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“I fondi per la cassa integrazione dei Piccoli? Finiranno in primavera”, di Lorenzo Salvia

L’anno prossimo l’economia tornerà a girare, avremo meno aziende in crisi e meno lavoratori a casa. Chi lo dice? Nessuno in effetti, non così almeno. Eppure questo si dovrebbe pensare dopo aver confrontato i soldi per la cassa integrazione in deroga stanziati per il 2013 con quelli che prevediamo di spendere quest’anno e che abbiamo speso l’anno scorso.
Al momento, per il 2013, lo strumento con cui lo Stato aiuta soprattutto le piccole aziende in crisi e i suoi lavoratori, che non hanno accesso alla cassa ordinaria e straordinaria, ha una dotazione complessiva di 970 milioni di euro. In realtà i soldi utilizzabili sono anche meno perché da questa somma sono già stati dirottati fondi ad altre destinazioni. Cambia poco, in ogni caso, perché la differenza è di quelle macro. L’anno scorso, considerando anche i soldi messi a disposizione dalle Regioni, abbiamo speso per la cassa in deroga 1,7 miliardi di euro, quest’anno si prevede di sfondare la soglia dei 2 miliardi. Avremo la metà dei fondi ma nulla lascia pensare che, per l’economia, le cose andranno meglio.
Il primo a lanciare l’allarme era stato nei giorni scorsi Gianfranco Simoncini, assessore alle Attività produttive della Toscana e coordinatore della commissione Lavoro per la conferenza delle Regioni. «Siamo fortemente preoccupati per la sottostima delle risorse» aveva detto, aggiungendo che lo stesso timore «è condiviso anche dal ministro del Welfare, Elsa Fornero». Nelle ultime ore anche i sindacati hanno sollevato il caso. Non solo la Cgil con Susanna Camusso che ha parlato di «cifra assolutamente insufficiente a traguardare il 2013». Ma anche la Cisl con Giorgio Santini che invoca «più risorse» e la Uil con Guglielmo Loy che chiede di «rafforzare gli scarsissimi fondi messi a disposizione» per evitare una «vera e propria catastrofe sociale». Il problema è noto, l’allarme condiviso e il dossier è sul tavolo del ministro dell’Economia. Anche perché gli ultimi dati disponibili, quelli di ottobre, hanno visto il numero delle ore di cassa integrazione autorizzate a qualsiasi titolo sfondare di nuovo quota 100 mila, una soglia che nel 2012 abbiamo superato solo altre due volte, con un aumento di quasi il 20% rispetto al mese scorso. Resta da trovare la soluzione, però. Un primo passo arriva con il decreto legge Sviluppo all’esame del Senato che potrà dare una boccata d’ossigeno alle Regioni del Sud, quelle che nel linguaggio comunitario vengono definite «Obiettivo uno». Il provvedimento, spiega la relatrice Simona Vicari (Pdl), permetterà di usare per la cassa in deroga i fondi strutturali di Bruxelles, dopo averli spostati sul Fondo sociale europeo e a patto di aver presentato progetti innovativi.
Ma la partita vera si giocherà sulla legge di Stabilità, sempre sul tavolo del Senato: «Con l’attuale tendenza — spiega il relatore Giovanni Legnini (Pd) — i soldi disponibili ci consentirebbero di arrivare a marzo, al massimo ad aprile. Trovare i soldi non sarà facile ma bisogna intervenire e lo faremo».
Corriere 02.02.12

“Non c’è futuro senza l’acciaio”, di Enrico Ceccotti

Quando si parla di politica industriale per una siderurgia sostenibile bisogna sgomberare il campo da certi luoghi comuni. Il primo è che non sia possibile conciliare industria di base senza devastare i territori. Il secondo che si può continuare ad avere un Paese industrializzato in sviluppo senza avere una siderurgia a ciclo integrale. E il terzo, che solo il mercato e i processi di globalizzazione determinino le allocazioni produttive della siderurgia. Per togliere dal tavolo questi luoghi comuni è necessario un intervento pubblico sull’economia. Senza questo la produzione siderurgica sarà «naturalmente» collocata nei Paesi dove le condizioni sono più vantaggiose. Viceversa gli Stati stanno intervenendo per difendere e sviluppare le loro industrie di base modificando le tendenze del mercato e della globalizzazione. Ciò vale per la vicenda di Terni relativa agli acciai speciali come per Riva di Taranto e Lucchini di Piombino dove imponendo, rispetto al resto di Europa, differenti vincoli ambientali si ridurrebbe la competitività dell’Italia. Ciò infatti produce un differenziale di costo di produzione. Se invece si applicassero norme di compatibilità ambientale a livello europeo uguali per tutti, i nostri problemi sarebbero più contenuti. Se Taranto, Trieste e Piombino, a diverso titolo alle prese con problemi di sostenibilità finanziaria e ambientale, fossero costretti a chiudere sarebbe un notevole danno strategico ed economico per l’Italia. Se rinunciassimo agli altiforni, magari sostituendo una parte di queste produzioni con impianti a forni elettrici, rischieremmo