attualità, politica italiana

"Il Pd: il governo non lo nomina Grillo", di Maria Zegarelli

Quello che dirà con molta chiarezza in Direzione è che per quanto lo riguarda non farà mai un governo con il Pdl di Silvio Berlusconi. Illustrerà gli otto punti programmatici su cui intende andare in Parlamento a chiedere la fiducia e a quel punto sarà la Direzione ad esprimersi. Pier Luigi Bersani non ha tentennamenti, ha tracciato la strada che intende percorrere e aspetta di sapere se il parlamentino democratico gli darà quell’appoggio di cui ha bisogno per salire al Quirinale e giocarsi l’unica carta che ha in mano: ottenere l’incarico e chiedere a Grillo (e a Monti) i voti di cui ha bisogno al Senato per dare vita ad un governo di scopo, ancorato attorno ai punti illustrati l’altra sera dal leader Pd da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Massimo D’Alema appoggia la linea del segretario, «escludiamo qualsiasi accordo con il Pdl», idem Enrico Letta e Dario Franceschini, che «ha sempre condiviso le scelte del segretario ed è quello che farà anche mercoledì», dice uno dei suoi fedelissimi.

Ed è probabile che domani Bersani incassi un voto unitario o quasi (c’è chi ha messo nel conto delle astensioni, anche «eccellenti») ma molto dipenderà dalle cose che dirà. I lavori saranno «aperti», in diretta streaming sul sito del partito a partire dalle dieci, «per segnare la differenza tra una passerella e un confronto vero», dicono in aperta polemica con la diretta di Grillo.

Walter Veltroni, ad esempio, preferisce aspettare: è d’accordo con il segretario sul fatto che spetti al Pd fare una proposta in Parlamento per tentare di dar vita ad un governo ma è altrettanto convinto che non si debbano porre aut aut tali «da rendere ancora più stretta la via che può e deve percorrere il presidente della Repubblica». Veltroni non crede alla tenuta di un governo senza maggioranza precostituita e per questo ritiene che la strada non possa che essere un governo del presidente. Tace per ora Rosy Bindi, e ci sono malumori anche nell’Areadem di Franceschini (che si riunisce stasera), dove c’è chi suggerisce a Stefano Fassina di smetterla di evocare le urne come unica alternativa al governo Bersani, o «addirittura di prospettare nuove elezioni con lo stesso leader candidato», ma nessuno viene allo scoperto.

Gli stessi «perplessi» sanno che in questo momento aprire fronti interni di polemica potrebbe essere un errore fatale. Le voci fuori dal coro sono poche, arrivano soprattutto dal fronte renziano ma non da Renzi che domani potrebbe essere a Roma per la Direzione. Roberto Giachetti sul suo blog dice «meno male che c’è Napolitano, affidare oggi nelle sue mani la gestione di uno dei percorsi più delicati della vita politica e istituzionale non è solo l’unica possibilità per trovare una via d’uscita, ma anche un doveroso rispetto delle prerogative costituzionali alle quali sarebbe bene che tutti si attenessero». Ieri dopo l’incontro tra Beppe Grillo e i suoi eletti il capogruppo al Senato (deciso nella riunione ma non nelle sedi istituzionali, cioè il Parlamento), Vito Crimi ha lasciato intendere che sarebbero disposti a votare un governo guidato da una persona- lità esterna ai partiti. C’è chi ha fatto il nome di Stefano Rodotà (mentre Pippo Civati dal fronte democratico lancia il nome di Laura Puppato), chi del governatore Ignazio Visco, ma al Nazareno la ritengono un’altra provocazione: «Farebbero qualunque cosa pur di non far governare chi ha vinto le elezioni, il loro è solo un modo per continuare a non decidere». «Riteniamo che chi rappresen- ta il 25% dell’elettorato italiano debba mettere le mani in pasta. Non può dire “ho preso il 25% e sono problemi vostri”», replica Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd. Nel Pdl, invece, salutano l’apertura di Crimi come una gran bella notizia, mentre c’è chi starebbe lavorando per creare canali di contatto con gli eletti M5S per porre le condizioni per un governo a guida Bersani. Uno degli ambasciatori sarebbe anche don Gallo, il sacerdote genovese amico di Grillo e molto vicino a Sel: impresa non facile, su questo sono in molti ad essere d’accordo. «Grillo non può dire che si tira fuori – commenta Antonello Giacomelli – i suoi parlamentari venissero in Aula a dire che le nostre proposte non sono il cambiamento e si assumano le loro responsabilità».

