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“Misura e senso di responsabilità” l’appello di Napolitano ai partiti, di Umberto Rosso

Dal Capo dello Stato no a “categoriche determinazioni di parte”

Raccomanda «misura, realismo e senso di responsabilità ». Chiede di evitare «premature categoriche determinazioni di parte». E si riserva «ogni autonoma valutazione» quando dopo la consultazioni si tratterà di affidare l’incarico di governo. Tirate le somme, insomma, deciderà lui in piena libertà. Giorgio Napolitano, appena rientrato dalla difficile missione in Germania, lancia un forte richiamo ai partiti impegnati in uno scontro durissimo alla ricerca di una maggioranza che non si intravede. Si rivolge a tutti, però nel mirino del capo dello Stato sembra esserci da un lato il braccio di ferro dei grillini e dall’altro le parole di Bersani, che si è candidato a guidare il governo con un esecutivo di minoranza e chiudendo la porta a larghe intese col Pdl. Dietro le quinte, il capo dello Stato nei suoi colloqui riservati con tutti i leader politici, condotti al telefono anche durante la visita a Berlino, aveva raccomandato calma e gesso, per evitare di restringere con ipotesi secche ed esclusioni “a tavolino” un sentiero per la nascita del governo che è già strettissimo. Ma visto che l’invito non è stato raccolto da tutti, ecco che il capo dello Stato lancia un avvertimento pubblico, decidendo di intervenire apertamente per fermare la rincorsa a candidature, autocandidature e scenari in libertà.
«Al mio rientro dalla Germania – si legge dunque nella nota ufficiale del Quirinale – ho potuto prendere meglio visione delle prese di posizione apparse sulla stampa italiana in ordine alle prospettive post elettorali». Sono state affacciate, sia da analisti e commentatori sia da esponenti politici, «le ipotesi più disparate circa le soluzioni da perseguire». Napolitano ribadisce «attenzione e rispetto» per ogni libero dibattito. Però, «nel riservarmi ogni autonoma valutazione nella fase delle previste consultazioni formali con le forze politiche rappresentate in Parlamento», ecco la raccomandazione che il capo dello Stato si «permette» di avanzare a tutti i soggetti politici in campo: «Misura, realismo, senso di responsabilità anche in questi giorni dedicati a riflessioni preparatorie ». C’è un dovere sopra ogni altro, che vale per tutti: «Salvaguardare l’interesse generale e l’immagine internazionale del Paese, evitando premature categoriche determinazioni di parte ». E quanto il rischio caos possa minare la credibilità del nostro paese, il capo dello Stato lo ha appena verificato di persona in Germania, con giornali e alcuni leader politici scatenati contro i «due clown» Grillo e Berlusconi. Dunque l’invito di Napolitano è di non andare al muro contro muro, di cercare soluzioni ampie e senza formule precostituite, in questi giorni di trattative che precedono le consultazioni al Quirinale (e che potrebbero essere anticipate di qualche giorno, già lunedì 18 marzo, se le Camere si insedieranno prima). Peraltro, con un rebus “formale” ancora da sciogliere sulla presenza di Grillo nella delegazione del M5S che salirà al Colle, visto che il capo dello Stato ascolta i capigruppo, e il leader del movimento non è nemmeno parlamentare. Ma, a richiesta, il Quirinale non chiuderà la porta al capo del movimento che ha incassato otto milioni di voti.
Parole, quelle del presidente della Repubblica, accolte con soddisfazione dal Pdl. «Un saggio richiamo al realismo», le definisce il capogruppo al Senato Gasparri. Polemico Antonio Ingroia: «Un appello che rischia di essere tradotto dai partiti in un invito al governissimo, ad un ennesimo inciucio».

da la Repubblica

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“I paletti del Colle per l’incarico. Non esistono governi di minoranza. La maggioranza deve essere vera”, di Francesco Bei

