«La notizia secondo me è il grande successo delle primarie», dice Miguel Gotor, storico dell’età moderna ma anche autore di diversi saggi su Aldo Moro e l’Italia degli anni Settanta, da mesi impegnato a sostegno della candidatura di Pier Luigi Bersani alle primarie, pur senza essere nemmeno iscritto al Partito democratico. «È un grande successo delle primarie come strumento di rilegittimazione di una politica ferita, per ricostruire un rapporto che non è stato mai così difficile nella storia repubblicana tra cittadini e istituzioni, società e democrazia rappresentativa. Primarie che sono state fortemente volute da Pier Luigi Bersani proprio con questa finalità».
Un successo dei gazebo contro le sezioni, dell’apertura alla società civile contro la chiusura degli apparati?
«In primo luogo, è stato un successo dovuto all’impegno di centomila volontari. Ma il punto è che in questi anni abbiamo avuto un discorso pubblico subalterno al berlusconismo, tutto impostato sulla contrapposizione tra partiti e società civile: i partiti come ferri vecchi di un Novecento perduto da un lato, dall’altro una società civile come la rosa del Piccolo principe, che sboccia ogni giorno nuova. Le cose non stanno così e lo dimostra proprio il successo delle primarie. Un successo che rivela come un partito consapevole dei propri limiti e capace di assumersi dei rischi è in grado di trasformarsi in infrastruttura di civismo e rinnovare l’offerta politica. Io resto convinto del fatto che con meno di questo non saremmo andati, e non andremmo, da nessuna parte».
Ma le primarie non sono anzitutto uno scontro tra due leader, un plebiscito, un confronto estremamente personalizzato. Nella retorica dei gazebo come alternativa al partito personale non c’è anche una qualche contraddizione?
«Le primarie non sono un fine, ma uno strumento. È evidente che in Italia, soprattutto in un certo mondo della comunicazione, c’è un diffuso desiderio di americanizzazione senza America, che inneggia alla competizione a parole ma nei fatti non vuole la concorrenza e non disdegna familismo e corporativismo. In questo quadro accolgo il rilievo: è chiaro che la sfida delle primarie espone anche a simili rischi, ma i vantaggi mi paiono largamente superiori ai costi. E il vantaggio principale è un sangue che ritorna in circolo e rivitalizza il corpo lesionato della democrazia italiana. Guai a fare delle primarie un’ideologia: sono un passaggio, uno snodo decisivo, necessario ma non sufficiente».
Non sufficiente per cosa?
«Io ho fatto una settantina di iniziative in tutta Italia: ho visto un Paese inquieto, impaurito, che ha bisogno di rassicurazione e di unità. Non è stato facile usare la parola “politica”, con questo clima, nell’Italia di oggi. È stato un esperimento molto interessante».
E cosa ne ha ricavato?
«Ne ho ricavato che tra gli italiani, accanto a una voglia evidente di rovesciare il tavolo, c’è anche voglia di ricostruzione, speranza, solidarietà. Dico tra gli italiani, e non soltanto tra i militanti, perché su circa settanta iniziative ne avrò fatte tre o quattro in sedi di partito. Ho attraversato l’Italia da Nord a Sud e quello che ho sentito di più nettamente è stata questa domanda di rassicurazione, attenzione: sia in quelli che ci danno fiducia, sia in quelli che vogliono rovesciare il tavolo. Tutti sono turbati: per il lavoro, per il futuro, per la mancanza di punti di riferimento. E questa percezione l’ho avuta soprattutto nelle grandi città. E penso che sia per questo che Bersani è andato meglio in quasi tutti i grandi centri». Qual è stato il suo ruolo in questa campagna?
«Ho un rapporto di fiducia e stima nei confronti di Bersani, a giugno mi ha chiesto di dargli una mano e ho accettato. Non sono iscritto al Pd, ho quarantuno anni, negli ultimi venti ho sempre studiato. Per me è stata un’esperienza molto bella e faticosa, ho fatto un viaggio attraverso l’Italia per far vedere che la ricostruzione civica non solo era possibile, ma si stava facendo. Penso per esempio all’iniziativa che abbiamo fatto a Villa Briano, in un bene confiscato alla mafia, come simbolo di un impegno per la legalità che è la base di ogni possibile ricostruzione».
Uno studioso prestato alla politica?
«La definizione non mi piace. La politica è un’arte che ha i suoi tempi e i suoi codici, che è bene restino autonomi rispetto a quelli dell’attività di ricerca e studio. Non credo agli intellettuali di partito né ai partiti degli intellettuali». Vuol dire che intende tornare ai suoi studi?
