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"L’illusione del Cavaliere e la rismonta del Pd", di Ilvo Diamanti

Il recupero del Cavaliere è soltanto una illusione. E anche il Pd si è smontato. Insieme hanno perso nove milioni e mezzo di voti

AMMETTO di essermi sbagliato. L’ho già scritto alcune volte, di recente, nell’incipit delle mie Mappe, analizzando i cambiamenti politici in atto. Anche alcuni risultati delle elezioni appena avvenute mi hanno spiazzato. Ad eccezione di uno – peraltro importante. La prestazione del Centrodestra e del PdL, guidati da Silvio Berlusconi. Sostengo, infatti, da tempo, che il “berlusconismo” è finito. Ebbene, almeno su questo non mi sono sbagliato. A dispetto delle letture che parlano di “rimonta” e perfino di “miracolo” di Berlusconi.

IL PDL e il Centrodestra hanno toccato il punto più basso della loro storia elettorale, che coincide con la biografia della Seconda Repubblica. Partiamo dai dati (che ricavo dal Dossier Lapolis dell’Università di Urbino). Il PdL ha ottenuto il 21,6% dei voti validi. Il 23,6% se si considerano anche i “Fratelli d’Italia” (e del PdL). Circa 14 punti meno delle precedenti elezioni, quando aveva superato il 37%. Ma 11 punti e mezzo in meno anche rispetto alle europee del 2009. Quanto alla coalizione, il discorso cambia poco. Il Centrodestra, guidato da Berlusconi, in questa consultazione, ha ottenuto il 29%. Cioè: quasi 18 punti meno del 2008.
In valori assoluti, la distanza rispetto alle precedenti elezioni appare ancor più eloquente (come ha rilevato puntualmente l’Istituto Cattaneo). Abissale. Il PdL, infatti, ha subito un calo di 6.300.000 elettori. E si è ridotto a circa metà, rispetto al 2008. La coalizione di Centrodestra, da parte sua, ha perso oltre 7 milioni sui 17 ottenuti nel 2008. Cioè, oltre 4 elettori su 10.
Un arretramento così pesante ha prodotto conseguenze molto rilevanti e molto evidenti anche sul profilo territoriale. Basta guardare il posizionamento del PdL che emerge dalla geografia del voto nelle due ultime elezioni. Nel 2008 era il primo partito in 67 province, il secondo in altre 40. In pratica, era diffuso in tutta Italia. Forte, secondo tradizione, nel Nordovest, nel Centrosud e nelle Isole. Oggi, invece, il PdL è il primo partito in 17 province e il secondo in altre 26. Insomma, ha rarefatto – ridotto a meno di un terzo – la sua presenza sul territorio nazionale, concentrandola largamente nel Mezzogiorno.
D’altronde, se si ripercorre la parabola del voto del PdL e dei suoi antecedenti, è evidente come queste elezioni segnino il punto più basso del “partito personale” di Berlusconi, in quasi vent’anni di elezioni. Oggi, infatti, il PdL ha ottenuto pochi consensi più di FI, da sola, all’esordio, nel 1994.
Se questo è un “miracolo”, allora, è lecito attendersi, presto, un nuovo passaggio di Grillo attraverso lo stretto. Ma a piedi. Camminando sulle acque.
Anche la presunta “rimonta” è una leggenda. Se facciamo riferimento ai (vituperati) sondaggi, il PdL è effettivamente risalito negli ultimi due mesi. Nel corso del 2012, “abbandonato” da Berlusconi, era sceso al 17% (Demos). Secondo altri istituti, anche più in basso. Da dicembre a febbraio, è risalito, fino a superare il 20%. Merito di Berlusconi? Certo. Ma solo perché senza Berlusconi il PdL non esiste. Non ha “senso”. Il ritorno del Cavaliere ha permesso al PdL di ri-allinearsi sul livello precedente alle dimissioni, nel novembre 2011. Quando il declino del berlusconismo si era già consumato.
Non mi interessa, qui, partecipare alla ricerca dello “sconfitto più sconfitto” degli altri.
Perché in queste elezioni c’è un solo vincitore: Beppe Grillo insieme al Movimento 5 Stelle. Tutti gli altri sono stati sconfitti. Per primo, ex aequo con altri, Silvio Berlusconi.
L’uomo-che-rimonta per (de)meriti altrui più che propri. In effetti, il risultato del PdL e del Centrodestra non si è scostato di molto rispetto alle stime dei sondaggi. Al massimo 1-2%. Se Berlusconi ha rischiato il pareggio e perfino il sorpasso è perché il Centrosinistra e in particolare il PD lo hanno quasi raggiunto. In discesa. In caduta. È questo il vero miracolo. Che il PD e il Centrosinistra non siano riusciti a vincere neanche stavolta. D’altronde, neppure i sondaggi del Cavaliere immaginavano il PD così in basso. Poco sopra il 25%. Al punto di essere superato dal M5S. Così il Centrodestra è divenuto competitivo non per la “rimonta” del Cavaliere, ma per la “riSmonta” del PD. Il quale, rispetto al 2008, ha perduto 8 punti percentuali. In termini assoluti: quasi tre milioni e mezzo di voti – il 28% della propria base elettorale precedente.
La leggenda della “rimonta” del Cavaliere, in effetti, mi sembra auto-consolatoria. Non solo per Berlusconi e il Centrodestra. Ma anzitutto per il PD. Che ha ceduto pesantemente, quasi di schianto, proprio quando il PdL ha ottenuto il peggiore risultato della sua storia. Una coincidenza non casuale ma semmai “causale”. Perché il PD, come osservò Eddy Berselli proprio a commento delle elezioni del 2008, è rimasto un “partito ipotetico”. Senza una “chiara idea complessiva”. Ha, invece, coltivato con Berlusconi e il PdL un rapporto mimetico. Fino a diventarne quasi complementare. Il PD: ha perduto – o almeno: non ha vinto – perché, in fondo, si è progressivamente berlusconizzato. Per modello organizzativo, immagine, comunicazione. Senza, peraltro, proporre un leader come Berlusconi. Preferendo, invece, “l’usato sicuro”. Così Grillo e il M5S hanno sfondato nelle zone rosse, verdi e azzurre. Insomma, dovunque. Sfruttando la fine del berlusconismo, che ha trascinato con sé anche il PD. Un po’ come nei primi anni Novanta, quando il crollo del muro di Berlino travolse non solo il PCI e i post- comunisti, ma prima ancora la DC e l’anticomunismo.
Il centrosinistra, per ricominciare, non deve guardare gli altri, non deve guardare indietro. E neppure avanti. Deve guardarsi dentro.

da Repubblica 4.3.13

"La frattura sociale che ha sconvolto la Repubblica", di Carlo Buttaroni

Non è vero che il terremoto elettorale ha origine solo nella crisi della politica. Mai come stavolta si è verificato uno scollamento tra generazioni e ha pesato la precarietà. Balzano agli occhi i consensi ottenuti dai 5 Stelle tra gli elettori più giovani e tra i disoccupati. Il che dimostra che la sfiducia verso la politica sono una chiave interpretativa non sufficiente.