Altrimenti un esecutivo del presidente. Bersani: niente inciuci. E di un esecutivo che non si regga sulle assenze o sui voti dati caso per caso.
Rientrato dalla Germania, Giorgio Napolitano ha iniziato a ragionare su come uscire dalla palude del risultato elettorale, con le tre forze principali — M5S, Pd e Pdl — quasi impossibili da coalizzare e l’una contro l’altra armate. L’imperativo comunque è riuscire nell’impresa, senza accedere minimamente all’ipotesi di tornare al voto, perché «un governo bisogna farlo». Così, nelle conversazioni di queste ore, il Presidente sta intanto mettendo nero su bianco i (pochi) punti fermi che guideranno la sua azione nella nuova fase che si apre. Intanto c’è da affrontare la questione Bersani. In quell’invito a evitare «premature categoriche determinazioni di parte», rivolto ieri a tutto l’arco politico, Napolitano in realtà ha voluto farsi intendere soprattutto dal Pd e da Grillo. Il monito era indirizzato al leader di M5S per i suoi anatemi contro tutto e tutti. Ma anche a Bersani, per via della direzione di mercoledì prossimo, che rischia di restringere troppo il perimetro d’azione del Quirinale con un voto che vincolerà il Pd su un no assoluto alla collaborazione con Berlusconi.
Dunque Bersani. Il capo dello Stato non esclude affatto di potergli affidare in prima battuta, in quanto leader della coalizione di maggioranza alla Camera, il compito di formare il governo. Sarebbe in quel caso un «governo di scopo», che per Napolitano dovrebbe avere essenzialmente due obiettivi: 1) garantire gli impegni e la permanenza dell’Italia nell’Unione europea; 2) riformare la legge elettorale. Ma se Bersani, bloccato dal veto di Grillo&Casaleggio e chiuso alla collaborazione con il Cavaliere, non dovesse farcela, cosa accadrebbe? Il segretario del Pd non potrebbe sciogliere la riserva e Napolitano non lo manderebbe a schiantarsi a palazzo Madama a fari spenti. A quel punto l’incarico passerebbe a un altro. Niente nomi naturalmente, ma al Colle si usa una formula precisa: sarebbe «un governo del Presidente a responsabilità parlamentare». È questa la vera carta di riserva.
Se al Quirinale Napolitano si prepara ad affrontare la curva più pericolosa del suo settennato, al quartier generale democratico anche Bersani è consapevole di giocare la partita della vita. «So bene che la strada è stretta — confida agli amici il leader democratico — ma deve essere chiaro che il mio partito con Berlusconi non ci sta. Punto. Un governo sostenuto da noi insieme al Cavaliere sarebbe disastroso per la nostra gente: siamo davanti a una crisi sociale fortissima e servono risposte radicali. L’agenda parlamentare che si apre deve tenerne conto». Insomma non è più il tempo di compromessi al ribasso con il Pdl, come quelli defatiganti che hanno impegnato Monti sul ddl anticorruzione. E proprio la questione morale – con lo scandalo dei tre milioni all’ex senatore Sergio De Gregorio – è l’esempio più eclatante con cui Bersani spiega in queste ore ai suoi interlocutori, fuori e dentro il partito, perché sia «impossibile» trovarsi sulla stessa sponda del Pdl: «Sui giornali è emerso un caso clamoroso di corruzione parlamentare che portò alla caduta del governo Prodi e adesso, in questo Parlamento, c’è una maggioranza per portare a casa una doverosa e severa legge anticorruzione. I CinqueStelle la vogliono fare? O vogliono perdere questa occasione? ». E se la propaganda grillina insiste sul fatto che il Pd poteva pensarci prima, il segretario s’inalbera: «No, la maggioranza prima ce l’aveva Berlusconi! Vogliamo passare dalle parole ai fatti? Questa legge possiamo farla subito». Dunque in direzione, mercoledì prossimo, Bersani presenterà un piano di governo e la legge anticorruzione sarà il punto numero uno. «Tutti — ripete ai collaboratori — si devono togliere dalla testa che noi facciamo l’inciucio. Anche perché comunque si tornerà al voto in tempi brevi e noi la pagheremmo tantissimo ». Anche Napolitano, impegnato a trovare una maggioranza, «dovrà capire che noi con il Pdl comunque non ci andiamo ». E su questa barricata Bersani trova anche Nichi Vendola e Bruno Tabacci a dargli man forte. Intanto non se ne sta con le mani in mano. Circola infatti la voce che sarebbero in campo almeno setto-otto “pontieri” per trovare un dialogo con Grillo.
Se finora tutti hanno dato per scontato un appoggio dei senatori centristi a un governo guidato dal Pd, da ultimo anche Mario Monti ha iniziato a chiarirsi le idee su come procedere. Il leader di Scelta Civica resta in silenzio ed evita accuratamente di mettersi nella linea di tiro di Grillo o di Berlusconi. Ma una cosa il Professore, nell’ultima riunione del gabinetto di Scelta Civica, se l’è lasciata sfuggire: «Non è affatto detto che daremo la fiducia a un governo Pd-Grillo». Insomma, «non c’è nulla di scontato».

da la Repubblica

"L'eredità del governo tecnico per la scuola", di Anna Maria Bellesia

Alla faccia (di bronzo) di chi in campagna elettorale metteva sul piatto nuovi investimenti nell’istruzione! Chiusa la parentesi elettorale, in cui si è fatto a gara nel promettere “mari e monti”, si ricomincia con l’austerity che ci chiede l’Europa

Riassumendo le ultime news, queste sono le sorti magnifiche e progressive per la scuola italiana e per chi ci lavora.

Operazione n. 1: avanti tutta con la spending review. Stipendi congelati fino al 2014 per gli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici (le retribuzioni sono ferme dal 2010 mentre tutto il resto è aumentato); nessuna possibilità di recupero di incrementi contrattuali eventualmente previsti a decorrere dal 2011; nessun riconoscimento dell’indennità di vacanza contrattuale anche per gli anni 2013 e 2014; per il personale della scuola, confermato il blocco degli scatti di anzianità anche per il 2013. E qualora si arrivasse ad un rinnovo contrattuale, ci saranno da “assicurare” livelli di produttività e di qualità adeguati ai fabbisogni. Insomma dietro l’angolo si intravede solo l’incremento del lavoro, ma non del salario. Lavorare di più, prendendo di meno, per tutta la vita: è la formula della realpolitik dell’attuale governo tecnico, che ci dovremo forse tenere ancora un po’.
Operazione n. 2: l’autofinanziamento. La scuola italiana ha bisogno di risorse: è necessario ridurre/abbattere la dispersione, personalizzare la didattica, innovare, aggiornare, potenziare l’autonomia, garantire un minimo di organico funzionale. Prima si è provato con le riforme epocali rigorosamente a costo zero (l’ultima delle quali è il previsto sistema nazionale di valutazione, dalla cui attuazione “non derivano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”). Adesso però ci rende conto che qualche euro in più bisogna metterlo. C’è una sola soluzione possibile per trovare le risorse: ridurre di un anno il percorso degli studi.
L’ipotesi è indicata come “priorità” dal ministro Profumo nell’Atto di indirizzo per il 2013, pubblicato il 28/2/2013, con la motivazione di “adeguare la durata dei percorsi di istruzione agli standard europei”. A fine gennaio erano trapelate le prime indiscrezioni circa le proposte studiate dalla Commissione incaricata dal ministro per rendere fattibile l’operazione. Inutile obiettare che in Europa meno della metà dei Paesi pone la terminalità degli studi a 18 anni, né osservare che il taglio di un anno del percorso scolastico comporta per forza livelli di competenza inferiore per gli studenti.
Non c’è argomento che tenga di fronte a quella montagna di risparmi calcolati in 1.380 milioni di euro nel giro di qualche anno. Ancora una volta la scuola finanzia se stessa. Nell’Atto di indirizzo è scritto chiaro e tondo: “Occorre superare la maggiore durata del corso degli studi in Italia procedendo alla relativa riduzione di un anno in connessione anche alla destinazione delle maggiori risorse disponibili per il miglioramento della qualità dell’offerta formativa, ampliando anche i servizi di istruzione e formazione”. Liberare risorse è insomma l’unico modo per reinvestirle.
Missione incompiuta. Intanto, dopo oltre un anno di governo tecnico “salva-Italia”, il popolo italiano è sempre più stremato dalla crisi e pessimista. Di fronte ai numeri di chi mensilmente perde il lavoro (110mila unità nel solo mese di gennaio), avere uno stipendio pur bloccato dal 2010 è diventato un privilegio più che un diritto. I giovani, con o senza titolo di studio, il lavoro non lo trovano: il 38,7% è senza, gli altri si adattano a lavori a tempo determinato o a part time. Avere una laurea serve meno che avere il solo diploma.
Le indagini economiche e sociali (Censis – Eurispes) fotografano un Paese in cui il fronte ufficiale del disagio profondo è arrivato a coinvolgere circa 16 milioni di persone. I ceti medi, sui quali si fondava fino a qualche anno fa l’economia del nostro Paese, sono “in caduta libera” verso l’impoverimento e la proletarizzazione. Sta crescendo una “insoddisfazione senza precedenti nella storia recente italiana”, dicono gli analisti. E l’abbiamo visto nel voto. Una situazione sempre più difficile da governare.

