partito democratico, politica italiana

“Il partito ritrovato”, di Piero Ignazi

C’È SEMPRE tempo a farsi del male, e sappiamo quanto la sinistra sia brava in questo. Eppure, nonostante il salire della tensione, le condizioni per un salto di qualità del Pd ci sono (quasi) tutte.
Per la prima volta dall’autunno 2007 — data di nascita del Pd — il partito è ritornato al centro della scena politica. Allora, nel giro di poche settimane, il “predellino” di Berlusconi gli rubò i riflettori e catalizzò di nuovo su di sé tutta l’attenzione mediatica. Ora, il Cavalier Tentenna, che si presenti oppure no, non cale. Sul mercato elettorale Berlusconi non vale un Grillo. La fiducia degli italiani nel Cavaliere è scesa al 14% e anche tra gli elettori del centrodestra arriva appena al 35% (dati Swg).
Del vuoto che si crea a destra ne dovrebbe approfittare la galassia centrista. Ma, en attendat Monti all’infinito, questa opzione non prende corpo e rischia di annullarsi in uno scontro tra personalismi. L’unica presenza solida e corposa in campo rimane il Pd. Il suo atout sta nella “sicurezza” che, in tempi di crisi, offre un partito dai nervi saldi. La sfida di Matteo Renzi poteva essere distruttiva e c’è voluta tutta la pazienza e la tenacia di Bersani per disinnescarla. Ma non è detto che basti, viste le polemiche sulla registrazione dei nuovi votanti per il ballottaggio di domenica. Nel confronto di mercoledì sera il segretario ha smussato le sortite di Renzi offrendo una immagine di forza tranquilla. Bersani ha offerto sicurezza, un bene molto prezioso in questa fase di ansia verso il futuro. Un bene che la destra non può garantire viste le giravolte di Berlusconi e le faide interne leghiste. Un bene che il giovane Renzi non può, anagraficamente, incarnare.
Detto questo, sulla paura non si costruisce il futuro. Alla rassicurazione va affiancata la prospettiva di un tempo nuovo. Proprio quanto il sindaco di Firenze, invece, offre ad abundantiam.
Grazie a questa complementarietà tra i due sfidanti, il Pd è nelle condizioni migliori per aggregare sotto le sue bandiere un elettorato ben più ampio di quello che ha storicamente raccolto. E non soltanto se vince Renzi, come afferma per ovvia e comprensibile propaganda il suo staff. Il Pd sfonda se coniuga le due immagini che ha proiettato in questi ultimi mesi, quella dello zio saggio e del nipote brillante.
Entrando più nel merito, sindaco e segretario interpretano due anime che attraversano i partiti socialdemocratici europei (e lasciamo perdere le ubbie se il Pd debba o no essere definito socialdemocratico: ma vogliamo essere il solo paese europeo senza un partito di orientamento socialista?). In Europa i partiti della sinistra si sono arricchiti di questa tensione interna tra ispirazioni liberal-riformiste e ispirazioni tradizionalmente pro-labour,
anche se non sempre è stato facile farle convivere (si pensi al conflitto tra Oskar Lafontaine e Gerhard Schröder dalla Spd tedesca). Anche il Pd ha trovato interpreti credibili delle due anime.
Condizione indispensabile affinché il Pd tragga giovamento dal movimento creato attorno al partito dal sindaco di Firenze e dalla sua inedita capacità di attrazione verso un elettorato moderato, è la ridefinizione in tempi rapidi degli assetti interni. La classe dirigente – e il segretario in primis – non possono far finta che Renzi non abbia raccolto più di un milione di consensi. Il passo conseguente consiste nell’aprire le porte del partito adottando primarie, o altre forme di consultazione vincolante della base, per la composizione delle liste alle prossime elezioni. La direzione del partito può mantenere una piccola quota di posti da attribuire a sua discrezione (come è prassi in tutti i partiti europei), ma il resto deve essere affidato alle scelte degli iscritti o degli elettori. Il secondo passo, altrettanto urgente e necessario, consiste nell’indizione di un congresso. Se i sostenitori di Renzi (e lo stesso sindaco) sono veramente intenzionati a influire sulla politica del partito e non hanno intenzione di rompere, come la forzatura sul voto al ballottaggio sembra invece suggerire, devono passare attraverso il partito, vale a dire combattere una battaglia interna per la conquista delle cariche. Sulle ali di questa mobilitazione arriveranno certamente al vertice facce nuove, dell’una e dell’altra parte, entrambe slegate dalle vecchie fedeltà ai vecchi schieramenti.
