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“Cambiare l’Italia è possibile”, di Claudio Sardo

Pier Luigi Bersani ha vinto le primarie, e ora è il candidato premier del centrosinistra. Un grande evento democratico, di cui sono stati protagonisti oltre tre milioni di cittadini, ha cambiato la politica nazionale e acceso la speranza di una nuova stagione. È stata la vittoria di chi pensa che l’Italia possa uscire dall’emergenza, compresa quella del governo tecnico. È stata la vittoria del coraggio di Bersani, che ha messo in gioco se stesso e il suo partito per fare primarie aperte: e dalle urne è uscito con una legittimazione più forte e popolare, anzi con la responsabilità ormai di guardare al Paese, che chiede nuovo sviluppo, equità sociale e una leadership capace di includere in un progetto innovativo tutte le forze che vogliono mantenere l’Italia nella serie A del mondo. È un compito che somiglia a quello dei leader ricostruttoridel dopoguerra.
E che avrà bisogno del sostegno di un partito forte, radicato nella società. Quel partito che ha tratto un enorme beneficio dalla fatica democratica delle primarie, smentendo quella contrapposizione con la società civile che è stata l’ideologia nera della Seconda Repubblica. Per questo ieri è stato anche il giorno della vittoria dei volontari – l’intelligenza collettiva del centrosinistra – nonostante le difficoltà e le polemiche di quest’ultima settimana.
Ma la vittoria di Bersani nulla toglie al successo di Renzi, che resta tale nonostante i numeri del ballottaggio. La carica agonistica del sindaco di Firenze e il suo messaggio, anche quello di rottura, hanno fatto presa su una parte importante dell’elettorato di centrosinistra. E hanno attratto consensi dall’esterno. Ora Renzi è chiamato ad assumere un compito di leadership oltre la competizione: sarà parte integrante del progetto comune.
Ci aspettano settimane difficili. La battaglia elettorale non ha un esito scontato. Darebbe una grande forza al progetto se i cinque contendenti delle primarie, guidati da Bersani, si presentassero alle elezioni nella medesima lista, in un Pd più grande. Non sappiamo se la riforma elettorale si farà, e se ci sarà convenienza nell’accelerare questa convergenza prima del voto. Ma abbiamo bisogno di partiti grandi per progetti grandi, e abbiamo bisogno di circuiti trasparenti e partecipati per rafforzarli. Le primarie sono state una grande prova di democrazia. Un’iniezione di ottimismo nella dura crisi sociale. È il contributo del centrosinistra per la riscossa dell’Italia.
L’Unità 03.12.12
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Pier Luigi, tra la via Emilia e il Partito «Il carisma? Preferisco dare sicurezza» 53,15% i voti nel 2009 di Aldo Cazzullo
La maggioranza dei politici, vista da vicino, è peggiore di come appare: superficiale, opportunista, disinteressata
al prossimo ma non a quello che può ricavarne. C’è poi una minoranza che è migliore di come viene presentata. A questa minoranza appartiene Pier Luigi Bersani. Bersani non ha carisma, ma ha una sua luce negli occhi, che si accende di fronte a una storia, un libro, una questione che lo interessa; ed è raro che qualcosa non lo interessi. È un uomo con i suoi limiti, come tutti. Ma i limiti di Bersani non sono quelli che di solito gli vengono attribuiti. Ad esempio non è affatto una personalità debole, tendente al compromesso, bisognosa dell’appoggio altrui; al contrario, si è preso il partito con pazienza ed energia, si è liberato sia degli avversari sia degli amici ingombranti, si è sottratto ai condizionamenti non solo di Veltroni ma soprattutto di D’Alema, della Bindi, dello stesso Prodi (anche se si è circondato di qualche quarantenne che ha la stessa arroganza di D’Alema senza essere D’Alema). Il limite di Bersani coincide con quella che viene considerata una sua forza, e l’ha condotto alla vittoria di ieri: il radicamento nella storia del Partito e nella sua cultura; che nel frattempo però è molto cambiata. Per questo la prova decisiva non è stata quella delle primarie, ma sarà il voto nazionale di inizio 2013.
Bersani pensa ancora il proprio come il Partito degli oppressi, degli sfruttati, dei proletari. E in effetti la sinistra per vincere avrebbe bisogno anche del voto popolare; che però le sfugge da decenni, e non sarà facile riconquistare a suon di nuove tasse. Da decenni gli operai lombardi e veneti votano Lega, le casalinghe e i disoccupati del Sud stanno con Berlusconi, mentre ora studenti e precari guardano a Grillo. Il Pd — proprio come il Ps di Hollande, non a caso il leader europeo con cui Bersani si trova meglio — è un partito innanzitutto di ceto medio dipendente, insegnanti, funzionari pubblici, pensionati, borghesia intellettuale, oltre che di emiliani e toscani; gente non proprio entusiasta della patrimoniale che apre la lista delle promesse di Bersani.
