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"Con il Cavaliere il più alto aumento di tasse", di Marco Ruffolo

Ci risiamo. La crociata berlusconiana contro le tasse è ripartita, con tutto il suo corredo di rito: gli attacchi al governo Monti che le ha alzate e le puntuali promesse elettorali, dalla cancellazione dell´Imu prima casa alla riduzione di Irpef e Iva. Fino all´opzione zero-tasse per chi assume giovani. Insomma, si torna al passato, quando la destra minacciava scioperi fiscali, strizzava l´occhio agli evasori e annunciava operazioni “libera tutti”. Musica già sentita, partitura già letta. Ma questo déjà vu tributario finisce per mischiare le carte della memoria, per far comparire avvenimenti mai accaduti o per cancellare fatti realmente successi. Sembra quasi che prima di Monti abbia governato una maggioranza capace di ridurre o quanto meno tener ferma la pressione fiscale. In realtà, non è andata così. Anzi, a conti fatti, con le ultime manovre il governo Berlusconi-Tremonti ha finito per alzare la pressione fiscale esattamente il doppio di quello che ha fatto poi il suo successore.

NIENTE RIDUZIONE
Quando il Cavaliere arriva a Palazzo Chigi nel maggio 2008 il peso delle tasse sul Pil è al 42,7 per cento. L´anno dopo, nonostante l´abolizione dell´Ici sulla prima casa, la pressione sale al 43,1. Negli anni successivi si riporta ai valori iniziali e fino al 2011 non cambia. Dunque, nessun forte aumento delle tasse ma neppure la caduta verticale promessa in campagna elettorale: secondo il programma del centrodestra sarebbero dovute scendere sotto il 40 per cento del Pil.

ANNUS HORRIBILIS
Poi arriva l´annus horribilis, il 2011, con l´Italia screditata sul piano internazionale per l´inerzia su conti pubblici e riforme e per gli scandali del premier. Lo spread parte al galoppo, e Tremonti vara una prima manovra. Le previsioni saltano, la pressione fiscale è destinata a salire a ridosso del 44% nei tre anni successivi. Lo dicono gli stessi documenti del Tesoro. Ma i nuovi interventi non riescono a risollevare l´immagine del nostro Paese che torna rapidamente ad essere bersagliato dai mercati. Così arriva il semi-commissariamento ad opera di Bce e Ue. Pressato dalla inusuale lettera di Trichet e Draghi, che detta misure e tempi, Giulio Tremonti si impegna a raggiungere il pareggio di bilancio con un anno di anticipo: nel 2013. Le misure necessarie, secondo l´”invito” europeo, dovrebbero consistere soprattutto in un taglio delle spese. Tremonti punta invece tutto sulle tasse. E qui si apre un capitolo ancora poco conosciuto.

BOMBA A SCOPPIO RITARDATO
Problema: come fare a far digerire al Paese un aumento delle imposte dopo aver sbandierato per anni e anni la liberazione degli italiani dalle spire di un fisco troppo soffocante? L´idea di Tremonti è un capolavoro di equilibrismo: coprire i miliardi mancanti scaricando l´onere fiscale sul futuro governo. Con il beneplacito del premier e di tutti i ministri, viene inserita nella manovra una clausola che, ai fini del bilancio, fa scattare non subito ma negli anni successivi tagli lineari del 20 per cento a regime su tutte le agevolazioni fiscali. Gettito previsto: 4 miliardi nel 2012, 16 nel 2013 e 20 nel 2014. Circa ottocento euro a famiglia, secondo le prime stime della Cgia. Queste misure potranno essere evitate solo se la futura riforma dell´assistenza darà altrettanto gettito. Cosa assai improbabile, visti gli intollerabili tagli al welfare che comporterebbe.

STANGATA IRPEF
Dunque, taglio di tutte le agevolazioni fiscali, ma a scoppio ritardato. Si dirà: che male c´è. Tutti i governi cercano più o meno con successo di sfrondare qualche aiuto tributario a questa o a quella categoria. In questo caso, però, il governo Berlusconi-Tremonti va decisamente oltre, perché tra le agevolazioni tagliate non ci sono solo sconti più o meno ingiustificati come quelli sulle spese veterinarie o sul costo delle palestre. Ci sono anche quegli sgravi basilari che hanno lo scopo di alleviare il carico fiscale delle famiglie meno agiate e dei nuclei più numerosi. Ossia le detrazioni per lavoro dipendente e per carichi familiari. Insomma, si tagliano proprio gli aiuti che attribuiscono al nostro sistema fiscale una certa equità sociale. E non è finita. Con un´aggiunta a dir poco sorprendente, dal momento che arriva da chi ha sempre tuonato contro le tasse sulla casa, si decide di abolite l´esenzione Irpef sull´abitazione principale.

