possibilità per trovare una via d’uscita, ma anche un doveroso rispetto delle prerogative costituzionali alle quali sarebbe bene che tutti si attenessero». Ieri dopo l’incontro tra Beppe Grillo e i suoi eletti il capogruppo al Senato (deciso nella riunione ma non nelle sedi istituzionali, cioè il Parlamento), Vito Crimi ha lasciato intendere che sarebbero disposti a votare un governo guidato da una persona- lità esterna ai partiti. C’è chi ha fatto il nome di Stefano Rodotà (mentre Pippo Civati dal fronte democratico lancia il nome di Laura Puppato), chi del governatore Ignazio Visco, ma al Nazareno la ritengono un’altra provocazione: «Farebbero qualunque cosa pur di non far governare chi ha vinto le elezioni, il loro è solo un modo per continuare a non decidere». «Riteniamo che chi rappresen- ta il 25% dell’elettorato italiano debba mettere le mani in pasta. Non può dire “ho preso il 25% e sono problemi vostri”», replica Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd. Nel Pdl, invece, salutano l’apertura di Crimi come una gran bella notizia, mentre c’è chi starebbe lavorando per creare canali di contatto con gli eletti M5S per porre le condizioni per un governo a guida Bersani. Uno degli ambasciatori sarebbe anche don Gallo, il sacerdote genovese amico di Grillo e molto vicino a Sel: impresa non facile, su questo sono in molti ad essere d’accordo. «Grillo non può dire che si tira fuori – commenta Antonello Giacomelli – i suoi parlamentari venissero in Aula a dire che le nostre proposte non sono il cambiamento e si assumano le loro responsabilità».

Bersani intende chiedere il mandato per un programma «tosto», volto a fare leggi contro la corruzione, la mafia, sul conflitto di interessi, sui costi della politica (riduzione del numero dei parlamentari, legge sui partiti), interventi volti alle fasce sociali più esposte alla crisi, sull’economia per la crescita, sul territorio per valorizzare l’esistente, diritti civili e di cittadinanza e infine, scuola e diritto allo studio. Evidente che molti dei punti sono di apertura soprattutto al M5S, una ricerca di contatto concreto sulle possibili convergenze, ma Grillo in questo momento non sembra avere alcun interesse a «mettere le mani in pasta», in un governo a guida di un leader politico. Ma i margini di manovra di Grillo dipenderanno anche dallo svolgimento della crisi e dalle scelte che compirà il Capo dello Stato.

L’Unità 05.03.13

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“Primi contrasti tra il guru, il comico e la Costituzione”, di Vittorio Emiliani

BEPPE GRILLO E GIANROBERTO CASALEGGIO SOSTENGONO CHE LA LORO DEMOCRAZIA DIRETTA VIA WEB È L’UNICA VERA DEMOCRAZIA. Per questo il primo passaggio stretto in cui si sono imbattuti, e in qualche modo incastrati, è l’articolo 67 della Costituzione che, giustamente, in una democrazia invece rappresentativa, prevede: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Per ovviarvi stanno cercando di cucire addosso agli eletti del Movimento Cinquestelle una sorta di camicia di forza in 18 punti «disciplinari». Per cui chiunque eventualmente dissenta, diventa traditore e voltagabbana. All’Assemblea Costituente il dibattito su questa materia risultò, a differenza di altri casi, brevissimo. Si propendeva a credere che quei concetti fossero già impliciti e che una norma scritta non fosse quindi necessaria. In commissione lo stesso Umberto Terracini – il vero e lucido regista tecnico dei lavori per il Partito Comunista Italiano – osservò che la disposizione sarebbe stata più attuale ai tempi del collegio uninominale pre-fascista, quando uno stretto legame saldava il notabile locale al proprio elettorato di collegio. O quando l’eletto sentiva di rappresentare la classe sociale da cui proveniva.
Ma il costituente liberale Aldo Bozzi argomentò efficacemente che l’eventuale silenzio della Carta costituzionale in materia di mandato e di rappresentanza poteva avere un significato ambiguo, di sostanziale sottovalutazione. A quel punto tutti riconobbero la validità di mettere la norma per iscritto. I costituenti furono infatti unanimi nel votare la prima parte dell’articolo 67, e cioè: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione» (la Nazione, non Grillo o Casaleggio e i loro 18 punti vincolanti di comportamento, palesemente incostituzionali). Per la seconda parte («senza vincoli di mandato») qualcuno, isolatamente, obiettò che i deputati hanno già come mandato di sostenere «un programma, un orientamento politico particolare» (Ruggero Grieco).