L’altra eredità del Partito che ancora condiziona il neocandidato premier è la ricerca dell’accordo con i moderati, l’idea che la sinistra da sola può vincere in tutta Europa ma non in Italia, e quindi deve unirsi a chi di sinistra non è. È la linea di Togliatti e di Berlinguer, e ha come premessa fondativa la Costituzione repubblicana, la parola più citata nel libro intervista che Bersani ha scritto per Laterza con Miguel Gotor e Claudio Sardo, che sono oggi non casualmente il suo consigliere politico e il direttore dell’Unità. Ha destato ironie la scelta di indicare come mentore papa Giovanni. Se è per questo, Bersani dedicò la tesi di laurea a papa Gregorio Magno (più precisamente a «grazia e autonomia umana nella prospettiva ecclesiologica» del Pontefice). A chiedergli se crede in Dio, risponde citando Camus: «Non credo, ma considero l’irreligiosità la più grande forma di volgarità».
Cattolici — e anticomunisti — erano i genitori. In particolare la madre: «Aveva la quinta elementare, ma è sempre stata un osso duro». Lo sciopero dei chierichetti è ormai celebre. Meno noto l’episodio del giovane Pier Luigi che affronta don Vincenzo, il parroco di Bettola: «Come mai qui in paese i comunisti fanno tutti i muratori, e gli altri vanno all’Agip? È vero che per andare all’Agip ci vuole la sua garanzia?». Divenuto a 29 anni assessore regionale ai Servizi sociali — era il 1980, il 2 agosto fu tra i primi ad accorrere alla stazione di Bologna —, alla madre che gli raccomandava i vicini di casa rispondeva: «Mi spiace, non si può» (si arrivò poi a un accordo: raccomandazioni sì, ma solo in caso di «indigenza estrema» e «grave menomazione fisica»). La linea del compromesso storico non convinceva né i genitori, né lui; e comunque in casa a lungo furono più turbati che soddisfatti dalla sua carriera, fino all’abbraccio con i Popolari di Prodi (anticipato da Bersani alle Regionali del ’95, quando federò il centrosinistra in un cartello chiamato Progetto democratico). Quando poi Prodi lo chiamò nel governo, all’Industria, don Vincenzo fece suonare le campane a martello. D’Alema la prese più prosaicamente: «Ma tu sei capace di fare il ministro?» («è un giudizio che lascio a te» fu la risposta).
Accanto al Partito, l’altra matrice di Bersani è la sua terra, l’Emilia. Un limite, per critici e imitatori che giocano sull’accento, in effetti un po’ caricaturale. Una forza, per lui: «Sono un pragmatico emiliano». A ricordargli che l’Emilia-Romagna dava alla sinistra voti e denari ma non leader, risponde citando i sindaci Dozza e Zangheri e anche Dossetti e Zaccagnini, che però stavano dall’altra parte, nella Dc. I compagni di liceo andarono tutti all’università a Milano, tranne lui, che scelse Bologna. Cominciavano gli anni Settanta, e in città Bersani fu tra i fondatori di Avanguardia Operaia, che attaccava il Pci da sinistra. In altri tempi ha amato il ribellismo da provincia modenese di Vasco Rossi. A De André ha detto, dopo un concerto: «C’è qualcosa di anarchico in me, e l’ho trovato nelle tue canzoni». Ama ripetere che «quando mi danno del burocrate lascio fare, e in cuor mio rido». Con Renzi ha adottato la stessa tattica: l’ha lasciato fare, sicuro che alla fine l’apparato e la base avrebbero fatto fronte contro il «giovanotto». Quanto al carisma, è una parola di cui diffida, come narrazione — «mi fa venire in mente le favole» — e fascinazione («da sola, è ingannevole»). «Carisma all’origine indica un dono di Dio a una persona. Chi se lo attribuisce come cosa propria, non è carismatico ma presuntuoso». E ancora: «Se dieci naufraghi stanno in mezzo al mare, il capo non è quello che ha carisma, ma quello che offre maggiore sicurezza». Ieri, più o meno, è andata così.
Il Corriere della Sera 03.12.12

“Un leader forte”, di Massimo Giannini

«Se facciamo le cose per bene non ci ammazza più nessuno», aveva detto Bersani all’inizio di questa avventura rischiosa e «strepitosa». Non tutto è andato alla perfezione, nel ruvido duello per la premiership del centrosinistra. La rissa sulle regole è stata rancorosa, e a tratti indecorosa. Ma adesso che ha stravinto, per il segretario del Pd comincia un’altra vita. La più dura. Quella che lo può portare da Largo del Nazareno a Palazzo Chigi. Da queste primarie esce un leader forte, legittimato dal voto di tre milioni di italiani che credono nella democrazia e chiedono buona politica. Un leader che ottiene un quasi plebiscito e prevale nel fuoco di una battaglia finalmente vera, dove al contrario delle vecchie primarie di Prodi l’esito è stato davvero incerto e l’offerta è stata davvero plurale.