PESANTE EREDITÀ
Riassumendo, prima di andarsene il governo di allora lascia in eredità al successivo nuove pesantissime tasse per le famiglie con figli e con redditi bassi e per tutte quelle che vivono in abitazioni di loro proprietà. Così quando arriva Monti, il nuovo governo si trova subito tra i piedi questa bomba ad orologeria e si affretta a sostituire la stangata Irpef (socialmente insopportabile) con un aumento più o meno differito dell´Iva. Nelle previsioni ufficiali per il 2013 e 2014, intanto, la pressione fiscale sale ancora: non più verso il 44 per cento ma a ridosso del 45. Tutto questo avviene prima del governo Monti, che poi, a sua volta, innalza ulteriormente la pressione fiscale portandola, come denuncia la Corte dei Conti, quasi un punto più su, appena sotto il 46%. A conti fatti, Silvio Berlusconi aumenta le tasse di due punti percentuali e Mario Monti di un altro punto. Risultato finale: due a uno.

La Repubblica 13.01.13

"Così l’Imu è iniqua. Perché e come va cambiata", di Ruggero Paladini

La riduzione delle tasse (e dell’Imu in particolare) è il cavallo sul quale è salito Berlusconi per una (per fortuna improbabile) rimonta. Abbandonate le promesse di milioni di posti di lavoro, l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa è una proposta sicuramente popolare, già usata dal cavaliere nel 2006, nel suo duello perso con Prodi, e poi attuata nel 2008 (con l’Ici) quando tornò al governo. Poiché tutte le imposte si pagano con il reddito – siano imposte sui consumi, sugli immobili o sul reddito stesso – ci si potrebbe chiedere perché in particolare insistere con l’Imu, piuttosto che promettere, ad esempio, di non far scattare l’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento, o di diminuire di un punto le prime due aliquote dell’Irpef (come ha fatto Monti).
Quando fu introdotta l’Ici (giusto venti anni fa, ai tempi della maxi-manovra del governo Amato per salvare la lira, e l’Italia), ricordo che comparvero dei manifesti di un certo Comitato Anti Ici (Cai) il cui argomento fondamentale era: il proprietario che vive nel suo appartamento non riceve nessun reddito, inteso come quantità di denaro, e quindi non c’è capacità contributiva. L’argomento continua ad echeggiare ancora oggi. Un decennio prima Franco Reviglio, preparando un Libro Bianco sulla tassazione degli immobili, si era preoccupato di inserire nella premessa una citazione di Einaudi, in cui il grande economista (per decenni professore di scienza delle finanze) argomentava ovviamente come il flusso di servizi resi dalla casa in cui si vive rappresentano un reddito ed un consumo, da cui si deduceva che l’argomento del Cai fosse una fesseria.
In tutti i Paesi l’imposizione sugli immobili costituisce la principale fonte di finanziamento degli enti locali, ed in molti Paesi la base imponibile è costituita dai valori di mercato; così in Francia o negli Usa. In Italia il problema dell’Imu è che i valori sono calcolati partendo dalle rendite catastali; ciò crea delle
differenze di imposta molto forti tra case che hanno lo stesso valore di mercato. Se nella media nazionale troviamo che il rapporto tra valori basati sulle rendite e valori di mercato è di uno a due, la variabilità è estremamente alta, e va da località dove il valore di mercato è addirittura più basso di quello stimato con le rendite, a località dove invece il primo (valore catastale) è neppure un quarto del secondo. È inutile spiegare l’iniquità di questa situazione, che è stata richiamata dal documento di Bruxelles.
La variabilità del rapporto tra i valori veri e quelli stimati su base catastale è connessa con il grado di anzianità dell’immobile. Più le case sono vecchie, più hanno rendite catastali basse. Solamente in alcuni centri storici cittadini i comuni hanno proceduto a un aggiornamento delle rendite di case, spesso di alto pregio, che si trovavano collocate in A3 o A4 (case popolari o ultra-popolari). Ciò determina un effetto distributivo ai danni di coloro che vivono nelle periferie delle città, dove le costruzioni sono più recenti e quindi le rendite catastali più ampie. Il sottosegretario Vieri Ceriani aveva messo al primo posto dell’attuazione delle legge delega l’adeguamento delle rendite ai valori di mercato, ma l’opposizioni dei berluscones ne ha impedito l’approvazione. Questo è il primo punto sul quale il governo Bersani dovrà impegnarsi.
Il profilo equitativo dell’imposta può ulteriormente essere migliorato. Già oggi nel suo insieme vi è un grado di progressività, se guardiamo ai redditi dei nuclei familiari; ciò è assicurato dalle detrazioni, che esentano circa il 30% delle abitazioni prima casa nonché dalle aliquote più alte sulle abitazioni non prima casa omsu altri immobili. Ma il fenomeno sopra descritto opera in senso opposto, in quanto in genere i redditi di chi vive nelle case dei centri storici è maggiore di quello di chi vive nelle periferie. L’indicazione data da Bersani, di un aumento delle detrazioni, va quindi colta nel suo aspetto qualitativo: è possibile rendere più equa e più progressiva l’Imu, portando verso il 40% la percentuale delle prime case esentate dall’imposta. È anche opportuno considerare, in detrazione dal valore, il mutuo richiesto alle banche, che essendo ipotecario può essere riferito all’immobile. Si possono anche risolvere quelle particolari situazioni di persone anziane che hanno pensioni basse, per cui l’Imu viene a costituire una percentuale elevata della pensione. Una sospensione e rinvio dell’imposta, da saldare al momento in cui la casa passerà di mano, può risolvere il problema, con uno spostamento nel tempo del momento in cui il Comune incasserà il dovuto.
Con questi, e altri ritocchi sui quali non mi soffermo, l’imposta può assolvere alla funzione di finanziamento degli enti locali, così come avviene negli altri Paesi.
Vi è tuttavia un limite alla possibilità di accentuare la progressività dell’Imu, dovuto al carattere reale e non personale dell’imposta. Per fare un riferimento ad un’imposta reale che fu introdotta dal governo della destra storica, l’Imposta di Ricchezza Mobile (Irm) era un’imposta reale che colpiva separatamente i singoli redditi (da lavoro, da rendite, da interessi ecc… ). Quando si decise (dopo la prima guerra mondiale) di introdurre la progressività nel nostro sistema, ci si rese conto che non si poteva agire sulla Irm, e fu introdotta l’Imposta complementare (1923). Analogamente un’accentuazione della progressività richiede l’introduzione di un imposta personale sul patrimonio (anche limitato agli immobili, come Bersani ha più volte ipotizzato) con una elevata deduzione di base.

