Molto dipende ora da quel che si farà, nel Pd e nel centrosinistra, del tesoro accumulato alle primarie di domenica, e di quel che esse rivelano: un’enorme domanda di democrazia, e un bisogno, possente, che la politica torni in primo piano.
Che non si nasconda dietro governi tecnici come se non fosse capace, per incompetenza o neghittosità, di pesare con idee alternative sulla crisi e le sofferenze che ne discendono.
Non è detto che 3,1 milioni di elettori desiderino estromettere gli esperti, estranei ai partiti e allergici ai loro conflitti. Il voto è probabilmente spurio: in parte il popolo delle primarie vuole che partiti o movimenti ricomincino o comincino a governare, in parte è complice della sospensione della politica democratica classica, fatta di alternanze e ancor più di alternative alle ricette presenti. Resta che i cittadini si sono incaponiti nella loro domanda di politica, nella loro voglia di contare, e il voto l’hanno dato a candidati che per settimane si sono battuti non per guidare un partito, non per figurare meglio in Parlamento, ma per governare l’Italia in prima persona.
Le categorie che Albert Hirschmann teorizzò in un famoso saggio del 1970 sono più che mai attuali: alla strategia del tirarsi fuori (dell’exit), la cittadinanza antepone la presa di parola (il voice). Il voice è per natura partecipativo e «informativo» (cerca una spiegazione del declino incombente sulla Repubblica). L’exitprende atto del declino, non va oltre: è un ammonimento, necessario ma non sufficiente.
Quel che molti elettori sembrano chiedere è che le primarie non siano un Truman Show,
un cinema che proietta il film illusorio di un’alternativa riservandosi poi di proporre governi tecnici appena differenti dall’attuale. Conviene sapere quel che si dice, quando si afferma che più di tre milioni desiderano contare. Se pensano di poter contare, vuol dire che prendono per vera la ripetuta promessa dei candidati: il prescelto andrà a Palazzo Chigi, non s’è presentato alla ribalta con l’intimo retropensiero di capovolgere poi quel che ha raccontato. Una così massiccia affluenza alle urne non è il rifiuto della rabbia cui viene dato il nome frettoloso e comodo di antipolitica. È una presa di parola che costruisce sulla premonizione del declino. Tra exit e voice ci sono più legami di quanto si immagini.
Non si può escludere, insomma, che gli elettori alle primarie rifiutino il protrarsi dello stato di emergenza e le maggioranze solo numeriche che dopo l’uscita di Berlusconi si sono installate al potere. Rivendica maggioranze politiche. Il quasi ventennio berlusconiano non può esser più grave di quello fascista, e dal fascismo si uscì con la politica e una Costituzione, oggi da ripristinare come sostengono Salvatore Settis e Gustavo Zagrebelsky. Se la democrazia fu bloccata per decenni, dopo il ’45, non fu solo perché s’imponesse una lunga decompressione dopo Mussolini, ma anche e soprattutto perché era iniziata la guerra fredda e il Pci era troppo forte. Se ricominciare il normale conflitto democratico fu possibile allora, con l’Italia a pezzi, perché non oggi? Perché non usciamo da una guerra?
Se queste cose non vengono dette con precisione, e comunicate subito al centro con cui forse si governerà, vorrà dire che le primarie sono servite a poco, e che l’euforia è un po’ chimerica. Non sarebbe d’altronde la prima volta che la volontà popolare cade nel vuoto. Ricordiamo i no al finanziamento pubblico dei partiti; a alleanze governative decise dopo il voto e non prima; a improvvisati mutamenti della Costituzione (respinti da 16 milioni, nel referendum del 2006). Ricordiamo il no a leggi elettorali che impediscono al cittadino di selezionare i propri rappresentanti, anche se non c’è stato referendum.
Non solo: se i finalisti delle primarie non saranno chiari su tali questioni, le stesse elezioni politiche rischieranno l’irrilevanza, qualora il verdetto venisse stravolto e gli elettori raggirati. Invocare il ritorno della politica equivale a chiedere che la politica ci sia e abiti a Palazzo Chigi, avvalendosi magari di Monti come ministro. Che la dialettica politica non sia sospesa in nome di una presunta nostra immaturità, e che possano esser messe alla prova altre linee politiche, se le agende dei governi precedenti non hanno dato risultati convincenti.
Solo a queste condizioni si possono usare le parole che circolavano domenica: bagno di
democrazia, bella giornata. Solo a condizione di rompere il cielo di plastica che avvolge il
Truman Show, e di dire ai votanti l’intera verità: sulle condizioni che saranno poste a futuri alleati, e sulla parola data (Bersani ha detto che torneremo alle urne, se Palazzo Chigi sarà negato al candidato con più voti).