di diventare ancora più dipendenti dall’estero, ed in balia dei mercati internazionali. La siderurgia italiana non può fare a meno di mantenere i due cicli integrali (di Taranto e Piombino-Trieste) che possono fornire acciaio di qualità per molte applicazioni qualificate. Dobbiamo perciò salvaguardare un settore strategico in Italia e in Europa. E questa battaglia non può essere fatta solo caso per caso: lasciare le scelte strategiche esclusivamente in mano alle aziende, ormai in buona parte multinazionali, poterebbe a delocalizzazioni e il settore verrebbe fortemente ridimensionato. Di questi settori non ne può fare a meno una moderna economia e vanno resi il più possibile compatibili e sostenibili, in un’ottica di economia a basse emissioni di carbonio. Per realizzare un nuovo modello di sviluppo basato su una siderurgia sostenibile va allestita una strumentazione solida e continuativa che abbia come condizione essenziale il coinvolgimento dei produttori. All’interno di misure di politica industriale vanno definite le modalità con le quali il pubblico riesce a incentivare o deprimere il comportamento dei produttori e favorire accordi e integrazioni di filiera tra produttori. Bisogna pensare ad un nuovo intervento pubblico che veda la siderurgia come una «commodity» per lo sviluppo industriale complessivo del Paese. Far convivere altoforno ed ecologia è possibile. In altri Paesi è stata trovata una compatibilità. La qualità dello sviluppo per un settore siderurgico richiede di intervenire per una riconversione ecologia della produzione e dei consumi. Naturalmente è necessario adeguare i cicli produttivi per la massima attenuazione degli impatti ambientali, servono tecnologie pulite applicate ai cicli siderurgici, in particolare basate sulla cattura e il confinamento dell’anidride carbonica, che sono già disponibili. Chi difenda la manifattura, deve prendere in mano le questioni ambientali e, insieme ai cittadini e agli ambientalisti, battersi per imporre investimenti e bonifiche ambientali alle aziende. Il pubblico ha il compito di intervenire anche sulle questioni ambientali esterne agli stabilimenti. Soprattutto a Taranto va dato il segno alla comunità locale del nostro impegno per un ambiente più vivibile dentro e fuori le fabbriche e contrastando qualsiasi posizione strumentale. La siderurgia è indispensabile per produzioni manifatturiere. Di acciaio, di prodotti siderurgici tradizionali e di nuovi prodotti con caratteristiche innovative (acciai speciali, nuove leghe ferrose e non ferrose, ecc.) ce ne sarà molto bisogno proprio per sostenere un modello di sviluppo più sostenibile. Non si può affermare che è indispensabile un sostegno alla manifattura se non c’è un’industria di base. L’industria di base deve essere vista come un’opportunità per lo sviluppo del Paese e quindi il sostegno pubblico deve essere previsto non in termini di aiuti di Stato, ma come supporto alla competitività del sistema. Occorre, insomma, una politica industriale, promossa a livello pubblico, che armonizzi le necessita dei produttori con quelle dei consumatori, entrambi attori fondamentali nel campo dei settori utilizzatori di acciaio. Servono alcune misure vincolanti per tutti gli operatori del settore per difendere la qualità e la capacità produttiva della siderurgia italiana. Solo così è possibile far convivere produzioni di base e vivibilità dei territori. Anche di questo discuteremo nella Conferenza nazionale che il Pd terrà a Terni il 15 dicembre prossimo.
L’Unità 02.02.12

““Una colossale presa in giro” Ecco tutte le menzogne dei Riva”, di Carlo Bonini e Giancarlo Foschini

Il decreto legge obbliga i proprietari dell’Ilva a investire tra i 3,5 e i 4 miliardi di euro nei prossimi sei anni. Quasi il doppio rispetto a quanto (2,5 miliardi), sostengono di aver speso negli ultimi 17 per rendere migliore l’aria di Taranto. Sono in grado di farlo? E, soprattutto, hanno intenzione di farlo? I documenti allegati all’inchiesta giudiziaria sconsigliano qualunque ottimismo, perché consentono di documentare almeno tre cruciali menzogne dei Riva. Scrive nel luglio di quest’anno il gip Patrizia Todisco: «Ci sono quattro atti di intesa sottoscritti dall’attuale gruppo dirigente del-l’Ilva: il primo dell’8 gennaio del 2003, il secondo del 27 febbraio del 2004, il terzo del 15 dicembre dello stesso anno e il quarto del 23 ottobre del 2006. Basta leggere l’ultimo per rendersi conto della colossale presa in giro: emerge con chiarezza l’assoluta inadeguatezza di quanto realizzato da Ilva in adempimento dei suddetti atti di intesa. Anzi, in realtà, non si comprende nemmeno bene cosa in effetti abbia realizzato se non la presentazione di documenti e piani di interventi solo sulla carta».
«Una colossale presa in giro», dunque. Vediamone i dettagli.
