Il sincronismo perfetto tra i dati Istat sulla catastrofe occupazionale italiana, quelli Eurostat per l’Eurozona e il richiamo di Mario Draghi a innestare la marcia della triade virtuosa competitività, crescita e lavoro non è una coincidenza fortuita e ci deve fare riflettere. La notizia bomba è che abbiamo perso 100 mila posti in un mese. Le altre due, ampiamente previste, rivelano che stiamo rotolando verso i tre milioni di disoccupati (2 milioni 870 mila) e oltre l’11% di senza lavoro, con un 36,5% per i giovani tra i 15 e i 24 anni, che si avvicina a quota 40: tutti record storici negativi da vent’anni a questa parte.
Il governatore della Banca centrale europea ricorda a noi e ai nostri compagni di merende che è ora di finirla di giocare con deficit e debiti e di raccontare favole, e intima di costruire nuove politiche del lavoro e dello sviluppo. In Europa i disoccupati sono 18,7 milioni, l’11,7%, ma questo non ci autorizza a farci belli con il nostro 11,1%. La palla è nella nostra metà campo, ma sembriamo paralizzati dalla sfiducia e dalla paura di non farcela. Vista all’indietro la crisi ha allontanato il fantasma dello spread, lasciando sulla strada macerie, costi sociali e numerose vittime del fuoco amico.
Ma se guardiamo avanti sembriamo accecati e impotenti, abbagliati dallo specchio ustorio del futuro. Non serve implorare il ritorno del partito della spesa pubblica, che sopravvive sempre sotto traccia e sogna di allentare prima o poi i cordoni della borsa, ma è ora di dare una benefica scossa, uno scrollone, per uscire dal torpore, dall’accidia e dalla abulia. Serve, qui e ora, subito, una politica per l’emergenza. Governo, sindacati, imprese e partiti, giù la maschera. E’ meglio diventare strabici, ma non ciechi: con un occhio bisogna guardare vicino, per un’agenda del breve periodo, sulle cose da fare subito; con l’altro occhio bisogna guardare lontano, per costruire un’agenda del prossimo futuro. E’ dannosa una campagna elettorale lunga cinque mesi. Servono decisioni e responsabilità, bisturi intelligenti e poderosi ricostituenti. Un’attenta lettura dei dati riporta a un pianeta lavoro in caduta libera, con le relative conseguenze su domanda e consumi.
Se lo stock dei posti perduti in un anno indica una media di 45 mila disoccupati al mese, il flusso segnala un’emorragia di 100 mila posti mensili; è quasi matematico, se non si inverte la rotta, che tra gennaio e febbraio rischiamo di battere il record dei tre milioni di senza lavoro ufficiali. La malattia inaccettabile è la rassegnazione. Si può recriminare con il gioco delle colpe degli ultimi vent’anni, ma questo non ci porta fuori né dalle sabbie mobili né dal pantano. Né aiuta additare la recente riforma del lavoro a capro espiatorio del disastro occupazionale. Cinque mesi sono pochi per rovesciare la sorte e costruire un diverso destino, anche se ormai quasi tutti riconoscono, soprattutto le imprese, che non sta creando lavoro e che, anzi, sta ostacolando le assunzioni, assegnando all’osmosi entrate-uscite un saldo pesantemente negativo. Nell’agenda sociale di breve periodo vanno adottate misure rapide e incisive, all’insegna del blocco della emorragia di posti e in aiuto alle imprese che assumono.