l’Unità 13.01.13

"Cig in deroga, le regioni in pressing sul governo", di Massimo Franchi

Venticinquemila lavoratori rischiano di non ricevere l’assegno di cassa integrazione in deroga. Il giorno dopo la denuncia della Cgil, anche le Regioni rilanciano la denuncia sul blocco dei pagamenti da parte dell’Inps. E come al solito parte lo scarica barile sulle responsabilità fra governo ed ente di previdenza. Ad oggi però nessuno contesta il fatto che le domande non ancora presentate all’Inps dalle Regioni non verranno nemmeno prese in considerazione. E visto che il ritardo nei pagamenti da parte dell’Inps è di circa due mesi si può stimare che un sesto dei 150mila posti di lavoro tutelati con la cassa integrazione in deroga è a rischio. Il conto è presto fatto: circa 25mila lavoratori rischiano di perdere l’assegno. E non solo quello di dicembre, visto che ci sono Regioni che impiegano anche quattro mesi a compilare la domanda, tanto che la Regione Veneto stima addirittura in tremila domande e ben 18mila lavoratori (più 3 mila per la mobilità in deroga) i lavoratori coinvolti solo sul suo territorio. La vicenda va ricapitolata per capirla meglio. Tutto inizia con una richiesta dell’Inps al governo sui criteri di pagamento. L’ente previdenziale infatti anticipa il pagamento della cassa in deroga che in seguito le Regioni (che finanziano e pagano questo ammortizzatore sociale e che autorizzano il pagamento dopo che azienda e sindacati firmano gli accordi entro 20 giorni dalla messa in cassa integrazione dei lavoratori) ripagano. Ebbene, il ministero del Welfare ha risposto all’Inps con una nota in cui impone all’ente previdenziale di occuparsi solo delle domande ricevute entro il 31 dicembre scorso. Le domande di Regioni e aziende in ritardo, anche solo di qualche giorno, non verranno accettate. Una situazione che ha mandato su tutte le furie Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni. «L’Inps ha bloccato il pagamento della Cassa Integrazione in deroga del 2012 autorizzata dopo il 31 dicembre, basandosi su una circolare del Ministero del Lavoro. Tutto ciò desta forte preoccupazione e le Regioni lanciano un appello per evitare di danneggiare lavoratori che vivono già un momento difficile. Occorre fare di tutto – aggiunge Errani – per non aggiungere ulteriori tasselli alla questione sociale». Già il 20 dicembre il coordinatore del Lavoro nell’ambito della Conferenza delle Regioni, Gianfranco Simoncini (assessore della Regione Toscana) avevo scritto al ministro del Lavoro, Elsa Fornero spiegando che i tempi erano troppo stretti. Ma nessuna risposta è arrivata. Ora Simoncini torna all’attacco. «Ci sono aspetti tecnici non attuabili anche dalle Regioni più virtuose i cui tempi di autorizzazione alla Cig in deroga non superano i 10-15 giorni. Bloccare le autorizzazioni al 31 dicembre 2012 è quindi incomprensibile e fra l’altro produce una sperequazione di trattamento fra chi dovrebbe fruire, e non può, della Cig in deroga e chi invece fruisce, perché non c’è blocco dei pagamenti, della Cassa ordinaria. Abbiamo chiesto al ministro un intervento urgente e chiediamo che il governo autorizzi i pagamenti per domande presentate entro il 31 marzo 2013». LA PAURA DI REGIONI E SINDACATI La vera paura di sindacati e Regioni è che tutta la partita nasconda ben altro motivo rispetto a quello sbandierato dal ministero e cioè «criteri più stringenti ». La paura è che il governo cerchi solamente pretesti per risparmiare fondi semplicemente perché non ha stanziato abbastanza fondi per poter pagare tutti. «Se così fosse sarebbe una cosa molto grave – attacca Simoncini – perché si farebbe pagare ai lavoratori una mancanza del governo. Negli accordi sottoscritti infatti il governo si è impegnato a coprire eventuali sbilanci che le Regioni avessero nel pagamento della Cig in deroga. E ciò va rispettato». La settimana prossima è previsto un incontro fra ministero e Regioni su questa materia. Inevitabilmente si affronterà anche il tema della circolare. «Speriamo che il governo faccia marcia indietro », si augura Simoncini. «Per noi – fanno sapere dall’Inps – non ci sarebbero problemi ad autorizzare i pagamenti anche perché si tratta di una partita di giro fra noi, il governo e le Regioni».

