Sono tante le ragioni per cui Fabio Riva deve consegnarsi immediatamente alla giustizia. Ma la prima è il rispetto di un principio fondamentale del vivere civile troppo spesso considerato un optional: la legalità. La sua azienda attraversa il momento più difficile della propria storia. Al punto che la stessa esistenza dell’Ilva di Taranto viene messa in discussione, con il rischio della desertificazione industriale di una delle poche aree del Sud dov’è presente la grande impresa.
Il passaggio è delicatissimo, visto che si tratta di conciliare l’imprescindibile tutela della salute con la difesa di migliaia di posti di lavoro: un’emergenza sociale, che spinge il governo a prendere un provvedimento senza precedenti come un decreto legge per impedire (trombe d’aria a parte) la serrata degli impianti. Le accuse sono pesantissime. I magistrati arrivano a parlare di «infiltrazione e manipolazione delle istituzioni da parte dei vertici Ilva» per ottenere autorizzazioni ambientali compiacenti. Fatti che vanno accertati al più presto, disinnescando quella bomba sociale che rischia di esplodere dopo la decisione di chiudere gli stabilimenti, contestuale all’ultima iniziativa della Procura. Soprattutto, avendo ben chiaro che la necessaria assunzione di responsabilità non prevede la fuga all’estero dell’imprenditore. E che la fine della sua latitanza favorirebbe anche le ragioni dell’impresa, in un Paese dove per meccanismi assai singolari la magistratura finisce per assumere ruoli propri di altri pezzi dello Stato.
Una contumacia, quella di Riva, tanto più grave se si considera che il legale rappresentante della sua impresa è stato per trent’anni un uomo delle istituzioni: il presidente Bruno Ferrante. È l’ex vice capo della polizia ed ex prefetto di Milano, il quale nel corso della sua lunga e molto apprezzata carriera pubblica ha ricoperto incarichi importantissimi. Per esempio, quello di capo di gabinetto dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando questi era ministro dell’Interno, oppure quello di alto commissario di governo per la lotta alla corruzione.
Nel 2006 ha pure conteso senza successo a Letizia Moratti la poltrona di sindaco di Milano, dopo aver sconfitto alle primarie del centrosinistra il premio Nobel Dario Fo. Proprio durante quella campagna elettorale ha dichiarato in un’intervista a Repubblica: «Ho vissuto tutta la mia vita credendo nel rispetto della legalità e delle regole». Può un ex prefetto restare presidente di un’azienda il cui imprenditore è destinatario di un ordine di cattura e sceglie la strada della latitanza? Crediamo di no. Qui si capisce quanto certe scelte «professionali» possano risultare insidiose. Quando un ex servitore dello Stato passa a occuparsi di interessi privati può capitargli di trovarsi un giorno dalla parte opposta della barricata. Anche soltanto mettendo la propria firma sui ricorsi contro le decisioni dei magistrati. E non deve succedere.
Chi ha avuto responsabilità pubbliche di questo calibro dev’essere ben conscio che esiste un serissimo problema di opportunità nel caso in cui si accetta un incarico privato. Perché oltre alla coerenza personale c’è in ballo il prestigio delle istituzioni che si sono servite.
Il Corriere della Sera 29.11.12
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“Ascoltiamo gli insegnanti”, di Claudio Giunta
Un’aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un’aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa: sono diversi i numeri, gli abiti, i volti, la proporzione tra i sessi, la composizione sociale, le relazioni tra studenti e professori. Ora, a fronte di questa rivoluzione culturale, l’insegnamento scolastico e universitario non è cambiato molto, sia che si guardi alle sue forme (i modi attraverso i quali il sapere viene comunicato) sia che si guardi alla sua sostanza (le cose che si insegnano).
Questo conservatorismo di fondo è, a mio avviso, del tutto legittimo, posto che il primo compito della scuola e dell’università è comunicare ai giovani il sapere accumulato. Tuttavia, dire che i giovani devono essere messi di fronte a quanto di meglio la loro civiltà, o la civiltà umana tout court ha prodotto nei secoli passati è una formula ambigua, dal momento che ogni corpus di conoscenze presuppone una selezione, e che questa selezione non può compiersi una volta per tutte ma richiede ogni volta di essere rinnovata e giustificata. Di qui, insomma, la necessità di una verifica, di qui l’opportunità della domanda intorno a «che cosa studiare a scuola».
Questa verifica, già ardua di per sé, non mi pare venga facilitata dal profilo dei verificatori. Mi pare infatti che il dibattito sulla scuola sia polarizzato tra, da un lato, enunciati teorici di sublime astrattezza formulati da docenti universitari che vivono per lo più nel mondo della luna e, dall’altro lato, disposizioni pratiche formulate da tecnici della pedagogia altrettanto alieni dalla compromissione con la realtà delle classi scolastiche, quella realtà della quale gli unici veramente esperti, gli unici dei quali sarebbe interessante ascoltare il parere, sono gli insegnanti.
Nell’ambito umanistico, che è quello che mi è più famigliare, il problema dell’acculturazione si converte soprattutto in un problema di cronologia, e insomma di distanza delle discipline e degli argomenti insegnati rispetto all’oggi. Da un lato, vogliamo che gli studenti imparino che cosa è successo nella tradizione italiana ed europea, e che entrino in contatto con opere che appartengono a epoche e mondi lontani dalla loro esperienza. Dall’altro, non vogliamo che vivano il presente da stranieri, vogliamo che tengano gli occhi aperti su ciò che li circonda e che imparino a conoscere e ad amare opere che hanno un rapporto meno mediato con la loro vita — non solo libri, dunque, ma anche film, canzoni, fumetti.
