La continua polemica sulle regole da parte di Matteo Renzi ha un carattere di delegittimazione che non fa bene al centro sinistra e tanto meno al Partito democratico, però funziona. Alimenta sui grandi mezzi di comunicazione la rappresentazione di un vertice ottuso e incattivito, che le escogita tutte pur di ostacolare la partecipazione popolare. Ma soprattutto legittima qualsiasi forzatura da parte dello sfidante e dei suoi sostenitori.
Se infatti le regole sono quelle comunemente stabilite e che tutti, dopo averle liberamente discusse, votate e sottoscritte, si sono impegnati a osservare, c’è poco da fare: chi cerca di aggirarle, se non di violarle apertamente, non fa una bella figura. Ma se invece quelle stesse regole non sono altro che una serie infinita di trucchi, trappole e tranelli escogitati dagli «scagnozzi» del capo, dai guardiani del regime oppressore che in tal modo cerca di sottrarsi al giudizio popolare, allora no: allora qualunque mezzo usato per aggirare gli ostacoli è legittima difesa, disobbedienza civile, coraggioso e giustificatissimo atto di resistenza.
Nel merito, l’intera battaglia ruota attorno all’interpretazione del regolamento, concentrandosi di volta in volta su una regola diversa: prima sulla registrazione in sé, poi sul luogo fisico in cui doveva avvenire, quindi sui tempi (fino al giorno prima del voto o anche il giorno stesso?). Dall’inizio della campagna per le primarie non c’è stata una giornata in cui non si sia protestato per una di queste ragioni (o per una delle tante altre che non citiamo per motivi di spazio).
Questa strategia ha sicuramente pagato, dal punto di vista del candidato Matteo Renzi. Ma forse ha preso la mano ai suoi sostenitori. L’avviso a pagamento promosso ieri dalla «Fondazione Big Bang» su diversi grandi giornali è evidentemente un passo falso. L’avviso recita infatti: «Anche chi non ha votato al primo turno può farlo al ballottaggio richiedendo la registrazione, è sufficiente iscriversi entro venerdì 30 novembre ore 20.00 scrivendo una email al coordinamento “Primarie Italia bene comune” della propria provincia». Comunque la si pensi nel merito sulle regole e sulla decisione di chiudere le registrazioni il giorno del voto per il primo turno (dopo avere tenuto aperti i seggi apposta mattina e pomeriggio in tutta Italia per ben venti giorni, non per cinque minuti), è evidente che l’avviso non dice la verità. Infatti nello stesso sito internet creato ad hoc dalla fondazione per bombardare di email i coordinamenti provinciali, nell’apposito modulo, si invita a dichiarare testualmente: «Di essere stato/a, per cause indipendenti dalla propria volontà, nell’impossibilità di registrarsi all’albo degli elettori entro la data 25 novembre 2012».
Ma come? L’avviso pubblicato sul giornale, proprio quello che invita ad andare sul sito, dice chiaramente che «anche chi non ha votato al primo turno può farlo al ballottaggio». Non fa alcun cenno a impedimenti e cause di forza maggiore. Si stanno dunque invitando i propri sostenitori a mentire? Nel momento stesso in cui si accusano i vertici del proprio partito di ogni nefandezza, portando avanti questa infinita polemica sulle regole, si chiede pubblicamente ai propri sostenitori di sottoscrivere il falso?
Per applicare una regola, dice il filosofo, bisogna prima sapere la regola secondo cui applicarla; così come, per servirsi di un dizionario, una lingua bisogna conoscerla già. Tutti però abbiamo imparato a parlare, a un certo punto, e lo abbiamo fatto naturalmente, nella pratica, cioè vivendo con gli altri, in accordo con gli altri. La possibilità di seguire delle regole, come quella di parlare una lingua, dipende dall’appartenenza a una comunità. In sé e per sé, nessuna regola sarà mai a prova di contestazione, nessuna spiegazione sarà mai sufficiente, nessun codice a prova di equivoco. E qui sta l’elemento più rischioso della polemica sulle regole tra i contendenti: che finisca per mettere in discussione non il regolamento e nemmeno le primarie, ma la loro appartenenza a una stessa comunità.
da l’Unità
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“Il partito ritrovato”, di Piero Ignazi
C’È SEMPRE tempo a farsi del male, e sappiamo quanto la sinistra sia brava in questo. Eppure, nonostante il salire della tensione, le condizioni per un salto di qualità del Pd ci sono (quasi) tutte.