IL FALSO SULLA DIOSSINA
Nel 2003, dopo una stagione di conflitti con gli enti locali, inizia quella delle «intese» con gli enti locali. Propedeutiche al rilascio dell’Aia, l’autorizzazione imposta Europa per proseguire l’attività industriale. E il primo impegno preso dall’Ilva è quello di diminuire le emissioni inquinanti. Ebbene, prendiamo la diossina, l’inquinante più pericoloso tra quelli prodotti dal siderurgico. Nel 2002, l’Ilva produce il 30,6 per cento della diossina italiana. Nel 2006, il 95. «Il dato si basa sulle autocertificazioni — si difende l’azienda — molte altre aziende hanno omesso di dichiarare». Vero. Ma c’è un altro problema: l’Ilva ha sempre dichiarato di produrre meno di 100 grammi di diossina all’anno. Tutto si basa, però, sulle auto-certificazioni, perché nessuno è attrezzato per i controlli. Nel 2008 si attiva l’Arpa Puglia. E arriva la sorpresa: nonostante gli accordi, le intese e le promesse, i monitoraggi riscontrano 172 grammi di quel veleno. Com’è stato possibile l’errore? Eppure l’Ilva dichiarava di controllare le emissioni 24 ore su 24. «Un falso — scrivono oggi i Carabinieri del Noe — Perché la circostanza è totalmente in contrasto con quanto accertato in sede di incidente probatorio».
LE POLVERI DI TAMBURI
Un punto ricorrente in tutti gli accordi di programma è la salvaguardia del quartiere Tamburi, lo spicchio di Taranto adiacente allo stabilimento siderurgico. Gli enti pubblici si impegnano a destinare alla zona milioni e milioni di euro che dovrebbero arrivare dai fondi Cipe. L’azienda, contestualmente, si impegna ad abbattere drasticamente le emissioni delle polveri.
Si tratta delle polveri di minerale che vengono accumulate per poi essere trasformate in ferro. L’area si estende per 660mila metri quadrati e i cumuli hanno dimensioni importanti: una lunghezza di qualche centinaio di metri e un’altezza di oltre dieci. Bene, in tutto il mondo (dalla Germania a Taiwan) queste colline di materiale sono coperte, in modo tale da evitare dispersioni nell’aria. A Taranto, no. L’Ilva promette in uno degli accordi di programma barriere che risolvano il problema. E assicura che il risultato è raggiunto. È così? I carabinieri, nel 2010, vanno a controllare e paragonano i dati che registrano con quelli riscontrati nel 1999. «Per il ferro, nella postazione ubicata presso la scuola Deledda si osserva un incremento superiore al 10 per cento», manganese e vanadio calano di pochissimo mentre il «nichel risulta notevolmente aumentato ». E i soldi per il quartiere? Agli atti risulta soltanto un campetto di calcio, realizzato a spese dell’Ilva e praticamente mai inaugurato perché in zona troppo rischiosa e inquinata.
L’IMPIANTO DI UREA
C’è un ultimo inganno. In qualche modo il più incredibile. Quella dell’impianto di Urea. La chiamano la lavatrice dei veleni e per anni viene individuata come la risoluzione di tutti i problemi, perché “candeggia” i fumi abbattendone i livelli di diossina. Nel 2007 Girolamo Archinà, il capo delle relazioni esterne dell’Ilva oggi in carcere, dice: «La fabbrica dei veleni non esiste. Chiunque afferma il contrario fa del procurato allarme. L’Ilva sta riducendo le emissioni con tre anni di anticipo rispetto a quanto concordato con la Regione. E siamo pronti addirittura a dimezzarle se ci concedono in fretta l’autorizzazione per la realizzazione dell’impianto di urea». L’autorizzazione arriva e, il primo luglio del 2009, la foto dell’inaugurazione dell’impianto ritrae dietro un nastro, il governatore Nichi Vendola, il ministro Stefania Prestigiacomo e Fabio Riva, oggi latitante. Intorno a loro, persone che applaudono. «Quella macchina — dicono oggi in Procura — ha funzionato per 20 giorni, un mese. E poi basta».
La Repubblica 02.02.12

“Le primarie il voto e l’ombra di Monti”, di Eugenio Scalfari

Oggi si vota per la seconda volta alle primarie del Pd il ballottaggio tra Bersani e Renzi. Il segretario di quel partito parte favorito ma la partita è ancora apertissima; ci sono molti votanti giustificati per non aver potuto partecipare al primo turno e non mancano quelli che tra un turno e l’altro possono aver cambiato posizione e quelli che per qualche ragione personale se ne resteranno a casa. Nei ballottaggi talvolta accade.
Nel frattempo il duello tra i due contendenti li ha visti dialoganti in una lunga trasmissione televisiva su Rai1 e in altre dove sono apparsi separatamente. I giornali ne hanno ampiamente riferito formulando pagelle e giudizi. Mi ha colpito tra gli altri un articolo sulla “Stampa” di Luca Ricolfi, presentato con un titolo significativo: “Il partito sopravvissuto”. Il senso, così sembra a me, è che il Pd si è rafforzato in queste ultime settimane non per forza propria ma perché gli altri si sono indeboliti o sono addirittura scomparsi. Il Pd è rimasto in piedi e quindi le sue probabilità di vittoria si sono rafforzate. Ma questo dipenderà dalla legge elettorale ancora in gestazione. Comunque il vincitore delle elezioni primarie sarà anche il probabile vincitore delle politiche del prossimo aprile.