In altre parole, è ben chiaro che la formazione umanistica passa e deve continuare a passare attraverso le opere d’arte del passato, anche del passato remoto, tanto più quando ogni altra agenzia educativa cospira in una sorta di presentificazione della vita intellettuale: dove dovrebbe sopravvivere, la cura per il passato, se non nella scuola? E tuttavia, la scuola oggi non opera nel vuoto e nel silenzio ma in un ambiente che è saturo di informazioni e di stimoli latamente culturali. Oltre a svolgere la sua tradizionale funzione formativa, oltre a condividere con gli studenti il sapere accumulato, alla scuola spetta perciò anche il compito di dar loro i mezzi per reagire all’infinita quantità di cose che essi assorbono durante la loro vita extrascolastica.
Che fare, dunque? Dare ragione al mondo? Almeno in parte sì. E nel caso concreto: rinunciare alla storia? Insegnare letteratura seguendo la traccia dei generi, dei tipi testuali, mettendo in secondo piano, magari obliterando, la cronologia? La sola volta che ho esposto in pubblico queste mie perplessità, uno dei presenti mi ha risposto che «è grazie a idee come queste se gli studenti escono da scuola senza sapere la differenza tra Rinascimento e Risorgimento». È un’obiezione che prendo molto sul serio: non vorrei che succedesse questo. Però vorrei anche osservare due cose. La prima è che io conosco molte persone che, nonostante abbiano «fatto» la storia della letteratura a scuola, si trovano ad avere in testa, anziché conoscenze reali, delle etichette posticce. La macchina scolastica produce ancora troppa retorica, e la retorica produce stupidità: non è detto che ne produrrebbe di meno se cambiassimo i programmi scolastici, ma qualche rettifica potrebbe essere salutare. La seconda è che una conoscenza reale, critica, di un numero limitato di temi vale più della conoscenza superficiale del «tutto» che un corso di letteratura dalle origini ai giorni nostri (o l’equivalente in altri ambiti) promette di dare.
Vogliamo formare delle persone che vivano bene il loro tempo, non dei disadattati. Ma insegnare tutto non si può. E non solo perché manca il tempo, ma perché una sola testa non potrebbe contenere tante nozioni, e tanto disparate: verrebbe fuori soltanto confusione. D’altra parte, però, non possiamo neppure accontentarci di ripetere le cose che ci hanno insegnato nel modo in cui ce le hanno insegnate. Occorre una nuova formula, o un ventaglio di nuove formule. Nuove meno negli ingredienti (non s’inventa niente) che nel dosaggio. Tra le tante possibili, ecco due ovvietà.
La prima. Posto che attitudini come la concentrazione e la capacità di approfondimento ci stanno più a cuore della quantità delle nozioni apprese, i ragazzi dovrebbero essere incoraggiati a leggere più libri per intero, non tanto i Grandi Libri del passato remoto quanto i romanzi e, soprattutto, i saggi del Novecento. Tuttavia il momento della formazione non coincide con quello dell’informazione: perciò dovremmo resistere alla tentazione di comunicare agli studenti tutti i nostri interessi del momento, o i nostri entusiasmi. Qualcuno, sì; tutti, no.
La seconda. Non credo sia ancora abbastanza chiaro a tutti quanto l’esistenza di Internet abbia reso necessaria la conoscenza dell’inglese. Prima era un atout in più per trovarsi un lavoro o per viaggiare. Oggi leggere o non leggere l’inglese, capirlo o non capirlo, significa potere o non potere accedere ai migliori prodotti culturali che circolano in Rete: musica, film, riviste, informazione. Più del digitale (tutti sanno usare Facebook) è questa, oggi, la vera linea di separazione tra i colti e gli incolti, cioè tra i futuri ricchi e i futuri poveri…
Il Corriere della Sera 29.11.12
“Il pianto degli uomini forti”, di Adriano Sofri
Troppo. Come nelle tragedie, che fanno congiurare gli dei e il destino finché gli umani ne siano sopraffatti: troppo. Era un mercoledì di intervallo, fra l’annuncio della chiusura e la lusinga del “decreto”. È stato il colpo di grazia. “Usignore ha deciso che per noi è finita!”. Avete un bell’obiettare che non è il Signore, sono i signori. Lo spirito della città greca avrebbe raccontato la giornata come noi non sappiamo. C’erano uomini forti ieri, fermi per ore a fissare un mare tempestoso nel quale battelli sballottati cercavano in tondo il loro compagno, afferrato e inabissato con la cabina della sua gru. Piangevano nascosti l’uno nella spalla dell’altro. «Ieri abbiamo scioperato per avere il diritto di venire al nostro posto di lavoro oggi. Siamo arrivati all’appuntamento con la morte». E’ vicinissima, Samarcanda.
Francesco Zaccaria, l’operaio disperso, ha 29 anni — come l’ultimo morto dell’acciaieria, “è l’età nostra, qui” — è di Talsano, ha genitori e fidanzata. La cabina di una gru sta a 40, 50 metri da terra, il mare è profondo 24 metri. «Non salgo più su una gru», dice un suo compagno. «La cabina è rivolta verso terra, dietro il sedile c’è una parete, il mare non si vede. Se avesse guardato il mare e visto arrivare il tornado, avrebbe forse avuto il tempo di fuggire. Così…». Così le cabine di guida di quei mastodonti sono state estirpate e fatte volare come giocattoli: una è finita sul ponte della nave che stava caricando, l’altra nella melma del fondo.