Per la prima volta dall’autunno 2007 — data di nascita del Pd — il partito è ritornato al centro della scena politica. Allora, nel giro di poche settimane, il “predellino” di Berlusconi gli rubò i riflettori e catalizzò di nuovo su di sé tutta l’attenzione mediatica. Ora, il Cavalier Tentenna, che si presenti oppure no, non cale. Sul mercato elettorale Berlusconi non vale un Grillo. La fiducia degli italiani nel Cavaliere è scesa al 14% e anche tra gli elettori del centrodestra arriva appena al 35% (dati Swg).
Del vuoto che si crea a destra ne dovrebbe approfittare la galassia centrista. Ma, en attendat Monti all’infinito, questa opzione non prende corpo e rischia di annullarsi in uno scontro tra personalismi. L’unica presenza solida e corposa in campo rimane il Pd. Il suo atout sta nella “sicurezza” che, in tempi di crisi, offre un partito dai nervi saldi. La sfida di Matteo Renzi poteva essere distruttiva e c’è voluta tutta la pazienza e la tenacia di Bersani per disinnescarla. Ma non è detto che basti, viste le polemiche sulla registrazione dei nuovi votanti per il ballottaggio di domenica. Nel confronto di mercoledì sera il segretario ha smussato le sortite di Renzi offrendo una immagine di forza tranquilla. Bersani ha offerto sicurezza, un bene molto prezioso in questa fase di ansia verso il futuro. Un bene che la destra non può garantire viste le giravolte di Berlusconi e le faide interne leghiste. Un bene che il giovane Renzi non può, anagraficamente, incarnare.
Detto questo, sulla paura non si costruisce il futuro. Alla rassicurazione va affiancata la prospettiva di un tempo nuovo. Proprio quanto il sindaco di Firenze, invece, offre ad abundantiam.
Grazie a questa complementarietà tra i due sfidanti, il Pd è nelle condizioni migliori per aggregare sotto le sue bandiere un elettorato ben più ampio di quello che ha storicamente raccolto. E non soltanto se vince Renzi, come afferma per ovvia e comprensibile propaganda il suo staff. Il Pd sfonda se coniuga le due immagini che ha proiettato in questi ultimi mesi, quella dello zio saggio e del nipote brillante.
Entrando più nel merito, sindaco e segretario interpretano due anime che attraversano i partiti socialdemocratici europei (e lasciamo perdere le ubbie se il Pd debba o no essere definito socialdemocratico: ma vogliamo essere il solo paese europeo senza un partito di orientamento socialista?). In Europa i partiti della sinistra si sono arricchiti di questa tensione interna tra ispirazioni liberal-riformiste e ispirazioni tradizionalmente pro-labour,
anche se non sempre è stato facile farle convivere (si pensi al conflitto tra Oskar Lafontaine e Gerhard Schröder dalla Spd tedesca). Anche il Pd ha trovato interpreti credibili delle due anime.