l’Unità 13.01.13

"Buffalo Bill, Toro Seduto e l'arbitro al Quirinale", di Eugenio Scalfari

C´era una grande attesa per l´incontro televisivo di Berlusconi con Santoro. Due nemici di vecchia data (ma con una riconciliazione di due anni di Santoro a Mediaset), due “showmen” di provato talento, due venditori di bubbole che rimontano in ogni occasione il vecchio film in cui Totò vende la Fontana di Trevi a Peppino De Filippo. Dove li trovate due personaggi come loro?
Il guaio, il terribile guaio per l´Italia, è stato che uno di loro ha guidato la politica del nostro paese per vent´anni riducendolo come l´ha ridotto. Purtroppo è accaduto spesso nella storia italiana, a partire da Cola di Rienzo, passando poi per i vari Masanielli toccando il culmine con Mussolini che ci rivendette l´Impero che tornava dopo venti secoli sui colli fatali di Roma. Il Cavaliere è stato più modesto: ha impedito che i comunisti conquistassero il potere in Italia quando non c´erano già più nemmeno in Russia. E vive ancora rivendendoci questa patacca.
Ora si discute quanto beneficio il Cavaliere abbia tratto dalla corrida contro Santoro e Travaglio. Due tori contro un matador. Chi ha vinto e chi ha perso? E quanto sono aumentati nei sondaggi i voti di Silvio? «Manco mezzo» ha scritto Giuliano Ferrara. Dall´uno al tre per cento hanno risposto alcuni sondaggisti.
Comunque un vantaggio l´hanno realizzato tutti e due, anzi tutti e quattro: Silvio, Michele, Marco e La7.
Il primo è stato sdoganato ed ora è di nuovo in battaglia, gli altri tre hanno incassato un´audience di 9 milioni di ascolto, come una puntata del festival di Sanremo o una partita di finale dei Mondiali di calcio. Ma non è stata una corrida, anche se la trasmissione era cominciata con le note della Carmen.
Il commento più bello l´ho letto su Repubblica di venerdì e l´ha scritto Francesco Merlo: «Si sono legittimati a vicenda come gli anziani Buffalo Bill e Toro Seduto che in un famoso film di Altman ripropongono il combattimento del Selvaggio West ma sotto il tendone del circo quando ormai molte lune hanno logorato il Grande Spirito e i malinconici compari hanno esaurito i proiettili l´uno e le frecce l´altro».
Alla fine, dopo un´ora soporifica, hanno anche finto di litigare; Berlusconi ha inventato una “gag” degna di Stanlio e Ollio pulendo col fazzoletto la sedia dove s´era seduto Travaglio; Santoro gli ha poi fatto un “assist” prezioso facendo apparire in video un´imprenditrice bergamasca che invocava il ritorno alla lira per poter pagare i suoi debiti alle banche. Berlusconi ha raccolto la palla e l´ha spedita in rete concordando con la signora sulla intollerabilità dei sacrifici ma correggendone la terapia: non tornare alla lira ma imporre all´Europa una politica keynesiana. «Perciò votatemi, solo io potrò ottenere questo piegando la volontà della Merkel, ma debbo avere tutti i voti, un potere assoluto e una Repubblica presidenziale».
Una sola regia ha guidato lo spettacolo e le regole di ingaggio concordate: erano due populismi che s´incontravano e si sorreggevano a vicenda, uno di estrema destra, l´altro di estrema sinistra. Due populismi con la stessa patacca da rifilare a chi li segue con innocente e credulona ingenuità.