I suoi compagni fissano il mare, i sommozzatori che ogni tanto riemergono: «Rischiano più di noi, se ti impigli là sotto con un mare così…». Pensano alla morte propria, mancata di poco, indicano la mensa, che sembra bombardata: «Cinque minuti dopo saremmo stati lì dentro, noi mangiamo alle undici, in 60, 70». Dentro i cancelli della fabbrica, a monte, incontro un giovane vigilante, Antonio S.: ha indosso solo una tuta striminzita non sua. Era di guardia al porto, è stato trascinato in aria per molti metri, sotto gli sguardi sbigottiti di tanti, increduli di raccattarlo vivo. «Ho visto cose che voi umani…», dice, e si capisce che vorrebbe scherzare, ma gli viene come se parlasse sul serio. I guardiani non mi lasciano entrare nemmeno oggi, anzi oggi tanto meno. «Capannoni scoperchiati, un camino della cokeria è crollato, ci sono stati incendi, lamiere divelte e portate a chilometri di distanza, o pericolanti, e chissà che danni ai tubi, ai cavi». La differenza sono le cose che dicono oggi questi addetti in divisa: le grandi fabbriche stanno spesso a metà fra caserma e galera, l’Ilva pende verso la galera. Se i padroni e la loro gerarchia colonia-lista,
come la chiama Alessandro, di «fiduciari, venuti da fuori» — e ora ritornati al loro fuori — ascoltassero oggi queste loro sentinelle! «Ti vorrei far entrare — mi dice uno — e poi ti vorrei accompagnare negli ospedali, a vedere i bambini… », il resto non lo riferisco.
Oggi sarebbe difficile scommettere dieci lire sulla sopravvivenza dell’Ilva, e una sola lira sulla sua sopravvivenza coi Riva. Non gli rinfacciano il tornado, il tornado è troppo per incolparne qualcuno. Vuol dire che anche gli dei hanno voltato la faccia dagli operai e dalla città che fu la prediletta. E però, dopo che ciascuno ha ripetuto che «una cosa così non era mai successa», qualcuno ricorda che due anni fa era successo, che il percorso diverso aveva salvato fabbriche e città dalla violentissima tromba marina: e mi mostrano le immagini sui telefonini. «La seconda volta in due anni, vuol dire che non è una fatalità unica, che si deve pensare a difendersene. Hai sentito parlare del famoso piano di evacuazione? Be’, noi che siamo nel cuore della mischia, non abbiamo mai fatto nemmeno la mossa di una esercitazione di evacuazione. Figurati i cittadini, i
bambini delle scuole».
Ieri una scuola di Statte, vicina alla zona industriale, è stata investita, bambini sono stati feriti. Nella tarda mattinata c’era stato un enorme blocco del traffico in tutte le direzioni, sopportato assai civilmente. Lungo la strada si incontravano camion rovesciati, auto scaraventate sopra altre auto. Operai dell’Ilva, dopo l’evacuazione degli impianti — un’area vasta, ricordate, molto più della città — cercavano di tornarsene a casa,
e intanto si gridavano notizie, è lì che ho imparato la formula di “incidente rilevante”. Vuol dire un accidente le cui conseguenze vanno oltre i confini dello stabilimento e investono l’abitato, una specie di Big One tarantino, nel nostro caso; la normativa deve risalire a Seveso. L’ha gridato un tale, «Lasciamo le macchine e andiamocene a piedi, qui si rischia l’Incidente Rilevante». Teniamo a mente le due nozioni: l’Incidente Rilevante, che può esserci, che è stato sfiorato ieri, e il Piano di Evacuazione, che non c’è. E aspettiamo le smentite, che non è stato sfiorato ieri, non seminiamo il panico, e che c’è, il Piano, in qualche cassetto della segreteria universale.
Al rientro in centro, di sera, di nuovo la strada bloccata: stavano rimuovendo l’amianto di un fabbricato smesso e sequestrato. Taranto è sotto sequestro, a volte con facoltà d’uso: come i caricatori dell’Ilva, anche loro da dodici anni. Finalmente abbiamo attraversato la città vecchia, il gioiello segreto della città. La notte prima il giovane Angelo Cannata, che è un sindaco “di fatto” di Taranto vecchia, mi aveva guidato nella via Cava, che se non fosse per la monnezza aprirebbe le sue porte dentro sotterranei mirabili, e al palazzo cinquecentesco di San Giuseppe alla Marina, suggestivo come la bellezza quando è malridotta. E’ pericolante, mi ha avvertito. E’ crollato ieri sera: il tornado ha fatto una quantità di svolte per insinuarsi in quel labirinto di vicoli.