Il compito di parlar-vero spetta sia a Bersani sia a Renzi. Nessuno dei due potrà dire una cosa in campagna, e poi accordarsi con chi esigerà che Monti resti perché mancheranno i numeri per governare senza Casini e le lobby montiane. Non dimentichiamo quel che Monti dice non oggi ma da anni: solo con sacre alleanze l’Italia uscirà dalla crisi; non con le alternanze che fondano la democrazia. Chissà se i votanti alle primarie sono tutti d’accordo con simili concezioni.
Ci sarà dunque bisogno non di euforia ma di fredda limpidezza, nel duello Bersani-Renzi. Limpidezza sulla natura delle primarie, che sono pur sempre una scelta fra candidati premier, non tra chi garantisce di rappresentare meglio di altri il Pd, nei negoziati che potrebbero riprodurre la soluzione Monti (magari spostata a sinistra) e quel che essa ha in fin dei conti significato: l’accantonamento dell’alternanza, la fine di un bipolarismo anche se imperfetto, e una linea economica che si sottrae, ritenendosi l’unica praticabile, al sì o al no delle urne.
L’unico candidato trasparente, su alternanza e alternativa, è Vendola: quel che chiede infatti è un’idea diversa di sviluppo e risanamento, e anche un’Europa più politica e davvero federale (il riferimento al Manifesto di Ventotene è esplicito). Le primarie sono un esercizio di stile, se Bersani e/o Renzi emargineranno non tanto la persona Vendola quanto il suo discorso di verità sulle nuove vie da tentare, quando i politici torneranno a governare. Se Bersani si occuperà solo degli elettori di Renzi (e viceversa) avremo primarie del Pd. Non di una coalizione di governo.
Si obietterà che l’alleanza Bersani-Vendola (o Renzi-Vendola) si svuoterà, in assenza di una maggioranza al Parlamento. Che non potrà fare a meno del centro, e di chi imporrà, perentoriamente, il Monti bis. Che sarà già un progresso, se il Monti bis rappresenterà il centro sinistra promettendo più equità. Forse è vero ma almeno lo si dica, alle primarie e alle politiche. E si dica subito a Casini, e alle liste montiane, che la loro forza non nasce dai numeri, ma da quella che Ezio Mauro chiama un’auto-unzione.
Non è detto che l’operazione verità riesca, perché il centrosinistra ha sorretto Monti e meditato poco su alternanze e alternative. Il marasma sociale non è quello della Grecia ma scuola e sanità sono in quasi bancarotta, dopo le ricette montiane. Quando nel pronto soccorso del San Giovanni Bosco a Torino c’è chi aspetta 4 giorni per essere accolto («non ci sono posti ») è già Grecia, e non è vero che il peggio è finito. Neppure un minuto, Bersani e Renzi si sono battuti per inventare un’Europa che faccia crescita quando agli Stati tocca il rigore (dunque un governo politico dell’Unione, con risorse di bilancio consistenti). Del tutto confusa, infine, la battaglia per una legge elettorale che rappresenti i cittadini ma garantisca pur sempre alla coalizione vincente di governare. E non parliamo qui della lotta anti-mafia, assente nei discorsi, o della misera legge anticorruzione che discolpa reati come falso in bilancio e autoriciclaggio Dicono che la sinistra è troppo triste. Per anni fu lo slogan di Berlusconi, purtroppo ripreso da Renzi. Se le primarie vogliono essere un esercizio di verità, anche questo luogo comune va sfatato. Non c’è da stare allegri, con la crisi che traversiamo, con l’ambiente svenduto all’Ilva o i pronti soccorsi intasati. La tristezza registra la verità che viviamo. Anch’essa può dare l’euforia di cui c’è bisogno, e spingere al voice anziché all’exit.
FRATTAGLIE
Alle primarie 2005 Prodi fu eletto candidato Premier (4,5 milioni di voti) e lo divenne.
Monti stesso ha detto domenica: «Un altro governo tecnico sarebbe una sconfitta per la politica».
La Repubblica 28.11.12
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“Il leader rafforzi la sua alternativa”, di Michele Prospero
Per soli 159.794 voti Pier Luigi Bersani non ha preso la maggioranza assoluta. Al ballottaggio per trasformare una vittoria prevedibile in un successo reale deve però riuscire a mobilitare le sue truppe e convincerle di nuovo a muoversi. Serve uno scatto. Ben altra cosa rispetto alla litigiosità, la polarizzazione delle opzioni culturali è la via maestra per mostrare la nettezza della proposta e il senso vero della sfida.