Sono passati sette giorni dal terremoto che ha sconvolto l’Italia della politica. Un sisma fuori scala, il cui epicentro non è nel sistema dei partiti, ma nella società. Dalle urne è uscito l’urlo di una generazione cui è stato sottratto il futuro. Poteva manifestarsi nelle piazze. È esploso, invece, nei seggi elettorali, materializzandosi in un contesto di istituzioni molto fragili, logorate, indebolite. Soprattutto, incapaci in questi anni di trasformare questi segnali in un’azione riformatrice. La forza di quanto accaduto, e la potenza degli eventi, non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica. E nemmeno in Europa, per come si è manifestato e per l’impotenza che adesso avvolge le istituzioni democratiche.
Tutto è cambiato dalla manifestazione di Roma, a piazza San Giovanni, a 48 ore dal voto, e dalle tante piazze riempite nei giorni precedenti, con centinaia di migliaia di cittadini plaudenti. Da quelle piazze, e dai relativi collegamenti web, la dinamica non è stata più politica, non ha misurato più il consenso, ma ha assunto le dimensioni della partecipazione collettiva a un evento che avrebbe segnato la vicenda del nostro Paese. È stata la caduta di un «muro», del nostro muro, a spingere qualche milione di italiani a depositare il loro «mattone» nell’urna, come una testimonianza della propria presenza.
Solo partendo da qui si possono evitare analisi viziate dai vecchi paradigmi e da presupposti che appartengono a un passato spazzato via dalla crisi economica e dalla crisi istituzionale. Il fenomeno è molto più profondo di quanto è stato descritto nelle prime analisi post-voto. E solo la cecità di chi non vuol vedere può nascondere i detriti del mondo rovesciato in cui ci siamo scoperti a camminare. Non è stato un voto di protesta, ma molto di più: il distacco di due placche sociali, la deriva di una generazione dall’altra. Un quarto dei votanti ha scelto il movimento di Grillo. Ma non è tanto il numero che conta. Perché questo voto non ha una contabilità elettorale, ma quasi esclusivamente sociale. Nei seggi non è stata messo il segno su un simbolo, bensì premuto un pulsante di allarme disperato.
Lo si legge nel voto degli studenti e dei disoccupati. Lo si vede nella differenza dei gesti elettorali dei giovani e degli anziani, e nelle differenze tra chi riesce a preservare un briciolo di garanzie (come i lavoratori dipendenti) e chi, invece, queste garanzie non le ha mai avute e mai, probabilmente, le avrà. La velocità a terra del terremoto si vede dalla paralisi istituzionale, ma l’intensità si desume dai numeri: su 8,7 milioni di cittadini che, tra domenica e lunedì, hanno votato il Movimento 5 Stelle, oltre 2,5 milioni vengono dal centrosinistra, 3,1 milioni dal centrodestra e 2 milioni dall’astensionismo. 4,9 milioni di voti sono di elettori che, in passato, avevano votato i partiti dell’«esperienza Monti», mentre più di tre milioni derivano da quell’asse Pdl-Lega che ha segnato le vicende dell’Italia nell’ultimo ventennio.
In qualsiasi modo si scomponga e ricomponga, il voto segnala la potenza dell’evento. Cos’altro serve per capire che non si tratta di un voto che può essere letto soltanto attraverso le lenti del consenso politico? Ogni paragone con il passato non ha termini adeguati. La crisi politica del ’92, che portò, nelle elezioni politiche di due anni dopo, all’affermazione di Forza Italia, non è confrontabile. Il partito di Berlusconi nacque improvvisamente, ma sul «ground zero» del pentapartito (Dc, Psi e alleati). Oggi, il Movimento 5 Stelle si fa spazio tra le forze politiche esistenti, nonostante queste siano comunque in campo, e ben attrezzate, con i loro apparati del consenso. Un elemento in più che dimostra che l’unità di misura ha una scala sociale prima ancora che politica.
D’altronde per troppo tempo, nel profondo del Paese, si è accumulata un’energia distruttiva.
Dal 2001 l’Italia è uno dei Paesi che, dal punto di vista economico e sociale, cresce meno. Non in Europa, ma nel mondo. Facciamo un uso dissennato del suolo, abbiamo costruito su tutto e inquinato di tutto. Anziché ferrovie e ponti, abbiamo costruito cattedrali nel deserto. Abbiamo condonato ogni nefandezza e sanato ogni reato contro il bene pubblico. Abbiamo trasformato grandi elusori in eroi, facendo, invece, guerre sante contro i commercianti e gli artigiani. Conserviamo, per alcune categorie, privilegi e retribuzioni (e pensioni) alte, e per pareggiare i conti condanniamo alla povertà i giovani. Da decenni non abbiamo una politica industriale, incolpando di questo sindacati e lavoratori. Anziché finanziare riconversioni, ricerca e innovazione, dissipiamo enormi risorse pubbliche per accanimenti terapeutici nei confronti di settori produttivi saturi, vecchi, senza futuro. Non si investe più in scuola, cultura, conoscenza.
Abbiamo un sistema politico inadeguato, deformato dalla seconda Repubblica, e al tempo inconcludente. La sfiducia verso la classe politica, oltre che da fattori soggettivi, è stata accentuata dal distacco del Porcellume e delle sue liste bloccate. Monti, all’esordio, è sembrato un gigante, non per le sue politiche economiche ma perché, dopo il decennio berlusconiano, non ha dato una rappresentazione ridicola del Paese.
Se Tangentopoli ha rappresentato il punto di caduta della prima Repubblica, la seconda è finita anzitutto per l’impotenza della sua politica a cambiare davvero il Paese. Nell’ultimo ventennio si sono susseguiti governi molto diversi tra loro per qualità e per strategie, alcuni di questi governi hanno anche compiuto scelte importanti per l’Italia, tuttavia sono stati tutti governi sostanzialmente deboli, sempre ostaggi di qualcosa o di qualcuno, incapaci di portare a compimento le riforme profonde. Abbiamo avviato un percorso costituzionale per disporci verso il federalismo, ma lo abbiamo interrotto a metà. Abbiamo trasferito competenze ai territori, sottraendogli però le risorse necessarie a esercitarle. Di conseguenza, il federalismo è diventato un moltiplicatore della spesa pubblica. Siamo rimasti un Paese incompiuto, come i cavalcavia sospesi a metà su campi incolti. Non siamo riusciti a fare una legge elettorale, nemmeno di fronte alla minaccia del baratro. Eppure, ogni giorno, si annunciava la soluzione del rebus. Oggi il Paese paga le drammatiche conseguenze. Ci fosse stato il doppio turno, come in Francia, probabilmente racconteremmo un’altra storia, almeno dal punto di vista istituzionale. E la storia sarebbe diversa, e forse non così drammatica, anche se avessimo sistemi simili a quello inglese, o tedesco, o svedese. Invece, qui in Italia è la paralisi. Non sappiamo se ci sarà un governo in grado di raccogliere la sfida sociale che viene dalle urne. E intanto la crisi imperversa, bruciando i posti di lavoro, i redditi delle famiglie e la capacità produttiva delle imprese.
L’anno zero è veramente arrivato. E abbiamo scoperto che la crisi non riguarda solo l’economia. Dire che quello di domenica scorsa è stato una protesta «antipartitica» significa non aver capito nulla di quanto è accaduto. Nelle urne, pur nelle sue contraddizioni, è stata rappresentata un’idea di società che si rafforza nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, la sanità, l’assistenza ai più deboli, l’istruzione, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti.
E la politica tutta la politica, anche quella nuova si aggira ora disorientata tra masse di elettori che esprimono una sofferente geografia del consenso. Mentre il voto esprime il bisogno di un nuovo patto, una rifondazione che ispiri le scelte e le azioni pubbliche. Non rispondere a questo bisogno rischia di far esplodere in maniera ancora più forte la frattura sociale che si è manifestata nel voto. Sarebbe un errore cercare, adesso, l’alibi della protesta.Rischia di essere un grave errore anche per Grillo, che pure ha alimentato e si è alimentato di questo sentimento diffuso. Non è la protesta che serve al Paese, ma un colpo d’ali. E il Parlamento, o è in grado di esprimere un governo forte in grado di dare risposte, oppure è meglio per tutti che si torni velocemente alle urne. Occorre una politica che sappia farsi carico di quella volontà di rifondazione morale, civile ed economica che è stata depositata nelle urne. Non è più il tempo di soluzioni intermedie, rinvii e alchimie tattiche. Del resto, anche i mercati non faranno sconti, perché l’incertezza rischia di accendere una crisi che può far crollare l’intero impianto europeo.
Mai come adesso il Paese è un osservato speciale, perché da noi può partire un’epidemia in grado di diffondersi in tutto il continente. Occorre la consapevolezza che non ci sarà un secondo tempo. E soprattutto bisogna farla finita con la favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nelmomentoincuiagiscein una determinata direzione. Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che hanno preso la forma della grillo-ribellione, ne sentono la mancanza. Le pratiche chesimoltiplicanoaspiranoa teorie in grado di spiegarle e darne un senso, così come le buone idee hanno bisogno di un’operatività pratica capace di renderle reali e concrete. Il «liquidismo» che traspare da alcune analisi è nemico del futuro del nostro Paese. E per contrastarlo non occorre un uomo forte ma la forza del pensiero, condiviso, responsabile. Qualcosa che solo la buona politica può offrire.