C’era una conferenza indetta dai verdi ieri, da Angelo Bonelli e Alessandro Marescotti, non ho potuto andarci, ero al porto. Però la giornata ha rimescolato con una mano colossale le carte della partita fra ambientalisti e industrialisti, ammesso che le categorie siano queste. La notte prima avevo assistito a un’assemblea dei “Liberi e pensanti” alla porta D dell’Ilva, operai soprattutto, ma anche medici e pasticcere e archeologi, in cui le ragioni della salute e del lavoro venivano trattate con una passione intelligente. Mi ha colpito il modo in cui il loro impegno comune mostra di aver fomentato un’amicizia, che la grande fabbrica ostacola e mortifica. La lotta suscita la solidarietà: qui sembra qualcosa di più intenso, orgoglioso e affettuoso. Già fra loro era prevalsa l’idea di non andare a Roma, di evitare un impegno rituale, di vittimismo o di disordine pubblico: ieri la trasferta romana è stata disdetta. Resta quel ricongiungimento forzato tra la questione sociale e la questione climatica, per dirla così, fra l’ambiente ravvicinato compromesso dalla mano padronale, e l’ambiente vasto compromesso dalla mano umana.
Veniva davvero da piangere ieri a guardare la devastazione, e confrontarla agli scenari da ordine pubblico cui autorità competenti riducono i conflitti sociali. Cassonetti rovesciati, roba da ragazzi, a guardare quello spettacolo vacillante e colossale, come nei film sovietici sull’acciaio. Non trovereste un operaio che dica di augurarsi la chiusura dell’Ilva, e però citerò la risposta che mi ha dato l’altra notte Cataldo B.: «Io tiro fuori da qui i mezzi per mantenere la mia famiglia, e mi batto come tutti, ma ti mentirei se non dicessi anche che nel mio intimo desidero con tutta la forza che questa fabbrica scompaia, e con lei questo modo di lavorare e di vivere insieme».
Siccome ieri il vento ha fatto rotolare fino ai miei piedi un casco rosso dell’Ilva personalizzato, come avviene, da una scritta dell’operaio che l’ha perso nella bufera, la ricopio: «Il mondo va a rotoli xché gira al contrario. Qual è il verso giusto? » Glielo restituirò, se mi leggesse; se no, lo tengo come promemoria.
La Repubblica 29.11.12
“La sfida democratica oltre le primarie”, di Michele Ciliberto
Chiunque sia il vincitore, è già possibile esprimere un giudizio obiettivo sulle primarie: si è trattato di una esperienza importante per tutti, a destra e a sinistra – in breve, per la democrazia italiana. È giusto dunque sottolineare il merito del segretario del Pd che le ha fortemente volute e anche il contributo di tutti gli altri competitors. Matteo Renzi è un personaggio che, essendo dotato di carattere e di ambizione, suscita differenti passioni.
Ma bisogna sapersi sollevare dallo spirito di parte e da atteggiamenti pregiudiziali, e riconoscere il lavoro che ha fatto per cominciare a ristabilire canali di comunicazioni fra i cittadini e la politica, cominciando a ricostruire nel nostro Paese quella che si chiama «opinione pubblica» e che è un pilastro delle democrazie moderne.
Ma proprio perchè si è trattato di un evento importante, le domande che ora si pongono sono queste: perché le primarie hanno avuto un successo così largo, in una situazione di vasta disaffezione dalla politica? E sono sufficienti le primarie per rimotivare e rinsaldare la democrazia italiana? Ricordiamo tutti, penso, le ragioni storiche e politiche alla base, nel nostro Paese, della nascita delle primarie. Esse sono state considerate uno strumento essenziale per ristabilire un circuito democratico di fronte alla crisi della politica di massa e delle sue strutture fondamentali, a cominciare dai partiti, che avevano «formato» la vita politica lungo il Novecento, a destra come a sinistra. Una crisi di portata europea, non solo italiana.
Da noi però quella crisi ha assunto tratti specifici, direttamente connessi ai caratteri della nostra storia. Si è configurata sotto la specie del «berlusconismo», con tutto ciò che esso ha comportato: una rivoluzione culturale imperniata sul primato dell’individuo e dell’individualismo; uno stravolgimento del rapporto tra i poteri; un rovesciamento sistematico delle relazioni tra «apparenza» e «realtà»; l’imporsi di forme di leaderismo inedite, almeno in quella forma, nella storia italiana: in breve, una miscela da cui è scaturito, diffondendosi, un nuovo tipo di populismo, capace di raccogliere intorno a sé un vastissimo consenso.
È in questo contesto storico e politico che a sinistra si sono affermate le primarie, e da questa situazione esse derivano meriti e limiti. Meriti, perché hanno posto con energia il problema della democrazia, mentre il berlusconismo si risolveva in una forma di moderno dispotismo; limiti, perché l’hanno fatto ricorrendo agli strumenti della democrazia diretta, e rischiando di porre anche a sinistra le basi di nuove forme di leaderismo e populismo. Come dimostra in modo esasperato Grillo, alla democrazia diretta è immanente il rischio di leaderismo, di autoritarismo e anche di dispotismo, nelle sue varie forme, compresa quella democratica.
Bisogna dire, per correttezza, che il segretario del Pd si è sempre dimostrato consapevole di questi rischi, e ha sempre volutamente rifiutato di presentarsi come un leader solitario, insistendo sul carattere collettivo della sua direzione politica. Lo sottolineo, perché è un fatto di sostanza, non solo di stile, che concerne anche la funzione, e il limite, di un evento, pur così importante come le primarie. È un elemento di forza, e di credibilità, per un Pd che voglia essere una funzione della democrazia italiana e condurre il Paese fuori del berlusconismo.