Condizione indispensabile affinché il Pd tragga giovamento dal movimento creato attorno al partito dal sindaco di Firenze e dalla sua inedita capacità di attrazione verso un elettorato moderato, è la ridefinizione in tempi rapidi degli assetti interni. La classe dirigente – e il segretario in primis – non possono far finta che Renzi non abbia raccolto più di un milione di consensi. Il passo conseguente consiste nell’aprire le porte del partito adottando primarie, o altre forme di consultazione vincolante della base, per la composizione delle liste alle prossime elezioni. La direzione del partito può mantenere una piccola quota di posti da attribuire a sua discrezione (come è prassi in tutti i partiti europei), ma il resto deve essere affidato alle scelte degli iscritti o degli elettori. Il secondo passo, altrettanto urgente e necessario, consiste nell’indizione di un congresso. Se i sostenitori di Renzi (e lo stesso sindaco) sono veramente intenzionati a influire sulla politica del partito e non hanno intenzione di rompere, come la forzatura sul voto al ballottaggio sembra invece suggerire, devono passare attraverso il partito, vale a dire combattere una battaglia interna per la conquista delle cariche. Sulle ali di questa mobilitazione arriveranno certamente al vertice facce nuove, dell’una e dell’altra parte, entrambe slegate dalle vecchie fedeltà ai vecchi schieramenti.
In pochi mesi il Pd ha l’opportunità di cambiare volto a sé stesso e alla politica italiana. Lo sbandamento della destra, l’irresolutezza dei centristi e l’aria fresca di Renzi offrono una chance irripetibile sia per un nuovo, vero Partito democratico, che per innescare un ciclo elettorale positivo di lunga durata. Ma la pulsione autodistruttiva è dura a morire.
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“Le lacrime del segretario”, di Filippo Ceccarelli
LACRIME sulle primarie. Ci mancavano. Ha provveduto Bruno Vespa, conduttore recidivo, e ieri ha ripropinato al povero Bersani un video postumo e rinforzatissimo che in pochi minuti lo ha dolcemente spinto a sciogliersi in pianto. A QUEL punto il segretario del Pd, con il volto rigato e debitamente inquadrato, ha detto a Vespa che era «un colpo basso». Ma questi, trionfante per aver ancora dopo tanti anni conseguito il traguardo della commozione altrui (memorabili le lacrime di Lamberto Dini al quale fece ascoltare una canzone pomiciona cantata in studio da Ornella Vanoni), si è giustificato con un argomento che nella civiltà delle visioni a distanza taglia la testa al toro e al tempo stesso si connota per la sua scivolosa ambiguità: «Però, guardi,
era troppo bello!».
E non si azzarderà qui l’ipotesi che a due giorni dal ballottaggio quelle lacrime erano in qualche modo prestabilite e/o funzionali: tanto a Bersani quanto a Vespa. Ci si sente sempre un po’ cinici, oltretutto, a far gli spiritosi sulla Repubblica dei piagnoni, da Occhetto fino alla Fornero, altrimenti ribattezzata «Frignero». Ancora più facile sarebbe teorizzare che in linea di massima il tele-piagnucolio, o i riti mediatico-piaculari, come si direbbe in antropologia, umanizzano il potere e perciò rendono assai in termini di consenso. Quando si commuovono in pubblico, in realtà, i protagonisti non fanno finta e ogni loro commozione ha un suo perché e magari addirittura una sua umana rispettabilità. Però va anche detto che la classe politica vive costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. Vespa lo sa e per esigenze eminentemente drammaturgiche ci dà dentro.
Così accoglie Veltroni e gli proietta il filmino da lui girato quand’era adolescente, a Berlusconi (gratificato del titolo «Nonno Superman», mostra le immagini dei nipotini, a Prodi fa trovare una bicicletta, a Bossi uno strumento musicale, a Cossiga un ballo sardo, a Di Pietro un tenero agnellino – e quelli sono tutti contenti. La loro emozione, sottolineata da giuste luci, efficaci scritte, adeguate musiche e sonanti applausi, è ciò che rimane, a quell’ora della notte, nel cuore dei telespettatori.
Per Bersani ieri confezionato una clip a suo modo magistrale e il segretario del Pd, che qualche ragione di stress effettivamente ce l’ha, ci è cascato con tutte e due le scarpe nere, lucide e un po’ a punta che si vedono nelle foto su twitter. E si apriva, quel filmato galeotto e affettuosamente malinconico, con paesaggi appenninici come appaiono da un treno o da una corriera, e «Piazza Grande» del compianto Lucio Dalla come colonna sonora, «A modo mio/ avrei bisogno di carezze anch’io »…
E poi un montaggio astutissimo, una sventola di ricordi provenienti dall’inesausto album di famiglia, il bimbo Pier Luigi, in bianco e nero, la prima comunione, pranzi in famiglia a Bettola, anche con zio prete, l’adolescente basettone (che alla press-agent fece pensare a Cary Grant), e poi si vedevano dal vivo, su un divano, felici del loro figlio appena nominato ministro (1996), mamma e papà Pinu, il benzinaio dalla cui stazione di servizio con officina è partita la corsa delle primarie.