* * *

Non sono certo i soli i populismi di Berlusconi e di Santoro-Travaglio. C´è Grillo che vuole sbaraccare partiti e istituzioni instaurando una Repubblica referendaria e uscendo dall´euro e dall´Europa; c´è Ingroia che apre a Grillo ma intanto recluta i suoi dissidenti nella sua lista, si allea con Di Pietro e propone una Repubblica guidata dai magistrati; c´è la Lega che vuole la secessione della multiregione Lombardia-Veneto-Piemonte, che trattenga sul territorio tutte le imposte pagate dai residenti più la quota pro capite degli interessi che ci costa il debito pubblico.
A quanto può arrivare il consenso che uscirà dalle urne a queste varie forme di demagogia che si vale, ciascuna, di imbonitori ben collaudati? All´ingrosso io darei almeno il 40 per cento nel loro complesso. Marciano separati ma colpiscono insieme. Dunque la minaccia è forte.
Non hanno programmi salvo quello di mandare all´aria tutte le strutture esistenti, la democrazia rappresentativa, lo Stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri, la Corte Costituzionale, la moneta comune, l´Europa, le imposte che debbono essere ridotte al minimo. E ovviamente la politica e i partiti.
Il mito che aleggia su questo variopinto calderone dove il bollore ha raggiunto il massimo nell´imminenza delle elezioni è la società civile.
Non si sa che cosa rappresentino queste due parole e quale sia il nuovo che esse esprimono e il vecchio che condannano. La società civile non si identifica con una specifica classe sociale, non è la classe operaia, non è il terzo stato, non è la borghesia, non è la nobiltà e non è il proletariato. Direi che sono due parole sinonime di altre due e cioè popolo sovrano, sinonimo a sua volta di un´unica parola, demos, democrazia. Dov´è dunque la novità?
Forse la novità consiste nell´abolizione dell´aggettivo “delegato”. Il più coerente da questo punto di vista è il grillismo che prevede i referendum come unici strumenti di governo e i funzionari incaricati di amministrare l´azienda pubblica come impiegati guidati da capi “pro tempore” in carica per pochi mesi a rotazione. Una sorta di condominio al posto dello Stato, cioè come l´esperienza insegna il peggio del peggio.
Se questa è la società civile ipotizzata dall´antipolitica, la storia ci racconta di tutte le volte che una situazione del genere si realizzò: sboccarono sempre nella dittatura o nei casi migliori nell´oligarchia o nella tecnostruttura, tutte soluzioni che degradano il popolo sovrano al rango di gregge. La storia non fa eccezioni, è sempre stato così.

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Se le varie formazioni antipolitiche e populiste avranno come credo un consenso complessivo attorno al 40 per cento dei voti espressi, ne rimane il 60 per le formazioni politiche che si propongono obiettivi di cambiamento e di modernizzazione per rinnovare le istituzioni senza distruggerle, anzi per accrescerne l´efficienza e la moralità, dove l´efficienza significa produrre maggiori risultati a costi minori e la moralità significa superare il “particulare” mirando al bene comune, all´interesse generale e non solo per l´immediato presente ma per il tempo lungo dei figli e dei nipoti.
In questo spazio si muovono sia il partito democratico sia la formazione che finora si era sempre definita come Centro ma questa volta assume come indicazione elettorale il nome di Mario Monti non più nella sua veste di tecnico chiamato per fronteggiare un´emergenza che aveva bisogno dell´appoggio di tutte le forze politiche, ma per impegnarsi e “salire in politica”. Con un suo programma. Con civettuola modestia quel programma è stato chiamato “agenda”. Si è aperta a questo punto una discussione se il contenuto di quel programma fosse simile al programma dell´altra forza politica in campo e cioè il Pd, il solo in tutto il panorama attuale che sia un vero partito e non si vergogni di dirlo, anzi lo rivendichi con orgoglio.
Personalmente ho sostenuto che i due programmi sono molto simili nelle loro linee maestre. Altri osservatori hanno affermato il contrario. Bersani si è rimesso al giudizio della pubblica opinione sostenendo tuttavia che ad elezioni avvenute il suo obiettivo sarà quello di allearsi con i montiani. Monti invece resta stretto all´unicità della sua “agenda”, sostiene che non esiste più un problema di destra e di sinistra ma solo di riformismo e rinvia a dopo le elezioni il tema delle alleanze.
Spenderò poche parole sulla diversità o le analogie dei due programmi di Monti e di Bersani. Tutti e due hanno manifestato la ferma intenzione di rispettare gli impegni presi con l´Europa; tutti e due – nei limiti di quegli impegni – hanno prospettato la necessità e l´urgenza di accrescere il tasso di equità, cioè di giustizia sociale, spesso trascurato se non addirittura schiacciato dall´emergenza; tutti e due mettono al primo posto la ripresa degli investimenti, dell´occupazione, del welfare e la diminuzione delle diseguaglianze sociali e geografiche; tutti e due vogliono un´Europa più federale e una Banca centrale equiparata a quelle esistenti in tutti gli Stati sovrani.
Non sto raccontando favole, ma riferisco i programmi e gli obiettivi dichiarati ripetutamente e pubblicamente dai leader di quelle due formazioni e dai loro alleati, a cominciare da Vendola, che Monti e il Corriere della Sera continuano a descrivere come un pericoloso bolscevico ignorando volutamente le affermazioni da lui ripetute ormai infinite volte a terminare con la trasmissione “Otto e mezzo” di tre giorni fa nel corso della quale Gianfranco Fini anch´egli presente in quell´occasione ne ha preso finalmente atto.
Le linee maestre sono dunque analoghe, la sensibilità sociale del Pd è certamente più marcata di quella dei montiani. Infatti Monti si muove nell´ambito del Partito popolare europeo, Bersani in quello del Partito socialista.
Dov´è dunque – se c´è – la vera differenza tra questi due soggetti politici?