L’argomentazione tuttavia non convinse. Alla fine, tutti i costituenti scelsero di convergere sul testo che tanto spiace a Grillo e a Casaleggio: l’eletto «rappresenta la Nazione» (non è quindi un cittadino qualunque come vorrebbero certi neo-parlamentari del M5s) «ed esercita le sue funzioni senza vincoli di mandato». A garanzia dell’intero Paese e della propria autonomia, di un possibile, onesto dissenso rispetto a chi magari ne vorrebbe fare un «signorsì», allineato sempre e comunque alle direttive «superiori».

È il primo scontro fra la strana democrazia diretta del M5S (o della rete), senza organismi di garanzia, e la democrazia rappresentativa della Costituzione (la quale pure prevede strumenti certi di partecipazione), e non sarà certo l’ultimo. Siamo soltanto all’inizio.

L’Unità 05.03.13

"Effetto Grillo a viale Trastevere", di Alessandra Ricciardi

Contrordine. Nessun dossier va lasciato in sospeso. Vista l’incertezza politica determinata dalle elezioni, con il boom del Movimento5Stelle di Beppe Grillo che ha fatto saltare gli equilibri pre elettorali, basati sulla vittoria del centrosinistra, a viale Trastevere il ministro Francesco Profumo ha dato disposizioni per chiudere tutte le partite ancora aperte.
E così oggi il consiglio dei ministri, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, darà il via libera al decreto sul «sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione». Si tratta del sì finale, che porta a regime la sperimentazione già in corso nelle scuole, e su cui invece Pier Luigi Bersani aveva chiesto di soprassedere, perché su un tema così importante la decisione non fosse assunta da un governo tecnico e per giunta a fine mandato. Nel giro di una decina di giorni, il ministro dovrebbe ufficializzare anche il pacchetto di nomine per la presidenza e i cda di Indire e Invalsi, gli istituti che, insieme al corpo degli ispettori, hanno un ruolo strumentale rispetto alla valutazione. Verso la chiusura è dato anche il decreto sui Tfa speciali, i tirocini abilitativi riservati ai docenti precari, che ha ricevuto, al pari della valutazione, il via libera delle commissioni parlamentari.

Il provvedimento sul sistema di valutazione accantona definitivamente l’ipotesi di brunettiana memoria di utilizzare le rilevazioni sui rendimenti degli studenti per dare premi ai docenti più bravi. Essenzialmente il regolamento consentirà di valutare l’efficacia dell’azione didattica, i punti deboli e le azioni possibili di miglioramento. Il decreto parte dall’autovalutazione delle istituzioni scolastiche del servizio offerto, in base a dati resi disponibili dal sistema informativo del ministero, alle rilevazioni sugli apprendimenti e alle elaborazioni sul valore aggiunto restituite dall’Invalsi. Alla valutazione interna si accompagnerà una valutazione esterna da parte dello stesso Invalsi che individuerà le scuole da «sottoporre a verifica», in base a controlli di un ispettore e due esperti. L’obiettivo è definire con le scuole azioni di miglioramento, con il supporto dell’Indire ed eventualmente anche di università, enti di ricerca, associazioni professionali e culturali. Ogni scuola dovrà fare la rendicontazione sociale del lavoro svolto e dei risultati raggiunti. I piani di miglioramento, correlati dagli obiettivi centrati, vanno sempre comunicati al direttore scolastico regionale, che «ne tiene conto ai fini della individuazione degli obiettivi da assegnare al dirigente scolastico in sede di conferimento del successivo incarico e della valutazione» per la retribuzione di risultato. Che dunque non potrà più essere distribuita a pioggia, come invece accaduto finora.