La tesi di Ricolfi rende a Bersani l’onore delle armi: interpreta fedelmente l’anima socialista o socialdemocratica del partito ma resta in quel limitato recinto senza sedurre altri settori dell’opinione pubblica che, delusi da precedenti esperienze, cercano una nuova collocazione senza però esser disposti a spingersi fino a posizioni socialiste.
Renzi invece riscuote consensi anche tra i liberali, in particolare tra i liberali di sinistra (così scrive l’editorialista della Stampa) che nel Pd finora non ci sono mai stati. Conclusione: Bersani probabilmente vincerà le primarie, ma Renzi sarebbe un leader ideale per guidare il partito alle prossime elezioni politiche perché allargherebbe i confini e farebbe del Pd un punto di riferimento plurale quale non è mai stato finora. Ho citato ampiamente l’articolo in questione perché prospetta l’utilità di un futuro tandem tra Bersani e Renzi, tesi caldeggiata a questo punto da gran parte della stampa italiana e non scartata dagli stessi due interessati.
Personalmente non ho nulla contro il suddetto eventuale tandem; del resto non faccio parte del partito ma sono soltanto uno degli elettori e lo sarò fintanto che le sue scelte saranno da me condivise come accade a qualsiasi cittadino che voglia esercitare il suo diritto di voto. Ma debbo correggere un errore dell’amico Ricolfi: la cultura politica dei cosiddetti liberali di sinistra, che cominciò con il lascito storico dei fratelli Rosselli, di Piero Gobetti, del Partito d’Azione di Ferruccio Parri, di Ugo La Malfa e di Leo Valiani, del liberalsocialismo di Guido Calogero e di Omodeo ed ebbe la sua risonanza mediatica negli articoli di Salvatorelli, Bobbio, Galante Garrone, nei convegni degli amici del “Mondo”, nell’“Espresso” e in “Repubblica”, è presente nel Pd fin dalla sua fondazione nel programma che Veltroni espose al Lingotto di Torino e ancor prima quando Achille Occhetto fondò il Partito dei democratici di sinistra dopo aver smantellato l’icona del Partito comunista nato nel 1921.
Occhetto scartò l’idea d’inserire la parola socialista nel nome del nuovo partito; ritenne che la
sua immagine nel nuovo contesto seguito alla caduta del muro di Berlino dovesse andare molto più oltre, determinando con quella sua scelta una scissione alla sinistra del Pds. Poi ci fu l’esperienza dell’Ulivo che approdò infine al Pd con l’ingresso dei cattolici popolari accanto ai laici democratici. I liberali di sinistra furono presenti fin dall’inizio in questo processo ed ho qualche titolo per parlarne.
Renzi è certamente un giovane con notevoli capacità di comunicazione e di semplificazione, da questo punto di vista rientra in pieno nella filiera dei comunicatori radiofonici e televisivi e proprio per questo attira i delusi del berlusconismo; ma con i liberali di sinistra o liberalsocialisti che dir si voglia non ha niente a che fare né essi hanno a che fare con lui.
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Quante sono le “chance” che il vincitore delle primarie di oggi sia il vincitore delle prossime elezioni politiche e quindi il presidente del Consiglio del nuovo governo che uscirà dalle urne?
La domanda si incrocia con il tema del dopo-Monti o del Monti-bis e dell’agenda Monti. Insomma con la posizione che potrà avere l’attuale presidente del Consiglio. È un tema d’attualità che anche su queste pagine è stato più volte esaminato. Aggiungo al già detto alcuni aggiornamenti.
1. Monti ha più volte dichiarato che, terminato il suo mandato, sarà disponibile a dare il suo contributo al risanamento del Paese e alla costruzione d’una Europa più unita e più forte se gli sarà richiesto da chi avrà titolo per farlo.
2. Larga parte del programma dell’attuale governo corrisponde ad altrettanti impegni che l’Italia ha assunto nei confronti delle Autorità europee. Tali impegni sono stati attuati parzialmente, alcuni saranno perfezionati nei prossimi mesi, altri dovranno esserlo dal governo che emergerà dalle urne.
3. La parte di programma ancora inevasa riguarda la crescita e l’equità sociale. In larga misura interventi su questi settori non possono esser presi se non in sintonia con l’Europa, ma ci sono margini notevoli per iniziative
nazionali.
4. L’attuale governo tuttavia ha finora dimostrato scarsa sensibilità allo sviluppo dell’economia reale. La mancanza di risorse è senza dubbio un elemento frenante ma questa lacuna può essere superata attraverso una diversa scala di priorità e una più adeguata redistribuzione del reddito.