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Purtroppo questa differenza c´è ed è molto rilevante, anzi addirittura preoccupante ed emerge ormai dalle esplicite dichiarazioni di Monti e di Casini.
Poiché i montiani non possono aspirare realisticamente a scavalcare la forza elettorale del centrosinistra, l´obiettivo che si propongono è quello di rendere impossibile una maggioranza al Senato, favoriti da una legge elettorale che rende possibile quest´ipotesi. Identico obiettivo per le stesse ragioni si propongono Berlusconi e la Lega.
È un obiettivo più che legittimo: chi partecipa a una competizione elettorale si propone di vincere dove può e come può. Nel caso dei montiani tuttavia c´è una postilla estremamente inquietante: se al Senato sarà necessaria un´alleanza tra il centrosinistra e i montiani, questi ultimi pretenderanno un governo guidato da Monti e strutturato a sua immagine e somiglianza.
Da un lato un partito che avrebbe la maggioranza dei voti e dei seggi alla Camera, dall´altro una lista con un numero di senatori appena sufficienti a fare maggioranza insieme al centrosinistra a condizione però di prendere tutto il piatto della partita. Alternativa: legislatura ingovernabile e necessità di nuove elezioni, con quali ripercussioni in Europa e sui mercati lascio ai lettori di immaginare.
Questo è il punto. Può darsi che, ad elezioni avvenute, i montiani si ravvedano. Voglio sperarlo ed escludo che possano proporre la medesima soluzione a un Berlusconi che sarebbe sicuramente molto più arrendevole alle loro richieste. Ma non andrà così anche perché c´è, per fortuna dell´Italia, un arbitro al Quirinale.

La Repubblica 13.01.13

«Un bambino può crescere bene con una coppia gay», di Vincenzo Ricciarelli

Svolta nel diritto di famiglia e sul tema dei diritti civili. Per l’affidamento, secondo la Cassazione, una coppia omosessuale ha gli stessi requisiti delle altre e i figli, quindi, possono crescere in modo altrettanto equilibrato. La prima sezione civile della Suprema Corte ha per questo rigettato il ricorso presentato da un padre, di religione musulmana, contro la sentenza con cui la Corte d’appello di Brescia aveva stabilito l’affidamento esclusivo del figlio minore alla madre, ex tossicodipendente, la quale aveva deciso di andare a convivere con una delle educatrici che aveva conosciuto in una comunità di recupero. La decisione dei giudici di Brescia era conseguenza di un episodio violento messo in atto dal papà, alla presenza del bambino, ai danni della convivente della mamma. L’uomo era ricorso in Cassazione lamentando la carenza motivazionale della decisione di merito sull’«idoneità sotto il profilo educativo» della famiglia in cui il minore era stato inserito, «composta da due donne legate da una relazione omosessuale».
PRINCIPI DA VALUTARE
I giudici, secondo il ricorrente, non avevano approfondito se tale tipo di famiglia potesse «garantire l’equilibrato sviluppo del bambino», proprio in relazione «ai diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio di cui all’articolo 29 della Costituzione, all’equiparazione dei figli nati fuori dal matrimonio con i figli legittimi di cui all’articolo 30 della Costituzione e al diritto fondamentale del minore di essere educato secondo i principi educativi e religiosi di entrambi i genitori». Fatto questo, si rilevava nel ricorso, «che non poteva prescindere dal contesto religioso e culturale del padre, di religione musulmana». La Cassazione, con la sentenza n. 601, ha bocciato il ricorso, sottolineando che «alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza», ma solo «il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale». In tal modo, osservano i giudici del Palazzaccio, «si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino».
Secondo Ignazio Marino, «la Corte di Cassazione ha sancito un principio di civiltà: dovremmo smettere di guardare a temi così importanti, come sono i diritti civili, con lenti del Novecento. La conoscenza scientifica deve contribuire ad eliminare certi tabù e credo che le persone che si amano debbano, a prescindere dal loro sesso, avere gli stessi diritti». «Non si può decidere su temi così importanti – ha aggiunto Marino – spinti dal pregiudizio: vent’anni fa avrei risposto che ero contrario alle adozioni da parte di coppie omosessuali».
Critico Maurizio Gasparri del Pdl: «Al di là del caso specifico, quanto affermato dalla Cassazione in tema di adozioni omosessuali rappresenta un precedente molto pericoloso». «Di fatto – spiega Gasparri – apre ai figli nelle coppie gay, sostituendosi al legislatore giacché nel nostro Paese non è possibile dare in affido un bambino a coppie dello stesso orientamento sessuale».
«La Prima sezione civile della Cassazione ha sempre emesso sentenze di grande civiltà e spinge il legislatore a legiferare su questo tema» dichiara la deputata Pd Paola Concia, secondo la quale sentenze come questa «responsabilizzano la politica» sul tema dell’omogenitorialità, una delle prime leggi proposte dalla stessa Concia durante l’ultima legislatura: «Noi la responsabilità ce la siamo presa perché la legge la faremo, bisogna coprire questo vuoto legislativo innanzitutto per la tutela dei bambini stessi. Dalla destra – conclude Concia – arrivano solo bugie inficiate dalla realtà dei fatti, perché in Italia sono «circa 100mila i bambini con i propri genitori omosessuali».
«Ancora una volta, un tribunale italiano dà ragione alla famiglia composta da persone dello stesso sesso» sottolinea l’Arcigay, rilevando che «non solo, negli anni scorsi, la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno dichiarato il matrimonio omosessuale perfettamente compatibile con la nostra Costituzione, ora la Corte di Cassazione ribadisce quello che ripetevamo da tempo e cioè che un bambino cresce in una famiglia omosessuale esattamente allo stesso modo di un bambino che cresce in una famiglia uomo-donna».