Da queste primarie esce un partito nuovo, già cambiato nell’articolazione interna e nella proiezione esterna. Un partito che si è scopre aperto, scalabile e comunque contendibile, dove al contrario della tradizione Ds-Pds-Pci non funzionano più i veti incrociati dalemianveltroniani né i blocchi imposti dai comitati centrali. C’è ancora molta strada da compiere, alla ricerca di una chiara identità politica. Il problema di cosa sia oggi un Pd nato per fondere le culture del cattolicesimo ex democristiano e del socialismo ex comunista, e tuttora costretto a federarsi con Sel e Udc per “unire progressisti e moderati”, resta tuttora irrisolto. E sta lì a dimostrare che il progetto è tuttora incompiuto.
Ma queste primarie rappresentano comunque un cambio di fase. Senza falsi ecumenismi, senza vuota retorica: il merito è di chi ha vinto, ma anche di chi ha perso. Bersani ci ha messo la faccia e la passione, rinunciando a usare lo Statuto come un’arma di autodifesa e a brandire il vecchio “pugno del partito” contro il giovane sfidante. Renzi ci ha messo l’ambizione e l’irruenza dei suoi 37 anni, contribuendo al ricambio del personale e del linguaggio politico. Il pragmatismo riformatore, di ispirazione socialdemocratica, ha avuto la meglio sul nuovismo rottamatore, di matrice post-ideologica. Il saldo finale è positivo, per tutti. E il risultato delle primarie, trasformate impropriamente in un congresso a cielo aperto, dimostra che dentro lo stesso partito di una moderna sinistra europea possono convivere anche idee diverse sul lavoro e sul fisco, sul Medioriente e sui diritti civili. Purché non siano antitetiche, o tanto vaghe da sconfinare in un “oltre” dove non sai più chi sei, quando parli di precari e di Fiat, di esodati e di spread. E purché, dopo la conta, prevalgano la disciplina e la logica della maggioranza.
Ora per Bersani comincia una missione nuova. Non si tratta solo di pacificare un Pd spaccato lungo la faglia renziana del “nuovo” contro il “vecchio”. E non si tratta nemmeno di ricompattare un centrosinistra attraversato dalla frattura tra “moderatismo” e “radicalità”. In gioco, di qui al voto della primavera 2013, c’è molto di più. C’è il governo del Paese. C’è la sfida dell’accreditamento in Europa, dove un pezzo di establishment continua a considerare la sinistra italiana inaffidabile e figlia di un dio minore. C’è la complessa sfida delle alleanze, perché la mitica “autosufficienza” del Pd (giustamente inseguita anche da Renzi) è il sogno di tutti, ma se il Paese o la legge elettorale non ti danno abbastanza voti per farcela da solo, sei obbligato a dialogare con Vendola che reclama “profumo di sinistra” e con Casini che pianta i suoi paletti al centro. C’è il confronto dialettico con il “montismo”, e la definizione di un’Agenda che lo integri e lo superi sui temi della giustizia sociale e della crescita economica.
C’è soprattutto la conquista di una maggioranza più larga possibile. Tanto larga da superare i diversi “tetti” al premio elettorale di cui si discute nella riforma dell’orribile Porcellum, se mai le disperate follie berlusconiane la renderanno possibile. Parliamo di una “forchetta” di consensi che oscilla tra il 38 e il 42,5%. Un risultato non proibitivo, per un Pd che dovrà essere capace di guidare una coalizione omogenea e coesa. Ma comunque molto impegnativo per un partito che al suo meglio, nell’ultimo test del 2008 giocato sulla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, non è andato oltre il 33%. I sondaggi di oggi fotografano il partito nuovamente a ridosso di quel record. Ma a gonfiare le vele è il vento di queste primarie, che è naturalmente destinato a calare di qui alla prossima primavera.
Bersani, adesso, ha il compito di alimentare quel vento con la politica. Con l’autorevolezza che gli deriva dalla netta vittoria su Renzi. Ma con la consapevolezza, paradossale e tuttavia oggettiva, di avere qualche handicap in più dell’avversario interno che ha appena sconfitto. Gli elettori di centrosinistra, nonostante il fragore della grancassa rottamatrice che promanava dal camper del sindaco di Firenze, hanno premiato l’usato sicuro. Ma di quella campagna resta un’eco che non deve essere dispersa, anche se chi l’ha condotta rinuncia ai sogni di Palazzo Chigi e rientra nei ranghi di Palazzo Vecchio. Resta una domanda di cambiamento profondo, che il Pd non può rinchiudere con un sospiro di sollievo negli armadi della Storia, insieme al renzismo che in questi mesi quella domanda l’ha urlata in tv, nei teatri e nelle piazze d’Italia. Un ticket Bersani-Renzi sembra auspicabile quanto impraticabile. Ma i duellanti hanno comunque un patto tacito da onorare. Il primo deve continuare l’opera di modernizzazione del Pd, respingendo ogni tentativo di restaurazione. Il secondo deve dare il suo contributo, rifiutando ogni tentazione di rottura o di vendetta.