da l’Unità 4.3.13

"La democrazia senza partiti", di Gad Lerner

PROTESO a realizzare il suo obiettivo dichiarato – cioè una democrazia senza partiti – Beppe Grillo ha garantito ai suoi elettori che, tanto per cominciare, questi partiti fra sei mesi non ci saranno più. Magari stroncandoli in un nuovo passaggio elettorale, che appare sempre più probabile.
Ieri i neoeletti rivoluzionari 5 Stelle hanno avviato i preparativi per aprire il Parlamento «come una scatoletta di tonno», all’apparenza incuranti della drammaticità del momento. Lui medita, soverchiato dall’immensa responsabilità che gli tocca. Ma finora, dall’esterno, ha concentrato la sua vis polemica nel tentativo di frantumare l’ultimo partito che in Italia mantiene una significativa struttura nazionale, cioè il Pd. Altro che dialogo, collaborazione, alleanze. Grillo non demorde: Bersani è «fuori dalla storia»; e «quando si aprirà la voragine del Monte dei Paschi di Siena forse del pdmenoelle non rimarrà neanche il ricordo». La sua intenzione, a meno di un ripensamento, è estrema: ridurre anche il Pd a mero agglomerato di potentati locali, come di fatto sono già le altre formazioni politiche.
Naturalmente s’impongono ottime ragioni per denunciare l’inadeguatezza burocratica degli apparati che sopravvivono alla crisi del sistema dei partiti. Lo stesso MoVimento 5 Stelle porta nelle istituzioni significative rappresentanze del solidarismo comunitario cresciuto in numerose vertenze territoriali, incomprese e respinte dalla forma-partito. Uno spirito civico, un’idea di pubblico, una spinta partecipativa che la politica non ha saputo riconoscere.
Ma resta, drammatica, la domanda: può esistere una democrazia senza partiti? O il vuoto che essi lasciano è destinato a essere riempito da un nuovo potere tecnocratico calato dall’alto? Se infatti è vero che la Repubblica italiana in sessantacinque anni non ha regolato l’articolo 49 della sua Costituzione, là dove prescrive che i partiti devono agire “con metodo democratico”, non è un caso che risulti altrettanto inevasa l’attuazione del successivo articolo 50: “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. Quando mai le Camere si sono aperte alla
legittima partecipazione dei cittadini?
Beppe Grillo non è un improvvisatore quando proclama, a pagina 79 del libro scritto con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio (Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere): “Noi vorremmo che i partiti scomparissero radicalmente”. E difatti prosegue: “Lo so, molti potrebbero domandare: ma in Parlamento se non ci sono i partiti chi ci sarà? Come può esistere un Parlamento senza i partiti? Ci saranno i movimenti, i comitati, tutte espressioni di esigenze che provengono dalla società civile”.
Prima di liquidarlo come velleitario utopista o, peggio, come eversore, dobbiamo riconoscere che il suo pensiero si inscrive in un filone movimentista di antica tradizione giacobina, anarchica, pansindacalista: da Saint Just a Bakunin, a Sorel. Per oltre un secolo i movimenti rivoluzionari sono stati percorsi da questa contrapposizione fra partiti e anti-partito che talora ha assunto forme violente. Da ultimo il leader 5 Stelle ha voluto richiamarsi a un testo del 1940 di Simone Weil, uscito postumo col titolo
Manifesto per la soppressione dei partiti politici.
Poco importa che la giovane pensatrice francese l’avesse concepito in polemica col totalitarismo stalinista, nell’ambito di un dibattito sulle forme organizzative che avrebbe dovuto assumere la Resistenza all’occupazione nazista. Né importa che quel suo richiamo assoluto ai principi della Rivoluzione francese, degenerata nel Terrore, e allo scetticismo antidemocratico di Platone, già avesse ispirato Maurras e i primi movimenti fascisti d’oltralpe. A Grillo interessa sostenere, con Simone Weil, che “ogni partito è totalitario in nuce”.
Per replicare all’idea M5S di una democrazia senza partiti, nei giorni scorsi è stato diffuso su Internet un filmato di Hitler che nel 1932 adoperava contro i partiti della Repubblica di Weimar un linguaggio molto simile a quello grillino: “Noi non siamo come loro! Loro sono morti, e vogliamo vederli tutti nella tomba!”. Ma sono schermaglie di scarso significato.
Sottoposto com’è a una sfida esistenziale, il Partito democratico, in special modo – per via delle sue finalità sociali e dello stesso nome che porta – non può ignorare il trauma dei legami recisi con tanti protagonisti di conflitti economici, ambientali e civili. Non può liquidare come fenomeno di destra la confusa aspirazione a far senza questi partiti così malridotti. L’errore madornale del Pd è stato quello di proporsi la conquista di un voto moderato del tutto esiguo, anziché farsi interprete della radicalità delle questioni etiche e sociali esplose nella Grande Depressione.
Salvaguardare il Partito democratico dal concreto pericolo di demolizione implica quindi una relazione aperta con il nuovo movimento antipartito. Fino ad aprirsi alle sue istanze partecipative che imporranno al Pd un ricambio generazionale e culturale del gruppo dirigente, oltre che una profonda mutazione organizzativa e di stili di vita. La difesa di una democrazia rappresentativa, come tale fondata sul pluralismo delle formazioni politiche, ma capace di dare voce nelle istituzioni alla partecipazione dei cittadini, nei prossimi anni si configura come l’unica risposta possibile ai diktat autoritari sempre in agguato, quando esplode la rivolta.
Se è vero, infatti, che il progetto di Grillo ha connotati teoricamente rivoluzionari, resta ben singolare la natura del suo movimento: a differenza di Occupy Wall Street e degli Indignados, fenomeni giovanili di critica radicale al sistema capitalistico, il M5S è stato concepito da due maturi benestanti. Sebbene abbiano già raccolto intorno a sé la maggioranza della generazione under 40 sacrificata dal sistema, per ora la instradano in una sorta di lunga marcia nelle istituzioni. Contrariamente alle intenzioni dichiarate da Grillo e Casaleggio, è probabile quindi che per loro sia segnato il destino di dar vita a un nuovo partito. Per l’appunto, la nostra democrazia sopravvivrà solo se dalle macerie nasceranno dei veri partiti democratici.