Monti è la persona adatta ad assolvere questo compito in un nuovo governo che nasca da una coalizione tra progressisti e moderati? Nascerà una coalizione di questo genere e sarà sufficientemente coesa? Oppure ci sarà un risultato elettorale che attribuirà allo schieramento progressista la maggioranza assoluta che renderà opportuna ma non necessaria l’alleanza
con i moderati e sia comunque in grado di orientare socialmente un Monti-bis o addirittura farne a meno pur rimanendo fedele e adempiente agli impegni presi con l’Europa?
Resta infine l’ipotesi di un Monti elevato al rango di Capo dello Stato al Quirinale rimasto vuoto per la scadenza del settennato di Giorgio Napolitano. Gli si può offrire con la fondata certezza che il nuovo Parlamento abbia una maggioranza compatta e capace di realizzare questa ipotesi? Oppure essa resta incerta e quindi non praticabile?
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Molte delle risposte a queste domande dipendono dalla legge elettorale tuttora nel limbo. La scadenza della legislatura comunque consente ancora un notevole margine di tempo.
Se dovesse restare la legge elettorale vigente, la vittoria del Pd è sicura senza bisogno di alleanze post-elettorali. Qualora invece si faccia la riforma sullo schema d’un premio condizionato dalla soglia dei consensi realizzati nelle urne, la vittoria progressista probabilmente ci sarà ma senza raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi. In quel caso l’alleanza con il Centro sarà necessaria. L’eventuale Monti-bis tuttavia non dipende solo da quest’ultima ipotesi bensì dall’andamento dell’economia reale, dal tasso di disoccupazione, dalla curva dei consumi, dalle aspettative degli investitori, dei consumatori e
dei lavoratori. Infine dal processo di costruzione dell’Europa unita e dagli ostacoli da superare per condurlo a buon fine.
Il nostro parere è che la presenza di Monti al Quirinale sia incerta e comunque non rappresenti il modo migliore per utilizzare le sue indubbie capacità a vantaggio dell’Italia e dell’Europa. Meglio sarebbe un Monti presidente del Consiglio in un governo guidato dal Pd. Egualmente efficace la presenza di Monti come ministro dell’Economia e degli Affari europei in un governo di centrosinistra o di coalizione con le forze moderate.
Come si vede le ipotesi sono parecchie e tutte logicamente realizzabili. Grillo si sta sgonfiando. Avrà comunque un’affermazione elettorale, ma non tale da suscitare soverchie preoccupazioni. A questa maggiore tranquillità di giudizio hanno sicuramente contribuito le primarie del Pd e il loro contenuto democraticamente positivo e ne va dato atto a tutti i candidati che vi hanno partecipato e ai milioni di cittadini che hanno dimostrato la loro maturità politica e civile.
Post scriptum.
La vicenda del-l’Ilva e quelle analoghe di Piombino e dell’Alcoa, del Sulcis sono al centro delle attuali preoccupazioni del governo, delle parti sociali e della pubblica opinione. L’Ilva in particolare per le dimensioni economiche e sanitarie del problema e per il contrasto profondo che si è creato tra l’intervento del governo e le ordinanze della magistratura. Va tuttavia aggiunto su quest’ultimo aspetto della questione che il governo è intervenuto in sede legislativa contro un sequestro che non è una sentenza di merito. Una legge contro un’ordinanza di sequestro può motivare un reclamo alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione? Lo vedremo nei prossimi giorni.
Resta il conflitto sostanziale tra la perdita di lavoro a tempo indeterminato di molte migliaia di lavoratori in tutta Italia e addirittura lo smantellamento definitivo dell’industria siderurgica italiana e – d’altra parte – l’altrettanto importantissimo tema della malattia indotta da una fabbrica che emana ogni giorno polveri velenose e assassine. E resta l’inaffidabilità della proprietà attuale dell’Ilva con gran parte dei suoi componenti e collaboratori indagati per gravi reati dalla magistratura inquirente.
È necessario in queste condizioni che il governo sia pronto all’esproprio della società proprietaria ed è altrettanto necessario che tra governo e magistratura si arrivi a concordare un iter che tuteli al tempo stesso il lavoro e la salute. È difficile, non è impossibile, è necessario. A Taranto, a Piombino, nel Sulcis. Sulla necessità e sulla praticabilità d’un accordo si gioca la faccia del governo, della magistratura e dell’Italia.
Nessun dorma.
La Repubblica 02.12.12

“La libertà difesa dalle regole”, di Michele Prospero

Questo gran rumore sulla necessità di riaprire la registrazione per non cadere nell’accusa di voler bloccare d’imperio la partecipazione ai gazebo, dal punto di vista teorico, poggia sul nulla. La pretesa che il corpo elettorale costituisca non un universo dato ma un magma in perenne divenire scalfisce ogni univoca determinazione giuridica. Per definire l’ampiezza reale dei soggetti con diritto di voto, i partiti altro strumento idoneo non hanno che quello di indicare i tempi ragionevoli per effettuare l’iscrizione in calce agli elenchi pubblici.