da La Tecnica della Scuola

"Democrazia elettronica, innovazione e rischi. Non siamo ancora una società 2.0", di Tiziano Toniutti

Cittadini sempre più attivi, partendo dalla Rete. Il “5 Stelle” propone un modello di funzionamento basato su referendum online. La politica diventa “partecipata” attraverso piattaforme aperte e web, che poi portano persone reali in Parlamento. Ma è una politica aperta a tutti? Il professor Novelli: “Esiste ancora un’élite digitale”. Grillo: “Sistema in sviluppo”

PARTECIPARE, direttamente, “dal basso”. Non più solo elettori, ma protagonisti della vita pubblica di un Paese. Si chiama democrazia partecipativa o diretta, ed è una delle forme contemporanee dell’idea democratica. Che evolve con i tempi e le tecnologie. Accanto all’espressione rappresentativa, ne sorge una che non delega le decisioni al Parlamento, ma coinvolge attivamente i cittadini. Il voto non è più l’unico strumento. Nella democrazia partecipativa il cittadino è chiamato alla formulazione di proposte e alla discussione di pensieri altrui per arrivare a una sintesi. Non nelle Camere, ma nelle case, per le strade e sulla Rete. Un orizzonte civile e politico che cattura lo sguardo. Ma forse non siamo ancora pronti per raggiungerlo.

Democrazia, Rete, opportunità, rischi. Se la “libertà è partecipazione”, allora otto milioni e mezzo di elettori a 5 Stelle potrebbero aver votato il Movimento di Beppe Grillo per un motivo preciso: contribuire direttamente alla vita democratica e parlamentare del Paese. Senza essere eletti, attraverso una connessione internet e una piattaforma condivisa. Grillo del resto ha ripetuto infinite volte che gli eletti M5s saranno solo dei “portavoce” dei cittadini. E al momento nessun’altra forza politica ha derogato al concetto di rappresentanza parlamentare. Ma è anche vero che le “parlamentarie” del MoVimento non sono state un modello di partecipazione di massa. 25mila partecipanti sono indubbiamente
pochi, in confronto a mille altre iniziative sul web, e soprattutto in proporzione agli eletti in Parlamento. E soprattutto c’è la questione della sicurezza dei procedimenti e dei voti. Chi verifica, chi garantisce? E chi controlla gli addetti ai controlli? La democrazia può e deve evolvere, assieme alla società. Ma resta la necessità di tutelarla da ogni possibile attacco, sia politico che tecnico. Con la Costituzione e ogni attenzione possibile verso la Rete, l’ambiente in cui la partecipazione diffusa vive.

Novelli: “Esiste un’élite della Rete”. Edoardo Novelli, docente di comunicazione politica presso l’Università di Roma Tre, ricorda gli inizi dell’idea di democrazia partecipata: “Ross Perot nel 1993 negli Usa pensava a un modello di partecipazione non comunitario. Il cittadino si alza, fa colazione, e preme un bottone per avallare o meno le decisioni dell’amministrazione su un tema x”, dice Novelli a Repubblica.it. “Ma è un tipo di approccio che non contempla quasi la riflessione necessaria alla formazione di un pensiero. Ma se uno è isolato e reagisce isolatamente, spesso si reagisce di pancia”.

Secondo Novelli, oggi la politica tende ad abbattere le distanze tra cittadino e rappresentanza: “Oggi si vota uno come te, prima l’idea era eleggere i migliori elementi della società. Un fenomeno di popolarizzazione che passa dal cagnolino in braccio, la birra al pub. Prima la politica era un’avanguardia, erano i competenti, i più formati. Ma in fondo l’élite esiste, seppure di altro tipo, anche nell’idea della democrazia partecipativa”. Ovvero, spiega il professore: “Anche con l’evoluzione delle piattaforme, il problema resta sempre la diffusione, ovvero quante persone sono coinvolte nelle decisioni democratiche partecipate”.