da la Repubblica

"Linguaggio grillino e Robespierre", di Massimo Adinolfi

Chi se la sente di proporre, nella prima seduta parlamentare utile del nuovo Parlalmento, un unico articolo in base al quale i membri in carica dell’Assemblea non possano essere rieletti nella successiva legislatura? Se mai ci fosse qualcuno che depositasse un simile disegno di legge, e tra i grillini uno lo si potrebbe scovare, il Parlamento italiano si caccerebbe in una situazione analoga a quella in cui si trovò l’Assemblea Nazionale, in Francia, un bel giorno del mese di maggio del 1791. Allora il progetto fu approvato, in mezzo ad entusiasmi e vivissimi applausi: cosa accadrebbe oggi non so. Anzi: non oso saperlo, perché il clima in cui cadrebbe non penso affatto che sarebbe pregiudizialmente ostile ad una simile proposta (controllo costituzionale a parte).
Il Movimento 5 stelle, per ora, si limita a chiedere che le legislature per ciascun parlamentare siano al massimo due, ma non trovo ragioni per cui non ci si dovrebbe piuttosto limitare ad una. A meno che, certo, non si considerino esperienza, continuità, solidità politica ed istituzionale come beni da salvaguardare. Ma tutto mi pare che i grillini apprezzino, meno che la permanenza in carica, o la stabilità e la durata della rappresentanza parlamentare. Perciò non mi meraviglierebbe l’adozione della stessa strategia che ispirò i passi di quel giovane avvocato di provincia che per primo ebbe, in quel tempo lontano, la brillante idea: Maximilien de Robespierre, l’Incorruttibile.
Gli storici sono abbastanza concordi nello spiegare i motivi che lo spinsero a presentare la proposta, guadagnandosi la guida dei democratici in seno all’Assemblea: con l’ineleggibilità dei membri in carica, Robespierre infragilì i processi politici e costituzionali, decapitò la classe dirigente dell’epoca e ne promosse un rinnovamento totale, guadagnò il favore popolare e acquistò fama di inflessibile censore. Non male, con un colpo solo.
Ora, ben lungi da me l’idea di fare paragoni impropri. Non voglio nemmeno riportare qui gli argomenti che Robespierre impiegò per convincere l’Assemblea, così singolarmente consonanti con quelli che si spendono oggi. E comunque voglio tranquillizzare tutti: quel Robespierre là non era ancora il Robespierre del Comitato di Salute pubblica e del Grande Terrore. Suppongo anzi che neppure lui sapesse quale corso gli eventi avrebbero preso. Il fatto è che però non riesco a convincermi che sia privo di senso riflettere non sulle intenzioni dei singoli (che sono sempre le più democratiche del mondo), ma sulla forza delle parole, la persistenza degli argomenti, e persino sulle conseguenze degli stili politici. Quando ad esempio ci si domanda se il Movimento Cinque Stelle possa mai dare un «appoggio esterno» a un «governo di minoranza», si può trascurare il fatto, mi domando, che espressioni come «appoggio esterno» e «governo di minoranza» non hanno mai potuto trovare né mai potranno trovare in futuro ospitalità nel blog di Beppe Grillo? Cosa accade se linguaggio, categorie, liturgie parla-
mentari e costituzionali perdono improvvisamente i loro nomi? Se ne troveranno altri, come no. Ma in quale cultura politica andremo a pescarli, quando la stessa espressione, «cultura politica», riesce del tutto indigeribile, polverosa, desueta?
Nel maggio del 1791 il corso della rivoluzione francese non era ancora tracciato. Molte cose dovevano ancora accadere, all’interno e all’esterno dei confini nazionali. E gli storici discutono accanitamente se non furono fatti degli errori, che favorirono la radicalizzazione giacobina (e, attenzione, il contraccolpo della successiva restaurazione termidoriana). Di nuovo, però: si prenda l’esempio per ciò di cui è esempio. E lo si utilizzi solo per formulare una domanda: riusciranno le istituzioni e la prassi parlamentare – le consultazioni, le votazioni, le mediazioni, le commissioni – ad inalveare il linguaggio grillino, riconducendolo entro i limiti di un’accettabile dialettica politica, oppure la primazia accordata alla rotazione degli incarichi del «cittadino deputato» (anche Robespierre aveva la fissa degli incarichi temporanei), il primato della diretta web e la religione dell’immediatezza travolgeranno ogni altra cosa? Hegel la chiamò «furia del dileguare»; il filosofema che usa Grillo è invece lo sputtanamento, ma si tratta ahimè della stessa cosa.
E non è una buona cosa. Soprattutto se poi tutta questa enfasi su democrazia e partecipazione si dovesse risolvere non nel sapere come si comporterà in Aula la rappresentanza Cinque Stelle, ma cosa mai diranno Beppe Grillo e Roberto Casaleggio. I quali, per l’intanto, serrano le file ammonendo tutti gli eletti di quali siano i vincoli statutari del Movimento. Proprio come l’avvocato di Arras, per il quale il mandato parlamentare doveva essere ferreamente vincolato e soggetto alla costante vigilanza popolare. Ora che c’è la Rete, Robespierre, lui, sarebbe lieto di scoprire che si può fare. (Io, un po’ meno).