Ci sono settori che nonostante la crisi funzionano e possono lavorare, ma si astengono, in una sospensione decisionale che crea un effetto domino. Non bastano gli incentivi sin qui previsti di 270 milioni: dare briciole a molti non è una politica efficace, non crea controtendenza, un benefico effetto valanga. Per farlo occorre avere una guida e una volontà. Anche perché in Italia l’area del disagio occupazionale, al di là dei 2 milioni 870 mila disoccupati ufficiali, è composta da un esercito ben più corposo: se si aggiungono contratti a tempo, collaboratori, part time involontario, addetti di aziende in crisi e in cassa integrazione, inattivi disponibili a lavorare, arriviamo a otto milioni di persone, per le quali il lavoro non c’è o sta svanendo. Un’agenda sociale e per il lavoro è la priorità. Ma le politiche lavoristiche non bastano, se non sono accompagnate da un’agenda per la crescita e lo sviluppo. L’alibi del mal comune mezzo gaudio è una strategia miope e autolesionistica. Guardiamoci dentro, e salviamo il salvabile.
La Stampa 01.12.12
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“Chi gioca allo sfascio”, di Claudio Tito
Mentre il Paese sembra lentamente uscire dalle secche in cui era stato trascinato in questi anni dal centrodestra, Silvio Berlusconi sta ormai facendo di tutto per riportare indietro le lancette dell’orologio politico e istituzionale.
Aver bloccato l’accordo sulla riforma elettorale, equivale infatti a congelare l’attuale sistema dei partiti. Il leader del Pdl ha bisogno proprio della peggiore legge elettorale, il Porcellum, per tentare di conservare un ruolo nel prossimo Parlamento. È pronto anche a digerire il consistente premio di maggioranza a favore del Pd pur di mantenere le liste bloccate. Ha bisogno di eleggere alla Camera e al Senato un manipolo di fedelissimi rispolverando il vecchio emblema di Forza Italia. Magari anche di far risorgere come uno zombie la Casa delle libertà inventata ben undici anni fa. E piazzare ai suoi fianchi due ancelle: una nuova Alleanza nazionale fatta con quel che resta di tutte le schegge dell’ex Msi e qualche esponente ex democristiano uscito indenne dall’esplosione del Pdl.
Ma l’effetto del Porcellum, non si vedrà solo sul centrodestra. Berlusconi sa di avvantaggiare numericamente chi uscirà vincente dalle primarie del centrosinistra. Ma questo potenziale vantaggio rischia di sterilizzare di fatto il progetto politico costruito dal Partito democratico e in particolare da Pierluigi Bersani. Può insomma incrinare l’idea dell’alleanza con il centro, quello di Casini e quello della coppia Riccardi-Montezemolo. L’indicazione del candidato premier (nella legge si parla di capo politico della coalizione) e il ragguardevole premio di maggioranza previsto almeno a Montecitorio, indurrà probabilmente il Pd e la Sinistra e Libertà di Vendola a “correre” da soli con un’unica lista. A rinunciare dunque ad allargare verso i moderati. E nessuno può escludere che in questa competizione, Bersani (o Renzi) possa trovarsi nella necessità di ricucire pure un rapporto con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro.
A parti invertite, il medesimo effetto si abbatterà sui centristi. Che, incapaci di reggere davanti ai loro elettori un patto con Vendola, allo stato non sono intenzionati a siglare un’intesa “preelettorale” con il centrosinistra. Le ripercussioni si svilupperanno quindi almeno su due livelli: Casini e i “montiani” dovranno acconciarsi a organizzare un’unica lista. La soglia di sbarramento al Senato fissata all’8% potrebbe essere altrimenti un ostacolo insormontabile. Ma soprattutto si indebolisce l’ipotesi di disegnare un ruolo per l’attuale presidente del consiglio Monti. In sostanza perde peso il progetto di creare uno spazio per il cosiddetto Monti-bis. Il Professore infatti ha meno margini di candidarsi come “capo politico della coalizione”. Anche perché – almeno a leggere i sondaggi dovrebbe correre il rischio di schierarsi alla guida di un’alleanza con poche chance di prevalere. Inoltre, se il Pd vincesse le elezioni indicando Bersani premier e potendo contare sul premio di maggioranza alla Camera, chi potrebbe chiedere al segretario democratico di farsi da parte? Anche nel caso in cui l’alleanza Pd-Sel fosse maggioranza relativa al Senato e quindi dovrebbe chiedere i voti dei centristi, quale giustificazione politica potrebbe essere addotta per persuadere il “vincitore” a fare un passo indietro? Certo, un centrosinistra con un asse spostato a sinistra potrebbe lasciare qualche spazio in più al listone centrista dal punto di vista elettorale, ma non sulla scelta del presidente del Consiglio. Semmai crescerà la capacità del “nuovo centro” di influenzare l’elezione del presidente della Repubblica. Il primo atto della prossima legislatura e probabilmente l’architrave su cui si baseranno tutti gli eventuali patti tra Bersani e Casini.