Secondo l’ultimo sondaggio di Roberto D’Alimonte pubblicato sul
Sole 24 Ore alla vigilia del primo turno, una coalizione di centrosinistra guidata dal segretario del Pd vincerebbe le elezioni con il 35% dei voti, mentre se la stessa fosse guidata da Renzi (ipotesi a questo punto irrealizzabile) otterrebbe il 44%. Bersani, dunque, può fare il pieno di voti a sinistra, mentre un candidato premier come il sindaco di Firenze avrebbe sfondato il perimetro tradizionale pescando consensi un po’ ovunque. Nel centro moderato (dove si intruppano troppi Casini e personaggi ancora in cerca d’autore come Montezemolo o Passera sognano di rubare l’ago della bilancia al leader dell’Udc). Nella destra sbandata (dove regna il caos e gli aruspici berlusconiani sono ormai costretti a consultare le interiora di uccello per venire a capo delle ciclotimie quotidiane del Sovrano Cavaliere). Nell’area della protesta o dell’astensione (dove comincia ad affiorare qualche stanchezza per i “vaffa-days” del comico genovese e si affievolisce il livore qualunquista che vuole l’intera politica svilita a un “saloon” popolato da “todos caballeros”).
In una logica di ferrea militanza, o comunque di fedele appartenenza, questi consensi possono non interessare. Ma è chiaro che una proposta di governo non solo credibile, ma soprattutto durevole, passa anche attraverso una “pesca” fruttuosa in questo ampio bacino di voti alla deriva. E non basta certo evocare il parroco o il Papa Buono (dimenticando scientemente e colpevolmente Gramsci e Berlinguer) per riempire le reti. Serve la fatica e la pazienza del riformismo. Cioè di una sinistra compiuta. Consapevole dei suoi valori, che soprattutto oggi, nel tempo troppo liquido della libertà globale, non possono prescindere dall’uguaglianza e dalla solidarietà. Una sinistra che sa includere e sa innovare, ma senza perdere la sua identità. Ora tocca a Bersani dimostrare che questa sinistra «non l’ammazza più nessuno ». Che questa sinistra esiste, può vincere e — con Monti o senza Monti — può persino governare l’Italia.
La Repubblica 03.12.12
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“Chance e rischi di un successo”, di ILVO DIAMANTI
AL BALLOTTAGGIO si chiedevano alcune risposte chiare. Tali da dissipare i possibili motivi di dubbio e contrasto, che hanno acuito la tensione soprattutto nell’ultima settimana. Tali da permettere al centrosinistra di affrontare le prossime elezioni unito intorno a un candidato premier condiviso e legittimato. Tre le questioni più importanti. La prima: il vincitore, ovviamente. Il candidato del Centrosinistra, scelto dagli elettori per affrontare le prossime elezioni. Con molte possibilità di successo. Ebbene, il verdetto, a questo proposito, è stato netto. Ha vinto Bersani. In modo largo. Tanto da dissolvere ogni possibile polemica. E ogni possibile ricorso – peraltro escluso, in precedenza, anche da Renzi. La distanza di 20 punti percentuali, infatti, è tale da ridimensionare anche le polemiche sulle regole relative al diritto di voto. Al primo e, ancor più, al secondo turno. Più che raddoppiata rispetto al dato di partenza. Se anche fosse stata accolta la domanda dei 100 mila elettori che avevano chiesto di partecipare al ballottaggio, senza aver votato al primo turno, il risultato non sarebbe cambiato. Neppure se avessero scelto tutti quanti Renzi. (E ciò suggerisce che un maggior coraggio nell’apertura delle primarie non avrebbe modificato l’esito e avrebbe, anzi, garantito ulteriore legittimazione al candidato eletto). L’impressione – da verificare con analisi più accurate, sui dati definitivi – è che Bersani abbia intercettato gran parte dei voti dei candidati esclusi dal ballottaggio.
La seconda questione riguarda i rapporti di forza tra i duellanti. E, quindi, il grado di omogeneità oppure distinzione, oppure ancora: divisione, del Pd, intorno ai due candidati al ballottaggio. La risposta, al proposito, è più complessa. Perché se è vero che Bersani ha vinto largamente, è altrettanto vero che quasi 4 elettori su 10 si sono schierati con Renzi. Con le sue posizioni, ben diverse e distanti da quelle del segretario del Pd e, ora, candidato del centrosinistra. Difficile non tener conto, in seguito, del voto di questa ampia componente. E di chi li rappresenta. Tuttavia, nel secondo turno si è, in parte, ridimensionata “l’anomalia territoriale” emersa nel primo turno. Quando Renzi aveva “espugnato” proprio le “zone rosse”, esclusa l’Emilia Romagna. Al ballottaggio, invece, ad eccezione della Toscana (dove Renzi ha ottenuto il 52% dei voti), Bersani ha prevalso dovunque. Il che ne rafforza la legittimità, come candidato del centrosinistra.
La terza questione riguarda il grado di mobilitazione, dopo la grande partecipazione al primo turno. Ebbene, a distanza di una settimana si sono ripresentati ai seggi oltre il 90% degli elettori (almeno, da quel che si desume dai dati, ancora provvisori). Un tasso di affluenza molto alto, visto che al ballottaggio si registra, normalmente, la defezione di molti elettori dei candidati esclusi.