In pochi mesi il Pd ha l’opportunità di cambiare volto a sé stesso e alla politica italiana. Lo sbandamento della destra, l’irresolutezza dei centristi e l’aria fresca di Renzi offrono una chance irripetibile sia per un nuovo, vero Partito democratico, che per innescare un ciclo elettorale positivo di lunga durata. Ma la pulsione autodistruttiva è dura a morire.
******
“Le lacrime del segretario”, di Filippo Ceccarelli
LACRIME sulle primarie. Ci mancavano. Ha provveduto Bruno Vespa, conduttore recidivo, e ieri ha ripropinato al povero Bersani un video postumo e rinforzatissimo che in pochi minuti lo ha dolcemente spinto a sciogliersi in pianto. A QUEL punto il segretario del Pd, con il volto rigato e debitamente inquadrato, ha detto a Vespa che era «un colpo basso». Ma questi, trionfante per aver ancora dopo tanti anni conseguito il traguardo della commozione altrui (memorabili le lacrime di Lamberto Dini al quale fece ascoltare una canzone pomiciona cantata in studio da Ornella Vanoni), si è giustificato con un argomento che nella civiltà delle visioni a distanza taglia la testa al toro e al tempo stesso si connota per la sua scivolosa ambiguità: «Però, guardi,
era troppo bello!».
E non si azzarderà qui l’ipotesi che a due giorni dal ballottaggio quelle lacrime erano in qualche modo prestabilite e/o funzionali: tanto a Bersani quanto a Vespa. Ci si sente sempre un po’ cinici, oltretutto, a far gli spiritosi sulla Repubblica dei piagnoni, da Occhetto fino alla Fornero, altrimenti ribattezzata «Frignero». Ancora più facile sarebbe teorizzare che in linea di massima il tele-piagnucolio, o i riti mediatico-piaculari, come si direbbe in antropologia, umanizzano il potere e perciò rendono assai in termini di consenso. Quando si commuovono in pubblico, in realtà, i protagonisti non fanno finta e ogni loro commozione ha un suo perché e magari addirittura una sua umana rispettabilità. Però va anche detto che la classe politica vive costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. Vespa lo sa e per esigenze eminentemente drammaturgiche ci dà dentro.
Così accoglie Veltroni e gli proietta il filmino da lui girato quand’era adolescente, a Berlusconi (gratificato del titolo «Nonno Superman», mostra le immagini dei nipotini, a Prodi fa trovare una bicicletta, a Bossi uno strumento musicale, a Cossiga un ballo sardo, a Di Pietro un tenero agnellino – e quelli sono tutti contenti. La loro emozione, sottolineata da giuste luci, efficaci scritte, adeguate musiche e sonanti applausi, è ciò che rimane, a quell’ora della notte, nel cuore dei telespettatori.
Per Bersani ieri confezionato una clip a suo modo magistrale e il segretario del Pd, che qualche ragione di stress effettivamente ce l’ha, ci è cascato con tutte e due le scarpe nere, lucide e un po’ a punta che si vedono nelle foto su twitter. E si apriva, quel filmato galeotto e affettuosamente malinconico, con paesaggi appenninici come appaiono da un treno o da una corriera, e «Piazza Grande» del compianto Lucio Dalla come colonna sonora, «A modo mio/ avrei bisogno di carezze anch’io »…
E poi un montaggio astutissimo, una sventola di ricordi provenienti dall’inesausto album di famiglia, il bimbo Pier Luigi, in bianco e nero, la prima comunione, pranzi in famiglia a Bettola, anche con zio prete, l’adolescente basettone (che alla press-agent fece pensare a Cary Grant), e poi si vedevano dal vivo, su un divano, felici del loro figlio appena nominato ministro (1996), mamma e papà Pinu, il benzinaio dalla cui stazione di servizio con officina è partita la corsa delle primarie.
E soprattutto a un certo punto dal video si è affacciato il parroco, sì, proprio lui, quel don Vincenzo al quale la sera prima, dinanzi a qualche milione di italiani, Bersani ha confessato che avrebbe voluto chiedere scusa per via di un certo sciopero dei chierichetti di cui fu il promotore. Ma non c’è più, don Vincenzo, che sembra una specie di Abbè Pierre emiliano, né il papà, né la mamma che raccontava di come si fosse allontanato dalla Chiesa per diventare comunista, e insomma, a quel punto l’infallibile e impietosa e lusingatrice telecamera di Porta a porta ha stretto sul faccione del segretario e le sue lacrime hanno bagnato le primarie.
Si asciugheranno in fretta. Ma intanto, dopo le vignette, i veleni, le parodie, gli impicci normativi e i duelli televisivi, eccole come estrema risorsa narrativa a ricordare che insieme alla commedia il genere nazionale è il melodramma.
da www.repubblica.it