Per motivare una nuova partecipazione, Bersani deve mostrare di essere proprio lui la profonda alternativa che il Paese cerca rispetto alle politiche sconfitte dalla crisi. Il principio di realtà, che la crisi ridesta, deve imporsi sulla costruzione mediatica di devianti figure che ripropongono il già visto sotto ammaglianti metafore. Su temi caldi, come quelli delle politiche del lavoro, la distanza tra Renzi e Bersani non è certo inferiore a quella che ovunque in Europa separa le forze liberali-moderate e i partiti della sinistra. Le proposte di Ichino e Giavazzi non solo spezzano la coalizione sociale della sinistra ma rivelano la loro debolezza nel risolvere la crisi.
Sui temi del lavoro, del pubblico, della scuola, della ricerca, delle libertà civili, della precarietà Bersani può rimarcare una netta discontinuità. Questo suo cuore lavorista è il solo modo per far saltare l’astuzia della penetrazione renziana: liberista in economia e anticasta in politica. Togliere il velo superficiale della rottamazione e mostrare il senso residuale dei diritti del lavoro: questo esercizio liberatorio può provocare una crepa in un elettorato giovanile, condannato alla precarietà e però attratto dai miti di un cambiamento facile.
In alcuni territori dell’Italia centrale le primarie si sono trasformate in un regolamento di conti interno al ceto amministrativo. Renzi va sfidato perciò nella sua pretesa di maneggiare il meccanismo del dentro e fuori. Con questo gioco può sparare contro il quartier generale e poi pretendere la postazione di comando. Con il sindaco che indossa anche lui gli abiti di partito e depone le armi dell’estraneità si svuota la metafisica della rottamazione.
Con la proposta della rifondazione di una democrazia costituzionale, proprio Bersani è il leader più attrezzato per garantire unità, compattezza e successo alla coalizione. Occorre superare la fallimentare stagione del partito personale per conferire basi solide alla partecipazione democratica, per impostare un dialogo con gli attori sociali, le associazioni civiche, i movimenti. Bersani può parlare la lingua comune della sinistra europea. Il nuovo che Renzi propone è invece il vecchio paradigma della comunicazione di un capo solitario. L’agenda di Bersani è la sola garanzia di una discontinuità radicale con la Seconda Repubblica a democrazia opaca e dominata da potenze arcane. Per restituire dignità e autonomia alla politica occorre mutare alla radice culture, attori, luoghi, interessi sociali.
La più grossa balla oggi in circolazione? La mistificazione circa la pretesa minore capacità competitiva di Bersani rispetto a Renzi, dipinto come un leader post-ideologico che proprio in virtù della leggerezza della proposta sarebbe in grado di sfondare nell’elettorato moderato. Queste virtù taumaturgiche della narrazione appartengono al pittoresco mondo delle leggende: non si può mai conquistare nuovo spazio abbandonando il proprio mondo. Il consenso è sempre un lento processo incrementale, non esiste un magico trasporto della fiaba che surroga analisi, azioni coerenti, proposte efficaci.
La pretesa di rivolgersi al serbatoio della destra con un messaggio senza ideologie, con un programma privo di radici sociali in un tempo che proprio la crisi rende incandescente è del tutto improduttiva. In difficoltà nelle metropoli e nei luoghi del disagio, Renzi del resto sfonda nelle Regioni che già sono rosse, dove la sinistra è ormai una istituzione che va strattonata.
Bersani non è l’usato sicuro, è piuttosto la grande innovazione capace di memoria e di ancoraggi sociali. Egli, dopo lo smarrimento che non ha risparmiato la sinistra, offre un equilibrio tra la necessità di dare un senso al proprio mondo, rinverdendo le appassite radici, e quella di aggiornare la proposta verso nuove figure sociali e sensibilità politiche. Su queste basi di mutamento sostanziale Bersani può spiazzare la spoliticizzazione che ha l’abito del tecnico o la maschera del comico.
L’Unità 28.11.12
“Una giornata tra gli operai: dramma sotto gli occhi di tutti, però serve il rilancio”, di Grazia Longo
Siamo al sud di uno degli 8 Paesi più industrializzati del mondo, ai confini con la prosperosa terra di Salento, con i ragazzini che sul lungomare smanettano sugli smartphone, eppure i racconti degli operai Ilva portano a tempi e luoghi lontani. La fabbrica che uccide e divora, di dickensiana memoria, abita qui a Taranto. Con contraddizioni ai limiti del grottesco. «Perché gli impianti sono talmente antiquati da non garantire la tutela alla salute» dice Biagio Prisciano, 38 anni, all’Ilva da quando ne aveva 24. Ma anche perché «al giorno d’oggi in un Paese come il nostro è vergognoso essere vittime di un ricatto psicologico che confonde il diritto al lavoro con quello alla salute» aggiunge Claudio Lucaselli, 42 anni, da 12 operaio al colosso siderurgico più grande d’Europa.