Ma quasi 3 milioni di persone che vanno a votare per due volte in sette giorni sono tante. Una risorsa per il centrosinistra e per la democrazia. Dimostrano che il distacco dalla politica e dai partiti espresso dalla società dipende da quel che viene offerto. Se
vengono loro proposte “buone ragioni” per partecipare, i cittadini non si tirano indietro.
Comunque, tentando una valutazione di sintesi, alla fine della lunga maratona delle primarie, ho l’impressione che il centrosinistra e soprattutto il Pd si siano notevolmente rafforzati. Ma che, proprio per questo, possano incontrare alcuni seri problemi al proprio interno.
Infatti il Pd, in questi ultimi mesi, ha beneficiato di grande visibilità e di grande attenzione, presso l’opinione pubblica. Come mostrano le intenzioni di voto, che lo hanno visto crescere fino a sfiorare il 35%. Complice l’implosione del Pdl e del centrodestra, prodotta dal rapido declino di Berlusconi. Ma anche dall’incapacità (e dall’impossibilità) del Cavaliere di tirarsi da parte. L’unica opposizione è, dunque, rimasto il M5S di Beppe Grillo. I cui spazi sono stati, tuttavia, contenuti proprio dalle primarie. Dal dibattito e dalla mobilitazione sociale che hanno sollevato. Non a caso, nelle ultime settimane, la crescita del M5S, nei sondaggi, si è arrestata. Anzi, si è assistito a un lieve ripiegamento.
Da ciò la chance, ma anche il rischio per il Pd. Il quale, oggi, appare solo, troppo solo, in mezzo alla scena politica. Non a caso, l’ultima fase delle primarie, più che il processo di selezione del candidato di schieramento, ha dato l’idea, in alcuni momenti, di un confronto “presidenziale”.
Soprattutto nel “faccia a faccia” televisivo, andato in onda nella Prima Rete Rai. Fra due candidati dello stesso partito.
Con una duplice conseguenza per il Pd. Divenire il centro dell’attenzione, ma anche il bersaglio principale – se non unico della polemica e delle critiche degli elettori. Oltre che degli altri soggetti politici. In secondo luogo, ridurre il “campo” di gioco le primarie- non al Centrosinistra, ma al solo Pd. Il che può produrre reazioni di rigetto, nella sinistra. Ma anche fra gli elettori di centro. Soprattutto se la coalizione che affronterà le prossime elezioni si rispecchiasse nella “foto di Vasto”. E la rappresentanza degli elettori moderati, strategici in ogni competizione elettorale, venisse “affidata” all’Udc e al Terzo Polo. In attesa di prossime, future alleanze.
La Repubblica 03.12.12
Per questo, le primarie hanno costituito una grande occasione di allargamento dei consensi e di rafforzamento politico, per il Pd. Un’opportunità per scoprire e mobilitare la grande offerta di “volontariato” e di passione politica disponibile nella società. Ma, da oggi, possono produrre anche problemi. Se non altro, per il rischio del “silenzio” e della sospensione, dopo tante voci e tanta partecipazione. Il Pd è riuscito a usare bene le primarie. Ora deve gestire bene – e maneggiare con cautela – il dopo-primarie.

Roma – Incontro CGIL su pensionandi scuola

La FLC CGIL organizza un incontro di confronto, per il giorno 12 dicembre alle ore 17 nella propria sede di via Leopoldo Serra 31, sui diritti dei lavoratori della scuola che a causa della Riforma Fornero si sono visti negare il riconoscimento del diritto alla pensione entro l’anno scolastico 2011-12, pur avendo alla data del 31 agosto del 2012 il requisito richiesto dalla precedente normativa. Parteciperanno rappresentanti dei comitati dei lavoratori interessati. All’incontro sarà presente l’on. Manuela Ghizzoni e il segretario generale della FLC CGIL Domenico Pantaleo.

Sansepolcro (AR) – Iniziativa sulla scuola

Il Coordinamento Scuole Valtiberina ha organizzato un incontro con Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Istruzione della Camera, per il giorno 13 dicembre 2012 alle ore 15.00 presso la Sala Consiliare del Comune di Sansepolcro.
L’incontro sarà l’occasione per discutere importanti ed urgenti tematiche del mondo della scuola, in particolare: rinnovo degli organi collegiali, edilizia scolastica, utilizzo del fondo di istituto e scatti di anzianità, precariato e investimenti sul sostegno.

“Un bimbo su 4 ha genitori non sposati”, di R. G.

La famiglia sta cambiando. Tanto che anche le normative si stanno adeguando, come dimostra la legge appena varata che parifica i diritti dei figli nati al di fuori del matrimonio con quelli fin qui detti «legittimi». Anche se ci vorrà ancora tempo perché abbia effetti e ricadute su successioni ereditarie e altro. Il ministro Andrea Riccardi ha formato una commissione ad hoc, guidata dal professor Cesare Massimo Bianca, che metterà ordine su tutte le singole questioni, dalle donazioni ai fini dell’eredità. E serviranno poi decreti applicativi su questioni come riconoscimento e disconoscimento dei figli o adottabilità. Ma quanti sono questi bambini nati da coppie non sposate? All’Istat dicono che sono ormai oltre il 20 per cento dei nati ogni anno. In sostanza un bambino su quattro.
