attualità, politica italiana

"Così l’Imu è iniqua. Perché e come va cambiata", di Ruggero Paladini

La riduzione delle tasse (e dell’Imu in particolare) è il cavallo sul quale è salito Berlusconi per una (per fortuna improbabile) rimonta. Abbandonate le promesse di milioni di posti di lavoro, l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa è una proposta sicuramente popolare, già usata dal cavaliere nel 2006, nel suo duello perso con Prodi, e poi attuata nel 2008 (con l’Ici) quando tornò al governo. Poiché tutte le imposte si pagano con il reddito – siano imposte sui consumi, sugli immobili o sul reddito stesso – ci si potrebbe chiedere perché in particolare insistere con l’Imu, piuttosto che promettere, ad esempio, di non far scattare l’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento, o di diminuire di un punto le prime due aliquote dell’Irpef (come ha fatto Monti).
Quando fu introdotta l’Ici (giusto venti anni fa, ai tempi della maxi-manovra del governo Amato per salvare la lira, e l’Italia), ricordo che comparvero dei manifesti di un certo Comitato Anti Ici (Cai) il cui argomento fondamentale era: il proprietario che vive nel suo appartamento non riceve nessun reddito, inteso come quantità di denaro, e quindi non c’è capacità contributiva. L’argomento continua ad echeggiare ancora oggi. Un decennio prima Franco Reviglio, preparando un Libro Bianco sulla tassazione degli immobili, si era preoccupato di inserire nella premessa una citazione di Einaudi, in cui il grande economista (per decenni professore di scienza delle finanze) argomentava ovviamente come il flusso di servizi resi dalla casa in cui si vive rappresentano un reddito ed un consumo, da cui si deduceva che l’argomento del Cai fosse una fesseria.
In tutti i Paesi l’imposizione sugli immobili costituisce la principale fonte di finanziamento degli enti locali, ed in molti Paesi la base imponibile è costituita dai valori di mercato; così in Francia o negli Usa. In Italia il problema dell’Imu è che i valori sono calcolati partendo dalle rendite catastali; ciò crea delle
differenze di imposta molto forti tra case che hanno lo stesso valore di mercato. Se nella media nazionale troviamo che il rapporto tra valori basati sulle rendite e valori di mercato è di uno a due, la variabilità è estremamente alta, e va da località dove il valore di mercato è addirittura più basso di quello stimato con le rendite, a località dove invece il primo (valore catastale) è neppure un quarto del secondo. È inutile spiegare l’iniquità di questa situazione, che è stata richiamata dal documento di Bruxelles.
La variabilità del rapporto tra i valori veri e quelli stimati su base catastale è connessa con il grado di anzianità dell’immobile. Più le case sono vecchie, più hanno rendite catastali basse. Solamente in alcuni centri storici cittadini i comuni hanno proceduto a un aggiornamento delle rendite di case, spesso di alto pregio, che si trovavano collocate in A3 o A4 (case popolari o ultra-popolari). Ciò determina un effetto distributivo ai danni di coloro che vivono nelle periferie delle città, dove le costruzioni sono più recenti e quindi le rendite catastali più ampie. Il sottosegretario Vieri Ceriani aveva messo al primo posto dell’attuazione delle legge delega l’adeguamento delle rendite ai valori di mercato, ma l’opposizioni dei berluscones ne ha impedito l’approvazione. Questo è il primo punto sul quale il governo Bersani dovrà impegnarsi.
Il profilo equitativo dell’imposta può ulteriormente essere migliorato. Già oggi nel suo insieme vi è un grado di progressività, se guardiamo ai redditi dei nuclei familiari; ciò è assicurato dalle detrazioni, che esentano circa il 30% delle abitazioni prima casa nonché dalle aliquote più alte sulle abitazioni non prima casa omsu altri immobili. Ma il fenomeno sopra descritto opera in senso opposto, in quanto in genere i redditi di chi vive nelle case dei centri storici è maggiore di quello di chi vive nelle periferie. L’indicazione data da Bersani, di un aumento delle detrazioni, va quindi colta nel suo aspetto qualitativo: è possibile rendere più equa e più progressiva l’Imu, portando verso il 40% la percentuale delle prime case esentate dall’imposta. È anche opportuno considerare, in detrazione dal valore, il mutuo richiesto alle banche, che essendo ipotecario può essere riferito all’immobile. Si possono anche risolvere quelle particolari situazioni di persone anziane che hanno pensioni basse, per cui l’Imu viene a costituire una percentuale elevata della pensione. Una sospensione e rinvio dell’imposta, da saldare al momento in cui la casa passerà di mano, può risolvere il problema, con uno spostamento nel tempo del momento in cui il Comune incasserà il dovuto.
Con questi, e altri ritocchi sui quali non mi soffermo, l’imposta può assolvere alla funzione di finanziamento degli enti locali, così come avviene negli altri Paesi.
Vi è tuttavia un limite alla possibilità di accentuare la progressività dell’Imu, dovuto al carattere reale e non personale dell’imposta. Per fare un riferimento ad un’imposta reale che fu introdotta dal governo della destra storica, l’Imposta di Ricchezza Mobile (Irm) era un’imposta reale che colpiva separatamente i singoli redditi (da lavoro, da rendite, da interessi ecc… ). Quando si decise (dopo la prima guerra mondiale) di introdurre la progressività nel nostro sistema, ci si rese conto che non si poteva agire sulla Irm, e fu introdotta l’Imposta complementare (1923). Analogamente un’accentuazione della progressività richiede l’introduzione di un imposta personale sul patrimonio (anche limitato agli immobili, come Bersani ha più volte ipotizzato) con una elevata deduzione di base.

l’Unità 13.01.13