Claudio ha una moglie casalinga, un mutuo della casa da pagare e due figli di 12 e 16 anni. «La più grande frequenta il terzo liceo, lavoro perché possa avere un futuro migliore del mio» precisa Claudio, ed è l’unica volta in cui gli scappa un sorriso. Per il resto c’è poco da ridere. Anzi, sinceramente c’è quasi da piangere quando Claudio cita come «modello» la Thyssenkrupp. Non quella di Torino, dove 5 anni fa morirono bruciati vivi 7 operai, ma quella tedesca di Duisburg. «Un mese fa sono andato a visitarla con la Fiom – ricorda Claudio – e sono rimasto impressionato per l’efficienza e l’avanguardia dei macchinari. Un riferimento esemplare per la produzione dell’acciaio, consolidato già da molti anni. E allora mi sono chiesto com’è possibile che la Thyssen in Germania sia un gioiello mentre a Torino è stata la tomba per 7 miei colleghi. Evidentemente c’è un problema politico all’origine».
Ne è convinto anche il segretario tarantino della Fiom-Cgil, Donato Stefanelli: «È evidente che in Italia c’è qualcosa che non funziona nei governi che ci hanno amministrato. Non ha senso che qui noi, soprattutto nel quartiere Tamburi, dobbiamo fare la conta dei morti e dei malati di cancro per l’inadeguatezza del sistema industriale della famiglia Riva, mentre la Riva Group in Germania ha due aziende che operano nel totale rispetto dell’impatto ambientale e della salute».
Lo sciopero è l’unica arma nelle mani di questi operai che ieri, dopo aver occupato la direzione dello stabilimento in mattinata, hanno interrotto la manifestazione solo quando, nel primo pomeriggio, è stato raggiunto un accordo tra azienda e organizzazioni sindacali Fim, Uilm e Fiom. I successi strappati? Il pagamento delle giornate lavorative, nonostante la chiusura dell’area a freddo della fabbrica voluta dall’Ilva dopo il sequestro dei prodotti ordinato dalla magistratura, in attesa della sentenza del Tribunale del Riesame a cui ha fatto ricorso il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante. E ancora: la sospensione della cassa integrazione per 1492 operai .
La giornata di ieri non è stata, invece, pagata a causa dello sciopero protratto fino alle 23. «Ma ne è valsa la pena – dice Francesco Maggio, 40 anni, all’Ilva dal ‘96 -. Io rispetto ad altri sono fortunato, perché mia moglie lavora, fa le pulizie, e abbiamo una casa già pagata, ma il futuro è più che incerto. Abbiamo un figlio di un anno e due mesi e proprio l’altra sera io e mia moglie ci chiedevamo che fine faremo. Tra meno di un mese è Natale, ma dubito che potremo festeggiarlo con la serenità di chi ha uno stipendio su cui può contare». Per non parlare poi della pena di quelle famiglie di operai Ilva con un malato di cancro in casa. «Io e mia moglie abitiamo a 16 chilometri da Taranto – specifica Francesco -, ma mio suocero, anche lui dipendente Ilva, vive a Tamburi. Un suo vicino e collega di lavoro fa la chemioterapia e i suoi nipotini devono fare i conti con l’ordinanza del sindaco che vieta di giocare ai giardinetti perché sono inquinati».
Bambini e adulti che convivono con l’incubo della diossina. Bambini che stasera riceveranno dai loro padri un bacio della buonanotte dal sapore tra la speranza e la paura. È un sentimento misto, orientato però a sconfiggere lo spettro della rassegnazione, quello che domattina all’alba accompagnerà la delegazione di un migliaio di operai, in partenza su 12 pullman alla volta di Roma. «Il vertice a palazzo Chigi è assai importante – chiosa il segretario Fiom ma non credano di accontentarci solo con il decreto Clini, abbiamo bisogno di risposte concrete sul piano del rilancio tecnologico. Per il bene di Taranto, ma anche e soprattutto per il bene dell’intero Paese». Fiducioso si appresta all’incontro il segretario Fim-Cisl Vincenzo Castronuovo: «Il dramma che viviamo è sotto gli occhi di tutti. Il governo non ci può abbandonare in queste condizioni. Abbiamo l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale ndr) tra le mani, la magistratura faccia il suo corso ma la produzione deve andare avanti parallelamente al rispetto dell’impatto ambientale». Opinione condivisa da Antonio Talò, segretario UilmUil di Taranto: «L’Ilva deve riprendere a produrre e al contempo deve essere risanata». Ad una «soluzione ragionevole per tutti» aspira il presidente Ferrante che guarda al vertice romano come ad «un’opportunità in grado di difendere il sistema siderurgico italiano». Intanto davanti all’ingresso della direzione resta appeso uno striscione ricavato da un lenzuolo bianco. Si commenta da sé: «Senza lavoro nessun futuro».