Solo l’avvenuta registrazione certifica il godimento della cittadinanza attiva, direbbe Kant, che conferisce a ciascuno il formale diritto di votare. Pretendere che ai gazebo possano presentarsi folle che non hanno effettuato la preliminare procedura di registrazione è contrario a ogni principio di competizione liberale. È come se un americano chiedesse di votare alle presidenziali francesi o un romano pretendesse di votare per il sindaco di Palermo. La registrazione nelle primarie è l’equivalente della cittadinanza, requisito base senza di cui non si può votare.
Il popolo, nelle culture liberali, non è mai una entità naturale, esso si configura sempre, lo suggerisce Kelsen, come una puntuale e artificiale costruzione giuridica. E quindi il popolo o cittadinanza che può votare alle primarie è da intendersi non già qualunque corpo pretenda di infilare la scheda nell’urna, ma solo quella precisa entità giuridica la cui estensione è definita dalle regole sovrane che la coalizione ha deciso di darsi. Il popolo dei gazebo non è insomma una entità naturalistica o moltitudine, con il lessico di Hobbes, da accogliere in maniera indiscriminata, ma è una precisa entità giuridico-formale costruita con regole e forme valide che per tutti sono vincolanti.
È inoltre solo dentro un trasparente perimetro ideale e programmatico che le registrazioni sono consentite. Anche quando le primarie sono “aperte”, non è lecito per l’elettore di un altro raggruppamento scomodarsi per prestare soccorso a un candidato gradito. La libertà costituzionalmente tutelata non è mai quella di tutti di partecipare indiscriminatamente alla vita di tutti i partiti, anche di quello che si avversa.
Chi, in nome di una pretesa democrazia offesa da regole adottate in piena autonomia, pretende che il Pd faccia votare tutti, senza griglie formali stringenti, ed esorta i garanti a ospitare anche i nemici che intendono contaminare l’esito del voto ha deciso di giocare allo sfascio. Una illecita riapertura delle iscrizioni non solo predeterminerebbe le condizioni per l’annullabilità della contesa, ma coltiva una larvata pratica totalitaria. Dietro l’istanza in apparenza ultrademocratica, per cui nessun male c’è a che anche la destra smarrita voti per il candidato che la sinistra deve scegliere per la conquista del governo, cova infatti la logica ambigua del partito unico.
Le primarie hanno un senso solo perché sono di «parte». Se la demarcazione in parti distinte e tra loro in contesa cade esiste solo un unico metapartito che supera ogni differenza. Questa nostalgia per una democrazia in salsa popolare-giacobina, in cui le società parziali sono bandite e il conflitto tra le parti è visto come una malattia degenerativa, è però un incubo che la sinistra lascia volentieri ai media della borghesia italiana. Il pluralismo che esige il rispetto di ogni differenza ideale come un bene intangibile e di «parte» garantito dalla Costituzione.
L’Unità 02.12.12

“Quei vuoti difficili da riempire”, di Vladimiro Zagrebelsky

Decenni di attività industriale senza riguardo per le regole di protezione della salute e dell’ambiente hanno prodotto un disastro sul terreno e nei corpi di lavoratori dell’Ilva e di abitanti di Taranto. Nemmeno le istituzioni pubbliche ne escono indenni. E nemmeno i sindacati dei lavoratori, se è vero che nel corso degli anni la loro azione è stata timida e inefficace. Il disastro va oltre la dimensione ambientale e sanitaria e, come questa, lascerà ferite difficilmente rimarginabili. Snodi essenziali del sistema andrebbero ripensati, se ce ne fosse la forza e la capacità. Oggi si è davanti al dilemma che oppone salute e lavoro: il pericolo per la salute alla certezza della perdita del lavoro di molti, non solo a Taranto. Una situazione creatasi perché nel tempo si è tollerato che il problema crescesse fino a divenire drammatico. Il riferimento alla tolleranza rinvia alla responsabilità di governi e autorità loca li, che si sono dimostrati incapaci di disciplinare la con dotta dell’azienda.
Non sorprenderebbe che quella tolleranza sia stata a lungo alimentata da connivenze, da pratiche corruttive, da scambi di favori a livello governativo e locale. Enorme infatti era il peso dell’Ilva, sia come capacità di interferire nella azione di controllo, che avrebbe dovuto essere svolta ai vari livelli governativi e locali, sia come possibilità di mettere sul tavolo le conseguenze sociali di ogni intralcio alla realizzazione delle politiche aziendali. Argomento quest’ultimo spiacevole, ma fondato sui fatti e quindi ineludibile, anche ora. Una considerazione, che richiama l’idea del ricatto, non sarebbe però sul tavolo di chi deve gestire la situazione presente, se fin dall’inizio ciascuno avesse fatto il suo dovere, senza lasciar crescere un problema ora non affrontabile senza danni.