L’Unità 12-01.12

"La rivoluzione dei democratici", di Alfredo Reichlin

E’ cominciata – e andrà avanti, e sarà al centro dello scontro elettorale – la discussione sulle cosiddette “agende” quella di Monti o quella di Bersani.
È naturale. Cercherò anch’io di dire la mia. Ma intanto, nelle ultime settimane è avvenuto qualcosa che non ha precedenti, e che già, fin d’ora, rappre- senta un mutamento delle forze in gioco. Entrano nuovi attori e questo non potrà non avere profonde conseguenze. Quali è difficile valutare nell’immediato ma tutto ciò suscita in me grandi speranze e nuovi interrogativi.
Il fatto è grosso. Le candidature al nuovo Parlamento presentate dal Pd non stanno più nei limiti di un vasto ricambio. A me sembrano, piuttosto l’avvento, dopo decenni, di una nuova classe dirigente. Non è una piccola cosa. E in più il fatto che nella vecchia, maschilista, cattolica Italia il 40% dei parlamentari del centrosinistra sarà composto da donne. Non è un ricambio. È una rivoluzione.
Altro che l’«agenda Monti non si tocca», caro vecchio amico Umberto Ranieri. Sono le cose che la toccano. E poiché dopotutto l’economia non è un rapporto tra «cose» (gli insindacabili mercati) ma tra «persone», anche le «scandalose» polemiche di Fassina sul rapporto tra «rigore» e sviluppo presto appariranno datate.
Di colpo, a fronte di un fenomeno come questo, un vecchio militante come chi scrive si sente come lontano, spiazzato, spinto più che a parlare a capire. Questo da un lato, dall’altro quel militante, che poi sono io, vede riaprirsi un orizzonte, quello in cui la politica cessa di essere solo una lotta per il comando tra vertici ristretti e torna a essere lo strumento che offre agli uomini, associati tra loro (e non solo i ricchi), la capacità di incidere sulle decisioni dello Stato e di decidere del proprio destino. Del resto sta tutto qui il senso della mia lunga militanza, e spero solo che invece non venga avanti un nuovo ceto politico interessato quasi soltanto alla conquista delle cariche pubbliche.
È con molta attenzione che bisogna leggere le idee e i programmi. Perché un programma non può essere il solito elenco di «occorrismi» (occorre fare questo, occorre fare quest’altro) e di promesse. Da un lato, un programma è una «visione» complessiva del Paese e dei suoi possibili sviluppi storici (quale Italia europea di domani). Dall’altro è il «come»: con chi e contro chi è possibile realizzarlo. È presuntuoso da parte mia dire alla nuova classe dirigente che questo è il suo compito? Ricordo una discussione con Pietro Scoppola negli anni della fondazione del Partito democratico. Il Pd – egli diceva – se vuole avere un futuro non deve fondarsi solo sul programma (pure indispensabile), ma avere un disegno storico e assumere la missione di riformare in senso anche morale un Paese che è antico ma ha una debole idea di sé e del proprio destino. La preoccupazione dominante di questo grande amico era combattere la crisi di identità sia delle persone che delle comunità, aggravata dalle spietate logiche speculative di un superpotere finanziario che è arrivato a negare soprattutto ai giovani la libertà di costruirsi una vita propria attraverso il lavoro. Mi colpisce che adesso, anni dopo, Bersani dice più o meno la stessa cosa: moralità e lavoro.
Dietro queste due parole ci deve essere la consapevolezza della sfida che il processo di costruzione di una nuova Europa lancia all’Italia. Se il nostro Paese non vuole uscire dalla storia moderna, esso deve essere ricostruito. Perciò il Pd non accetta lezioni da Monti. Perché non sto parlando solo dell’economia monetaria ma del modo di stare insieme degli italiani. È questo che deve essere cambiato, qualcosa di simile – per capirci – a ciò che toccò ad altri giovani di fare, dopo il fascismo e a fronte di un cambiamento come la fine dell’Italia contadina. Non si va in Europa con questo Mezzogiorno (il problema principale del Paese di cui nessuno parla); con questa corruzione; con questa inefficienza dello Stato; con questa disoccupazione. Abbiamo fatto benissimo a sostenere il governo di Mario Monti. Era la condizione per tornare europei. Ma adesso ciò che conta è la capacità di mobilitare il capitale umano e il capitale sociale italiano secondo un nuovo disegno nazionale. Forse anche tra di noi è ancora troppo debole la severa consapevolezza che spetta a noi assumere la responsabilità molto pesante di guidare l’Italia perché è evidente che senza il Pd l’Italia non va da nessuna parte.
Il problema più impellente è come si esce dalla crisi di un sistema che si regge sui debiti e sulle rendite finanziarie, per pagare le quali stiamo bruciando i posti di lavoro e i mobili di famiglia. Il problema è questo, non è Vendola. In pratica è quello di chiedersi come avviare un nuovo ciclo economico nella consapevolezza che anche per rispondere ai formidabili mutamenti demografici del mondo extraeuropeo occorre una ripresa del tasso di crescita e, soprattutto, un miglioramento dell’efficienza del sistema Paese. Si tratta quindi di dire chiaramente se pensiamo a un nuovo ciclo trainato ancora dalla crescita dei consumi privati, oppure da un tipo di sviluppo diverso, in cui la crescita della domanda interna sia determinata da un flusso di investimenti pubblici rivolti a fare compiere all’apparato produttivo un salto di qualità, verso la green economy per consentirgli di riposizionarsi adeguatamente in un mercato mondiale in profondo cambiamento.
È solo con forti aumenti della produttività che possiamo sostenere il debito senza uccidere l’economia reale. Tutto sta quindi nel potenziare i beni pubblici, quali la messa in sicurezza e la volarizzazione del territorio, il complesso delle infrastrutture, l’istruzione, la sanità, la ricerca, la giustizia, l’ordine pubblico. Resta da vedere come uno sviluppo trainato da beni pubblici possa esse- re finanziato in una situazione di bilancio così deteriorata. Io penso che, probabilmente, questo sarà il principale problema della politica economica nei prossimi anni. E una risposta a questo problema non potrà essere data senza la collaborazione europea e senza inventare nuove forme di collaborazione fra privato e pubblico, sia per quanto comporta la messa in campo di nuovi modelli di finanziamento degli investimenti, sia per quanto riguarda nuove forme di welfare e di utilizzo di capacità sociali.
Ecco perché mi chiedo quale sarà il pensiero e il linguaggio del nuovo ceto dirigente del Pd. Come cambierà il suo senso comune rispetto alla vecchia egemonia liberista? Come staranno insieme culture molto diverse tra loro, come dice l’elenco dei candidati al Parlamento che va da Mario Tronti, al dirigente della Mac Kinsey, al cattolico militante? Confesso che ponendomi questa domanda ho ripensato a Bruno Trentin, che fu un grande capo della Fiom e poi della Cgil. Insomma – si tenga forte il professor Monti – il Landini e la Camusso del suo tempo. Io ricordo bene il modo con cui Bruno pensava il lavoro moderno. La libertà prima di tutto, si intitola il suo ultimo libro. E la libertà per Trentin è autonomia delle persone. autodeterminazione, possibilità di autorealizzazione. È quindi la dignità e la libertà del lavoro. Perché è con il lavoro e attraverso il lavoro che l’uomo si realizza. Per Bruno il lavoro è il diritto dei diritti, il garante fondamentale della libertà della persona. È evidente la diversità rispetto alla dottrina liberale. Ma è un pensiero diverso anche rispetto alla concezione che fa dipendere la liberazione umana dalla proprietà collettiva e dal primato dello statalismo e del classismo. Quella di Trentin era una concezione del lavoro direi perfino antropologica, cioè come il tratto più tipico della condizione umana. Ed è per questo che il lavoro sta alla base di una economia moderna che non produce solo vecchie merci, ma beni immateriali. Il lavoro è quindi il fondamento dello sviluppo della società moderna e della democrazia. Moralità e lavoro. Esiste ancora un nesso tra passato e presente.