Quindi “dal basso” fino a un certo punto: “Sì, esiste un’élite del web, che è anzitutto quella che ha accesso alla connettività, e poi ha le capacità di gestire le tematiche. C’è sempre un gruppo più rappresentativo a cui il cittadino delega”. Insomma la democrazia partecipata al tempo di internet ha senso solo se la Rete tocca tutti, oppure il web ha permesso in qualche modo di abbassare la soglia di ingresso al dibattito? “I gap tecnologici esistono, la soglia rimane comunque alta, perché richiede competenze e professionalità. Ma ad esempio nel caso dei 5Stelle rispetto ai partiti, che rimangono chiusi e opachi, c’è una differenza strutturale. I partiti hanno difficoltà nell’aprirsi”. Esiste un percorso sostenibile verso la democrazia diretta? “Certamente l’evoluzione e la semplificazione delle piattaforme aiuterà. Dall’altro lato è necessaria un’evoluzione culturale e sociale. Educare la cittadinanza alla partecipazione. Oggi nel bagaglio culturale dei cittadini non c’è l’opportunità di essere chiamati in causa, e il cittadino non la sviluppa autonomamente perché non ne vedrebbe i risultati. Bisogna sviluppare una cultura della partecipazione, e deve partire da una società dinamica e mobile rispetto a quella di ora, che è vecchia ed arroccata”, conclude Novelli.

Piattaforme e funzionamento. Gli esperimenti di successo nell’ambito della democrazia partecipativa non mancano. Il punto di partenza è l’accesso dei cittadini alle informazioni della pubblica amministrazione, attraverso l’open data, la trasparenza dei dati pubblici. Kevin Hauswirth, social media manager del Sindaco di Chicago, nella sua recente visita in Italia ha parlato dei risultati importanti raggiunti nell’avvicinare i cittadini alla cosa pubblica attraverso i dati aperti. Spostandosi sul lato della gestione tecnica della partecipazione collettiva, la piattaforma Liquidfeedback adottata dal Partito Pirata in Germania è probabilmente un caso esemplare. Si tratta di un sistema aperto, non proprietario e quindi dal funzionamento verificabile in ogni momento. Permette la formulazione e la votazione di proposte attraverso un sistema di gestione tematica, con limiti temporali e una raffinata gestione delle deleghe. Una piattaforma completa ma di utilizzo non banale, che nel contesto del Partito Pirata ha funzionato bene. Ma un sistema per ora difficilmente declinabile per un utilizzo di massa, e da modificare per permetterne l’utilizzo da una base elettorale complessa, come può essere quella dei 5 stelle.

Voto online a 5 Stelle. Il Movimento di Grillo, dopo le politiche, punta ad eleggere i candidati alla presidenza della Repubblica e il sindaco di Roma direttamente online. E ha già effettuato un esperimento di votazione elettronica dei suoi candidati al Parlamento. Di fatto un sondaggio online, senza reale possibilità di controllo o certificazione esterna. Nel caso specifico dei 5s i cittadini attivi coincidono con gli utenti del portale di Grillo, che non sono però necessariamente elettori del Movimento. Durante le Parlamentarie del M5s inoltre non sono mancate difficoltà tecniche: come può funzionare la democrazia partecipata se i siti che ne ospitano le strutture cadono facilmente sotto il peso del traffico? Il funzionamento non trasparente ha suscitato polemiche anche tra gli attivisti. Beppe Grillo twitta: “La piattaforma dove ognuno conterà uno è in sviluppo, dopo i rallentamenti”. Resta da vedere se sarà un sistema aperto, e quindi certificabile. E che garantisca da interventi verticali, dall’alto. Ma per ora il Movimento di Grillo è al momento l’unica forza che propone questo tipo di possibilità espressive, concertate “dal basso”, modulate sul programma del movimento.

Secondo Novelli, la democrazia partecipativa è ancora lontana dall’Italia. Per ora è poco più di una definizione e e qualche esperimento. E per avvicinarci servirà un lavoro di educazione e di ricerca della piattaforma ideale, quella che offra le migliori applicazioni per l’espressione politica di massa, protetta e garantitia. Ma dai numeri in Parlamento, la spinta sociale appare importante: dalla società e dalla Rete emerge una necessità di definire sempre più un sentire comune tra le Camere i rispettivi corpi elettorali. In un certo senso, qualche seme di partecipazione diffusa ha già dato i suoi frutti: i cittadini, nell’attesa di diventare elettori attivi, di democrazia ne chiedono sempre di più.

da La Repubblica

"Le virtù del buon politico", di Massimo Gramellini

Anticipando il probabile duello finale dei prossimi mesi, Grillo ha attaccato Renzi dandogli della «faccia come il c.» (in comproprietà con Bersani) e del «politico di professione». Per lui e per una parte dei suoi elettori le due definizioni sono sinonimi. Tralascio ogni giudizio sull’uso del turpiloquio, uno dei tanti lasciti di questo ventennio che ancora prima delle tasche ci ha immiserito i cuori, portandoci a considerare normale e persino simpatico che un leader politico si esprima come un energumeno. Ma vorrei sommessamente segnalare che essere professionisti della politica non è una vergogna né una colpa. E’ colpevole, e vergognoso, essere dei professionisti della politica ladri e incapaci.

In questi ultimi decenni ne abbiamo avuti un’infinità e la stampa porta il merito ma anche la responsabilità di averli resi popolari, preferendo esibire i fenomeni acchiappa audience piuttosto che il lavoro serio ma noioso di tanti membri delle commissioni parlamentari.

Dando agli elettori la percezione che tutti i politici fossero uguali a Fiorito o a Scilipoti e che chiunque potesse fare meglio di loro. Non è così. Il «chiunquismo» è una malattia anche peggiore del qualunquismo e porta le società all’autodistruzione. Questa idea che tutti possono fare politica, scrivere articoli di giornale, gestire un’azienda o allenare una squadra di calcio è una battuta da bar che purtroppo è uscita dai bar per invaderci la vita e devastarcela.