Ma il mantenimento dell’orribile Porcellum determinerà un ulteriore effetto: dare fiato all’antipolitica e alla demagogia grillina. Perché Grillo usufruirà di tutti i benefici di un sistema elettorale che “nomina” dall’alto i parlamentari e nello stesso tempo sparerà alzo zero sulla “casta”.
La Repubblica 01.12.12
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“Berlusconi affossa la riforma elettorale”, di FRANCESCO BEI
Legge elettorale, addio al cambiamento. Rimane il Porcellum. Dopo un’estenuante trattativa, la riforma fallisce a un passo dalla firma. Per metterla in calce al documento, si erano dati appuntamento gli uomini che hanno lavorato alla bozza: Denis Verdini (Pdl), Lorenzo Cesa (Udc), Maurizio Migliavacca (Pd), Italo Bocchino (Fli). È stato però Verdini ad avvisare gli altri che il presidente Berlusconi ha deciso «che così non va, non possiamo accettare, preferisce tenersi il sistema attuale». Fallisce l’intesa sulla riforma elettorale. E il colpo di grazia lo spara Berlusconi. L’accordo era lì, a un passo. Questa volta mancava solo la firma. Per metterla in calce al documento finale, si erano dati appuntamento in gran segreto giovedì pomeriggio gli sherpa che alla bozza hanno lavorato per mesi. Denis Verdini (Pdl), Lorenzo Cesa (Udc), Maurizio Migliavacca (Pd), Italo Bocchino (Fli). Succede tuttavia che proprio Verdini si presenta e alza bandiera bianca: «Mi spiace, ma il presidente Berlusconi ha deciso che così non va, non possiamo accettare, preferisce tenersi il sistema attuale».
Preferisce il Porcellum, «niente preferenze», fondamentale poter avere carta bianca nella selezione dei candidati, per dar vita e forma alla nuova Forza Italia. Senza tenere conto del fatto che la bozza di riforma, che la settimana prossima sarebbe approdata in aula al Senato, prevede anche un limite alle candidature multiple: possibili solo in un massimo di tre circoscrizioni e non in tutta Italia. E poi con le vecchie regole il Cavaliere confida ancora di poter impedire una maggioranza al Senato. La nuova bozza, nella stesura definitiva, prevede un premio al raggiungimento del 38,5 per cento (in grado di far lievitare la maggioranza a quota 55). E se nessuno dovesse superare quella soglia, il primo partito avrebbe un premio comunque pari al 27 per cento dei seggi conquistati.
La sorpresa è generale. L’ultimo sgambetto era sì temuto, conoscendo i colpi di coda dell’ex premier, ma stavolta non era previsto. Così, la nave della riforma che sembrava approdata in porto dopo mesi di tempeste, d’improvviso si ritrova in alto mare, destinata al naufragio. Molti pidiellini vicini ad Alfano contano di recuperare la partita da martedì. Ma la situazione resta critica. A perdere le staffe è il segretario Pd Pier Luigi Bersani. In quelle stesse ore di giovedì ha chiamato di persona il Quirinale per mettere in chiaro la situazione. «Presidente, noi ce l’abbiamo messa tutta, questa volta l’accordo lo stavamo firmando » ha premesso. Detto questo, anche in vista di un messaggio, di un sempre più probabile intervento del Colle, lo scenario cambia, è il senso del messaggio. «D’ora in poi non potremo più essere messi sullo stesso piano, se la riforma elettorale fallisce la responsabilità non è di tutti i partiti ma in gran parte di uno» ha sottolineato ancora Bersani.