da ItaliaOggi 05.03.13

"Capitalismo e democrazia", di Giorgio Ruffolo

Due grandi forze si contendono la storia dell’Occidente: il capitalismo e la democrazia. Esse si alternano nell’egemonia prevalendo volta per volta l’una sull’altra e dando così luogo a cicli storici, l’ultimo dei quali è quello che viviamo dall’inizio del secolo passato e che comprende tre fasi: l’età dei torbidi, l’età dell’oro e l’età della controffensiva capitalistica.
L’età dei torbidi è caratterizzata da forti conflitti tra i capitalismi nazionali ciascuno dei quali cerca di assicurarsi vantaggi decisivi sui rivali. Il risultato è una competizione selvaggia che ostacola la crescita comune.
Età dell’oro. La definizione è di Hobsbawm. La caratteristica principale sta nel tentativo di raggiungere un “compromesso storico” tra capitalismo e democrazia che esalti le capacità di sviluppo di queste due forze senza provocare contraddizioni strutturali. Il principio fondamentale che regge il sistema è quello del libero scambio. Delle merci ma non dei capitali che sono assoggettati a controlli severi da parte dei governi nazionali. Questo sistema lascia ampie autonomie alle politiche nazionali e assicura quindi un relativo equilibrio tra le forze del capitalismo e le capacità regolatricidelloStato.Tuttavial’equilibrio che ne deriva si rivela tutt’altro che “storico”. Esso è costantemente messo in dubbio dai tentativi delle forze capitalistiche di sottrarsi agli obblighi costituiti dai controlli statali. Questi tentativi conseguono un decisivo successo negli anni Ottanta del secolo scorso con la decisiva eliminazione in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti di ogni controllo sui movimenti internazionali di capitale che assicura a quest’ultimo una superiorità decisiva sugli altri fattori della produzione. La superiorità è realizzata attraverso la sua possibilità di spostarsi nello spazio secondo le convenienze assicurate dagli investimenti. Si potrebbe dire che l’arma fondamentale del capitale è la valigia. La sola minaccia di uno spostamento blocca le possibilità di far valere l’autonomia della politica. L’eliminazione di ogni ostacolo al movimento dei capitali determina un vantaggio decisivo del capitalismo sulla democrazia pregiudicando il relativo equilibrio che si era raggiunto tra queste due forze. Questo vantaggio si traduce in una forte diseguaglianza tra i redditi del capitale e quelli del lavoro. Una diseguaglianza che potrebbe tradursi in una debolezza della domanda, costituita soprattutto dai redditi di lavoro. A questa minaccia il capitalismo reagisce con una “mossa” decisiva: l’indebitamento, che permette di compensare il minore aumento dei redditi di lavoro. L’indebitamento diventa un fenomeno generale e sistematico al punto che il capitalismo viene definito da un economista come quel sistema nel quale i debiti non si pagano mai. Una caratteristica chiaramente insostenibile alla lunga e che si traduce prima o poi in una inevitabile crisi determinata da insolvenze, come nel caso dei cosiddetti subprime. Originate negli Stati Uniti, ed estese all’Europa e a tutto il mondo determinando la condizione di crisi della crescita economica nella quale siamo oggi immersi. Questa condizione è affrontata, diversamente da ciò che accadde negli anni Trenta, con un colossale salvataggio finanziario dello Stato. Da fattore di perturbazione dei mercati — così definito dalla retorica liberistica — lo Stato diventa il salvatore del capitalismo. La logica del sistema tuttavia non muta. Esaurito il “salvataggio” il sistema torna alla logica dell’indebitamento, raffigurata scherzosamente nel dialogo fra Totò e il suo cameriere. Cameriere: «Mi avete detto ieri che mi avreste pagato domani». Totò: «E te lo confermo». Cameriere: «Ma domani è oggi». Totò: «Giovanotto non scherziamo, oggi è oggi e domani è domani».
La soluzione che l’ideologia liberistica imporrebbe, di lasciare che i fallimenti si compiano secondo l’inflessibile regola dei mercati, naufraga nella vicenda della Lehman Brothers: un fallimento che, se esteso all’intero contesto capitalistico, ne determinerebbe il crollo. La verità si crea alla fine il suo spazio. I debiti si pagano. Come si chiude la vicenda? Chi paga alla fine?
Pagano i contribuenti e i lavoratori, sotto forma di aumento delle tasse e/o di contrazione dei salari. Al fenomeno dell’indebitamento si somma quello della “finanziarizzazione”. La ricchezza è rappresentata dall’emissione di “titoli” che da semplici indicatori della ricchezza finiscono per diventare ricchezza essi stessi. Una ricchezza letteralmente inesistente ma che costituisce la base di una “taglia” imposta alla comunità dal potere finanziario. Questa taglia è percepita dalle banche e soprattutto da una classe di intermediari finanziari che approfittadellasuaposizione“strategica” nelle transazioni finanziarie. È così che il capitalismo industriale basato sulla realtà delle “cose” diventa capitalismo finanziario basato sulla rappresentazione dei “titoli”. Il grande salvataggio si traduce ovviamente in un peggioramento della finanza pubblica. Ma diversamente da quello del finanziamento privato. Quest’ultimo è punito dalle politiche economiche e finanziarie che colpiscono i “salvatori”. Il capitalismo non ammette infatti che il settore pubblico diventi un elemento decisivo dell’economia. Si profila una condizione nella quale il rallentamento della crescita determinato da politiche repressive della finanza pubblica si accoppia con l’iniquità. Due elementi che rischiano di suscitare una depressione di lungo periodo.