Le coppie non sposate in Italia sono intorno al mezzo milione quelle con figli, un milione circa il totale delle coppie non coniugate. Ma quasi raddoppiate negli ultimi anni. La classificazione è complicata dal fatto che in molti casi si tratta di «matrimoni tardivi». Una sorta di lunga attesa pre-matrimoniale, con convivenza annessa, ma che alla fine si traduce per una parte in legame legale.
Il matrimonio risente della congiuntura negativa. E in effetti con la crisi sono proprio i giovani i più colpiti: perdendo il lavoro hanno più difficoltà a metter su famiglia e l’80 percento del calo dell’occupazione riguarda proprio i giovani. I dati più recenti dicono che sono stati celebrati 204.830 matrimoni in Italia nel 2011, cioè 12.870 in meno dell’anno precedente, solo 3,4 ogni mille abitanti. Le nozze non vanno più molto di moda dal 1972 in avanti ma negli ultimi due anni c’è stato un vero crollo di lanci di riso. La variazione negativa è stata meno 4,5 per cento tra il 2007 e il 2011 a fronte di un più moderato meno 1,2 per cento rilevato negli ultimi vent’anni. Non è un calo concentrato in alcune aree del Paese piuttosto che in altre, ma sicuramente più marcato al Sud, in particolare in Sardegna, Campania, Marche e Abruzzo. D’altro canto il Sud è la zona più colpita dalla crisi. Diminuiscono in particolare gli sposalizi tra cittadini italiani, ma calano anche i matrimoni misti e le seconde nozze. Mentre l’età degli sposi si alza: quella degli uomini alla prima prova è di 34 anni in media, di 31 quella delle donne. Cioè si rinvia l’uscita dalla famiglia d’origine. Si riducono anche le cerimonie celebrate in chiesa: sono 124.443, ovvero 39mila in meno rispetto al dato del 2008 e due su tre sono comunque in regime di separazione dei beni. Nella diminuzione della propensione a scambiarsi l’anello, oltre alle difficoltà economiche e di prospettiva lavorativa per i giovani, è da considerare la componente motivazionale. Si legge infatti nel rapporto Istat pubblicato solo tre giorni fa che il calo delle prime unioni «è da mettere in relazione anche alla progressiva diffusione delle unioni di fatto, che da circa mezzo milione del 2007 sono arrivate a quota 972mila nel 2010-2011. In particolare proprio le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili ad aver fatto registrare l’incremento più sostenuto, arrivando al numero di 578mila in questo biennio». Libera unione in questi casi è uno stile di vita e di relazione, una pratica alternativa al matrimonio per i sociologi e per la politica ancora tutta da indagare.
da l’Unità

“Le italiane riscoprono i lavori di casa baby sitter o colf ma per necessità”, di Elena Polidori

Assunzioni in aumento del 20%, cresce la concorrenza con le straniere
Cessano di essere «scoraggiate» e «inattive», escono di casa e ricominciano a cercare una occupazione che finisce col sommarsi a quella domestica, gratuita. Come la si giri e la si volti, il risultato non cambia: in tempi di vacche magre, tocca alle donne rimboccarsi le maniche. Magari non è un «gender backlash», un contrattacco di genere, tipico dei momenti più duri. Ma di sicuro la risposta alla recessione si sta tingendo inaspettatamente di rosa. Piccoli grandi segnali confermano che, nella necessità, le donne cercano di mantenere in piedi la rispettiva baracca. Come possono.
Il primo dato significativo viene dall’Inps: dal 2008 ad oggi le domestiche e le badanti di nazionalità italiana sono aumentate del 20%. Il numero complessivo è ancora piccolo — su un totale di 651.911 collaboratori domestici,
solo 133.431 sono italiani, 3.227 in più rispetto al 2010 (uomini e donne, le donne costituiscono però la stragrande maggioranza) — ma è considerato sintomatico di una tendenza. Potrebbero anche essere molte di più se è vero, come sostiene Eures, la rete europea dei servizi per l’impiego, che nel mondo del «caregivers », della cura della persona, 6 su 10 lavorano in nero, dietro le quinte.
Chi sta in prima linea conferma che siamo di fronte ad un nuovo fenomeno. «E’ una bolla in espansione », sintetizza Federica Rossi Gasparrini, presidente di Federcasalinghe. Nel suo identikit le nuove Mary Poppins sono donne-mamme con figli a carico, donne sole, donne con i mariti a spasso. E comunque, «persone in sofferenza che escono di casa per aumentare il reddito di famiglia».
Negli uffici di Migrantes, la fondazione nata per assistere gli immigrati, ora che la congiuntura è buia si ritrovano a collocare tante caregivers italiane. «Perché è una opportunità di lavoro», racconta il direttore generale, Monsignor Giancarlo Perego: «C’è un bisogno insopprimibile e sempre crescente di persone che si occupino della cura dei piccoli o degli anziani: le italiane sanno cosa fare, se la cavano benone». E per di più si preparano,
studiano il mestiere. Scoprendosi d’improvviso più povere, eccole frequentare in massa i corsi pubblici di formazione, snobbati anche solo pochi mesi fa. Acli colf calcola che negli ultimi due anni le iscritte italiane a questi corsi sono raddoppiate.