Preoccupazione plumbea, al Quirinale. Il presidente Napolitano è chiuso nel più stretto riserbo. Ieri un nuovo intervento sulla legge elettorale è stato affidato al segretario generale della Presidenza, Donato Marra, per ribadire le posizioni: una riforma va fatta e in tempi brevi. E questo, nonostante in scadenza della legislatura. Perché è vero che la cosiddetta Commissione di Venezia (la Commissione Ue che ha redatto il “Codice di buona condotta elettorale”) sconsiglia una modifica alla vigilia delle elezioni, ma è anche vero che quel monito «non è vincolante ». Senza tenere conto del fatto che gli italiani con la richiesta di referendum hanno detto no al Porcellum, che tutti i partiti si erano impegnati a cambiarlo da tempo, che c’è la Consulta ha suggerito infine di fissare una soglia oltre
la quale far scattare il premio di maggioranza. Il Quirinale puntualizza ancora una volta le ragioni e le necessità della riforma attraverso la lettera che Marra ha indirizzato al segretario della “Destra” Francesco Storace (che l’ha subito postata sul suo “Giornale d’Italia on line”) e al radicale Maurizio Turco. Quest’ultimo, in sciopero della fame da giorni per il motivo opposto a quello del democratico Roberto Giachetti: perché non vuole cambiare la legge
a pochi mesi dal voto.
Il Colle, insomma, resta coi fari puntati. Finora i lavori sono stati sospesi ufficialmente anche per via delle primarie Pd in corso, ma alla vigilia della ripresa dei lavori al Senato, il clima a questo punto è deteriorato, le trattative arenate. Pier Ferdinando Casini non ne fa mistero e chiama in causa proprio Berlusconi che minaccia di «far saltare la legge elettorale: il suo sarebbe un rientro infausto».
La Repubblica 01.12.12
Pompei: Ghizzoni, Ornaghi riferisca su avanzamento progetto
Crollo conferma necessità di intervento immediato. “Chiederò al Ministro Ornaghi di riferire in Commissione sullo stato di avanzamento del Grande Progetto Pompei – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati, dopo il cedimento di un muro di una domus lungo il vicolo di Modesto nella regio VI – Chiederemo al Ministro di riferire sull’episodio odierno e di illustrare in Parlamento il progetto, che prevede un intervento da 105 milioni di euro tra fondi nazionali e il Fondo Europeo per lo Sviluppo regionale, per affrontare la delicata sorte del sito archeologico. Il nuovo crollo avvenuto oggi a Pompei conferma la necessità di un monitoraggio continuo oltre che – conclude la Presidente Ghizzoni – di un immediato piano di gestione capace di garantire la protezione e la valorizzazione di un sito archeologico di rilevanza mondiale.”
Sisma: deputati Pd, “Esecutivo abbandoni calcoli ragionieristici”
Questa sera parteciperanno alla fiaccolata di San Possidonio in sostegno alla popolazione. I deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata, che questa sera parteciperanno alla fiaccolata a San Possidonio in sostegno delle popolazioni colpite dal terremoto, invitano il Governo ad abbandonare un atteggiamento poco lungimirante basato su calcoli ragionieristici: le misure agevolative chieste non erano una regalia ma il modo di favorire la ripresa economica di un’area che è uno dei motori dell’economia italiana.