da l’Unità

"L’ambiguità del leader tra annunci e smentite", di Mattia Feltri

Il punto di forza di Grillo resta l’asimmetria comunicativa. Comunica con tutti, ma nessuno può parlare a lui

Tutti impazziti, come dice Petra Reski, giornalista tedesca di Focus. Ognuno alla frenetica ricerca del segnale giusto, ognuno smarrito nell’approccio a un movimento che sovverte l’ordine costituito nel rapporto dei leader coi leader, dei leader con la stampa, per non dire dello sbigottimento nell’apprendere che i leader del MoVimento 5 Stelle sono non-leader, sebbene andranno alle consultazioni (senza non) con Giorgio Napolitano. Un’ambiguità che fa impazzire tutti. Beppe Grillo si ritrova a smentire l’intervista con la Reski e la Reski stessa smentisce l’interpretazione che è stata data della sintesi del suo sito. Cioè, scrive in mattinata l’ Ansa attribuendo le parole a Grillo, «se il Pd di Pierluigi Bersani e il Pdl di Silvio Berlusconi» proponessero un cambiamento immediato della legge elettorale, l’abolizione dei rimborsi elettorali e introducessero il tetto di due legislature per deputato, «noi sosterremmo naturalmente subito un governo del genere. Ma non lo faranno mai». Qualcuno, e neanche molti, decifra l’editto come una disponibilità a fare il governissimo. Grillo si infuria. La giornalista di Focus pure: «Mi sembrano tutti impazziti». E specifica ripetendo però a fotocopia le parole dell’ Ansa. Rimane un dubbio: quel sosterremo sta per «voteremo la fiducia» o «voteremo i provvedimenti»? Dettagli, in fondo. Nell’uno e nell’altro caso, non verrebbe da giurare che l’ultima posizione di Grillo sia però coincidente con quella di martedì: «Faranno un governissimo pdmenoellepdielle. Noi siamo l’ostacolo».
L’introduzione di un sistema asimmetrico di comunicazione – Grillo parla a tutti ma nessuno può parlare a Grillo, anche perché lui ufficialmente non è incaricato di nulla – complica ulteriormente le cose. Per esempio, che peso dare alle certezze di Dario Fo, sostenitore del MoVimento di cui per qualche ora è stato nientemeno che il candidato al Quirinale, quando dichiara «so che lui ci sta» a Otto e mezzo? La domanda di Lilli Gruber era: Grillo farà nascere il nuovo governo proposto da Bersani? Che interpretazione dare agli ottimismi di Adriano Celentano che l’indomani afferma: «Grillo non è un irresponsabile, e appoggerà un governo qualunque forma abbia» (purché adotti anche i punti del suo programma)? Un enigma. E nel frattempo Grillo scrive sul sito o affida a occasionali telecamere le sue ultime riflessioni. «Non è il momento di parlare di alleanze», dice alle 15.31 di martedì, quattro minuti prima di parlare di alleanze: «Il MoVimento non si allea con nessuno». L’indomani: «Noi non stiamo alla finestra: entriamo. Ma inciuci e inciucetti e accordi non ne faremo». Gli stessi accordi che ieri, nella versione vidimata da Focus, ricompaiono.
Siamo davanti a un MoVimento con un non-Statuto e senza leader, dove uno conta uno, e però se quell’uno (Viola Tesi, elettrice di M5S) lancia un appello a valutare l’alleanza col Pd, e raccoglie 140 mila adesioni, è un uno che non conta. Non conta il deputato lombardo Ferdinando Alberti che si dice «orientato» a votare la prima fiducia. Non conta il deputato Alberto Zolezzi che vorrebbe accordarla «a un governo di scopo» (più o meno quello che ha detto Grillo a Focus ). Non conta la senatrice Serenella Fuksia: «Se ci sono convergenze, posso votare la fiducia a Bersani». Tutti impazziti, naturalmente. Stavolta lo dice Grillo: «Il MoVimento non darà alcun voto di fiducia». Né inciuci né inciucetti. A meno che: «Se proprio ci tengono alla governabilità, possono sempre votare loro [Pd e Pdl] la fiducia al primo governo targato M5S». Viene il mal di mare. Perché poi ogni spiffero esce sul sito, viene dettagliato in streaming su twitter, precisato da Gianroberto Casaleggio al Guardian: «Il M5S voterà per tutto ciò che è parte integrante del suo programma». Il famoso modello-Sicilia. «Il modello Sicilia è meraviglioso», dice anche Beppe Grillo. La fibrillazione è totale perché in Sicilia i deputati grillini non fanno opposizione pregiudiziale, e persino votano qualche provvedimento del presidente Rosario Crocetta. Il quale, però, una maggioranza ce l’ha, tenuta assieme con lo spago ma ce l’ha, e non ha bisogno del MoVimento per sopravvivere. Che c’entra il modello-Sicilia con l’ansiogeno stallo romano? Niente di niente. E però mezzo Pd ci si aggrappa, aggiungendo caos al caos. E un dubbio: ma Grillo se la sta spassando o è proprio così?