«Non ho mai smesso, anche se certo negli ultimi mesi ho dovuto rallentare un po’. In questi giorni, per esempio, sto curando un’introduzione a una raccolta di scritti di Enrico Berlinguer che devo consegnare all’editore giusto il 2 dicembre (giorno del ballottaggio, ndr), e sto lavorando anche a una voce sull’eretico cinquecentesco Bernardino Ochino per il dizionario biografico degli italiani».
L’Unità 27.11.12
Latest Posts
Roma – Ministero Istruzione, Università e Ricerca -Seminario: La via italiana all’inclusione scolastica
c/o MIUR ROMA
PROGRAMMA DEI LAVORI
Accoglienza e registrazione dei partecipanti
Saluti ed apertura dei lavori Lucrezia Stellacci, Capo dipartimento
Giovanna Boda, Dirigente generale
I punti della discussione Italo Fiorin, Università Lumsa Roma
Il nostro impegno sul tema dell’inclusione Francesco Profumo, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
La voce della ricerca Andrea Gavosto, Fondazione Agnelli
La voce della pedagogia speciale Andrea Canevaro, Università di San Marino
La voce del dibattito in atto Dario Ianes, Università di Bolzano
La voce dell’amministrazione Raffaele Ciambrone, Ufficio disabilità Miur,
Rinfresco
La voce delle scuole Giuseppe Fusacchia, dirigente scolastico
La voce delle ASL Guido Fusaro, neuropsichiatra ASL B1 Piemonte
La voce dell’osservatorio sull’integrazione scolastica Pietro Barbieri, presidente FISH
La voce dell’esperienza tridentina Marta Dalmaso, assessore provincia di Trento
La voce degli enti locali Stella Targetti, coordinatrice Assessori all’Istruzione. Conferenza delle Regioni.
La voce degli enti locali Graziano Delrio / Daniela Ruffino, Anci
La voce della politica Manuela Ghizzoni, presidente 7ª Commissione della Camera
Guido Possa, presidente 7ª Commissione del Senato
Conclusioni e prospettive Marco Rossi-Doria, Sottosegretario di Stato
Previsione di testimonianze dirette
“Bersani: basta slogan si vota sul premier”, di Simone Collini
«Al primo turno si può anche votare per dare un segnale di un certo tipo, per far capire che la richiesta di rinnovamento è forte, ma al secondo turno no, si sceglie il presidente del Consiglio, quello in grado di costruire attorno a sé un’alleanza in grado di vincere le elezioni, quello più credibile e con la necessaria esperienza per governare». È questo il ragionamento che rassicura Bersani circa l’esito della sfida di domenica con Renzi, più dei trecentomila voti di vantaggio da cui parte, più anche dei segnali che arrivano dagli altri competitor ora usciti di scena, a cui pure guarda con attenzione, come dimostrano le parole riservate al rapporto con Sel: «Con Vendola non stiamo aprendo tavoli o tavolini. Ci sono però degli evidenti punti di assonanza, per esempio su scuola, centralità del lavoro, diritti. Sono cose precise su cui c’è convergenza. Si parla di politica, non stiamo facendo bilancini o Cencelli».
Il leader del Pd giocherà questo finale di partita mantenendo il profilo del candidato con maggior esperienza e capacità di costruire una coalizione coesa attorno a un progetto di governo. E poco male se Renzi insisterà nell’utilizzare l’espressione «usato sicuro», nel rivolgersi a lui. Sono altre le parole più offensive, o ambigue, che ha sentito pronunciare dal sindaco di Firenze. Come quel dire «abbiamo sfondato nelle regioni rosse», che sa tanto di «linguaggio berlusconiano». O come quel «mettete più seggi al secondo turno». Dice Bersani incontrando i giornalisti a Piacenza prima di andare a Milano per essere intervistato da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”: «Con Matteo ci siamo mandati dei messaggini scambiati gli auguri. Certo, lui ha sempre questo difettuccio di dire “noi e loro”. Ma noi siamo noi, tutti noi, loro è Berlusconi, è la destra. Però sono sicuro che si correggerà. Non c’è bisogno di fuoco amico, gli avversari non ci mancano».
Renzi non si corregge e anzi poco dopo, a distanza, ribadisce il concetto. Bersani che incrociando poco dopo il sindaco di Firenze dietro le quinte di “Che tempo che fa” lo abbraccia dicendogli «dai che stiamo andando alla grande, siamo al 33%, non roviniamo il clima» è convinto che Renzi imposterà il resto della sua campagna continuando da un lato a insistere sul tasto del rinnovamento e, dall’altro, provando a sottrargli consensi lavorando a rafforzare il proprio fronte sinistro, su cui finora si è mostrato carente. Una strategia che il leader del Pd conta di smontare fin da subito.
