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"Il mestiere della verità", di Giovanni Tizian

«GLI spariamo in bocca ». E io ignaro corro ogni giorno a caccia di una notizia, piccola o grande
che sia. tra precarietà e pericolo. È incredibile come un pezzo di novanta righe scritto su un quotidiano locale possa mettere in crisi un sistema dai contorni mafiosi ben radicato. In questo Paese raccontare la verità può costare molto caro. Possono fartela pagare con la violenza. Sguainando le pistole. Oppure attraverso metodi più raffinati. Esercitando pressioni sulle persone giuste, sugli insospettabili, per esempio. Pur se meno grave per l’incolumità personale, è drammatico dal punto di vista etico. È sintomatico di un’Emilia, e del Nord ingenerale, dove è diventato fin troppo facile per i mafiosi agganciare professionisti disposti a muovere le pedine giuste per agevolare gli scopi dell’organizzazione criminale. In cambio di un’entrata extra a fine mese e di una protezione armata ai loro affari.
Nella mia situazione ci sono altri bravissimi colleghi. Penso a Lirio Abbate, Rosaria Capacchione, Roberto Saviano. E ai tanti cronisti di provinciain terre di frontiera costretti a subire
minacce quotidiane. Esempi di giornalismo vero, di “giornalismo giornalismo”. Armati di pc, penna e quaderno, cerchiamo di svolgere al meglio la nostra funzione: informare. Raccontare ai cittadini il lato nascosto della realtà.
Da un anno e qualche mese vivo sotto scorta. La protezione è stata decisa d’urgenza il 22 dicembre 2011, dopo avere ascoltato la telefonata tra Guido Torello e don Nicola Femia, detto“ Rocco” in cui progettano di zittirmi. Il re delle slot, Femia, chiede aiuto al dottor Torello, che prende carta e penna per appuntarsi nome del giornale e del giornalista. Le loro intenzioni? Ammazzarmi, forse. O più probabile fare pressioni su qualcuno di importante a Modena per incatenarmi le mani e spezzarmi la penna.
Ma che segreti nasconde “Rocco” da temere le inchieste giornalistiche di un giovane cronista di provincia. Cela un passato di arresti per narcotraffico, da alleato delle cosche della Locride. E un presente da impresario del gioco legale. Da ricco imprenditore delle videoslot, forte dei suo metodi mafiosi, secondo l’accusa, con cui si è imposto nel mercato. Controlla attraverso familiari e prestanome decine di società chenoleggiano le macchinette mangiasoldi e le ricariche per il poker online.
L’impero della Holding Femia, sconosciuto fino al 2-010, più di tutto teme la parola, la carta, l’informazione. Di lui avevo riportato affari, amicizie, trascorsi. Provocando una reazione brutale.
Mi occupai la prima volta di “Rocco”, conosciuto agli atti anche come “u-Curtu”, nel 2010. Un’inchiesta di due pagine sul controllo mafioso dei videopoker prima e delle slot dopo. Raccontavo di un passaggio di testimonetra clan dei Casalesi — dagli anni ‘9-0leader del settore nel Modenese — e la‘ ndrangheta. La mafia calabrese è oggiin grado di fornire consulenze alle altre organizzazioni intenzionate a investire nel gioco d’azzardo legale, la quale, va ricordato, è la terza economia del Paese. E proprio di offerta di servizi sitrattava quando tra le pagine di un’inchiesta sul clan dei Casalesi trovai il nome di Nicola Femia. Era il 2009 e lui un perfetto sconosciuto agli investigatori locali e ai giornali.
In quell’inchiesta il clan di Gomorrachiama di continuo “Rocco”. A lui richiedono ricariche per il poker online.
Gli uomini del boss Nicola Schiavone, il figlio del noto “Sandokan”, hanno affidato a Femia il compito di rifornirli della materia prima: le card con cui i clienti possono giocare migliaia di euro a serata. Da lì partì per mettere insieme i pezzi della futura indagine giornalistica. Intrecciai semplicemente alcuni fatti emersi da documenti di diverse procure. A qualcuno però quelle due pagine non andarono giù. Ma, avranno pensato, sarà un caso, e lasciarono correre.
L’anno successivo, a dicembre 2011, la Guardia di Finanza di Caltanissetta sequestra alcune società di noleggio videoslot.
Tra queste una ditta con sede a Modena e legata a Cosa nostra. Il capo servizio, oltre a raccontare lacronaca con carte alla mano, mi chiede un approfondimento. Ne vienef uori un articolo in cui racconto lalunga vita imprenditoriale di “Rocco”. Ma soprattutto lo metto in relazione alla ‘ndrangheta lombarda.
Metto a nudo le amicizie di cui gode il“ re” emiliano del gioco. Amico del boss Leonardo Valle e del suo braccio economico Giulio Lampada. Entrambi, secondo gli investigatori, espressione raffinata del potente clan Condello di Reggio Calabria.
Racconto di quando Giulio Lampadac hiama “Rocco” per organizzare una cena elettorale in Emilia. In previsione delle politiche del 2008 e a sostegno di un candidato dell’Udc di Reggio Emilia. Infine ho scritto delle avventure societarie di Femia la settimana scorsa. Raccontando il suo rapporto di conoscenza con un altro nome di primo piano delle ‘ndrine lombarde: Paolo Martino, fedelissimo, secondo i magistrati, della famigerata cosca De Stefano di Reggio Calabria.
Al secondo approfondimento apparso sulla Gazzetta, Femia decide che devo smettere di scrivere. Forse impaurito dalla possibilità che partano indagini sul suo patrimonio. Telefona al faccendiere di Asti, Torello, per chiedere un disperato aiuto: zittirmi, in qualsiasi modo. E il professionista, che Femia chiama “Dottore”, si dimostra disponibilissimo.
«Dammi il nome », «lo facciamo smettere », e via discorrendo, fino a ipotizzare una cordata tra giornale e magistratura fatta di scambio di notizie sul conto di Femia. Conclude Torello: »Seno gli spariamo in bocca ». Frasi glaciali, pronunciate con una calma che fa tremare ancor più della minaccia stessa. Come se stessero elaborando un piano industriale in cui la vita umana passa in secondo piano.
Le parole, a volte, fanno più maledelle pistole. E ora, un pezzo della storia si è chiusa con l’arresto del gruppo imprenditoriale —“ criminale” di Femia e dei suoi complici. Per quanto riguarda me, nessun dubbio o ripensamento. Con la testa e gli occhi continuerò a raccontare la cruda verità e le ingiustizie di questa Italia fatta a pezzi da interessi e giochi criminali, che più di ogni altra cosa temono le parole e l’informazione.

La Repubblica 24.01.13