Bersani intende chiedere il mandato per un programma «tosto», volto a fare leggi contro la corruzione, la mafia, sul conflitto di interessi, sui costi della politica (riduzione del numero dei parlamentari, legge sui partiti), interventi volti alle fasce sociali più esposte alla crisi, sull’economia per la crescita, sul territorio per valorizzare l’esistente, diritti civili e di cittadinanza e infine, scuola e diritto allo studio. Evidente che molti dei punti sono di apertura soprattutto al M5S, una ricerca di contatto concreto sulle possibili convergenze, ma Grillo in questo momento non sembra avere alcun interesse a «mettere le mani in pasta», in un governo a guida di un leader politico. Ma i margini di manovra di Grillo dipenderanno anche dallo svolgimento della crisi e dalle scelte che compirà il Capo dello Stato.

L’Unità 05.03.13

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“Primi contrasti tra il guru, il comico e la Costituzione”, di Vittorio Emiliani

BEPPE GRILLO E GIANROBERTO CASALEGGIO SOSTENGONO CHE LA LORO DEMOCRAZIA DIRETTA VIA WEB È L’UNICA VERA DEMOCRAZIA. Per questo il primo passaggio stretto in cui si sono imbattuti, e in qualche modo incastrati, è l’articolo 67 della Costituzione che, giustamente, in una democrazia invece rappresentativa, prevede: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Per ovviarvi stanno cercando di cucire addosso agli eletti del Movimento Cinquestelle una sorta di camicia di forza in 18 punti «disciplinari». Per cui chiunque eventualmente dissenta, diventa traditore e voltagabbana. All’Assemblea Costituente il dibattito su questa materia risultò, a differenza di altri casi, brevissimo. Si propendeva a credere che quei concetti fossero già impliciti e che una norma scritta non fosse quindi necessaria. In commissione lo stesso Umberto Terracini – il vero e lucido regista tecnico dei lavori per il Partito Comunista Italiano – osservò che la disposizione sarebbe stata più attuale ai tempi del collegio uninominale pre-fascista, quando uno stretto legame saldava il notabile locale al proprio elettorato di collegio. O quando l’eletto sentiva di rappresentare la classe sociale da cui proveniva.
Ma il costituente liberale Aldo Bozzi argomentò efficacemente che l’eventuale silenzio della Carta costituzionale in materia di mandato e di rappresentanza poteva avere un significato ambiguo, di sostanziale sottovalutazione. A quel punto tutti riconobbero la validità di mettere la norma per iscritto. I costituenti furono infatti unanimi nel votare la prima parte dell’articolo 67, e cioè: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione» (la Nazione, non Grillo o Casaleggio e i loro 18 punti vincolanti di comportamento, palesemente incostituzionali). Per la seconda parte («senza vincoli di mandato») qualcuno, isolatamente, obiettò che i deputati hanno già come mandato di sostenere «un programma, un orientamento politico particolare» (Ruggero Grieco).

L’argomentazione tuttavia non convinse. Alla fine, tutti i costituenti scelsero di convergere sul testo che tanto spiace a Grillo e a Casaleggio: l’eletto «rappresenta la Nazione» (non è quindi un cittadino qualunque come vorrebbero certi neo-parlamentari del M5s) «ed esercita le sue funzioni senza vincoli di mandato». A garanzia dell’intero Paese e della propria autonomia, di un possibile, onesto dissenso rispetto a chi magari ne vorrebbe fare un «signorsì», allineato sempre e comunque alle direttive «superiori».

È il primo scontro fra la strana democrazia diretta del M5S (o della rete), senza organismi di garanzia, e la democrazia rappresentativa della Costituzione (la quale pure prevede strumenti certi di partecipazione), e non sarà certo l’ultimo. Siamo soltanto all’inizio.

L’Unità 05.03.13