La Stampa 28.11.12
I giudici bocciano la Polverini “Il Lazio deve votare subito”, di Mauro Favale
Cinque giorni per archiviare l’election day o “resuscitarlo” con un decreto del governo. Al momento le possibilità di celebrare il 10 e 11 marzo le elezioni regionali e (forse) le politiche sono scarse. Effetto del pronunciamento di ieri del Consiglio di Stato che conferma la sentenza del Tar di due settimane fa, boccia il ricorso di Renata Polverini, le intima di indire le elezioni, appunto, «entro 5 giorni» e «nel più breve tempo tecnicamente compatibile » e, di fatto, sgancia la Regione Lazio dall’accorpamento con Lombardia e Molise suggerito direttamente dal capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Se non ci sarà più l’election day, almeno per il Lazio, dipende adesso dall’esecutivo che, in queste ore, sta valutando la possibilità di approvare un decreto per unificare, a marzo, il voto aggirando così il Consiglio di Stato. Al momento, però, è molto più probabile che per la Regione scivolata sullo scandalo dei fondi ai gruppi, sulla quale pesano gli arresti di Franco Fiorito (Pdl) e Vincenzo Maruccio (Idv), si vada alle urne nella seconda metà di gennaio. Bisognerà correre, dunque, sia per la composizione delle liste
elettorali (che andranno presentate sotto Natale) sia, nel centrodestra, per la scelta di un candidato da contrapporre a Nicola Zingaretti (il Pdl è in alto mare, appeso a un’ipotesi primarie sempre più improbabili).
È l’effetto della sentenza del secondo grado della giustizia amministrativa che giudica «infondato» l’appello presentato dalla Polverini. La governatrice apprende la notizia subito dopo aver consegnato ai cittadini di Tufo di Minturno, in provincia di Latina,
la chiesa di San Leonardo restaurata con i soldi della Regione. Ora avrà 5 giorni, esattamente come le aveva intimato il Tar il 12 novembre, per convocare le urne. Se non
lo farà, verrà sostituita per questo atto dal ministro dell’Interno. La data più probabile potrebbe essere tra il 20 gennaio e il 3 febbraio al massimo, non oltre perché, altrimenti,
come afferma Gianluigi Pellegrino, l’avvocato del Movimento di difesa del cittadino che ha presentato il primo ricorso, «si commette un reato penale. Intanto oggi è stata sconfitta la protervia della Polverini, del Pdl e del governo che alla governatrice ha dato una sponda irresponsabile».
La presidente, dimissionaria da 63 giorni, si chiude nel silenzio e valuta la prossima mossa. Per lei parla il suo legale Federico Tedeschini che giudica la sentenza «impugnabile in Cassazione». Intanto,
però, quello del Consiglio di Stato è un atto esecutivo e proprio per questo il governo (che non ha mai negato di puntare all’election day) studia la possibilità di un decreto per renderlo nullo. «Ormai non ci sono più scuse », attacca il centrosinistra. Con Zingaretti che sottolinea «la buona notizia per i cittadini del Lazio, per imprese, artigiani, commercianti e operatori della sanità che ritenevano stravagante che la Regione chiudesse per 8-9 mesi». Soddisfatti anche Sel, Radicali, Fds e Idv che chiedono però di indire elezioni per 70 consiglieri e non 50. «Piuttosto, riduciamo gli stipendi — sottolineano i Verdi — cinquanta consiglieri con un’indennità lorda di 11.000 euro al mese costerebbero 6.6 milioni l’anno, mentre 70 a 5.500 euro al mese, 4,6 milioni l’anno».