“Invitiamo il Governo ad abbandonare calcoli ragionieristici poco lungimiranti e ad affrontare con responsabilità le esigenze della popolazione colpita dal sisma del maggio scorso, già nel provvedimento sui costi della politica. – lo dichiarano i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata, che questa sera parteciperanno alla fiaccolata a San Possidonio in sostegno popolazioni colpite dal terremoto, in merito alla decisione dell’Esecutivo di valutare in sede di legge di stabilità le misure sul sisma approvate in commissione ed espunte dal maxiemendamento – Le misure agevolative, introdotte dagli emendamenti che prevedevano l’estensione della platea dei beneficiari dei finanziamenti, non erano una regalia ma il modo di favorire la ripresa economica di un’area che garantisce allo Stato quasi 7 miliardi di euro di gettito fiscale e 400 milioni di euro di IVA annui e contribuisce al 2% del Pil. Con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato alla Camera, l’Esecutivo si era impegnato ad estendere i finanziamenti alle aziende che avevano subito danni al reddito d’impresa e a prevedere il meccanismo della cessione del quinto dello stipendio per i contributi previdenziali e assistenziali e dei premi assicurativi, nel primo provvedimento utile. È il momento – concludono che il Governo abbandoni i calcoli di ragioneria e si unisca al Parlamento per dare risposte concrete a chi ha rappresentato il motore produttivo del Paese.”
“Con Bersani riformista sul serio”, di Marina Sereni
Devo dire che mi provoca una grande tristezza (e un po’ di rabbia) vedere nelle ultime ore di campagna prima del ballottaggio di domenica una polemica accesa di nuovo sulle regole e sulla platea elettorale. Matteo Renzi e il suo comitato stanno invitando, o meglio incitando, persone che avrebbero potuto benissimo registrarsi prima del 25 a farlo ora, quando non e’ più possibile se non per situazioni eccezionali. Sin dall’inizio il coordinamento nazionale, ha deciso, anche sulla base del parere di autorevoli giuristi, che la platea elettorale non possa cambiare tra il primo e il secondo turno. E che nuove registrazioni potessero essere accolte solo in casi eccezionali per coloro che, nei ventuno giorni precedenti il 25 Novembre, fossero stati davvero nella impossibilità di iscriversi. Ognuno di noi in queste ore riceve telefonate di amici o conoscenti che avrebbero piacere di partecipare. La vulgata secondo cui quelli che vogliono registrarsi ora sarebbero tutti per Renzi e’ dunque una emerita sciocchezza. Ma, mentre noi rispondiamo che le regole sono stabilite e non si possono cambiare in corsa, Renzi e i suoi alimentano una campagna di disinformazione, sostenuta tra l’altro da un avviso a pagamento (molto costoso, a nostro parere) non firmato, apparentemente neutro ma in realtà riconducibile alla Fondazione renziana Big Bang. Non so fino a dove vorranno portare questo tentativo di forzare le regole. So che si rischia concretamente di rovinare un risultato straordinario – tre milioni e duecentomila cittadini che hanno fatto la fila e pagato i loro due euro, un confronto tra i candidati basato sui programmi e le proposte, un’attenzione alla politica e al centrosinistra come non si vedeva da tempo. A chi conviene sporcare questo risultato? In ogni competizione ci sono anche le asprezze e qualche colpo basso. Ma bisogna sapere quando fermarsi se si crede nella democrazia. La democrazia e’ fatta di partecipazione e di regole, non si da’ la prima senza le seconde. Ed e’ ben strano che chi corre per la candidatura a premier – dovendo dimostrare agli elettori e a chi ci guarda dall’esterno che saprà rispetterà gli impegni con l’Europa e tenere insieme la coalizione – non riesca neppure a rispettare il patto con gli altri competitori e le regole decise tutti insieme.
In ogni caso noi cercheremo di spendere le prossime ore per richiamare i contenuti, le proposte, per mettere in evidenza l’autorevolezza, la credibilità, l’esperienza di Bersani. Il fatto che Tabacci da un lato e Vendola dall’altro abbiano dichiarato il loro voto per Pierluigi e’ una conferma del nostro giudizio: serve una figura che archivi sia la stagione dell’Unione sia quella dell’autosufficienza. Serve un progetto politico riformista, democratico, di centrosinistra.