IL CAMBIAMENTO E LE CHIACCHIERE
«Il cambiamento non si fa a chiacchiere», scandisce infatti nel corso della conferenza stampa convocata a Piacenza per commentare il risultato del primo turno delle primarie. «Il cambiamento non è fatto di slogan ma di coraggio e di saper dove mettere le mani. Bisogna che avvenga su dei fatti, accettando le sfide. Credo di avere l’esperienza e anche la determinazione per andare avanti su una strada di cambiamento di cui il Paese ha bisogno».
Coraggio e determinazione, che Bersani può rivendicare ricordando che è stato lui a volere le primarie, a chiedere di modificare lo statuto del Pd per permettere a Renzi di correre, a insistere (con il sindaco di Firenze che era contrario) perché ci fosse il ballottaggio nel caso nessun candidato ottenesse la maggioranza assoluta. «Se non ci fosse stato avrei già vinto. E invece si va fino in fondo, perché il processo democratico deve legittimare il candidato dei progressisti con oltre il 51%».
Bersani, che domani avrà un confronto televisivo “all’americana” con Renzi su Rai 1, ora riparte con in tasca un risultato che giudica «assolutamente incoraggiante», cioè con 9,4 punti percentuali di vantaggio (290.200 voti) e arrivato primo in 17 regioni, contro le 3 di Renzi. «Dice che avevo dalla mia l’apparato di partito? Strano, ho vinto nelle grandi città, dove c’è molto voto di opinione, non l’apparato, il partito con la falange».
Renzi, che vuole siano pubblicati on line i verbali di tutti i novemila seggi, ora chiede di riaprire le iscrizioni e di rendere possibile a chiunque di registrarsi fino a domenica. Bersani, a cui non piace che Renzi dica «si parte da zero a zero» («non mi sembra felice visto che hanno votato in 3 milioni) evita di entrare nella discussione, demandando ogni decisione al comitato dei garanti e invitando a «non mettere briciole di problemi in questa grandissima giornata»: «Ci sono i garanti, noi siamo gente per bene». Nel fronte che sostiene il segretario si insiste però sul concetto che la platea elettorale non può essere modifica, se si vogliono evitare infiltrazioni.
Quanto all’appoggio degli altri candidati non arrivati al ballottaggio, i segnali che arrivano da Tabacci («Bersani è più affine al mio modo di pensare») e da Vendola («mi impegnerò perché Renzi non vinca») fanno ben sperare. Ma l’obiettivo è incassare i voti dei loro elettori, in particolare quelli di Sel. Non a caso, una tappa in Puglia è già stata organizzata.
L’Unità 27.11.12
Sisma, deputati Pd “Subito interventi del Governo”
Ghizzoni, Miglioli, Santagata “Non privilegi, aiuti concreti al motore produttivo del Paese” I deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata hanno partecipato al presidio organizzato dalla Cgil in piazza del Pantheon, a Roma, dei lavoratori delle zone dell’Emilia, della Lombardia e del Veneto colpite dal sisma: “Queste aree del paese – dicono – non chiedono privilegi, ma aiuti concreti che ristabiliscano equità e giustizia. Sono destinatarie di misure fiscali meno favorevoli rispetto a quelle emanate in precedenza per i soggetti colpiti da analoghe calamità”.
“Non è procrastinabile l’intervento delle istituzioni per rimettere in piedi un’area che è il motore produttivo del Paese. – lo dichiarano i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata, dopo aver partecipato al presidio organizzato dalla Cgil in piazza del Pantheon dei lavoratori di Emilia, Lombardia e Veneto, colpiti dal terremoto – Le provincie del cratere – spiegano – producono il 2% del Pil Nazionale, più del 4% delle esportazioni, garantiscono allo Stato quasi 7 miliardi di euro di gettito fiscale e 400 milioni di euro di IVA annui. Il Governo ha il dovere di rispondere con aiuti concreti, che ristabiliscano equità e giustizia, verso popolazioni che risultano destinatarie di misure fiscali meno favorevoli di quelle emanate in precedenza per i soggetti colpiti da analoghe calamità in altre aree. L’Esecutivo, dopo l’approvazione del nostro ordine del giorno, si è impegnato a inserire tutte le modifiche atte a sciogliere i nodi ancora irrisolti per le aziende e gli esercenti di attività commerciali o agricole che hanno avuto un danno al reddito d’impresa, e per i lavoratori e i pensionati, per i quali non è stato previsto il meccanismo di rateizzazione per i contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri assicurativi. Ora è il momento di passare ai fatti. Il ddl di conversione del decreto 174 è all’esame del Senato ed è necessario che tutte le forze politiche lavorino per l’approvazione degli emendamenti volti a garantire – hanno concluso i deputati – non privilegi, ma un aiuto concreto al cuore pulsante dell’economia italiana.”