Desperate housewives, allora? Al contrario. Secondo Paolo Legrenzi, uno degli psicologi che ha studiato prima l’euro e poi la sua crisi, ad essere disperati di fronte a questa carica
femminile sono soprattutto gli uomini, «i mariti che, senza più paga, risultano colpiti nella loro stessa identità perché si ritrovano a non poter più soddisfare i bisogni di casa». Non c’è dubbio: la donna che, volente o nolente si rimette in pista, anche solo per fare la domestica, rappresenta «una piccola rivoluzione nella struttura delle famiglie». Al dunque, «destabilizza gli assetti tradizionali».
Il secondo dato, meno glamour
ma più strutturale, viene dall’Istat: nel secondo trimestre di quest’anno, aumenta il numero delle occupate italiane nel Sud di 61 mila unità. Di queste, 50 mila appartengono a coppie con il coniuge rimasto senza lavoro. Altra novità: in termini macro, crescono le disoccupate, spia di un fenomeno che gli esperti invitano a leggere senza paraocchi. Linda Laura Sabbadini, che all’Istat segue proprio questo genere di faccende dal suo ufficio
di direttore del dipartimento sociale e ambientale, spiega il perché: «E’ disoccupato chi cerca attivamente lavoro. Tra le donne, soprattutto del Mezzogiorno, è sempre stato molto diffuso lo scoraggiamento: desistevano dal cercare una occupazione pensando di non trovarla, spesso anche in competizione con gli uomini che pure fanno fatica a occuparsi». Adesso però è scattato un click, un qualcosa che è frutto di una recessione dura e senza fine: «Allungandosi i tempi della crisi si riattivano nella ricerca di lavoro e anche per questo crescono le disoccupate». E dunque: il tasso di disoccupazione femminile passa dal 9,3% del maggio 2011 al 11,8% di settembre 2012.
Ora, sarà pure vero che essere donna, in Italia «è un ostacolo oggettivo», come sostiene il ministro Elsa Fornero. Però certo, questa declinazione al femminile di tenacia e intraprendenza, la dice lunga sui ruoli dentro e fuori dalle mura domestiche. «Le donne si confermano un pilastro», spiega la sociologa Chiara Saraceno secondo cui questa «spinta», così la chiama,
«nasce dall’insicurezza. I redditi familiari sono intaccati dalla crisi. Non ci si può più permettere di stare fuori dal mercato del lavoro. E ci si accontenta di tutto, anche di fare lavori di caregivers che senza recessione sarebbero socialmente meno accettati ». Così, mamme e mogli “si arrabattano”, e senza fiatare accettano di diventare “doppiolavoriste”: «A casa propria, fanno gratis tutti i lavori domestici, curano gli anziani, vigilano sui piccoli poi continuano fuori, a pagamento ». Saraceno tuttavia resta convinta che, da questo punto di vista, la crisi è «un’occasione», una «sollecitazione». In pratica, «una scossa che provoca cambi nei comportamenti e nelle aspettative».
In Italia, alla fin fine, la risposta femminile alla recessione sta prendendo una piega diciamo così, domestica. Ma altrove si sentono storie ben più tristi. Per esempio che viene dalla Grecia piegata dall’austerity la nuova ondata di prostituzione che spopola sulle strade nazionali.
O che nella Spagna squassata dagli effetti della bolla immobiliare, perfino la morte è un costo: c’è chi «vende» il proprio corpo alla ricerca, così almeno non paga il funerale, quando sarà.
da www.repubblica.it

“Bersani: da lunedì una grande squadra”, di Simone Collini

Le diplomazie si mettono al lavoro la notte tra venerdì e sabato, dopo che il comitato di Matteo Renzi aveva denunciato «brogli» e quello di Pier Luigi Bersani aveva lanciato il monito a non «sabotare» le primarie. Attenzione che qui la vicenda sta scappando di mano, è l’allarme. Ancora un incontro a quattro all’alba (due per parte), in un bar del centro di Roma, per spiegare ognuno le proprie ragioni e poi, a metà mattinata, l’accordo viene siglato direttamente dal sindaco di Firenze e dal segretario del Pd via sms: giù i toni nell’ultimo giorno di campagna.
Prima, poco dopo lo scambio di messaggini, parte il tweet di Renzi con l’offerta di un caffé insieme a Milano e di un appello congiunto alla serenità. Ma soprattutto, arriva la frase che vogliono sentire nel fronte pro-Bersani: «Se perdo non parlerò di brogli». E poi c’è la risposta di Bersani. Non quella sul caffé insieme («per problemi logistici oggi è impossibile ma ci sarà sicuramente tempo per un pranzo, dopo»). Ma questa, che aspettano di sentire nel fronte pro-Renzi: «Sono dispostissimo a fare un appello alla serenità e alla regolarità. E sono sicuro che Matteo, che pure ha opinioni diverse sulle regole, le rispetterà».