A furia di vedere buffoni e mediocri nelle foto di gruppo della classe dirigente, ma soprattutto di vedere ovunque umiliata la meritocrazia a vantaggio della raccomandazione, siamo sprofondati in un’abulia che ci ha indotti ad accettare senza battere ciglio ogni sopruso e ogni abuso antidemocratico (a cominciare dai partiti padronali e da una oscura rockstar del capitalismo come presidente del Consiglio). E ora che ci siamo svegliati, per reazione vorremmo buttare tutto all’aria, convinti che per fare politica bastino un ideale e una fedina penale intonsa. Non è vero. Gli ideali e l’onestà sono la base per distinguere i buoni leader dai cialtroni che ci hanno ridotto in questo stato. Ma la politica è anche un mestiere con regole precise: l’attitudine all’ascolto, la conoscenza della materia trattata e delle procedure legislative, la capacità di giungere a una sintesi che in democrazia è quasi sempre un compromesso tra diversi egoismi, come ben sa chiunque abbia frequentato un’assemblea di condominio. Era così ai tempi di Pericle e delle lavagnette di creta. Lo rimarrà nell’era di Grillo e del web, con buona pace di chi pensa che la democrazia diretta possa abolire il filtro della rappresentanza. I rimpianti Cavour e De Gasperi non erano dilettanti o improvvisatori. Erano politici di professione, come lo è oggi un Obama.

Il fatto che queste ovvietà suonino eretiche testimonia l’abisso di confusione in cui ci dibattiamo. La politica, se fatta bene, è una cosa dannatamente difficile e seria, specie in giorni come quelli che ci attendono, quando si tratterà di rimettere in piedi un Paese economicamente e moralmente allo stremo. Da cittadino di una democrazia malata sarei più sereno se a occuparsi dell’infermo fossero persone selezionate da un meccanismo che garantisse scelte autorevoli. E qui già vedo un ghigno profilarsi sul volto di Grillo: i partiti sono morti, incapaci di formare una classe dirigente. Ma allora bisogna immaginarne di nuovi, diversamente strutturati. Di certo il futuro non può essere affidato a miliardari e magistrati fai-da-te. Può anche darsi che la soluzione siano movimenti di persone perbene agglomerati dal web come i Cinque Stelle, ma dovranno risolvere l’intima contraddizione fra la trasparenza della base e l’oscurità della catena di comando. A cosa serve accendere una webcam in Parlamento se poi l’ufficio della Casaleggio & Associati, in cui si scrivono le regole e si decide la strategia, rimane ostinatamente al buio?