E soprattutto a un certo punto dal video si è affacciato il parroco, sì, proprio lui, quel don Vincenzo al quale la sera prima, dinanzi a qualche milione di italiani, Bersani ha confessato che avrebbe voluto chiedere scusa per via di un certo sciopero dei chierichetti di cui fu il promotore. Ma non c’è più, don Vincenzo, che sembra una specie di Abbè Pierre emiliano, né il papà, né la mamma che raccontava di come si fosse allontanato dalla Chiesa per diventare comunista, e insomma, a quel punto l’infallibile e impietosa e lusingatrice telecamera di Porta a porta ha stretto sul faccione del segretario e le sue lacrime hanno bagnato le primarie.
Si asciugheranno in fretta. Ma intanto, dopo le vignette, i veleni, le parodie, gli impicci normativi e i duelli televisivi, eccole come estrema risorsa narrativa a ricordare che insieme alla commedia il genere nazionale è il melodramma.
da www.repubblica.it
“La fine dell’ambiguità” di Bernardo Valli
UNA mano saggia ha riacciuffato, all’ultimo minuto, i responsabili della politica estera italiana sul punto di commettere un errore, dovuto a un antico, inguaribile vizio: l’ambiguità. Ambigua sarebbe stata infatti l’astensione all’ Assemblea generale dell’Onu. DOVE era all’ordine del giorno la mozione palestinese. L’astensione era stata decisa, sia pure tra mille esitazioni, e comunque data per quasi certa alla Farnesina, fino alla vigilia del voto. Prima di diventare definitiva la decisione è per fortuna rimbalzata da un palazzo romano all’altro: e a conclusione del percorso l’astensione si è trasformata in un dignitoso «sì » alla richiesta di promuovere la Palestina da semplice osservatore a Stato osservatore, presso le Nazioni Unite. Non pochi diplomatici attribuiscono la salutare correzione al Quirinale.
La prima osservazione è che in questa occasione il voto di un Paese rispettabile, che non fa della furbizia la sua arma principale, non poteva che essere chiaro, netto: « Sì » oppure «No». L’astensione era consentita a un Paese come la Germania, che ha tragici problemi storici con lo Stato ebraico, e che quindi doveva tenersi in disparte, per non urtare Gerusalemme, ribadendo al tempo stesso la validità del principio dei due Stati, l’israeliano e il palestinese. Principio da realizzare, come pensano anche gli americani, attraverso dei negoziati, e non con il tentativo unilaterale e disperato di Abu Mazen alle Nazioni Unite.
I responsabili della nostra politica estera, pur non avendo l’Italia un’impronta tedesca, hanno pensato di poter assumere la stessa posizione. L’astensione era un espediente per non dispiacere del tutto alla superpotenza, arroccata con Israele in un irrinunciabile «No», e al tempo stesso per salvare la faccia (e la coscienza) non opponendo un netto rifiuto alla Palestina e quindi al mondo arabo. Ma come accade nella vita dei comuni mortali l’eccessiva furbizia slitta spesso nell’ambiguità. La quale è stretta parente della viltà. Una politica estera acquista valore, prestigio, quando prende decisioni che possono essere sgradite alle superpotenze, comprese quelle alleate e amiche, ma che rivelano un carattere e sono ancorate a dei principi. L’astensione in questo caso equivaleva a una rinuncia. Meglio un “No”. Sarebbe stato più dignitoso. Non pochi esperti in diplomazia sorrideranno. Ma per nostra fortuna su uno dei colli romani non si è sorriso. È stato corretto il tiro, e salvata la nostra dignità.