Lo scontro che si alimenta opponendo i diritti della «politica» all’azione della magistratura, nasce anche questa volta male. Per decenni le espressioni nazionali e locali della «politica» sono state inefficaci e timide, se non conniventi. Oggi dichiarazioni orgogliose di autonomia della «politica» suonano stonate. Ancora una volta. Venendo a tempi recenti, la gravità della situazione e la natura dell’azione della magistratura erano state rese note dalla Procura della Repubblica di Taranto. Il procuratore era stato sentito due volte lungamente dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, a febbraio e a settembre di quest’anno. Il procuratore aveva parlato chiaro e aveva anche auspicato collaborazione e convergenza di azione tra le diverse istituzioni. La magistratura non è chiamata a risolvere problemi generali, né disporrebbe dei mezzi per farlo. Essa non gestisce questioni come quella che oggi oppone le esigenze dell’economia nazionale e dell’occupazione a quelle della protezione dell’ambiente e della salute. La magistratura è chiamata ad applicare la legge e dispone di strumenti processuali che sono stati disegnati a quello specifico scopo. La legge punisce chi procura un disastro dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità. Quando sia necessario per evitare che le conseguenze del reato siano aggravate o protratte nel tempo, la legge prevede che il giudice disponga il sequestro delle cose con le quali il reato è commesso. I margini di discrezionalità per il magistrato sono ristretti, se egli rimane nell’ambito del suo ruolo, specialmente quando sia grave il pericolo derivante dalla continuazione dell’azione che costituisce il delitto. Questo quadro di norme non deriva da un’arbitraria decisione della magistratura, ma dall’attenta opera legislativa prodotta dal Parlamento, sede massima delle scelte politiche.
Ha allora poca base la critica alla rigidità della magistratura, alla sua cecità e insensibilità alle conseguenze economiche e sociali dei suoi provvedimenti. E ciò specialmente da parte di chi protesta ogni volta che l’azione giudiziaria sembra fuoriuscire dagli stretti limiti del suo ruolo. Naturalmente però resta il problema dell’adeguatezza del sistema vigente rispetto alle esigenze proprie di situazioni di grande portata come quella che l’Ilva ha creato, nell’inerzia di chi avrebbe dovuto contrastarla. Non è questa la prima volta che l’azione della magistratura lascia irrisolti o addirittura crea problemi su piani diversi, ma collegati a quello su cui essa opera. Non solo l’obbligo di esercitare l’azione penale, ma soprattutto la rigidità degli strumenti processuali che la legge ha stabilito producono talora difficoltà e danni collaterali. Questa volta sono di particolare importanza. La descrizione delle ragioni che spiegano la natura dei provvedimenti della magistratura non deve portare a negare l’esistenza del problema. Irresponsabile e comunque sterile sarebbe accontentarsi del fatto che impianti pericolosi sono chiusi, che responsabili di gravi reati sono in carcere o indagati e che la magistratura ha fatto il suo dovere.
La magistratura non è chiamata a risolvere problemi generali, né disporrebbe dei mezzi per farlo. Essa non gestisce questioni come quella che oggi oppone le esigenze dell’economia nazionale e dell’occupazione a quelle della protezione dell’ambiente e della salute. La magistratura è chiamata ad applicare la legge e dispone di strumenti processuali che sono stati disegnati a quello specifico scopo. La legge punisce chi procura un disastro dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità. Quando sia necessario per evitare che le conseguenze del reato siano aggravate o protratte nel tempo, la legge prevede che il giudice disponga il sequestro delle cose con le quali il reato è commesso. I margini di discrezionalità per il magistrato sono ristretti, se egli rimane nell’ambito del suo ruolo, specialmente quando sia grave il pericolo derivante dalla continuazione dell’azione che costituisce il delitto. Questo quadro di norme non deriva da un’arbitraria decisione della magistratura, ma dall’attenta opera legislativa prodotta dal Parlamento, sede massima delle scelte politiche.
Ha allora poca base la critica alla rigidità della magistratura, alla sua cecità e insensibilità alle conseguenze economiche e sociali dei suoi provvedimenti. E ciò specialmente da parte di chi protesta ogni volta che l’azione giudiziaria sembra fuoriuscire dagli stretti limiti del suo ruolo. Naturalmente però resta il problema dell’adeguatezza del sistema vigente rispetto alle esigenze proprie di situazioni di grande portata come quella che l’Ilva ha creato, nell’inerzia di chi avrebbe dovuto contrastarla. Non è questa la prima volta che l’azione della magistratura lascia irrisolti o addirittura crea problemi su piani diversi, ma collegati a quello su cui essa opera. Non solo l’obbligo di esercitare l’azione penale, ma soprattutto la rigidità degli strumenti processuali che la legge ha stabilito producono talora difficoltà e danni collaterali. Questa volta sono di particolare importanza. La descrizione delle ragioni che spiegano la natura dei provvedimenti della magistratura non deve portare a negare l’esistenza del problema. Irresponsabile e comunque sterile sarebbe accontentarsi del fatto che impianti pericolosi sono chiusi, che responsabili di gravi reati sono in carcere o indagati e che la magistratura ha fatto il suo dovere.
La Stampa 02.12.12

“Diario dei 15 giorni che sconvolsero il Pd”, di Michele Serra

Dovessimo trarre una morale, da queste primarie ingombranti, vitali, rissose, supermediatiche, è che la sinistra italiana, per anni convinta di essere poco contemporanea, poco telegenica, sfocata, una volta catapultata al centro della scena ci si è ritrovata sorprendentemente a suo agio. Di Renzi si sapeva. Perché è giovane, mastica comunicazione, nasce e cresce in una politica che non è più quel paziente, umile corpo a corpo territoriale dove partiti e sindacati si fecero le ossa: è reality, è web e dunque è (anche) prestazione attoriale, velocità di battuta, idea virale.