Per realizzarsi nella complessità delle sue articolazioni, la democrazia non può infatti risolversi in termini «diretti»: ha bisogno di connettere delega e rappresentanza; istanze e strumenti della democrazia diretta e istanze e strumenti della democrazia rappresentativa. E per far questo ha bisogno di partiti, di corpi intermedi diffusi e articolati, senza cui non può esserci effettività democratica, né può esistere un Parlamento in grado di rappresentare un Paese, promuovendo un effettivo cambio sia di classe dirigente che di direzione politica.
A mio giudizio, il problema principale che questa esperienza delle primarie ci consegna è quello di porre all’ordine del giorno la costruzione di un grande partito riformatore che riunisca tutte le forze interessate al cambio, chiudendo in modo definitivo con rotture, conflitti, lacerazioni. Bersani, Renzi, Vendola, Puppato, Tabacci hanno mostrato con la loro esperienza che questo è possibile, che si può cominciare a realizzare quella che sarebbe una vera e propria rivoluzione copernicana nella storia delle forze riformatrici italiane, che è fatta di differenze, ma anche di sostanziali convergenze, mai valorizzate a sufficienza. Ha fatto bene Tabacci a ricordare Giovanni Marcora (Albertino): in quel nome può, e deve, riconoscersi chiunque in Italia sia interessato al cambiamento.
Questo è il problema di fondo con cui bisognerà confrontarsi nei prossimi mesi, tanto più se il centrosinistra vincerà le elezioni. Le primarie sono state un primo, fondamentale passo in questa direzione, contribuendo a far ri- scoprire valori e figure comuni. Ma sono state un passo al quale ne devono seguire altri. La democrazia è una cosa complessa, bisognerebbe sempre ricordarlo, non ammette mai scorciatoie.
L’Unità 29.11.12
“La politica miope di chi risparmia sulla scuola”, di Benedetto Vertecchi
Sono trascorsi poco piùdi quarant’anni dalla pubblicazione, nel 1971, di Descolarizzare la società, il saggio in cui Ivan Illich tratteggiava uno scenario caratterizzato dalla progressiva riduzione della presenza della scuola nel mondo contemporaneo. All’educazione scolastica si sarebbero sostituite altre forme di comunicazione, tramite le quali sarebbe stato assicurato il passaggio dei repertori di conoscenze dalle generazioni più anziane verso quelle più giovani. Il libro di Illich suscitò un dibattito molto vivace, che periodicamente si riaccende quando le politiche scolastiche dei diversi Paesi lasciano intravedere scelte che vanno nella direzione della descolarizzazione o in quella della ripresa e dell’adeguamento dell’idea di scuola e delle pratiche dell’educazione al presentarsi di nuove esigenze. La prima posizione, quella favorevole alla descolarizzazione, trovò maggiore consenso dove prevalevano politiche di conservazione, o esplicitamente reazionarie. Le proposte di Illich furono considerate l’inizio di una nuova stagione educativa in Paesi (per esempio, nell’America latina) in cui il sistema scolastico era del tutto insufficiente, ma nei quali non c’era alcuna propensione ad un maggiore impegno di risorse per l’istruzione. L’atteggiamento nei Paesi che avevano compiuto scelte impegnative per lo sviluppo dei sistemi scolastici furono, invece, sostanzialmente negative. In Italia, due attenti interpreti delle trasformazioni in atto nell’educazione, come Lucio Lombardo Radice e Aldo Visalberghi, non esitarono a porre in evidenza il carattere intrinsecamente regressivo delle proposte di Illich, che privavano la scuola di una funzione essenziale, quella di collegare l’istruzione (ossia le pratiche volte ad assicurare il passaggio sistematico di repertori conoscitivi) alla socializzazione (consistente nel porre in comune elementi culturali non limitati a insiemi ordinati di conoscenze, ma capaci di consentire la condivisione di simboli che consente di esprimere il proprio pensiero e di comprendere quello espresso da altri). Va notato che i ritorni di fiamma delle proposte esplicitamente o implicitamente orientate alla descolarizzazione sono intervenute per sostenere politiche volte a ridurre la spesa per il funzionamento del sistema scolastico, per lo più amplificando, senza che fosse possibile riferirsi a esperienze obiettivamente verificate, la valenza a fini educativi dei nuovi mezzi per la comunicazione offerti dallo sviluppo della tecnologia. In altre parole, la descolarizzazione ha assunto implicazioni ideologiche, mediate da soluzioni rivolte in apparenza a modernizzare l’educazione. Si è trattato, e si tratta, di implicazioni centrate sulla contrapposizione manichea delle soluzioni che possono assicurare una riduzione dei costi a quelle che richiedono necessariamente investimenti di maggiore consistenza. Quello che ne deriva è un manicheismo miope, perché i risparmi che si ritiene di poter realizzare nell’immediato sono la premessa per perdite ben maggiori a medio e a lungo termine. L’asprezza che stanno assumendo i toni del dibattito educativo in Italia vede da un lato il governo schierato a favore di una descolarizzazione avvolta da fastosità modernizzatrici e dall’altro i sostenitori di un modello di educazione scolastica che ha le sue origini nell’affermazione del diritto all’educazione enunciato oltre due secoli fa, in piena rivoluzione, dall’Assemblea nazionale francese. La descolarizzazione corrisponde a un’ipotesi di disgregazione sociale, mentre il diritto all’istruzione corrisponde a un’assunzione di consapevolezza e di progettualità collettiva che investe il profilo culturale della popolazione. Gettare discredito sulla scuola, ridurne il tempo di funzionamento, svalutare il lavoro degli insegnanti, subordinare la didattica a operazioni di contabilità minuta sono passaggi preliminari che hanno come sbocco processi di descolarizzazione. Quel che i sostenitori di una modernizzazione funzionale solo a obiettivi di contenimento della spesa non considerano è che le politiche scolastiche hanno successo solo quando raccolgano consenso, almeno di parte della popolazione, sugli intenti da perseguire. Non starò qui a ricordare che la politica scolastica in Italia sta andando in controtendenza rispetto a quanto avviene in altri Paesi industrializzati. Voglio invece ricordare che l’obiettivo del contenimento del sistema scolastico costituiva un punto centrale nella riforma del 1923, che reca il nome del ministro Gentile. La parola d’ordine che si voleva affermare era «poche scuole ma buone». Il risultato fu che pochi anni dopo la sua emanazione la domanda sociale costrinse il governo fascista a rivedere proprio il criterio del contenimento.