Il voto dell’Assemblea generale di New York non rappresenta una minaccia alla sicurezza di Israele. È senz’altro un severo colpo al suo comportamento politico, e uno schiaffo alla diplomazia americana. La simbolica promozione della Palestina a Stato « osservatore » dell’Onu, dunque a uno Stato che resta senza diritti sovrani e che non cambia la situazione, può servire a ricordare due punti essenziali. 1) La condotta politica e militare israeliana non ha per ora contribuito a decongestionare la crisi mediorientale. 2) I propositi degli Stati Uniti per risolverla sono risultati vani. O addirittura non applicati.
Un effetto non trascurabile del voto di New York è quello che favorisce, o che rialza il malandato prestigio di Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese. Aggiudicandosi, a torto o a ragione, la vittoria nella recente
battaglia di Gaza, e pavoneggiandosi per l’appoggio ricevuto dalle capitali arabe e dalla Turchia, Hamas ha relegato nell’ombra il moderato leader dell’Olp installato a Ramallah, capitale di Cisgiordania, porzione di una Palestina occupata militarmente. Di fatto i capi di Hamas hanno invaso la scena. Ed è opportuno ricordare che essi sono alla testa di un partito islamico con la vocazione ultima di distruggere un giorno, sia pure remoto, lo Stato ebraico, e di instaurare uno Stato palestinese (basato sulla Sharia) su tutto il territorio dell’attuale Israele, della Cisgiordania e di Gaza.
A New York è accaduto che l’altra Palestina, quella laica, che non usa né il terrorismo né le armi, abbia vinto una battaglia politica. Era lecito, decente, privarla di questa occasione ? Era dignitoso sottrarsi, con un’astensione, alla responsabilità di contribuire al successo, forse effimero, di Abu Mazen ? Tanto più che la sua iniziativa ha smosso la rigida posizione di Hamas. Molti suoi dirigenti hanno infatti appoggiato la battaglia politica di Abu Mazen all’Onu, sapendo di interpretare i sentimenti di molti palestinesi confinati a Gaza.
Anche questo è un avvenimento che apre qualche spiraglio. Approvando l’azione del laico presidente dell’Autorità palestinese, i capi di Hamas hanno implicitamente accettato quello che lui sostiene nel documento presentato a New York. E in quel documento si chiede uno vero Stato palestinese entro i confini del 1967. Questo significa riconoscere, come Abu Mazen, l’esistenza di Israele. Non siamo tuttavia ancora a questo. La Palestina è una terra di emozioni e tragedie. Dove quel che è logico non è obbligatoriamente realtà.
da www.repubblica.it
“Stop ai sequestri incompatibili con l’Aia. Oggi il via libera al decreto”, di Raffaella Cascioli
Ci sarà ancora la siderurgia nel futuro industriale d’Italia. Con un decreto legge che sarà approvato oggi in consiglio dei ministri e che è stato annunciato ieri dal premier Mario Monti al tavolo con enti locali e parti sociali, il governo mette i paletti necessari per far ripartire l’Ilva: un garante per vigilare sull’attuazione del provvedimento e la contemporanea perdita di efficacia dei provvedimenti di sequestro incompatibili con l’attuazione dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) per due anni.
Il decreto, la cui bozza è stata sottoposta ieri dal governo a tutti i soggetti interessati (la foto del tavolo è stata twittata dall’esecutivo), consentirà di fatto l’avvio della bonifica ambientale a carico dell’azienda individuando la figura del garante che si avvarrà dell’Ispra (Istituto superiore per la prevenzione e la ricerca ambientale) e sentirà un comitato di lavoratori dello stabilimento di Taranto, in cui sono rappresentate tutte le aree produttive. Il provvedimento consentirà «il rafforzamento delle garanzie di realizzazione dei principi dell’Aia e la terzietà del meccanismo di controllo». Il governo è partito dalla considerazione che è prioritaria la tutela della salute e dell’ambiente ma anche che il polo produttivo di Taranto rappresenta un asset strategico per l’economia regionale nazionale. «Il funzionamento del polo industriale – si legge nella nota del governo diramata mentre un presidio di operai stremati si trovava davanti al parlamento – oltre al territorio della Puglia, coinvolge direttamente anche gli stabilimenti dell’Ilva in Liguria e Piemonte e fornisce acciaio a diverse realtà industriali e straniere». Nel decreto si prevedono non solo il rafforzamento delle garanzie di realizzazione dei principi dell’Aia e la terzietà del meccanismo di controllo, ma anche la costituzione di un apposito Osservatorio e un progetto salute per Taranto.