La Repubblica 05.03.13

"Aumenta la violenza sulle donne", da lastampa.it

I dati del Telefono Rosa: in Italia si connota sempre più sul piano fisico L’autore è il marito (48%), il convivente (12%) o l’ex (23%). È quasi sempre tra le mura domestiche, nel rapporto con il marito o il convivente o l’ex, e avviene sempre di più davanti ai figli, testimoni atterriti che poi a loro volta potranno diventare carnefici. La violenza sulle donne è un fenomeno che in Italia non diminuisce e si connota sempre più come violenza fisica: a testimoniarlo, le 124 donne ferocemente uccise nel 2012 in nome di un «amore» malato e assassino. La violenza fisica aumenta dal 18% al 22%: ma questa non è mai sola poiché la violenza psicologica, le minacce e la violenza economica sono altri comportamenti ad essa connessi. La dipendenza economica risulta un fattore determinante sia nell’espressione della violenza di genere attraverso forti restrizioni economiche e una totale gestione del denaro da parte del partner, sia nel rendere ancora più faticoso, se non impossibile a volte, l’allontanarsi, per la donna, dal contesto violento.

I dati annuali dell’Osservatorio del Telefono Rosa, presentati oggi a Roma, confermano che il tragico volto della violenza sulle donne non cambia. L’autore è il marito (48%), il convivente (12%) o l’ex (23%), un uomo tra il 35 e i 54 anni (61%), impiegato ((21%), istruito (il 46% ha la licenza media superiore e il 19% la laurea). Non fa uso particolare di alcol o di droghe (63%). Insomma, un uomo «normale». Così come normale è la vittima: una donna di età compresa fra 35 e 54 anni, con la licenza media superiore (53%) o la laurea (22%); impiegata (20%) o disoccupata (19%) o casalinga (16%), con figli (82%). La maggior parte delle violenze continuano ad avvenire in casa, all’interno di una relazione sentimentale (84%), in una famiglia «normale».