da www.lastampa.it

"Quanto tempo ci rimane", di Tito Boeri

QUANTO tempo abbiamo a disposizione per risolvere la crisi politica? Possiamo, come il Belgio, sopravvivere a lungo senza un governo nel pieno delle sue funzioni? Sono domande ricorrenti.
Soprattutto nel momento in cui si affronta una crisi politica senza precedenti, nel mezzo di un’emergenza economica anch’essa senza precedenti.
Ci sono tre fattori che ci danno un po’ di tempo, anche se non molto, per cercare di risolvere la crisi politica. Il primo è che il governo in carica per la gestione degli affari correnti non è un governo qualsiasi, ma è un governo guidato da Mario Monti, il politico italiano che oggi gode di maggiore credibilità sul piano internazionale. Deve però essere un esecutivo vero, pienamente operativo, il che ci porta al secondo fattore: in condizioni di emergenza la nozione di affari correnti non può che risultare molto dilatata. È una nozione peraltro molto vaga di par suo, che rimanda più a limiti dettati dalla prassi e dalla correttezza costituzionale che ad altro. Ad esempio, nulla impedisce ad un governo dimissionario di adottare misure emergenziali per reagire ad un pericoloso allargamento dello spread, con l’accordo del Presidente della Repubblica (che ad aprile potrebbe essere eletto alla terza chiamata coi soli voti del Pd e di Monti) oppure anche solo intervenire per evitare l’aumento dell’Iva nel caso di accordo di massima coi segretari dei partiti rappresentati in Parlamento. Il terzo fattore è che, per fortuna, abbiamo fatto quasi un
quarto del nostro fabbisogno per quest’anno. Fino ad aprile potremmo anche permetterci di non fare nuove aste, di non andare sui mercati. Inoltre, la Commissione Europea non ci chiede manovre nel 2013, ritenendo che il deficit pubblico del 2,1 per cento cui siamo destinati si qualifichi come bilancio in pareggio “aggiustato per il ciclo”.
Il vero limite nel tempo a nostra disposizione è dato dagli effetti della crisi politica sulla recessione. In condizioni di grande incertezza politica, le imprese bloccano le assunzioni e gli investimenti. La ragione è semplice: aspettano di capire cosa accadrà, ad esempio, alla legge Fornero. Verrà abolita, come chiedono alcuni, riformata come chiedono altri aspiranti ministri oppure lasciata così com’è? Inoltre si riduce la domanda di beni durevoli, come automobili, televisioni e arredamento (secondo alcune stime fino al 50%), dato che le famiglie preferiscono aspettare prima di procedere ad acquisti impegnativi. Un altro limite di tempo stringente è posto dai negoziati a livello europeo. Un governo sulla carta limitato ai soli affari correnti, per quanto autorevole, non può farsi valere come soggetto negoziale, ad esempio, nella trattativa per ottenere i fondi della Youth Guarantee, il nuovo programma comunitario contro la disoccupazione giovanile. E, più in generale, il perdurare della recessione ci concede margini per influire sulle scelte a livello europeo. Sono occasioni da non perdere.
Per tutti questi motivi, il tempo a disposizione è, al massimo, di un paio di mesi, non certo due anni, come in Belgio. Per fortuna la nostra crisi politica è meno grave di quella consumata nello scontro fra fiamminghi e valloni. Non abbiamo una frammentazione politica giocata anche lungo l’asse delle minoranze linguistiche, né una pluralità di alternative di governo in principio possibili. Da noi ci sono oggi solo due opzioni di governo percorribili (o piccole varianti di queste due) con gli attuali numeri alla Camera e al Senato. Tuttavia anche la nostra crisi politica è complessa perché il vero vincitore delle elezioni, il MoVimento 5 Stelle, non ha la maggioranza in nessuno dei due rami del Parlamento, è pivotale al Senato nel senso che può coi suoi voti spostare la maggioranza a favore del Pd o del Pdl e, al tempo
stesso, non intende sostenere alcun governo in un ordinamento che, tuttavia, non consente di formare governi di minoranza perché richiede un voto di fiducia. Ciò che complica la partita è che il partito di Grillo non può astenersi in occasione di un voto di fiducia perché al Senato un’astensione equivale a un voto negativo. Non può neanche uscire dall’Aula perché, se così facesse, cederebbe di fatto il proprio potere condizionante al Pdl che, a sua volta, potrebbe uscire dall’Aula facendo mancare il numero legale. Inoltre è dubbio che un partito che vuole innovare il modo di fare politica si presti a giochini di questo tipo.
Non possiamo allora che augurarci che le persone che abbiamo mandato a Palazzo Madama si rendano conto che una partita a scacchi troppo lunga potrebbe portare la disoccupazione ben oltre i tre milioni certificati ieri dal-l’Istat. Non mancherà di pesare in questo senso l’intolleranza dell’opinione pubblica per uno stallo prolungato, soprattutto se il governo che chiede la fiducia dovesse offrirsi di attuare diversi punti del programma del MoVimento 5 Stelle sulla riduzione dei costi della politica (eliminazione province, abolizione finanziamento pubblico ai partiti) con in più la riduzione del numero di parlamentari (che non c’è nel programma di Grillo) e del loro compenso. Molti commentatori hanno sottolineato come gli italiani si siano fatti, una volta di più, ingannare dagli incantatori di serpenti, il che potrebbe sembrare in contraddizione con la diffusa disaffezione per la vecchia politica che si legge nel voto. Ma questa volta la vera promessa di Berlusconi è stata quella sulla restituzione dell’Imu 2012, una promessa in sé e per sé tutt’altro che impossibile da realizzare e che tocca da vicino milioni di italiani che hanno anche rilevanti proprietà immobiliari, ma bassi redditi e quindi faticano a pagare le tasse sulla prima casa. A proposito, dato che il leader del Popolo della Libertà si è ripetutamente e incondizionatamente offerto di concedere il rimborso di tasca propria, nel caso in cui non fosse stato possibile raggiungere per tempo l’accordo sulla Svizzera, non vedo perché non cominciare a chiedergli di rispettare l’impegno preso con gli elettori. Cavaliere, prego, proceda.

da la Repubblica

"Disoccupati a quota 3 milioni", di Sandra Riccio

Cala il Pil, vola il debito pubblico, la pressione fiscale segna l’ennesimo record, la disoccupazione raggiunge il livello record degli ultimi 21 anni. È la fotografia dell’Italia scattata dall’Istat: dice che a gennaio sono 3 milioni gli italiani che cercano un lavoro, e i precari sono poco di meno: 2,8 milioni circa.

Nel 2012 il Pil è diminuito del 2,4%, un calo dello 0,8% rispetto all’anno precedente che porta la produzione sotto i livelli del 2001. Magra consolazione, il dato è in linea con le stime del governo. Di conseguenza – meno produzione significa anche meno entrate per l’Erario, perché le imprese pagano meno tasse -, vola il debito pubblico che raggiunge il 127% del Pil, ovvero il dato più alto da quando si compilano queste serie statistiche, ovvero dal 1990. A quel punto allo Stato non resta che cercare di fare cassa altrimenti. E infatti l’anno scorso la pressione fiscale ha superato i massimi precedenti (del 1990) e si è attestata al 44%, segnando un aumento di quasi due punti percentuali rispetto al 42,6% registrato nel 2011.

L’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche, misurato in rapporto al Pil, è pari al -3,0% (era -3,8% nel 2011). Si tratta di un dato peggiore del target del governo, fissato al -2,6%. L’avanzo primario (indebitamento netto, al netto della spesa per interessi) è pari, in rapporto al Pil, al 2,5% (era 1,2% nel 2011). E il rapporto debito pil peggiora anche perché oltre alla tendenza a crescere del dividendo (cioé il debito) c’è di pari passo la tendenza a ridursi del divisore (il Pil, appunto). Lo scorso anno è crollata anche la spesa per consumi delle famiglie che ha mostrato un’ampia contrazione in volume (pari al -4,3%), dopo essere risultata quasi stabile nel 2011 (+0,1%). Anche questa grandezza si ripercuote sull’Erario, contribuendo ad allargare il calo delle entrate.

In questo panorama non meraviglia un altro record negativo: quello segnato dal numero di disoccupati che a gennaio ha sfiorato quota 3 milioni. È il dato più alto mai registrato dall’inizio delle serie storiche dell’Istat, ovvero dal 1992. L’istituto di statistica nazionale ha precisato che i disoccupati aumentano rispetto a dicembre del 3,8% (110 mila unità) e su base annua il dato è ancora più pesante, l’Istituto di statistica infatti registra una crescita del 22,7% (+554 mila unità).