La Repubblica 28.11.12
“La doppia miopia dalla noncuranza all’iper-rigore”, di Mario Deaglio
Partito con difficoltà quasi 130 anni fa, l’acciaio italiano potrebbe oggi finire peggio, vittima della noncuranza con cui l’Italia sta affrontando le proprie scelte industriali: di una viscerale incomprensione dei processi economici e industriali da parte della magistratura e di un atteggiamento a dir poco non lungimirante della società proprietaria. La costruzione della prima grande acciaieria italiana non fu decisa in base a calcoli economici ma a considerazioni militari e, forse, anche clientelari: si scelse Terni, città isolata dai mercati di consumo del Nord e con forti problemi di trasporti e comunicazioni. Lo si fece su pressione della Marina Militare, che non voleva dipendere dall’estero per l’acciaio necessario alla costruzione delle corazzate e che vedeva nell’isolamento una garanzia contro possibili invasioni straniere. Diversi studi indicano però anche possibili interessi personali del ministro competente, un copione italiano con radici antiche: alcuni suoi amici e parenti possedevano terreni nella zona e vi avevano già impiantato una fonderia.
Decisioni politiche e decisioni economiche, del resto, si intrecciano forse inevitabilmente, in ogni grande settore il che non è un male se tutto avviene con la dovuta trasparenza. La politica non poteva star fuori dalle decisioni cruciali relative a un materiale nuovo, com’era l’acciaio a metà Ottocento, che si identificava immediatamente con la forza. La potenzialità militare di un Paese si misurava in milioni di tonnellate d’acciaio ma, fino a pochissimi decenni fa, l’acciaio serviva anche a misurare la potenzialità economica in un mondo, uscito dalla Seconda guerra mondiale: oggi in parte sostituito dalla plastica e da altri materiali serviva a produrre tutto ciò che aveva a che fare con il miracolo economico, dal cemento armato alle utilitarie e alle pentole da cucina.
Nel 1938, l’Italia, con oltre due milioni di tonnellate, era il sesto produttore mondiale, nel 2011, con 28 milioni, era al secondo posto in Europa e all’undicesimo in un mondo dominato dai colossi asiatici che hanno puntato sull’acciaio per uscire dalla povertà. L’Italia del dopoguerra impostò proprio nel settore siderurgico il suo piano industriale di maggior successo, dovuto a Oscar Sinigaglia, il carismatico esperto siderurgico posto a capo dell’Italsider: puntò su lavorazioni di grandi volumi, e quindi grandi stabilimenti, gli unici che potevano garantire costi bassi, specie se collocati sulla costa, dove potevano agevolmente ricevere via mare il minerale di ferro e spedire l’acciaio in ogni parte del mondo.
Nascono così le acciaierie di Cornigliano (Genova), Bagnoli (Napoli) e a quel piano fa riferimento il polo siderurgico di Taranto, inaugurato nel 1961, quasi simbolo dell’Italia del miracolo e punta di diamante della scommessa di industrializzare il Mezzogiorno. Questi impianti si basavano sul «ciclo integrale» che permette di far produrre da un unico stabilimento non solo, o non tanto, acciaio grezzo ma anche una ricca gamma di prodotti, dal tondino per l’edilizia ai laminati e alle barre.
Dall’Ilva di Taranto esce oggi circa un terzo dell’acciaio italiano; se chiuderà davvero, l’Italia forse perderà la distinzione di essere, dopo la Germania, il secondo Paese manifatturiero d’Europa ed entrerà a pieno titolo in una difficile e precaria era postindustriale della quale negli ultimi anni non sono mancati i segni premonitori. La fine di Olivetti e Montedison – imputabile a una sostanziale incomprensione da parte dei politici, e dell’opinione pubblica in genere, delle logiche dell’industria – l’hanno privata di una forte presenza rispettivamente nell’elettronica e nella chimica e si deve sempre più affidare al «made in Italy» e a piccoli, pur pregevoli, settori di nicchia. Il già ridotto peso del Mezzogiorno nell’economia nazionale riceverà un ulteriore colpo, contribuendo ad accrescere un divario economico tra diverse zone del Paese che non ha uguali nei Paesi avanzati. D’altra parte, perdendo un colosso industriale in cambio di niente, l’Italia si allontanerà ancora di più da questi Paesi.
Per un’amarissima ironia, quest’Italia che pare proprio volersi privare dell’acciaio si terrà una città fortemente inquinata che solo dalla continuazione di un’efficiente produzione all’Ilva (e dall’uso dei relativi profitti per rimediare ai mali passati) può sperare di trovare le risorse per riportare a normalità un ambiente sconvolto da un’irresponsabile mancanza di controlli. Dopo decenni di grande noncuranza della società proprietaria e di assenza di controlli da parte pubblica, oggi lo Stato, mediante l’azione della magistratura, va all’estremo opposto: quello di un iper-rigore miope che potrebbe risultare altrettanto dannoso.