Inoltre la preoccupazione di non poter sostenere economicamente i propri figli diventa la catena che costringe la donna a rimanere nella violenza e, soltanto quando sono i figli stessi ad interporsi tra la madre e il violento nel tentativo di difenderla o quando vengono direttamente coinvolti nelle azioni violente, la donna trova la motivazione e il coraggio di rischiare e fuggire. La situazione si aggrava nel caso di convivenza (arrivata oggi al 37%) anche per la mancanza di leggi che la tutelino. Sale dal 13% al 18% la percentuale di donne che ammettono la debolezza come motivazione che le ha spinte per anni (1-5 anni: 35%, dai 5 ai 20 anni: 34% e oltre i 20 anni: 12%) a sopportare la situazione di violenza: finalmente la donna inizia a riconoscere i danni su se stessa della violenza vissuta. Durante le consulenze le donne affermano di essersi accorte che la perdita di autostima e l’insicurezza che provano sono diretta conseguenza di anni di vessazioni e umiliazioni subite. Diminuisce anche dal 14% all’11% la convinzione di tollerare la violenza per amore.

I dati annuali dell’Osservatorio del Telefono Rosa, presentati oggi a Roma, confermano che il tragico volto della violenza sulle donne non cambia. L’autore è il marito (48%), il convivente (12%) o l’ex (23%), un uomo tra il 35 e i 54 anni (61%), impiegato ((21%), istruito (il 46% ha la licenza media superiore e il 19% la laurea). Non fa uso particolare di alcol o di droghe (63%). Insomma, un uomo «normale». Così come normale è la vittima: una donna di età compresa fra 35 e 54 anni, con la licenza media superiore (53%) o la laurea (22%); impiegata (20%) o disoccupata (19%) o casalinga (16%), con figli (82%). La maggior parte delle violenze continuano ad avvenire in casa, all’interno di una relazione sentimentale (84%), in una famiglia «normale».

L’atto violento, dicono i dati raccolti dall’associazione ed elaborati da Swg, non è mai isolato ma è costante e continuo (81%) e non finisce con la chiusura del rapporto ma si protrae anche dopo, spesso con un atteggiamento persecutorio (stalking). Nel 55% dei casi i maltrattamenti si manifestano solo in casa, restando sconosciuti al mondo esterno (amici, parenti e colleghi). La violenza fisica aumenta dal 18% al 22%, ma si accompagna sempre a violenza psicologica, minacce, violenza economica. Sale, dal 13% al 18%, la percentuale di donne che ammettono che la debolezza le ha spinte per anni a sopportare la situazione (il 35% da uno a 5 anni, il 34% da 5 a 20 anni e il 12% per oltre 20 anni), mentre diminuisce dal 14% all’11% la convinzione di tollerare la violenza per amore.

Il dato forse più impressionante che emerge dal campione di 1.562 donne che si sono rivolte a Telefono Rosa nel corso del 2012, però, è quello dell’82% che dichiara di avere figli che assistono alle violenze, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. Si chiama «violenza assistita» ed è un fenomeno, avverte l’associazione, ampiamente sottovalutato: senza un adeguato aiuto, i minori possono avviarsi alla vita adulta con un bagaglio di problematiche comportamentali e psicologiche fino allo sviluppo di disturbi dissociativi e di personalità. Inoltre, crescere in un clima violento significa assimilare una modalità di relazione violenta che si tendera’ a ripetere all’interno delle proprie relazioni affettive da adulti: sale dal 34% al 40% la percentuale di donne che ammettono come nella famiglia d’origine del partner ci fossero comportamenti violenti.