Sale anche il tasso di disoccupazione che si attesta all’11,7% a gennaio (era 10,7% nella media del 2012), in aumento di 0,4 punti percentuali rispetto a dicembre e di 2,1 punti nei dodici mesi. Anche qui si tratta dei massimi dall’inizio delle serie, compilate a partire dal 1992. Il tasso di disoccupazione giovanile, nello stesso mese, è salito al 38,7% (al 35,3% nel 2012, anche qui ai massimi dall’inizio delle serie storiche dell’Istat, ovvero dal 1992).

Non va meglio nell’eurozona. Il tasso di disoccupazione a gennaio registra l’11,9% a fronte dell’11,8% di dicembre. Nel gennaio del 2012 la percentuale di disoccupati si attestava al 10,8% nell’area euro. La disoccupazione giovanile è salita al 24,2% rispetto al 24% di dicembre. Grecia e Spagna segnano i tassi di disoccupazione più elevati, rispettivamente con il 27% e 26,2%. In Germania, il tasso di disoccupazione è invece stabile al 5,3%.

Tornando in Italia, la recessione si fa sentire anche sui prezzi: a febbraio l’indice ha frenato, segnando +1,9% rispetto a un anno fa (ai minimi da dicembre 2010) e +0,1% su base mensile. Neppure questa è del tutto una buona notizia: la frenata dei prezzi è un altro effetto dell’economia che peggiora.

da La stampa

"I milioni del golpe bianco così fecero cadere Prodi", di Sebastiano Messina

SILVIO Berlusconi le aveva dato un nome in codice che aveva il suono degli ideali e il profumo dei sogni: «Operazione Libertà». Più prosaicamente, Sergio De Gregorio, il senatore dipietrista che si fece comprare al non modico prezzo di tre milioni di euro, ha usato il lessico militare: «Sabotaggio». Sabotaggio del governo Prodi, buttato giù il 24 gennaio 2008, si scopre adesso, con la corruzione dei parlamentari che erano stati eletti nella sua maggioranza e dovevano votargli la fiducia. Mettendo sul tavolo i soldi, tanti soldi, tutti in nero. Usando segreti giudiziari per destabilizzare un capopartito. Offrendo patti inconfessabili a chi doveva semplicemente restarsene a casa, facendo mancare il suo voto decisivo. Non è solo uno spaccato sconcertante e scandaloso della corruzione eletta a strumento della politica, quello che affiora dalle carte dell’inchiesta napoletana che coinvolge Berlusconi, De Gregorio e l’editore-faccendiere Valter Lavitola.
È SOPRATTUTTO l’illuminante radiografia di un’operazione che configura «un attentato alla democrazia», come dice la vittima di quel complotto, Romano Prodi: «Un vero e proprio atto di corruzione che, se confermato, avrebbe certamente cambiato la storia
del nostro Paese».