L’Unità 29.11.12
“Razzismo. Dalle piazze ai parlamenti la crisi accende l’odio per i diversi”, di Gad Lerner
Viene la tentazione di minimizzare: in fondo saranno degli antisemiti per finta quei tifosi che si scagliano contro altri tifosi ebrei per finta? Non sarà, il loro razzismo, solo un pretesto per scandalizzarci, ovvero la più trasgressiva delle ragazzate possibili?
Com’è ovvio ci sono ebrei tifosi della squadra di calcio Lazio. Magari anche perché, come ricordava uno di loro, Danco Singer, in una lettera a questo giornale, la Lazio indossa in campo gli stessi colori della bandiera israeliana. Quanto agli ultràs laziali (e romanisti), non risulta che prendano abitualmente di mira persone o sedi della Comunità ebraica della capitale. Invece, guarda un po’, si sono coalizzati per aggredire i tifosi del Tottenham in trasferta; cioè dei cittadini inglesi per lo più non ebrei ma che a loro volta trovano suggestivo identificarsi nello stereotipo yids – giudei – allo scopo di rovesciarne la carica dispregiativa.
Per colmo di confusione nazionalistica, allo stadio Olimpico, dove si fronteggiavano una squadra italiana e una squadra inglese, altri sciagurati hanno pensato di insultare il Tottenham inneggiando al tedesco Hitler e esibendo lo striscione antisraeliano “Free Palestine”. Al che, quattro giorni dopo, in uno stadio di Londra, per tifare West Ham, una ventina di imitatori imbecilli ha pensato bene di mimare contro il Tottenham il sibilo delle camere a gas e di gridare “Viva Lazio”.
C’entra qualcosa tutto questo con il razzismo o stiamo facendo i conti con la follia centrifuga delle identità posticce, artificiali, ormai disgiunte dall’appartenenza etnica e religiosa? Prima di derubricare il tutto a mero teppismo giovanile, sarà bene ricordare che perfino l’ultimo conflitto che ha insanguinato il suolo europeo – la guerra dei Balcani – ha visto contrapporsi milizie reclutate all’interno di popolazioni non solo da secoli dedite ai matrimoni misti, ma per giunta appartenenti alla medesima etnia slava (e divise “solo” da fedi religiose sempre più tenui).
Il razzismo contemporaneo sempre più spesso prescinde dal vincolo etnico, anche se utilizza biecamente l’armamentario ideologico del razzismo novecentesco. Mi ha molto colpito la giovane età, 24 anni, di Daniele Scarpino, definito ideologo del sito antisemita “Stormfront” e arrestato per istigazione all’odio razziale. Ma colpisce anche che Scarpino e gli altri suoi compari (quasi tutti coetanei) facciano riferimento a una casa madre statunitense, non ai neonazisti tedeschi. Del resto anche il più recente fenomeno d’importazione xenofobo, “Alba Dorata”, pur esibendo simboli di evidente matrice hitleriana, giunge a noi dalla Grecia anziché dalla culla del nazismo.
Quest’ultimo fenomeno, specialmente pericoloso per la violenza praticata e per la capacità di contagio che rivela dentro a società avvelenate dalla pauperizzazione e dal rancore sociale, evidenzia con più chiarezza di altri la natura ambivalente del nuovo razzismo contemporaneo. L’ostilità allo straniero vi si manifesta additando i nemici del popolo come stranieri sia verso l’alto che verso il basso: in alto la plutocrazia affamatrice della finanza internazionale che viene tuttora comodo identificare nell’ebraismo cosmopolita; in basso gli immigrati che sottraggono risorse ai danni del popolo e lo “inquinano” pretendendo di mescolarsi ad esso.
Il ventennio di egemonia politica e culturale del forzaleghismo ha reso l’Italia – un paese che aveva già sperimentato la declinazione fascista dell’etno-nazionalismo – particolarmente esposta a questa retorica del popolo inteso come nazione proletaria contrapposta all’élite e allo straniero. Come dimenticare, in proposito, le dotte elucubrazioni di un Tremonti o di un Baget Bozzo, condite di richiami clericali? Più grossolano, come sempre, era il Berlusconi che in campagna elettorale si scatenava contro il pericolo che le nostre città divenissero “africane” o, addirittura, “zingaropoli”. Ma è ancora oggi la Lega Nord, titolare di un’“etnogenesi realizzata in laboratorio” (devo la definizione all’antropologo Pietro Scarduelli, dal volume L’immaginario leghista, a cura di Mario Barenghi e Matteo Bonazzi, Quodlibet Studio editore) la propagatrice più accanita del razzismo contemporaneo.