www.lastampa.it

"Grillo e il lavoro tra statali e precari", di Bruno Ugolini

Col senno di poi oggi appare chiaro che sarebbe stato meglio aprire un confronto in campagna elettorale con i «contenuti» delle posizioni di Grillo e dei grillini, più che con le battute del teatrante, come quella relativa alla necessità di «abolire i sindacati». Sarebbe stata necessaria una battaglia politica aperta, anche per fare chiarezza tra i suoi stessi elettori, quelli che hanno contribuito senza esitazioni a una imponente ondata di consensi nelle roccaforti operaie e nel tumultuoso mondo composito dei giovani precari. Ovverosia i protagonisti di uno dei libri di Grillo SchiaviModerni in cui si parla, tra l’altro, di «Call center organizzati come istituti di pena». Avremmo dovuto, ad esempio, contestare l’idea che per soddisfare la collera giovanile bisogna conquistare non tanto esperienze di lavoro tutelate e dignitosamente pagate, bensì un reddito di cittadinanza sovvenzionato con il sacrificio di altri lavoratori, quelli occupati nei servizi pubblici. Ovverosia vigili del fuoco, infermieri, insegnanti, impiegati delle agenzie delle entrate, ministeriali, e via elencando. Tutti coloro per i quali proprio in questi giorni si discute di un ulteriore blocco delle retribuzioni per due anni. Grillo aveva scelto la strada della contrapposizione, già battuta da esponenti del centrodestra come Brunetta. È così si poteva leggere sul suo Blog dell’esistenza di due blocchi. Il primo composto «da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o disoccupati» che «cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo». L’altro blocco é composto «da una gran parte di dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, dagli evasori» nonché da politici di varie specie. Fatto sta, denunciava il Blog, che «Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici», un peso insostenibile. Bisogna aggredirlo per dare il reddito di cittadinanza ai precari. Ed ecco la proposta finale: «Licenziamenti di decine di migliaia di dipendenti della Pubblica amministrazione e taglio delle pensioni sopra a un certo tetto con l’introduzione della pensione massima che potrebbe essere di 2000 euro al mese». Altro che articolo 18, licenziamenti ad libitum, senza tener conto, tra l’altro, delle conseguenze. Ha spiegato bene Rossana Dettori, segretaria della funzione pubblica Cgil: «Dietro le parole che usa Grillo (posto di lavoro pubblico), ci sono ospedali e pronto soccorso, commissariati di polizia e caserme dei vigili del fuoco, ci sono asili nido e scuole di ogni ordine e grado, ci sono servizi sociali per anziani e non autosufficienti, ci sono istituzioni democratiche che assicurano funzioni essenziali per i cittadini». Altre risposte polemiche sono state pubblicate sullo stesso Blog di Grillo. Così leggiamo Jeremy da Cagliari: «Io sono un dipendente statale e ho votato M5S. Non credo che noi statali siamo la causa del male italiano, almeno non tutti, e il mio potere d’acquisto è fermo da 10 e più anni». È ancora: «Io non mi sento un parassita o uno che toglie il pane di bocca al lavoratore privato. Lavoro ogni giorno e rischio pure la vita in mezzo alla strada e mi piacerebbe che in questo blog si precisasse di più e si facessero meno generalismi!». Mentre Paolo da Roma osserva: «E no, caro Beppe, mi era sembrato di capire che le risorse per sostenere il reddito di cittadinanza dovessero provenire dalla lotta al malaffare, dallo stop immediato alle opere inutili (vedi Tav ecc), dai tagli alle spese della politica, dal ritiro dei contingenti militari, dalla revoca degli acquisti dei cacciabombardieri, dal dimezzamento delle pensioni e degli stipendi d’oro, ma non dal mettere per strada dipendenti pubblici e pensionati che lottano per arrivare a fine mese!». E così un altro, Maurizio, si sfoga: «Ma lo sai quanti dipendenti statali hanno votato M5S? Lo sai??? Lo sai quante tasse per la crisi si sono presi senza permesso dal mio stipendio di statale sti quattro farabutti ? Lo sai??? Lo sai quanto prende un insegnante come me a 60 anni con moglie disoccupata e un figlio? Vuoi saperlo??? 1530 euro!!!! (e ci pago un mutuo di 500 per altri 28 anni)». Mentre c’e chi riflette: «L’unico scontro generazionale gradito, anzi auspicato, nel Paese è quello tra la casta e gli emergenti del M5S. Questi giochetti di mettere i padri contro i figli, i lavoratori precari contro quelli fissi, lasciateli fare ai Casini e ai Monti, anche perché non riescono: non si possono mettere i figli contro i padri. Il lavoratore precario non vuole che anche gli altri lo siano, ma vuole proprio il contrario: non esserlo più lui. Quest’analisi A e B è di una superficialità avvilente oltre che smentita dai fatti: io, oggi posto fisso, 60 anni e 40 contributivi, pensione trombata e prossima pensionata da fame ho votato M5S e con molti altri come me ero anche a San Giovanni. Analisi di questo acume sono degne di un Gasparri, non di una forza che rivendica la più alta connessione con la realtà italiana». Un dibattito interessante in cui non mancano, certo, voci di diverso avviso, coerenti con le proposte di imbracciare la mannaia per colpire il pubblico impiego dei «fannulloni». Ora questo altalenarsi di opinioni avrà un peso sul vertice grillino e nella disputa sul nuovo governo e sulle cose da fare magari con l’appoggio dei grillini? Quel che appare certo é che per il Movimento a Cinque Stelle il fuggire da un impegno costruttivo significherebbe deludere speranze e attese di quegli oltre otto milioni di elettori, appartenenti al mondo del lavoro privato e pubblico, nonchè al mondo di pensionati e precari, imprenditori in crisi. Tutta gente che si aspetta risultati e non solo grida di guerra. Cosi suona, tanto per fare un esempio, l’appello di Franco da Modena: «Grillo ma quale alternativa proponi, al non votare la fiducia a nessuno, quindi a non dare la possibilità che ci sia un nuovo governo? Punti allo sfascio? Ricordati che se ci saranno nuove elezioni molti ti riterranno colpevole del disastro e non ti rivoteranno come farò io e molti che la pensano come me».