MA È tutto il resto del cast, nei quindici giorni che sconvolsero il centrosinistra, ad avere retto il ruolo con inattesa destrezza. Protagonisti e pubblico, candidati ed elettori. A cominciare dai dettagli, come quei “marxisti per Tabacci” che hanno rinverdito su internet la potente vena satirica già protagonista della campagna per Pisapia; come la felice icona bersaniana della pompa di benzina (forse, grazie a Edward Hopper, il più bel poster politico degli ultimi anni) che è riuscita a dare dignità estetica, e chi lo avrebbe mai detto, alla retorica della normalità tanto cara al segretario del Pd; la stoica prestazione della Puppato, unica donna, che pur sapendo di perdere si è battuta con la stessa energia di chi vuole vincere;
la stanchezza di Vendola, pesce fuor d’acqua nella schermaglia veloce del talkshow, visibilmente saturo di esibizione e fors’anche di politica, ultimo esemplare di intellettuale prestato alla politica e di leader politico che rimpiange la cultura.
E’ anche nelle sbavature e nelle cadute di stile, però, che le primarie hanno via via assunto credibilità, e insomma sono sembrate “vere” non solo secondo il vecchio e legittimo canone di sinistra (la mobilitazione di strada, i volontari, le code ai seggi), ma anche dentro i nuovi canoni della mediaticità. Quel tanto di rissosità aspra quanto volatile (i sospetti twittati, i botta e risposta tra i rispettivi staff), le lacrime spremute da Vespa a Bersani, la sottomissione ai tempi, ai ritmi e perfino ai modi della televisione, che spesso mette in primo piano le polemiche contingenti, lo scatto emotivo, la battuta brillante, e sorvola sulla profondità dei grandi temi: tutto questo — vale a dire i pregi e i difetti della politica mediatica — è sembrato, nelle ultime settimane, molto più “di sinistra” di quanto la sinistra stessa, elettori compresi, potesse prevedere.È come se la campagna per le primarie avesse ristretto fino quasi ad annullarlo lo spread tra la sinistra italiana e un campo, quello mediatico, sospettato di essere stato costruito a misura della destra populista e delle sue semplificazioni, a misura (e per mano) di Berlusconi e del suo piazzismo prestato alla politica. Sospetto che ha una sua fondatezza, e tale da sollevare, ancora adesso, perplessità e diffidenza in parte del pubblico: le camicie di Renzi saranno davvero il “suo vestito” o sono un costume televisivo? Le sue frasi sono davvero “teledirette” dai suoi spin doctors? E se sì, quanto toglie, questo genere di confezione, alla loro sincerità? Perché Bersani accetta di commuoversi da Vespa, per calcolo ruffiano o (peggio) per la sprovvedutezza di chi programma la sua agenda? E i vestiti “sbagliati” di Bersani, sono veramente sbagliati o fanno parte (come le camicie di Renzi) di un sapiente calcolo sull’immagine, che dev’essere ordinaria?
La risposta, giunti al termine dei quindici giorni che hanno sconvolto il centrosinistra, è che quelle domande sono vecchie, sono nodi ormai sciolti dai fatti. Si intende solo che lo scenario mediatico nazionale, per chiunque e con qualunque intenzione fosse stato allestito, ha visto muoversi perfettamente a loro agio gli uomini del centrosinistra, i loro argomenti, le loro polemiche, i loro tic, i loro difetti, le loro vanità. Che la sinistra si è lasciata colonizzare dalla telepolitica e l’ha colonizzata, con le rispettive contaminazioni del caso. Circostanza resa ancora più “storica”, e macroscopica, dalla contemporanea rinuncia del centrodestra alla possibilità di avere una sua scena madre, con le sue primarie. Un suicidio tanto più impressionante quando si pensi che potrebbe essere proprio l’uomo della televisione, Silvio Berlusconi, a spegnere i riflettori sulla sua gente per provare ad accenderli, per l’ennesima volta, solo su di sé. Un calcolo assurdo, un paradosso quasi inspiegabile eppure pienamente in atto, e proprio in questi giorni e in queste ore.
Nella sua misteriosa dimensione (una specie di covo virtuale, una bat-caverna), più savio o forse solo più furbo di Berlusconi sembra Beppe Grillo, che dopo avere dichiarato, come
Libero e il Giornale, che le primarie del centrosinistra sono una truffa per gonzi, o peggio una sfilata di morti, indice a sua volta, nel Sacro Web, le primarie delle Cinque Stelle. Con regole molto più rigide e accesso molto più ristretto, perché a differenza del centrosinistra, che ormai non ha più paura neanche di Bruno Vespa, Grillo ha il terrore di tutto quello che non è in grado di controllare personalmente.
La Repubblica 02.12.12