Nel ricordare che in passato «non c’è stata sinergia tra i poteri dello stato», il premier ha spiegato come oggi «i poteri dello stato hanno cooperato ». Al tavolo era assente il potere giudiziario anche se lo stesso Monti ha sostenuto che «la nostra attenzione è doverosa alle indicazioni della magistratura. Infatti oggi qui c’è l’avvocatura dello stato rappresentata ». Obiettivo comune di quanti erano seduti al tavolo (da Confindustria ai sindacati confederali sia nazionali che metalmeccanici, dagli enti locali ai ministri) è stato quello di un intervento d’urgenza che, per il ministro Passera, deve evitare il blocco dell’intera filiera. E se il sindaco di Bari Emiliano parla di decreto incostituzionale e la Fiom dà il via libera al provvedimento solo con garanzie chiare e certe sugli investimenti, il ministro Clini ha detto seccamente che «chi ritiene che non si stia applicando la legge (e contesta il decreto, ndr ) può rivolgersi alla consulta». Un decreto che piace al segretario del Pd Bersani («porta gli standard a livelli che in Europa andranno in vigore tra qualche anno»), mentre per la segretaria della Cgil Camusso serve «una responsabilità pubblica» per il futuro al di là di quello che la proprietà farà. E se il leader degli industriali Squinzi ha sostenuto che «l’Italia si gioca il suo futuro industriale e manifatturiero », il presidente dell’Ilva Ferrante ha avvertito che, senza interventi legislativi, anche Genova è destinata alla chiusura.
da www.europaquotidiano.it
Faenza – Iniziativa sulla scuola
A Faenza, presso la sala Malmerendi via Medaglie d’Oro 51, è organizzato dal Coordinamento dei Presidenti dei Consigli d’Istituto e di circolo un incontro- dibattito per dare voce agli studenti, per avere la possibilità di essere ascoltati e di discutere con il mondo politico per cercare di riavvicinarli ad un impegno sociale. Il dibattito sarà imperniato sulle problematiche scolastiche di cui si lamentano gli studenti delle secondarie superiori mancanza di fondi, la riforma gelmini e i danni che ha procurato.
Carpi, Liceo M. Fanti – Cerimonia di consegna dei diplomi
Cerimonia di consegna dei diplomi e delle borse di studio interne agli studenti più meritevoli del Liceo Manfredo Fanti del decorso anno scolastico. L’evento si terrà a Carpi, presso la Sala Congressi, in via Peruzzi, il giorno 30 novembre, alle ore 16,00.
“Ricongiunzioni onerose, cambiamo così”, di Tito Boeri
È tempo di porre fine a una grave ingiustizia, quella delle cosiddette “ricongiunzioni onerose”. Ci riferiamo ai costi altissimi (in taluni casi si superano i 300.000 euro) imposti a chi vuole mettere insieme contributi versati a enti diversi (ad esempio Inps e Inpdap), come se fossero stati versati ad un unico fondo, ai fini del calcolo della propria pensione. Si tratta di una norma, bene sottolinearlo, sulla quale il presente governo non ha alcuna responsabilità. Fu infatti introdotta di soppiatto da Giulio Tremonti per ridurre il ricorso alle pensioni di anzianità, con un accorgimento opaco quanto odioso: il ricongiungimento avrebbe infatti permesso a molti lavoratori, soprattutto nell’ambito del sistema a quote precedente la riforma Fornero, di andare in pensione prima. Invece di intervenire sulle pensioni di anzianità, il ministro Tremonti aveva ritenuto di rendere oltremodo costoso il ricongiungimento, venendo così a colpire tutti i lavoratori che hanno carriere discontinue. Particolarmente colpite le donne che subiscono frequenti interruzioni di carriera in corrispondenza dei periodi di maternità. Si tratta di una grave in-
giustizia perché introduce una differenza di trattamento tra lavoratori con stessa età e stessi contributi versati a seconda che questi siano su un unico fondo piuttosto che su più fondi.