http://ugolini.blogspot.com

da L’Unità

"Una primavera lunga un giorno", di Ferruccio Sansa

E se fosse una grande occasione? Eppure pochi sembrano rendersene conto, compreso chi ne è stato il propiziatore.
Le elezioni che dovevano ridare slancio ci hanno portato un senso di impotenza. L’impasse riguarda il Governo, ma prima ancora noi cittadini. “Sono ottimista, vedo il bicchiere mezzo pieno. Di merda”, diceva una vignetta di Altan. Oggi, però, non è così. Tra pochi giorni a Roma arriveranno centinaia di nuovi parlamentari: medici, professionisti, impiegati, operai. Parliamo del Cinque Stelle, ma anche del centrosinistra o di Monti. Sono incensurati, non hanno conflitti di interesse. Gente comune nel senso migliore del termine. Potrebbero rifare del Parlamento il cuore della nostra democrazia, non il passacarte di governi e partiti. Hanno una responsabilità enorme: governarci, ma soprattutto ridarci la fiducia che servirà come motore della vita civile, del lavoro e dell’impresa. Sono inesperti, ma difficilmente faranno peggio di chi li ha preceduti.
Chi dall’estero ci osserva con affettuoso timore o arroganza ne tenga conto: in nessun Paese d’Europa si è assistito a un tale rinnovamento della classe dirigente.
Davvero questi giorni di travaglio potrebbero preludere a una primavera. Chi scrive non intende suggerire maggioranze, né sostenere la necessità di formare governi purché siano. Salvo la speranza che si faccia da parte chi – Berlusconi, ma non solo – ha coltivato i propri interessi a spese di 60 milioni di italiani. Però un dubbio ci sentiamo di esprimerlo: che molti non si rendano conto dell’occasione. E dei rischi di un fallimento. Certo il compito è arduo: conciliare le proprie ragioni con quelle del Paese. Trovare un compromesso che non intacchi gli ideali. Possibile? Il Cinque Stelle deve fare i conti con un elettorato unito dalla protesta, ma di provenienza diversa. Se si votasse ancora, però, gli elettori spaventati dalla mancanza di governo potrebbero abbandonarlo. Non solo: se anche ottenesse la maggioranza, è sicuro di essere già pronto a guidare un Paese?
E il centrosinistra? Pare avere tutto da perdere, ma ha un’occasione irripetibile per rinnovarsi. Le alleanze si fanno sui programmi e sugli uomini. Non si può chiedere a Grillo di appoggiare una classe dirigente minata dagli scandali, che prendeva soldi da Riva, che andava a braccetto con la finanza, che ha lottizzato e coperto di cemento l’Italia. Ecco, prima di proporre programmi il Pd dovrebbe cambiare gli uomini. Un’opportunità unica per un partito che pare diviso tra vertici assai logori e una base che coltiva ancora grandi ideali.
Vero, siamo come sospesi nel vuoto. Ma ricordiamoci le parole di Saint Exupéry, pilota e scrittore, in Volo di notte: “Il buio saliva, ogni casa accendeva la sua stella luminosa in faccia alla notte immensa. E lui era incantato che l’ingresso nella notte somigliasse questa volta all’arrivo in un porto, lento e bello”.