La vittoria di Bersani alle primarie e’ l’unica garanzia per poterci candidare a governare e a cambiare il Paese. Nulla e’ scontato ma intanto lavoriamo serenamente perché chi ha già votato Bersani, e chi aveva preferito al primo turno un altra candidatura, possa tornare ai seggi e regalarci di nuovo un’altra giornata di festa democratica.
da www.areadem.info
“Dove va l’Italia. Il Paese senza madri”, di Carla Collicelli
Facciamo sempre meno figli. E non si tratta di un problema solo economico Negli ultimi anni si è accentuata, invece di ridursi, la polarizzazione tra dimensione privata e dimensione pubblica della esistenza. Due sistemi che comunicano poco: lavoro e famiglia, pubblico e privato e anche, inevitabilmente, riproduzione e produzione. E’ un dato di fatto che si facciano sempre meno figli in Italia, come peraltro in tutti i paesi avanzati ed in generale nel mondo. Ed è forse esagerato parlare, come molti fanno, di suicidio demografico, quanto meno in un contesto di territori sovraffollati e di disoccupazione, come il nostro. Spesso si dimentica, però, che ai valori statistici declinanti della fertilità e della natalità si affiancano altri fenomeni, di carattere sociale e antropologico e di valenza qualitativa, di gran lunga più preoccupanti, anche se subdolamente nascosti e sottostimati, che configurano un quadro di società agenerativa e con forti difficoltà ad affrontare il futuro.
Innanzitutto si accentua, invece di ridursi, la polarizzazione tra dimensione privata e dimensione pubblica della esistenza, che significa separatezza, ed in alcuni casi conflitto, tra vissuti ed approcci femminili prevalenti nella sfera del privato -, e vissuti ed approcci maschili dominanti nella sfera del lavoro e della politica -. Quella contrapposizione che già alcuni anni fa Adriano Sofri ha tematizzato in un volume dal titolo Il nodo e il chiodo: i nodi della accoglienza, della inclusione, della cura da parte delle donne, negli ambienti privati di vita; i chiodi della competizione, dell’economicismo, della verticalizzazione maschile del potere, negli ambienti della vita pubblica.
Di fatto i due ambiti si configurano sempre più come due sistemi separati e tendenzialmente non comunicanti tra loro: lavoro e famiglia, pubblico e privato, denaro e affetti, solidarietà e competizione, ed anche procreazione e produzione, riproduzione e produzione, non si integrano, ma anzi si contrappongono, determinando tra le altre cose quella particolare fatica esistenziale che caratterizza la vita delle tante donne che desiderano avere un proprio ruolo in ambedue i contesti. I dati della sofferenza femminile nel mondo del lavoro e nei luoghi del lavoro sono noti. Meno noti, anche se oggi più analizzati che in un recente passato, sono i dati della femminilizzazione dei vissuti familiari, che significa in parte contagio di ruoli tra uomini e donne, con padri più materni di una volta, ma soprattutto crescita esponenziale delle responsabilità di figlie, mogli e madri nei confronti dell’allevamento dei bambini, della educazione, della cura dei malati, della salvaguardia della convivialità e della socialità, e di tutte le altre funzioni tipiche della sfera privata. E troppo poco sono considerati i risvolti sociali ed antropologici negativi dovuti al mancato sviluppo ed incontro armonico tra identità maschile e identità femminile e relativi ruoli e funzioni, rispetto alla possibilità di una fecondazione reciproca e della costruzione di nuova vita, come di nuovo lavoro, o di nuova cultura.