Solo una settimana fa Radio Padania Libera, che trasmette dalla sede leghista di via Bellerio, ha rivendicato la validità dei Protocolli dei savi di Sion.
Non importa se ne è stata comprovata la falsità, ha sostenuto tale Pierluigi Pellegrin dai suoi microfoni. Resta il fatto che i “semiti” detengono tuttora le leve di comando della finanza, dei mass media e del cinema, lasciando ai “non semiti” solo lo spazio della politica. Dunque i Protocolli vanno presi sul serio. C’è da stupirsi se poi tanti ragazzi da stadio insultano gli avversari al grido “ebrei”?
È giusto allarmarsi quando un esponente del terzo partito ungherese, Jobbik, chiede al suo governo di istituire un registro degli ebrei con doppia cittadinanza residenti sul territorio magiaro, come forma di “difesa nazionale”. Ma senza dimenticare che un’ideologia razzista analoga alligna in forze politiche che governano ancora tre grandi regioni italiane. Del resto un deputato europeo della Lega, Mario Borghezio, ha definito “patriota” il criminale di guerra serbo-bosniaco Mladic e ha manifestato pubblica condivisione per il manifesto dell’autore della strage di Utoya, il norvegese Breivik.
Ecco perché non possiamo minimizzare come “razzismo per finta” la caccia al diverso che sta trovando negli stadi la sua cassa di risonanza: perché la diffusione di un tale senso comune, ancorché non collimi con le tradizionali linee di demarcazione etnica o religiosa, è violenza verbale che sta già traducendosi in violenza fisica.
Non è ancora passato un anno da quando un “pacifico” intellettuale di destra, Gianluca Casseri, frequentatore di Casa Pound, ha sparato all’impazzata in un mercato di Firenze assassinando Samb Modou e Diop Mor colpevoli solo di avere la pelle scura, e riducendo all’invalidità il loro connazionale senegalese Moustapha Dieng, rimasto privo di ogni sostegno pubblico. Sul sito Facebook di Casseri si contarono 6205 “mi piace”. La caccia al diverso è già in pieno corso anche nel nostro paese. Verso l’alto e verso il basso, nel nome della purezza etnica inesistente di un popolo i cui connotati si allargano e restringono a piacimento, magari seguendo solo i colori di una squadra di calcio piena zeppa di giocatori con un altro passaporto.
La Repubblica 29.11.12
“Oggi decisione storica Palestina, le incognite del voto Onu”, di Maurizio Molinari
La risoluzione che oggi trasformerà la Palestina in Stato non-membro delle Nazioni Unite è un evento spartiacque in Medio Oriente. I motivi sono tre: l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha un nuovo status giuridico, il suo presidente Mahmud Abbas assume il ruolo di protagonista regionale e gli accordi di pace di Oslo del 1993 vengono indeboliti se non delegittimati.
Forte del sostegno di 132 Stati su 193, l’Anp si avvia a raccogliere nell’Assemblea Generale dell’Onu ben oltre i 97 voti necessari grazie ai quali la Palestina viene dichiarata Stato osservatore – come la Santa Sede – assumendo la legittimità internazionale perseguita dall’Olp di Yasser Arafat sin dalla dichiarazione di Algeri del 15 novembre 1988, con la conseguenza di poter aderire a Trattati, Corti e Convenzioni a cominciare dal Tribunale penale internazionale. Poiché il testo della risoluzione fa riferimento a «Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est» ciò significa che l’Onu riconosce l’esistenza di uno Stato di Palestina entro i confini anteriori al giugno 1967 proprio come recita la Dichiarazione d’indipendenza palestinese – a prescindere dal raggiungimento di un accordo di pace con Israele.
La conseguenza è che Mahmud Abbas riguadagna spazio e prestigio fra i palestinesi: eletto nel 2005 all’ombra onnipresente di Arafat, umiliato nel 2007 dal colpo di mano di Hamas a Gaza, con il mandato scaduto da oltre tre anni ed emarginato dalla recente crisi di Gaza, ora diventa il leader del nuovo Stato, incassa da Hamas il sostegno nella votazione al Palazzo di Vetro, è sostenuto da dozzine di capitali e si sente politicamente forte al punto da definire «patetica» l’opposizione dell’amministrazione Obama all’odierna risoluzione. La scelta di Abbas di far coincidere questo momento con la riesumazione della salma di Arafat – al fine di appurare se nel 2004 sia morto avvelenato – sottolinea la volontà di trasformare il voto dell’Onu nel volano di una coesione palestinese, tesa a farsi largo sulla scena internazionale a prescindere dalla pace con Israele. Da qui la scelta della data: la coincidenza con il 65° anniversario del voto dell’Onu sulla spartizione della Palestina mandataria britannica in uno Stato ebraico ed uno arabo vuole sottolineare che viene sanata quella che i palestinesi, dentro e fuori i Territori, considerano ancora oggi come una storica ferita.