da La Stampa

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Roma, blindato il summit dei neoeletti. Località segreta, negata la diretta sul web: “Ma non è il capo che decide per noi”
Grillini sull’orlo di una crisi di nervi. Il gioco non è ancora iniziato, ma serve uno psicoterapeuta per evitare il collasso. Fisico e mentale. Favia: «Obbediranno, manca la caratura morale per dissentire»
di Andrea Malaguti

Grillini sull’orlo di una crisi di nervi. Il gioco non è ancora iniziato, ma serve uno psicoterapeuta per evitare il collasso. Fisico e mentale. La fusione. La follia. Lo scontro. Pressione furibonda. Responsabilità da schiantare un toro. Non era poi così male essere gente comune. Com’è stata questa vigilia del famoso incontro romano? Davvero valeva la pena farsi travolgere da questa onda velenosa, altissima, senza fine, fatta di domande, spernacchiamenti, diffidenza, ammiccamenti, proposte indecenti e insulti, attese e speranze in cambio di 2500 euro al mese da intascare per il bene delle Patria?
Il primo conclave della nuova era moVimentista si apre oggi pomeriggio nella Capitale promettendo di durare tre giorni. E i 162 neoparlamentari in arrivo da ogni angolo della Penisola hanno scelto la formazione a testuggine. Nessuna diretta streaming. La glasnost stavolta non funziona. Chiusi, compatti, in difesa davanti alle pressanti richieste del Paese – a chi date la fiducia? – in attesa di capire come comportarsi col Capo. Tutti barricati in una segreta Cappella Sistina. «E se qualcuno svela dove siamo lo cacciamo a calci in culo. In questo momento dobbiamo guardarci in faccia tra noi». Sono in pochi a parlare. Dopo che una mail interna ha consigliato il basso profilo. Nervosi come la jesina Donatella Agostinelli, che all’ennesima domanda sulla libertà di pensiero («Avete un cervello o lo avete ceduto in comodato d’uso a Grillo e Casaleggio? ») comprensibilmente sbotta: «Per i giornali sembra che siamo pecorelle al seguito del capo, ma non è lui che sceglie per noi».
E’ uno strano piscodramma. In cui il Guru Beppe Grillo – atteso assieme a Gianroberto Casaleggio soltanto domani – vorrebbe sentirsi rassicurato dalla base e la base vorrebbe avere la libertà di esprimersi senza il timore di sentirsi pericolosamente lontana da una linea che nei fatti non esiste. Inutile contestare. Il regolamento è chiaro. «Chi non gradisce gli obiettivi è pregato di farsi da parte». Gode Giovanni Favia. Dissidente suo malgrado. Delfino del Sovrano fino all’espulsione e conseguente inutile trasferimento nelle liste Ingroia per avere insinuato che tra i 5 Stelle non c’è democrazia. «Vedrete che i neoletti obbediranno agli ordini. Manca la caratura morale per dissentire», butta lì con l’autorevolezza di una segretaria di Mao. Ma perché chi è d’accordo con Bersani nel Pd è uno serio e chi la pensa come Grillo nel MoVimento è una mammoletta? Misteri. Che il clima generale non aiuta a risolvere. «Non siamo burattini, condividiamo la linea. Non sono capacità divinatorie. Lavoriamo insieme da molto tempo», insiste Carla Ruocco.
Solo gli uomini più vicini al papa ligure sembrano estranei all’impazzimento. L’avvocato Alfonso Bonafede passa il sabato nella sua casa in Toscana. Accende il cellulare solo per controllare i messaggi. E spiega candidamente di non avere idea di dove si terrà l’incontro. «Un paio di colleghi passano a prendermi in macchina domani e mi portano a destinazione. Queste fibrillazioni sono frutto della pressione, ma appena ci incontreremo avremo la forza di indicare un’agenda. E’ sempre stato così». Da alcuni giorni si sveglia con immagini fuggitive che non si prende la briga di inseguire. «Il programma c’è. Pensare a un’alleanza con Bersani non si può. E con Berlusconi tanto meno. Però possiamo discutere di temi specifici». In sintonia, ma meno serafica, la riminese Giulia Sarti. «Bersani se la può scordare un’alleanza. Non è colpa nostra se si è creato questo stallo». Ha 26 anni. E per un pezzo ci ha creduto nella sinistra classica. Ora le fa quasi male dire certe cose. Ma se non taglia di netto il cordone ombelicale le amarezze le resteranno dentro come fango nero. Come poltiglia. Ieri sera, dopo duecento telefonate – è svenuta mentre stava tenendo l’ennesima conferenza sul futuro. I suoi genitori le hanno detto: Giulia, ora basta. Lei si è rimessa in piedi. «Non riesco a pranzare con loro da una settimana. E’ il momento di farsi forza. Ci è arrivata addosso una valanga. Non è vero che sfuggiamo al confronto, abbiamo solo bisogno di respirare. E chi parla prima della riunione romana rischia di dire cose a vanvera».