La riforma delle pensioni del dicembre 2011 non ha rimosso questo iniquo provvedimento.
Peccato perché è in palese contraddizione con il principio, ribadito più volte in sede di approvazione della riforma del mercato del lavoro, secondo cui è opportuno oggi favorire una maggiore mobilità del lavoro. È inoltre incongruente con l’integrazione di Inpdap e Enpals nel super- Inps decisa da questo esecutivo. Sulle scelte contraddittorie del governo ha pesato, probabilmente, la valutazione della Ragioneria dello Stato secondo cui la rimozione della norma sarebbe costata quasi 2 miliardi e mezzo, rimangiando una parte consistente dei risparmi della riforma pensionistica. Il problema, come si è detto, è che per molte persone il ricongiungimento consentirebbe l’accesso alla pensione in via anticipata rispetto all’età di vecchiaia. Quindi l’eliminazione dell’onerosità della ricongiunzione costa allo Stato non solo e non tanto a causa del venir meno dei pagamenti oggi in essere e in virtù delle pensioni più alte che si dovrebbero liquidare a chi totalizzasse i contributi, ma soprattutto perché si alzerebbe immediatamente il numero delle pensioni erogate per via del pensionamento anticipato dei lavoratori messi in grado di ricongiungere versamenti su fondi diversi.
La soluzione dovrebbe essere quella di rendere possibile la ricongiunzione senza onere alcuno per chi ne fa domanda, ma solo dopo aver raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia. Per chi volesse andare in pensione prima dovrebbe invece essere concesso di cumulare i contributi versati a partire dal compimento dei 63 anni di età, applicando a questi il metodo contributivo, come già oggi previsto dall’istituto della “totalizzazione”. In questo modo si andrebbe verso il ripristino di una parità di trattamenti fra diverse generazioni di lavoratori, senza aggravi eccessivi per i conti previdenziali (i costi non dovrebbero superare qualche centinaio di milioni).
Le pensioni sono materia delicata perché basate su di un patto intergenerazionale. Per questo il perseguimento dell’equità è così importante: serve a cementare, a rendere credibile, il patto. La stessa Ragioneria dello Stato dovrebbe tenere conto del fatto che i trucchi per ottenere risparmi contabili possono, a lungo andare, produrre effetti opposti a quelli preventivati perché danno un
segnale di assoluta arbitrarietà delle norme al contribuente. Siamo sicuri che un ministro assai competente in materia come Elsa Fornero vorrà dunque porre rimedio a questa ingiustizia prima della scadenza del suo mandato senza porre ulteriori rattoppi. Analoga attenzione, ci permettiamo di suggerirle nel modificare l’indicizzazione delle pensioni. Non si può pensare di fare cassa per affrontare il problema degli esodati, bloccando nuovamente l’indicizzazione delle pensioni per alcune categorie di quiescienze. Se si ritiene che la spesa per i trattamenti già in essere sia incompatibile con il processo di consolidamento fiscale, meglio semmai cambiare le regole di indicizzazione per tutti e una volta per tutte, ad esempio legandole all’andamento del monte salari, che rappresenta dopotutto la base fiscale, la massa di denaro da cui vengono raccolti i soldi per pagare le pensioni. Sarebbe un modo di legare più strettamente le sorti dei pensionati a quelle dei lavoratori, chi oggi riceve dopo aver pagato per molti anni e chi oggi paga augurandosi di venire un domani trattato allo stesso modo.
La Rwepubblica 29.11.12