Il successo di Abbas ha però come prezzo l’indebolimento degli accordi di Oslo, fondamento della pace con Israele, perché prevedevano che lo Stato di Palestina sarebbe nato attraverso negoziati bilaterali. E’ questo il motivo per cui gli Stati Uniti, garanti di quelle intese raggiunte da Bill Clinton con Arafat e Yitzhak Rabin, si sono opposti all’iniziativa di Abbas fino all’ultimo. Ieri sera William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, si è recato nell’hotel di Manhattan dove si trova Abbas per chiedergli, a nome di Obama, di fermarsi. Il motivo lo spiega Robert Danin, arabista del «Council on Foreign Relations» di New York, secondo cui «Abbas ottiene una vittoria di Pirro» perché il risultato sarà «un’America meno impegnata nel processo di pace» e dunque meno possibilità di intese durature con Israele.
Abbas scommette invece sullo scenario opposto, nella convinzione che la nuova legittimità gli darà più carte da giocare nel negoziato con Israele. Saranno i prossimi mesi a dire se ha ragione o meno. Al momento l’unica conclusione che si può trarre riguarda la desolante spaccatura dell’Unione Europea incapace, per l’ennesima volta, di unirsi sulla crisi israelo-palestinese con in evidenza un’Italia ancora incerta su come schierarsi.
La Stampa 29.11.12
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“L’Italia dica sì alla Palestina”, di Umberto De Giovannangeli
Comunque lo si guardi quello di oggi all’Onu è un voto storico. Un voto «per» e non un voto «contro». Un voto per affermare il diritto di un popolo, quello palestinesi, a «sentirsi» Stato. Un diritto che può compiersi solo se s’intreccia con quello del popolo d’Israele e del suo diritto alla sicurezza.
È un voto per il dialogo, quello che viene proposto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Non è un risarcimento per il passato. È un investimento sul futuro. La Terrasanta si nutre di simboli, la cui valenza va anche oltre la politica. E il probabile via libera della più importante istituzione internazionale al riconoscimento della Palestina come «Stato non membro», ha un significato che supera i confini stessi della sua concreta ricaduta. Perché dice a un popolo oppresso che la via diplomatica paga, e che la sua liberazione è affidata ad una leadership quella del presidente Abu Mazen che ha fatto del negoziato con Israele una scelta strategica, che non prevede alternative o devastanti scorciatoie terroristiche. Un «sì» per affermare che il dialogo è l’unica alternativa alla guerra.
Quel sì è anche per Israele. Perché possa finalmente realizzare l’ambizione che fu dei padri fondatori dello Stato ebraico: quello di essere un «Paese normale», pienamente integrato in un Medio Oriente che ai «muri» sostituisca «ponti» di cooperazione. Un Paese non più in trincea. Due Stati per due popoli. È la pace dei coraggiosi: un processo avviato da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat e che è tempo che veda una sua conclusione. Riconoscere uno Stato palestinese entro i confini del 1967 significa anche, per quanti all’Onu sosterranno la richiesta di Abu Mazen, riconoscere l’esistenza dello Stato d’Israele senza più riserve. La «pace dei coraggiosi» è un incontro a metà strada, è riconoscere non solo l’esistenza ma le ragioni dell’altro da sé. È una pace che non concede spazio ai disegni del «Grande Israele» o della «Grande Palestina».
È la pace rispettosa della legalità internazionale. In questo senso rileva a ragione Giorgio Gomel, animatore della sezione italiana di Jcall-Europa il riconoscimento dello Stato palestinese sarebbe il compimento concreto della risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 una coincidenza di date che colpisce che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo entro i confini della Palestina-Eretz Israel. Per Israele, ciò sarebbe il riconoscimento da parte della comunità delle nazioni, inclusi finalmente i Paesi arabi e islamici, delle frontiere scaturite dalla guerra del 1948 e della sua legittimità. «Chiedere e ottenere l’indipendenza del proprio Stato è uno dei diritti naturali dei popoli, conforme alle necessità morali e a quelle dell’esistenza. In questo contesto esso rappresenta anche la base della convivenza tra i popoli israeliano e palestinese»: è quanto sostenuto in una lettera aperta da due grandi scrittori israeliani Amos Oz e Sami Michael, dall’ex ministra Shulamit Aloni e dallo storico Zeev Sternhell. L’Israele del dialogo non si è arresa alla logica, nefasta, del più forte.
L’Europa giunge a questo appuntamento nel modo peggiore. Divisa, e per questo più debole, ininfluente. Una divisione che investe pesantemente i Paesi euromediterranei. Parigi e Madrid hanno annunciato il loro sostegno alla richiesta palestinese. Roma è, al momento, «non pervenuta». Una debolezza nella debolezza. L’Europa ha pesato in Medio Oriente quando ha saputo praticare, e non solo predicare, un intervento coraggioso, condiviso, come fu quello che portò alla missione Unifil nel Sud Libano, di cui l’Italia fu promotrice decisiva.
Il voto di oggi all’Onu può rappresentare un nuovo inizio d’impegno non solo per la diplomazia degli Stati ma anche per quella, non meno importante dei popoli. Lavorare per il dialogo tra israeliani e palestinesi può essere un punto unificante per le forze progressiste italiane, una feconda pratica di «equivicinanza». L’appello perché il nostro Paese a sostenga la richiesta dell’Anp, che vede tra i suoi firmatari Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola, va in questa direzione. E sarebbe davvero un bel segnale un investimento sul futuro, un punto qualificante per un governo di svolta se anche gli altri protagonisti delle primarie lo facessero proprio.
L’Unità 29.11.12