da La Stampa

"Bersani corruzione al primo punto", di Simone Collini

Il segretario Pd al lavoro sugli otto punti del programma del «governo di scopo». «Non farò mai un governo, di qualunque natura, fondato sulla alleanza tra noi e il Pdl»

Punto numero uno: norme anticorruzione. E poi una legge sui partiti che affronti i temi della democrazia interna, della trasparenza, della partecipazione. Pier Luigi Bersani tira dritto sulla linea annunciata all’indomani del voto, insiste nei colloqui che ha in queste ore che il Pd non sosterrà un governo insieme al Pdl «mai, in nessuna forma» e inizia a mettere nero su bianco gli otto punti attorno a cui, dovesse ricevere l’incarico da Giorgio Napolitano, intende costruire un governo di scopo e chiedere la fiducia delle Camere. Mercoledì, alla Direzione del Pd, chiederà un voto mettendo sul piatto le otto leggi da approvare in tempi rapidi per realizzare quel «cambiamento» che in tanti si limitano soltanto ad evocare a parole. A cominciare da Beppe Grillo.
Proprio per sfidare il leader del Movimento 5 Stelle, già all’indomani della Direzione Pd Bersani farà pubblicare sul sito web del partito il testo delle otto proposte di legge, che a quel punto servirebbero da base per una discussione pubblica tra sostenitori ed eletti dei diversi partiti. Il documento in otto punti, su cui Bersani conta di incassare il via libera mercoledì per poi compiere da una posizione di forza i passi successivi, a cominciare dalle consultazioni al Quirinale, fa riferimento all’Europa (dall’austerità alle misure per la crescita), a una legge sull’anticorruzione, al conflitto d’interessi, al dimezzamento del numero dei parlamentari, alla riduzione dei costi della politica, a un nuovo sistema elettorale, a norme per l’occupazione e alla green economy. Proposte su cui il Pd intende poi avviare anche una mobilitazione, sfidando Grillo a confrontarsi sul merito delle questioni.
Non è casuale che il primo provvedimento di legge che sarà annunciato da Bersani riguarda proprio l’anticorruzione. Per due motivi. Da un lato, Grillo dovrebbe giustificare il no a un governo che intenda approvare in tempi rapidi una legge di questo tipo. Dall’altro, è proprio la legge sull’anticorruzione approvata dall’esecutivo Monti che dimostra che non è più pensabile di andare avanti con un governo sostenuto dai voti di Pd e Pdl, che su questioni fondamentali sono attestate su posizioni antitetiche. Se si vuole un vero cambiamento, sostiene Bersani, non è possibile proseguire o riprodurre, mutatis mutandis, l’esperienza appena vissuta con il governo tecnico. Il leader del Pd sa, anche perché tra democratici e M5S sono stati aperti dei canali di comunicazione, che Grillo farà di tutto perché nasca un nuovo governo sostenuto dalla famosa «strana maggioranza». Ma Bersani mette in chiaro che per quanto lo riguarda «mai nascerà un governo sostenuto da Pd e Pdl, quale che sia la forma proposta». E sfida Grillo sul suo stesso terreno: «Non m’impressiona, ho le spalle abbastanza solide per sopportar tutte le battute e gli insulti. Gli pongo una sola questione, che si chiama democrazia. Io voglio fare una legge sui partiti e sono pronto a discutere del finanziamento ai partiti dice il leader Pd in un’intervista a “Presa diretta” che va in onda stasera però Grillo spieghi, quando facciamo la legge sui partiti, com’è la trasparenza e la partecipazione, come si eleggono gli organismi dirigenti, com’è il codice etico per le candidature».
Bersani intende insomma andare avanti in questa strategia che è comunque una sfida a Grillo e che renderebbe complicato, per i parlamentari M5S, dire no a un governo che voglia approvare leggi invocate da loro stessi. Nel Pd però non tutti condividono la strategia del segretario. Walter Veltroni ha rilasciato un’intervista al “Corriere della Sera” in cui sostiene che «l’unica strada è un governo nato dall’iniziativa del presidente della Repubblica, che senza una maggioranza precostituita vada in Parlamento a cercare il consenso su un programma di riforme». E anche Matteo Renzi ha espresso delle perplessità sulla linea del segretario.
Bersani, in Direzione, spiegherà perché un governo di scopo guidato dal Pd è l’unica soluzione possibile in questa situazione e perché senza la rappresentanza parlamentare democratica non possa avvenire nulla di alternativo. E alla fine chiederà un voto. Bisognerà vedere che atteggiamento manterrà, mercoledì, chi contesta la strategia del segretario. Stando alle voci della vigilia non ci dovrebbero essere fratture e Bersani potrà incassare, magari con qualche assenza al momento delle votazioni che si farà notare, un via libera per proseguire su questa strada.
Una volta realizzata la precondizione per proseguire, Bersani potrà andare alle consultazioni al Colle auspicando di ottenere l’incarico. Il leader del Pd sa, perché ha avuto con lui un colloquio telefonico martedì, che Giorgio Napolitano non vede di buon occhio mosse azzardate e auspica invece proposte che assicurino la governabilità. Però Bersani è determinato ad andare avanti, convinto com’è che alternative al governo di scopo non ci sono.

