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Cosa c’entra la finanza con l’istruzione?, di Antonio Scurati

Assistiamo a un paradosso rivelatore. Non passa giorno senza che il mondo della finanza non si dimostri un perverso anti-modello, incline ad aggravare le nostre crisi economiche e a precipitare la nostra crisi morale. Eppure, quando finalmente l’opinione pubblica pare allarmarsi per il drammatico calo di iscrizioni alle nostre università, ecco che gli opinion maker corrono in soccorso dell’università applicando al suo caso il linguaggio della finanza. «Il rendimento del capitale per laurearsi è circa pari al 10%, molto maggiore del rendimento di un portafoglio medio di azioni e obbligazioni (3,6 %)». Frasi come questa ci hanno costretto a leggere nei giorni scorsi – accanto ai titoli sullo scandalo Mps – i grandi quotidiani nazionali di questo nostro bizzarro Paese.
A questo punto è necessario prendere posizione. La mia è la seguente: l’applicazione al mondo universitario di questa logica finanziaria, di questo linguaggio da mutui subprime e da derivati, non lo soccorre ma gli assesta il colpo letale. Anzi, proprio questa colonizzazione dei territori del sapere (e della vita) da parte di una logica basso mercantile e speculativa è all’origine della loro desertificazione. Vale lo stesso per la cultura. Tra l’affermare che «con la cultura non si mangia» e l’affermare che «con la cultura si mangia» non corre molta differenza: sono entrambe figlie della stessa visione e degli stessi errori strategici che portano i drammatici tagli dei finanziamenti pubblici perché non immediatamente redditizi.
Non si motivano i docenti costringendoli tutti, che insegnino fisica nucleare o filologia romanza, ad applicare improvvisate logiche di marketing al proprio lavoro. Soprattuttononsimotivanoglistudenti alla scelta universitaria dandone un’idea meramente strumentale, utilitaristica e mercantile. Si motivano, invece, ribadendo che in essa risiedono valori superiori,intrinseciefinalizzatiaséstessi: l’acculturazione, l’emancipazione dell’individuo, la conoscenza dell’uomo e mondo, l’intelligenza del proprio tempo. Che questi valori si declinino attraverso l’acquisizione di una cultura economica, scientifica o umanistica, poco importa. Dalla valorizzazione di questi valori discenderanno, poi, in via indiretta, grandi vantaggi economici – in termini di crescita e sviluppo – per l’individuo e la società.
Ma il sapere deve essere desiderato come premio a se stesso perché il sistema universitario possa prosperare. Gli studenti che vivono l’università come un vergognoso «parcheggio» sono proprio i delusi da una sua concezione meramente strumentale. Quelli che invece si appassionano allo studio di là di ogni calcolo, sono i migliori (e i più redditizi e profittevoli). Dovrebbe essere proibito per legge applicare all’università termini orribili e incongrui come «spendibilità». In un Paese povero di etica pubblica come il nostro, il dilagare linguistico del «market» evoca sempre di più la marchetta. Se tutto si riduce a «fare i danè», visti i modelli sociali dominanti, è molto probabile che i nostri potenziali studenti all’istruzione preferiscano lo spaccio, l’estorsione e la prostituzione. Sono conti sbagliati i conti della serva.
E veniamo alla bottega artigiana. Non sto qui riproponendo il divorzio tra la teoria e la pratica (quello c’è già), ma una nuova (antica) alleanza. I saperi teorici senza la pratica sono monchi, ma quelli pratici senza la teoria sono ciechi. Torniamo, allora, ai padri nobili. Un solo esempio. Il Rinascimento italiano nacque dalla sublimazione in arte dei secolari saperi coltivati nelle botteghe artigiane. Nella Firenze del ’400 tutti i grandi artisti che sono ancora oggi il nostro vanto impararono il mestiere in botteghe artigiane. Sandro Botticelli fece il suo apprendistato in quella di Filippo Lippi, ma rimase un ottimo facitore di Madonne finché non frequentò l’Accademia Platonica di Marsilio Ficino (finanziata da Cosimo de’ Medici, il più abile banchiere del suo tempo), aprendosi, così, a una conoscenza superiore che riscopriva le scuole dei millenni fondendole in un’unica, grandiosa visione dell’uomo e del suo posto nel cosmo. Dalla frequentazione di quella «università» scaturirono capolavori come «La primavera» e «La nascita di Venere». Sua e nostra gloria.

da La Stampa