L’Unità 12.01.13

"Senza memoria", di Massimo Gramellini

Non mi stupisce che a un anno dall’affondamento la Concordia sia ancora lì, coricata su un fianco, immagine-simbolo di un Paese alla deriva. Mi stupisce che Schettino non sia ancora ministro dei Trasporti. Succederà. Non si è appena candidato Moggi? Gli italiani non hanno memoria. Tranne uno che ricorda sempre tutto. Per esempio che coi comunisti, da Occhetto a Santoro, si rimediano figuroni. I comunisti, suo elisir di lunga vita. Il veleno sono i democristiani. Come Prodi, che lo ha sempre battuto. O come Renzi, contro il quale non si sarebbe mai presentato, ma che la sinistra gli ha tolto di mezzo in un ennesimo slancio di generosità.
L’uomo dalla memoria lunga sa che i suoi elettori ce l’hanno corta, cortissima. Se oggi stanno peggio di ieri, danno la colpa a chi li governa oggi. Non a chi, sgovernandoli fino a ieri, ha costruito l’oggi. Se ne infischiano del rapporto causa-effetto. Per loro la vita è un eterno presente di cattivi umori. Le emozioni sono la stella cometa. E risuonano nei chakra più bassi, quelli dell’ego, irrobustiti da decenni di pubblicità. Nessuno sa raggiungerli meglio del grande illusionista che con coraggio, faccia tosta e indubbio talento di venditore si presenta ogni volta sulla scena del disastro da lui prodotto come se ne fosse la vittima nonché l’unico in grado di porvi rimedio. Il tribuno del Movimento Canale 5 (Stelle) ha abbastanza memoria da ricordarsi che i pinocchi senza memoria si stufano in fretta del Grillo Parlante in loden, come di quello barbuto e sbraitante. Preferiscono prestare orecchio a un omino di burro che da vent’anni promette il Paese dei Balocchi.

La Stampa 12.01.13