da L’Unità

"Quei punti d'intesa nella Costituzione", di Salvatore Settis

La spietata eloquenza dei numeri azzera la retorica liquidatoria che fino a ieri bollava di “antipolitica” ogni sillaba di ogni grillino e porta il Movimento Cinquestelle, divenuto il primo partito italiano, al centro della politica. «Antipolitica, parola violenta e disonesta», ha scritto Gustavo Zagrebelsky in queste pagine; violenta specialmente in bocca a chi ha sdoganato in passato, in nome della Realpolitik, indiscussi campioni dell’antipolitica come Berlusconi e la Lega. Oggi i numeri del Senato impongono la scelta fra due strade: la prima è l’abbraccio mortale con Berlusconi per un cosiddetto governissimo che sarebbe un governicchio incapace di gestire non dico la crisi ma l’ordinaria amministrazione, in una legislatura breve destinata a finire rovinosamente sfociando in nuove elezioni con Grillo sopra il 50%. La seconda, verso la quale si registrano faticose aperture, è una maggioranza d’obiettivo Pd-5Stelle. Ezio Mauro ha detto quale dovrebbe essere il programma, peraltro obbligato, di un’alleanza come questa: nuova legge elettorale, drastiche misure contro il conflitto di interessi, riduzione dei costi della politica, revisione del bicameralismo perfetto; Stefano Rodotà ha aggiunto diritti delle persone e beni comuni.
Su questo terreno è possibile una convergenza tattica di breve periodo, se il piano è di eleggere i presidenti delle Camere e il Capo dello Stato, affrontare il menu delle riforme e tornare al voto. Sarebbe una maggioranza fragile, afflitta da mutue diffidenze, potenzialmente rissosa. E assediata da Berlusconi e da montiani con voglie di rivalsa. Gettando il cuore oltre l’ostacolo, è dunque il caso di chiedersi se non sia possibile cercare un terreno d’intesa strategica più ampio e radicale. La prima mossa per farlo è una pratica abbandonata, una virtù desueta: quella dell’autocritica. Il Pd sembra specialmente allergico a qualsiasi analisi dei propri errori, dalla Bicamerale all’incondizionato appoggio al governo “tecnico”, che ha ridotto lo spread al costo di paralizzare il Paese, accrescere la disoccupazione e il disagio sociale, mettere in campo un nuovo partitino di destra. Ma il fallimento di una campagna elettorale che si è afflosciata subito dopo le primarie, quasi che fossero più importanti delle elezioni nazionali, dovrebbe far riflettere. Milioni di italiani (anche chi ha votato Ingroia) hanno dichiarato col voto di non poter più seguire un Pd il cui progetto per il futuro si fonda sull’obbedienza al Volere dei Mercati (ripetendo fedelmente le giaculatorie di Monti). Grillo e i suoi, molti ripetono, non hanno cultura di governo; sanno dire solo dei no, vogliono spaccare tutto all’insegna di una generica indignazione civile, non hanno un vero programma. E se invece i formidabili anticorpi spontanei contro il sistema che hanno raccolto più di otto milioni di elettori intorno al Movimento 5Stelle avessero un dna comune, una matrice riconoscibile, da cui possa partire una vera proposta di governo? E se il Pd, dopo la vittoria di Pirro che deve ancora digerire, ritrovasse in quello stesso dna qualche ragione di riflessione su se stesso, sull’Italia, sul futuro? Questo terreno comune esiste, nonostante lo sforzo di auto-accecamento che ci impedisce di vederlo: si chiama Costituzione.
Negli ultimi decenni si è aperto un baratro fra i principi della Carta fondamentale e le pratiche di governo. Nella Costituzione troviamo scritta la sovranità popolare, il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto alla cultura, il precetto di orientare l’economia e la proprietà secondo il principio supremo dell’utilità sociale (cioè del bene comune). Troviamo un orizzonte dei diritti, mai pienamente attuato, per cui possiamo dire con Calamandrei che «lo Stato siamo noi». Lo Stato, non i governi. Perché i governi hanno fatto il contrario: hanno smontato lo Stato, ridotto lo spazio dei diritti, svenduto le proprietà pubbliche, anteposto il guadagno delle imprese al pubblico interesse, promosso la macelleria sociale (l’espressione è di Mario Draghi) e la creazione di “generazioni perdute” di giovani. In nome di una concezione miserabile dell’economia come cieca obbedienza alle manovre della finanza, genuflessione ai mercati, concentrazione della ricchezza e pauperizzazione dei più, la democrazia è stata sospesa e mortificata, sono cambiate le regole della politica. “Politica” è il pubblico discorso fra cittadini, che ha come fine la pubblica utilità, come strumento il governo, come regola la democrazia. “Antipolitica” è regolare le sfere vitali della comunità (economia, società, etica) sfuggendo alle regole della democrazia, ponendo l’impersonale supremazia dei mercati al di sopra di ogni istanza di giustizia, di libertà, di eguaglianza. I cittadini che protestano contro tanta violenza, anche se in modo scapigliato e informe, hanno più voglia di politica di molti che la fanno per mestiere, storditi dai tatticismi di partito. Associazioni e movimenti reclamano più (e non meno) politica, cioè una più alta, forte e consapevole voce dei cittadini. Questo è il senso del travolgente referendum sulla proprietà pubblica dell’acqua, questo è (lo ha scritto in queste pagine Barbara Spinelli) il senso del successo-tsunami del Movimento 5Stelle.
Una forte iniezione di Costituzione nelle ragioni dei movimenti non ne cambia le istanze di fondo, le rafforza. In nome della Costituzione, gli anticorpi spontanei che si manifestano oggi nell’indignazione e nel voto (e domani potrebbero diventare barricate e sommosse) possono prendere coscienza del drammatico gap fra orizzonte dei diritti e pratiche di governo. Possono provare a sanare questo gap non chiudendo gli occhi davanti ai problemi (per esempio il debito pubblico), ma cercandone la soluzione in nome non solo dei mercati ma dell’utilità sociale (per esempio colpendo l’evasione fiscale). Con lo Stato contro i governi: questa lettura del “voto di protesta” (o delle astensioni) passa attraverso la legalità e la Costituzione. Ci ricorda un antico principio del diritto romano (resuscitato in alcune recenti Costituzioni, per esempio in Brasile), l’azione popolare,
e cioè il diritto dei cittadini di agire in giudizio, in nome della legalità, contro governi e pubbliche amministrazioni che non la rispettino. Misurare i drammi dell’economia sul metro della Costituzione, cercarvi soluzioni graduali tenendo l’ago della bussola fisso sul bene comune, principio supremo che informa ogni parola della nostra Carta fondamentale. Su questo terreno comune, perché non potrebbe formarsi oggi una maggioranza di governo un po’ più coraggiosa, un po’ meno fragile?

da la Repubblica