da il Fatto 4.3.13

"E il Corriere ora «scarica» il comico", di Michele Prospero

Contrordine immediato al Corriere. Solo alcuni giorni fa compariva sul quotidiano un inno al «cosiddetto» populismo di Grillo.
Che veniva esaltato per la sua sublime capacità «di stare dalla parte dei concittadini». Lo scritto di Ernesto Galli della Loggia era la logica conseguenza di un lungo corteggiamento che aveva scaldato i cuori a via Solferino. Grillo, scrutato con la lente dello storico, che si sa conosce la lunga durata, appariva in dignità al pari dei sovrani inglesi durante la guerra, cioè come un ammirevole leader capace nell’emergenza di «mettersi allo stesso livello della gente comune». Quell’innamoramento per l’eroe genovese, che pareva struggente, ora si rivela solo un piccolo matrimonio di convenienza. E volano già gli stracci. Il direttore Ferruccio de Bortoli se la prende con la sinistra che nientemeno tenta di sdoganare Grillo e non lo denigra più come faceva prima, quando al Corriere c’era qualcuno che il comico lo amava davvero. Ma come è possibile prendersela con la sinistra che «corteggia l’avversario» dopo il rapimento totale per il comico che ha scaldato la estasiata penna di Galli Della Loggia?
Lo storico aveva reciso ogni dubbio circa la povertà propositiva del programma di Grillo e aveva cantato la soave bellezza del desiderio «di voler mandare a casa un’intera classe politica». Il voto a Grillo per Della Loggia era un sostegno meritorio a questo «ambizioso programma elettorale». Il rifiuto della classe politica appariva, in quanto tale, come un evento straordinario, da osannare. Ora però che ha centrato l’obiettivo e il caos è realtà tangibile, De Bortoli scopre che la ricetta di Grillo è solo «una straordinaria scorciatoia alla povertà». E allora, contro intellettuali e imprenditori già saliti sul carro del vincitore, via alla denuncia della «pericolosità» delle proposte, botte da orbi contro il consenso dato ad un movimento «millenarista» che porta solo alla rovina o «decrescita infelice». E quello che ha scritto Della Loggia sulla bella follia liberatoria del comico?
Dopo aver sostenuto Grillo come un argine al «neosocialdemocratico» Bersani, e dopo averlo aiutato come guastatore in grado di sparigliare le carte per favorire un nuovo governo di tregua, il Corriere ora lo strattona perché la sua forza è cresciuta in un modo non previsto, cioè esagerato nelle dimensioni. Hanno lavorato perché il dramma si compisse (l’ingovernabilità al senato come un progetto lucido) e ora che è davanti agli occhi la foto della tragedia si spaventano della loro stessa creatura mostruosa.
Fa tenerezza che dopo aver puntato tutto sulla ingovernabilità e quindi sul rischio di uno sfascio dello Stato come una eventualità accettabile, al Corriere si rimpianga ora l’interesse generale. E De Bortoli auspica la resurrezione della strana maggioranza. Cioè di quella formula, sono le sue stesse parole, che si è caratterizzata in lunghi mesi per «una testarda miopia», per una volontà di «non fare». Tutto vero. Ma in che senso allora è nell’interesse generale invocare il ritorno al potere della testarda miopia e dello sfacciato non fare? E come è pensabile che, «in questa sciagurata congiuntura», nella quale sopravvivere è già un miracolo, sia possibile addirittura varare lo «scambio virtuoso» (che richiederebbe anni) tra doppio turno e presidenzialismo? A furia di corteggiare i buffoni in senso shakespeariano si diventa ridicoli in senso non shakespeariano però.

da l’Unità 4.3.13