In questo senso si può dire che il valore della generatività, insomma della fiducia nel futuro e del desiderio di costruire nuova vita, viene progressivamente meno non solo e non tanto perché i figli costano, le famiglie con bambini sono le più penalizzate economicamente e socialmente, o la rete degli aiuti per i malati e gli anziani si fa sempre più stretta e lunga con la conseguenza di un assottigliamento sempre più pesante delle potenzialità e delle risorse che fino ad oggi per decenni hanno sostenuto e dato vita al cosiddetto welfare familiare all’italiana -, ma molto più per l’appesantirsi, fino a spegnersi, per sovraccarico e mancato sostegno culturale e sociale, di quella che dovrebbe essere considerata una funzione essenziale nel quadro dello sviluppo integrato della collettività, appunto la creazione di nuova vita, di nuovo lavoro, di nuovo sociale.
Un secondo importante aspetto, di carattere più trasversale, ha molto a che fare con la perdita di valore della generatività: l’escalation dell’individualismo e della solitudine. Si pensi al ruolo crescente di alcune tecnologie moderne nella vita di ciascuno di noi, dalla automobile fino al telefono cellulare e ai social network: strumenti formidabili di liberazione e potenziamento delle possibilità umane, ma al tempo stesso meccanismi di tendenziale isolamento e spesso brodo di coltura della solitudine e della povertà di relazioni significative. Si pensi all’aumento dei cosiddetti single (le famiglie mononucleari), che rappresentano ormai quasi il 30% dei nuclei, e non si tratta più solo di vedo vi ed anziani, ma anche di molti giovani uomini e donne. Si pensi ancora alle coppie senza figli, pari al 22% dei nuclei, che sono tali non più solo per oggettive difficoltà riproduttive (oggi peraltro spesso superabili), né solo per problemi economici, ma in molti casi per la scelta di una «solitudine a due». È in questo contesto che si assiste alla diminuzione di status ed alla svalutazione di ruolo degli insegnanti, come anche alla crisi della normatività all’interno della famiglia con le note conseguenze di disorientamento della adolescenza e di devianza giovanile. Trasmettere cultura e valori per la società del futuro sembra non costituire più una priorità né un obiettivo importante nella vita. La frattura tra scuola e famiglia e tra scuola e società è un ulteriore sintomo in tal senso. Il valore dell’insegnare e dell’apprendere lascia il posto ad un acritico primato del procedere solipsisticamente nel percorso di crescita formativa e di istruzione scolastica e universitaria.
La cosa più importante è forse rimarcare che una deriva di questo tipo mette a serio repentaglio l’insieme dei processi di sviluppo e di rilancio sociale ed economico di un Paese, in quanto, come anche gli operatori finanziari ben sanno, non vi è crescita senza fiducia nel futuro e nelle nuove generazioni, e senza che i processi sociali in corso siano alimentati da un sentimento, individuale e collettivo, di speranza e di impegno prospettico, oltre che relativo al presente.
L’Unità 30.11.12
“Produttività, soldi buttati. L’intesa resterà sulla carta”, di Cesare Damiano
Com’era prevedibile, l’accordo sulla produttività siglato la scorsa settimana da tutte le parti sociali, ad eccezione della Cgil, sta facendo molto discutere. Noi vorremmo affrontare il problema collegandolo al contesto nel quale sono state definite queste linee guida. Infatti, è stata posta molta enfasi sul tema della produttività senza spiegare che, se non si realizza una scelta radicale sugli investimenti e sull’innovazione tecnologica, e quindi sullo sviluppo di qualità, l’obiettivo rimarrà sulla carta. C’è il rischio oggettivo che, in tempi di crisi, si facciano poche intese, persino difficili da realizzare nei grandi gruppi industriali e che si stipulino finti accordi di produttività al fine di ottenere gli sgravi fiscali.