La Stampa 28.11.12
“Il welfare ferito al cuore”, di Chiara Saraceno
Non si sentiva proprio il bisogno di questa ultima esternazione di Monti che adombra la possibilità che il sistema sanitario nazionale possa venir smantellato, o ridotto, a favore di un allargamento dello spazio per le assicurazioni private.
Maliziosamente, qualcuno potrebbe pensare che, dopo aver colpito la sanità (come la scuola) in modo indiscriminato e a colpi d’accetta, rendendone sempre più difficile il funzionamento, ritenga che essa sia ormai così squalificata agli occhi dei cittadini da potersi permettere di prevederne la messa in liquidazione. Che la sanità italiana sia in affanno è sotto gli occhi di tutti, ma le cause di questo affanno sono molto meno chiare e univoche di quanto vogliano far credere le parole di Monti. E tra queste cause c’è anche il modo un po’ sconsiderato con cui si sta procedendo a contenerne i costi.
Che siano state parole da tecnico così super partes e così preso dalla propria tecnicità da non curarsi dell’effetto delle proprie parole, o da politico che sta mettendo a punto la propria prossima agenda, le parole di Monti sembrano voler forzare ulteriormente il senso di allarme sociale in un momento in cui le tensioni sono già forti. Rivelano anche una singolare cecità, o insensibilità, rispetto alla situazione economica delle famiglie italiane. Queste per una buona parte non possono certamente permettersi la spesa aggiuntiva di una assicurazione sanitaria. Lo ha certificato oggi, quasi nelle stesse ore dell’esternazione di Monti, la Banca d’Italia, segnalando come il reddito disponibile delle famiglie sia diminuito di nuovo, per la quinta volta. Minacciare di togliere la sanità pubblica in questi frangenti significa colpire proprio chi sta già facendo fatica a tirare avanti. Chi può permetterselo ha già una assicurazione, anche se per le cose importanti usa il servizio pubblico, perché più affidabile e di migliore qualità media.
L’istituzione del servizio sanitario nazionale nel 1977 è stata una importante conquista di civiltà nel nostro Paese. Come ha fatto la scuola pubblica per l’istruzione, ha garantito a tutti coloro che vivono in questo paese il diritto alle cure quando ammalati. Venivamo da un sistema mutualistico che non solo offriva prestazioni differenziate a seconda della mutua di appartenenza, ma non copriva neppure tutti i cittadini. Se il nostro sistema di welfare, così inadeguato già prima della crisi, non si esaurisce nelle pensioni, è perché c’è anche una sanità pubblica di tipo universalistico. Nonostante i periodici episodi di malasanità ed anche di corruzione, è un sistema che ha fatto bene il proprio dovere, come riconosciuto anche dall’organizzazione mondiale della salute che anni fa aveva collocato il sistema sanitario italiano tra i primi al mondo per efficienza ed efficacia. Non è perfetto, come testimoniano gli episodi, appunto, di malasanità e corruzione, le disuguaglianze territoriali nei livelli di prestazione, gli scarti spesso intollerabili tra qualità dell’intervento medico e qualità del contesto ambientale. È stato il primo settore in cui si sono verificate con mano tutte le potenzialità, ma anche i rischi e gli effetti perversi, della regionalizzazione. Ci sono certamente molte cose da riformare, per aumentare l’efficienza, eliminare gli sprechi, impedire che la sanità diventi l’ambito dell’arricchimento privato ai danni del pubblico. C’è un enorme spazio di efficienza da recuperare ed anche di rigidità inutili e dannose da rompere. Il settore della non autosufficienza è un caso esemplare, ove sanità e assistenza non si parlano e piuttosto scaricano l’una sull’altra le responsabilità, per contenere i costi.. Con il risultato che sono le famiglie a dover compensare le inefficienze quando non le totali mancanze.
Nelle proposte di riforma della sanità che circolano ci sono cose interessanti anche dal punto di vista del contenimento dei costi. Varrebbe la pena di discuterne in modo più allargato. Si può anche discutere che cosa (non chi) può rimanere nella sanità pubblica e che cosa no. Ma se intanto si procede per tagli lineari senza criterio e con un’opera di sistematica delegittimazione, analogamente a quanto si è fatto e si fa per la scuola, poi restano solo le macerie, su cui fioriscono i rancori e si allargano le disuguaglianze.
La Repubblica 28.11.12
Imu Chiesa: «Un pasticcio statale che scontenta tutti», di Laura Matteucci
«La questione essenziale è che l’Imu deve tornare in capo ai Comuni. In tutto e per tutto».
Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, torna a dare voce alla protesta dei Comuni, proprio mentre il Senato sta vagliando quella legge di Stabilità di cui chiedono modifiche in più punti, e oggi si inizia a votare il decreto legge sui costi della politica, che potrebbe contenere qualche novità in materia di imposta sugli immobili.
È proprio il «nuovo» regolamento sull’Imu per la Chiesa e gli enti non profit, pubblicato sabato scorso in Gazzetta ufficiale, l’ultimo spunto per le polemiche, perché è ambiguo, di difficile attuazione, e oltretutto è pure la fotocopia di un testo di Tremonti del 2009 già bocciato dalla Ue. Adesso la palla è passata a Bruxelles, infatti: sono i commissari europei a dover vagliare in questi giorni il documento e decidere se chiudere la procedura d’infrazione aperta contro l’Italia già nel 2007. Presidente, è stato pubblicato il regolamento che doveva fornire lumi sull’applicazione dell’Imu agli enti non profit e alle scuole paritarie, la cosiddetta Imu-Chiesa. I Comuni che cosa ne pensano, è tutto chiaro o le cose si complicano?
«La titolarità dell’Imu deve essere dei Comuni, anche per il regolamento. Per averne uno corretto ed efficace, devono redigerlo i Comuni, come accadeva con l’Ici. Anche perché non vorremmo mai penalizzare scuole d’infanzia e non profit. Invece il regolamento l’ha fatto il ministero, e questo perché l’Imu è una tassa nata solo per fare cassa. Ovvio sorgano problemi interpretativi ed attuativi: le imposte comunali non possono venire regolamentate a livello statale». Un altro regolamento confuso: però voi entro il 31 dicembre dovrete applicarne almeno una parte, quella relativa allo status di attività commerciale. «Infatti, siamo i attesa degli incontri tecnici e delle circolari interpretative da parte del ministero. Confuso è la parola giusta. Prendiamo le scuole paritarie: sugli immobili misti, ad esempio, per la formulazione dei pagamenti dovremmo basarci sul costo delle rette, ma non sono specificate soglie, né criteri di valutazione. Ai Comuni si chiede di raccogliere informazioni, ma non è né banale né semplice. È un pasticcio tutto statale, che rischia di scontentare un po’ tutti, laici e cattolici, e non si capisce nemmeno se risponda alle sollecitazioni dell’Unione europea».
Ma non siete stati interpellati nella stesura di un regolamento che poi sono i Comuni a dover applicare?
«Mai. Forse non mi sono spiegato bene: la questione di fondo è che l’Imu è stata fatta per fare cassa, in senso letterale, il che significa che tutto è funzionale al limitare al massimo la diminuzione del gettito. Ricordo che l’Imu vale qualcosa come 21 miliardi, è la voce più pesante nell’abbattimento del debito pubblico».
Se il Senato non modificherà la legge di Stabilità, e se l’Imu non verrà restituita ai Comuni a partire dall’anno prossimo, avete promesso di dimettersi in massa: promessa sempre valida? Dopo la manifestazione di Milano, s’è aperto qualche spiraglio? «Certo che è sempre valida. Solo in Italia si continua a pensare che la crescita possa partire da Roma. In tutto il resto del mondo si è capito che sono le città il vero volano di qualsiasi possibile sviluppo. Ma le città sono allo stremo. Ora, non è che dopo aver imposto sempre più tasse ai cittadini, possiamo anche chiudere i servizi: c’è un limite alla tenuta della coesione sociale, e di sicuro noi non vogliamo certificare la morte della convivenza civile. Se la manovra uscirà dal Senato così com’è entrata, che venga qualcun altro a farlo al posto nostro, che vengano i prefetti». È un braccio di ferro che va avanti da mesi…
«Come andrà a finire si vedrà nel giro di qualche giorno, i contatti per sciogliere questi nodi sono avviati, e del resto lo sa anche il ministro dell’Economia, Grilli, che la nostra situazione è grave. Il governo deve far partire da subito l’attivazione delle imposte comunali sul territorio, non possiamo aspettare oltre. Quest’anno l’Imu sulla prima casa ci è stata tolta, e pure quella sulla seconda casa è andata, per metà, allo Stato. La questione politica fondamentale è che i proventi dell’Imu devono tornare completamente a noi già dal 2013. Stesso discorso anche per il Patto di stabilità che frena gli investimenti: per ora non ci sono novità, stiamo lavorando, i risultati li vedremo».
Gli incontri con i segretari di partito avuti nei giorni scorsi come sono andati?
«C’è stata senza dubbio grande attenzione, ma ancora una volta saranno i fatti a dover parlare. Perché noi i bilanci mica li facciamo a parole».
L’Unità 27.11.12