BANCONOTE DA 500 EURO
Volendola raccontare, forse è giusto dunque chiamarla in un altro modo: tecnica di un golpe
bianco. Perché leggendo la desolante confessione di De Gregorio — l’uomo che incassava pacchi di biglietti da 500 euro e aveva persino l’ingenuità di domandare “scusate, ma perché me li date in nero?” — scorrendo l’inquietante ricostruzione degli eventi che i magistrati hanno appena consegnato al Parlamento, è difficile sfuggire al sospetto che sedici anni di vita politica italiana, dal primo voltagabbana che nel 1994 consentì a Berlusconi di avere la fiducia al Senato fino all’ultima transumanza pilotata, quella con cui i “Responsabili” evitarono al Cavaliere di cadere alla Camera alla fine del 2010, siano stati inquinati, avvelenati, truccati da un inconfessabile fiume carsico di milioni in nero, distribuiti a piene mani da un uomo che ha sempre creduto che tutti, alla fine, abbiano un prezzo.
L’OPERAZIONE LIBERTA’
Dei soldi sappiamo già tutto. Quella che De Gregorio, con linguaggio da ragioniere, ha definito «la mia previsione di cassa», era di tre milioni di euro, anche se poi Lavitola gliene consegnò solo due, «in tranches da 200 e 300 mila euro ». A partire dal mese di luglio 2006: e la data è importante, perché in quel momento, e ancora per altri due mesi, De Gregorio è un senatore del gruppo di Italia dei Valori. Eletto dai dipietristi, da Berlusconi. Pagato per fare cosa, esattamente? Siamo nel 2006, Prodi ha vinto d’un soffio le elezioni e ha una maggioranza risicatissima al Senato: il margine è di quattro voti, basta che due passino dall’altra parte e il governo cadrà.
Così, racconta De Gregorio, lancia la sua Operazione Libertà: «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». In concreto, spiega l’astuto ex senatore napoletano, io ebbi un compito preciso: «Il sabotaggio del governo Prodi». Avvenne subito dopo la sua elezione a presidente della commissione Difesa con i voti del centrodestra e contro il centrosinistra, che candidava Lidia Menapace. «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio, che io accettai di adottare rimanendo dentro il gruppo di Italia dei Valori». Come? domandano i magistrati. «Attraverso una serie di azioni che avrebbero indebolito sicuramente il governo all’interno della sua eterogeneità». Per esempio? «I metodi erano diversi», risponde De Gregorio. Il principale però era uno: «Procurarsi dei voti in Parlamento».
L’ODORE DEI SOLDI
“Procurarsi” è una parola anfibia, nel terreno della politica. In Parlamento convincere gli altri a cambiare idea, a sposare la propria causa o ad accettare un compromesso, è il pane quotidiano. Ma non è del libero convincimento che il furbo De Gregorio sta parlando. Non si tratta di persuaderli, si tratta di corromperli. Di comprarli a uno a uno. L’operazione è ad ampio raggio, come vedremo, ma De Gregorio si assume il compito di acquistare il voto di un compagno di partito. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi ». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni» risponde il Cavaliere. Ma l’operazione fallisce: Caforio finge di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Meno uno.
De Gregorio intanto è stato messo alla porta, e il 24 settembre del 2006 esce dall’Idv. In commissione Difesa fa il sabotatore, bloccando tutte le richieste del governo, ma in aula continua a votare la fiducia. E’ presto per uscire allo scoperto, bisogna aspettare il momento buono. Berlusconi decide di fare una prima prova il 28 febbraio 2007, quando Prodi viene rinviato alle Camere da Napolitano. De Gregorio vota no, finisce 162 a 157: bisogna conquistare ancora tre senatori, per buttare giù il governo. Ci vorranno altri undici mesi, prima che l’impresa riesca.
LA CADUTA DI PRODI
La prima crepa si apre il 16 gennaio 2008, quando Clemente Mastella arriva sconvolto a Montecitorio e annuncia in aula le sue dimissioni da ministro Guardasigilli. Cos’è successo? Ha appena saputo che la procura di Santa Maria Capua Vetere vuole chiedere l’arresto di sua moglie. Chi gliel’ha detto? Non si sa, ma lo scopriremo tra poco. Quattro giorni dopo, Mastella ritira l’appoggio dell’Udeur al governo, costringendo Prodi a presentarsi un’altra volta al Senato per la fiducia, il 24 gennaio 2008. E stavolta viene impallinato: 161 a 156.
Scorriamo l’elenco di chi è passato dall’altra parte: accanto a De Gregorio, e a Mastella, ci sono due “liberaldemocratici”, Lamberto Dini e Giuseppe Scalera. E tutti notano l’assenza di Luigi Pallaro, detto “el senador”, eletto in Argentina dagli emigrati. Misteriosamente, invece di presentarsi in aula ha mandato uno strano messaggio: «In questo difficile momento di crisi non partecipo al voto per lasciare spazio alle decisioni del capo dello Stato». In Parlamento si sparge l’odore dei soldi. Qualcuno è stato corrotto, accusa il Pd. Ma le prove, dove sono le prove?
LAVITOLA RIVELA IL PIANO
Le prove, i magistrati le trovano in una lunga lettera che il faccendiere Valter Lavitola ha inviato a Berlusconi dalla latitanza in Brasile (latitanza consigliatagli dallo stesso Cavaliere, risulta agli atti), un documento che i magistrati napoletani definiscono «di fondamentale e speciale importanza». Al presidente del Consiglio, il 13 dicembre 2011 il faccendiere latitante chiede aiuto, ricordandogli i debiti che ha verso di lui: «Lei subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerLa a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
Ecco cosa prevedeva dunque l’Operazione Libertà, ed ecco chi ne era stato il braccio esecutivo (non l’unico, come vedremo). E’ un millantatore, questo Lavitola? Macchè. Come lui stesso ricorda puntigliosamente nella lettera, oltre alla promessa di un seggio al Parlamento europeo o di un posto nel cda della Rai, Berlusconi gli aveva già concesso molte cose: «La Ioannucci nel cda delle Poste (aveva promesso di darle anche la presidenza di Banco Posta, anche se ciò non è stato mantenuto) e il commissario delle dighe (ruolo inventato da me con Masi, quando era a Palazzo Chigi». Non solo, ma il Cavaliere aveva anche messo mano al portafogli: «Un finanziamento all’Avanti! di 400 mila euro nel 2008» e «4-500 mila euro (non ricordo) di rimborso spese per la “Casa di Montecarlo” (…) quando io le portai i documenti originali di Santa Lucia». La “Casa di Montecarlo”, come tutti sanno, è il dossier scagliato contro Fini per vendicarsi della sua uscita dal Pdl.
LA VERITA’ SUI VOTI COMPRATI
Capire quello che accadde davvero quel 24 gennaio 2008, quando Prodi venne abbattuto a Palazzo Madama con un margine di tre senatori, diventa più semplice. De Gregorio era stato comprato a suon di milioni. A Mastella era stata fatta arrivare al momento giusto una notizia ancora coperta dal segreto istruttorio, spingendolo a rompere con Prodi. Pallaro era stato convinto — non sappiamo con quali argomenti ma possiamo averne un’idea — a restare lontano dal Parlamento proprio nel giorno in cui il suo voto poteva risultare decisivo. L’ex premier Lamberto Dini era stato, per usare l’espressione di Lavitola, “lavorato”. Quanto all’altro “liberaldemocratico” che con la sua astensione ha dato anche lui il suo contributo alla caduta del governo, il senatore napoletano Giuseppe Scalera, leggiamo quello che dichiara ai magistrati uno dei protagonisti dell’inchiesta sulla P3, Arcangelo Martino: «Sica (ex assessore della Regione Campania, ndr) mi disse che Berlusconi doveva a lui la caduta del governo Prodi, in quanto si era adoperato con l’aiuto di un imprenditore ben conosciuto da Berlusconi per convincere, previo esborso di denaro, alcuni senatori a votare contro il governo. Mi fece il nome del senatore Andreotti e del senatore Scalera. Mi mostrò anche dei fogli su cui, a suo dire, vi erano segnati gli estremi dei bonifici». Dei bonifici, però, i magistrati non hanno trovato traccia.
A questo punto, il quadro è nitidissimo. Non serve neanche ricordare le voci di un’offerta di due milioni di euro che si diffusero nel novembre 2007, due mesi prima del colpo di grazia, quando Berlusconi ebbe un lungo incontro con il senatore Nino Randazzo — eletto nel più grande collegio del pianeta: Asia-Africa-Oceania-Antartide — costringendo l’interessato a smentire: «E’ vero, ho visto Berlusconi ma abbiamo parlato solo di Australia. Lui è un incantatore di serpenti». E Randazzo, probabilmente, non si era fatto incantare.

da La Repubblica