Lanciati i segnali distensivi da ambo le parti, i due candidati chiudono la loro campagna elettorale in un clima decisamente più mite, nonostante qualcuno tra i sostenitori di Renzi tenti di riaccendere le polveri dopo che si viene a sapere qual è il numero delle nuove registrazioni.
UNA FESTA DELLA DEMOCRAZIA
Bersani, che secondo un sondaggio diffuso ieri da Ipr Marketing dovrebbe vincere il ballottaggio con un risultato compreso tra il 57,5% e il 61,5% dei consensi, ha tutto l’interesse a un abbassamento dei toni e a uno svolgimento sereno delle operazioni di voto. «Domani dobbiamo chiudere con una grande festa della democrazia, dopodiché ci si mette a lavorare assieme», dice non a caso in ognuna delle iniziative che fa tra Milano, Novara e Torino. «L’Italia ci guarda, anche un pezzo di mondo ci sta guardando, e dobbiamo essere tutti all’altezza del capolavoro che abbiamo fatto, che non deve essere assolutamente turbato». Per questo a Renzi lancia un «in bocca al lupo» e il messaggio che comunque vada «da lunedì lavoreremo assieme in una grande squadra, ciascuno nel suo ruolo».
Il leader del Pd resta convinto che il sindaco di Firenze abbia poche o nulle possibilità di vittoria («non ci scommetterei un cent», aveva detto l’altro giorno) e mentalmente è già proiettato verso la sfida per la conquista di Palazzo Chigi. Non a caso il discorso che fa chiudendo la sua campagna in un affollato Teatro Vittoria, a Torino, è più in chiave anti-Berlusconi e anti-Grillo, mentre a Renzi dedica soltanto un paio di veloci passaggi. Come quando dice che «la destra esiste, per quanto malmessa» e che si aspetterebbe dal suo «contendente fraterno Matteo» che almeno la nominasse, e che non la mettesse sullo stesso piano del centrosinistra come ha fatto l’altra sera in tv: «Se si vuole parlare dei problemi della scuola forse bisogna pensare alla Gelmini, non a Luigi Berlinguer». Renzi al confronto su Raiuno aveva infatti detto che la sua riforma «di sinistra ha solo il nome». Anche se, confessa Bersani, quello non è stato il passaggio che l’ha «scombussolato» di più. Semmai, dice citando per la seconda e ultima volta Renzi in un discorso durato oltre un’ora, è stato quando il sindaco ha detto che il problema in Medio Oriente non è il conflitto tra Israele e Palestina, ma l’Iran. «Neanche la destra dice certe cose. Bisogna aiutare chi cerca la pace e finirla di darla vinta a chi lancia i missili. E sulla Palestina dice facendo riferimento al voto in sede Onu l’Italia ha ripreso la dignità di un profilo di politica estera dopo che per dieci anni è stata compatita e derisa da tutto il mondo».
SUBITO UNA MISSIONE ALL’ESTERO
Neanche il riferimento alla Palestina, nel chiudere la campagna delle primarie, è casuale. Un po’ perché Bersani, che nei giorni precedente il voto delle Nazioni Unite aveva discusso della questione con Napolitano e con Monti, ritiene di aver giocato un ruolo non marginale rispetto al sì epsresso dall’Italia. E poi per un altro motivo. «Lunedì vi farò una sorpresa», dice Bersani ai giornalisti che incrocia nel foyer del Teatro Vittoria, mentre si allontana per andare a incontrare un gruppo di lavoratori precari. Il leader del Pd, se stanotte verrà proclamato vincitore delle primarie, intende infatti imprimere subito un segno preciso alla sua campagna elettorale per le politiche. Monti ha ridato dignità all’Italia all’estero, è il suo ragionamento, e il prossimo presidente del Consiglio dovrà ricollocarla nel suo giusto asse, che per Bersani è quello mediterraneo, in uno stretto rapporto con i Paesi arabi che vi si affacciano. Quindi l’idea, come prima uscita da candidato premier del centrosinistra, è proprio quella di organizzare subito una missione al di là del Mediterraneo.
Ma prima c’è il voto di oggi. A Bersani “basta” anche il 51%, e quello che più auspica per la giornata di oggi e per quella di domani è che la «festa della democrazia» non venga turbata. «Anche da me viene gente che vuole venire a votare e io dico che possono venire ma nel rispetto delle regole», spiega a chi gli chiede un commento sulle poche nuove registrazioni. Quanto a Renzi, non immagina un suo abbandono del Pd in caso di sconfitta. «È un personaggio che ha radicalizzato parecchio il tema delle primarie, però assolutamente non penso che possa andarsene».
Poi risale in auto, destinazione Piacenza, dove oggi andrà a votare. Diversamente dal primo turno, questa volta rientrerà però a Roma ad aspettare i risultati. La scaramanzia obbliga alla prudenza, ma per i festeggiamenti notturni è già stata prenotata la sala del Capranica.
L’Unità 02.12.12