In secondo luogo, noi pensiamo che oggi sarebbe necessario concentrare l’attenzione sulla vera emergenza del paese, cioé sul rischio di una crescita esponenziale della disoccupazione dovuta al sommarsi di alcuni fattori negativi. Infatti, il numero dei senza-lavoro è notevolmente aumentato, così come la cassa integrazione, ed il trend sfavorevole continuerà nel 2013 ed oltre. Verranno al pettine alcuni nodi non risolti: la mancanza di finanziamenti adeguati per quanto riguarda la cassa integrazione in deroga (che non é neanche sufficiente per arrivare a fine anno) e per i contratti di solidarietà. Nonostante i passi avanti compiuti nella legge di Stabilità, anche nel 2013 e nel 2014 ci saranno persone senza reddito a causa dell’ultima riforma delle pensioni. Queste a noi sembrano le priorità alle quali andrebbero destinate ulteriori risorse, mentre ci sembra francamente eccessivo assegnare nei prossimi tre anni 2 miliardi e 100 milioni alla produttività.
Ciò detto, per quanto riguarda il merito dell’accordo, ci vogliamo soffermare su due punti che riteniamo essenziali. Il primo è relativo al fatto che i «… contratti collettivi nazionali di lavoro possono definire che una quota degli aumenti economici…sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività… definiti dalla contrattazione di secondo livello, così da beneficiare anche di congrue e strutturali misure di detassazione…per il salario di produttività…Tale quota resterà parte integrante dei trattamenti economici comuni… dei contratti nazionali laddove non vi fosse…la contrattazione di secondo livello…».
Nei fatti, in questo modo, viene meno la distinzione di ruolo che in precedenza veniva attribuito ai due livelli di negoziazione: al contratto nazionale, la salvaguardia del salario dall’erosione dell’inflazione, ed alla contrattazione decentrata, l’aumento della retribuzione legata alla produttività.
Se oggi una quota delle risorse che servono per rinnovare un contratto nazionale può essere destinata alla contrattazione aziendale o di territorio, si corre il rischio di eliminare un livello di contrattazione, perché le erogazioni salariali contrattate non si sommeranno più come in precedenza. Un conto è avere un aumento definito nel contratto nazionale al quale aggiungere le risorse di un premio di risultato legato alle performances aziendali, un altro è avere una cifra unica e onnicomprensiva, quella del contratto nazionale stesso.
A vantaggio dell’accordo va riconosciuto il fatto che in ogni caso, anche laddove non c’è contrattazione di secondo livello, ai lavoratori viene riconosciuto per intero l’aumento previsto dal contratto nazionale, anche se avremo differenti tassazioni: quella di produttività sarà agevolata a vantaggio del salario netto dei lavoratori. Si può ovviare a questo limite oggettivo? A mio avviso sì, se i sindacati gestiranno unitariamente la contrattazione interpretando in modo “dinamico” la normativa prevista: ad esempio, non limitando l’aumento del salario di produttività alla sola quota devoluta dal contratto nazionale, ma andando oltre sulla base delle reali condizioni di salute della singola azienda o del territorio.
Il secondo tema da affrontare è quello della rappresentatività, della rappresentanza e della democrazia: l’accordo del 28 giugno del 2011, firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, ha già stabilito le regole e adesso si tratta di applicarle, come previsto, entro la fine di quest’anno. Sarebbe un passo avanti rilevante, anche se non risolutivo del problema della presenza in fabbrica dei delegati sindacali delle organizzazioni nazionalmente rappresentative.
Il caso dell’esclusione della Fiom dagli stabilimenti Fiat (uscita nel frattempo da Confindustria) in quanto non firmataria degli accordi applicati in sede aziendale, è noto. Il problema si risolverà soltanto con una modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, ripristinando il testo ante referendum del 1995. Così facendo sarebbe sufficiente far parte di un sindacato nazionalmente rappresentativo per avere propri delegati nei luoghi di lavoro. L’accordo separato rappresenta una ferita che va sanata: ci auguriamo che si creino le condizioni, nella gestione degli accordi, per un superamento delle divisioni e per un miglioramento delle normative.
da www.europaquotidiano.it