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ERRANI, DUE PUNTI NON RISOLTI CON IL GOVERNO
RINVIO CONTRIBUTI INAIL E INPS, RICONOSCERE DANNI A FATTURATO
(ANSA) – BOLOGNA, 27 NOV – ”Ci sono due punti non risolti
per i quali c’e’ dialettica con il Governo. Uno e’ il rinvio al
30 giugno 2013 non solo dei tributi (Irpef) ma anche dei
contributi dei lavoratori (Inail e Inps) colpiti dai terremoti
di maggio”; l’altro e’ riconoscere il rinvio non solo alle
imprese devastate ”ma a tutta l’ampia platea che dal sisma ha
avuto un danno diretto di oltre il 30% del fatturato”. Cosi’ si
e’ espresso il presidente dell’Emilia-Romagna e commissario alla
ricostruzione, Vasco Errani, facendo un bilancio a sei mesi dai
terremoti.
Per i contributi Inps e Inail ”chiediamo il rinvio
attraverso il meccanismo del sostituto d’imposta: lo prevede un
emendamento presentato in commissione Bilancio per il decreto in
discussione al Senato”.
Scade infatti il 16 dicembre la proroga concessa per tributi
e contributi ed e’ al via la procedura di anticipazione delle
banche, annunciata entro il 17 dicembre, dei pagamenti fiscali
coperti con sei miliardi dalla Cassa Depositi e Prestiti fino al
30 giugno 2013; ma per i contributi Inps e Inail dei lavoratori
che hanno subito danni dal sisma non e’ prevista alcuna
copertura dal 17 dicembre in poi e invece ”e’ fondamentale – ha
detto Errani – e’ un criterio di equita’ e giustizia”.
”Non stiamo chiedendo sconti – ha precisato – siamo fuori
dall’infrazione europea avviata invece per le emergenze
precedenti, e’ qualcosa di giusto e legale”.
La rabbia dei docenti per la frase del premier “La scuola è al collasso”, di Corrado Zunino
L’ultima uscita del professor Mario Monti più che una gaffe sembra un intimo pensiero, ora pubblico. «In alcune sfere del personale della scuola», ha detto il presidente del Consiglio domenica sera in teda Fabio Fazio, «c’è grande spirito conservatore e grande indisponibilità a fare anche due ore in più la settimana, avrebbero permesso di liberare risorse per fare politiche didattiche. Non esiste il mito bontà-durezza», e qui Monti è sembrato alludere alla frase del bastone e la carota usata dal suo ministro Francesco Profumo, «gli studenti fanno bene a manifestare il loro dissenso, ma i corporativismi spesso usano i giovani per perpetuarsi, per non adeguarsi a un mondo più moderno». Gli insegnanti, ín 43 secondi di diretta Rai, sono diventati un esempio di freno alla modernizzazione e alla produttività, pronti a usare i loro studenti per mantenere privilegi. Non poteva che deflagrare, la bomba, visto che dall’U ottobre scorso -dopo un’intervista del ministro Profumo con Repubblica in cui si rivelava il progetto di riforma i docenti tutti hanno iniziato a contrastare l’articolo della Legge di stabilità che prevedeva l’aumento di sei ore la setti-, mana (sei ore, non due) a parità di stipendio e in cambio di due settimane di ferie extra. Dopo un mese e mezzo di marce anti-Profumo, sit-in al ministero e mail bombing i “prof’ hanno vinto: niente sei ore in più. Ma l’affondo montiano, domenica, ha riaperto la ferita. In tempi rapidi gli insegnanti italiani hanno costruito in rete un documento unitario. Questo: «La proposta del ministro Profumo era di aumentare le ore di lavoro frontale dei docenti da 18 a 24, il 33% in più. Di fatto, le ore richieste erano almeno dodici perché a ogni lavoro frontale corrisponde un lavoro sommerso di pari intensità. Senza essere tecnici della scuola è facile capire che se con un orario di 18 ore un docente ha quattro classi, con 24 ore ne avrebbe avute sei. Si continua impunemente a misurare ìl nostro lavoro in termini di presenza a scuola, come se si misurasse il lavoro degli avvocati solo con la loro presenza in tribunale, oppure il suo lavoro, caro Fabio Fazio hanno scritto rivolgendosi al conduttore di” Che temp o che fa” con la sua presenza in studio». Le sei ore plus, tra l’altro, «produrrebbero un importante taglio di posti di lavoro peri precari: naturale ci sia stata una indisponibilità dei docenti a questa stupidaggine economica». Un insegnante di una scuola superiore ha scritto: «Questa è una visione contabile della scuola, cominciata con la Gelmini e proseguita da presunti tecnici che odiano tutto ciò che è pubblico». Ancora: «Dopo più di trent’anni di servizio guadagno 1.800 euro a fronte dei 3.000 euro dei colleghi danesi e inglesi, che lavorano quanto noi». Così la “prof” GiuliaFilauro: «Insegno da sei anni, devo pagarele fotocopie, ii sap one e alle volte i libri dei miei alunni, lo stipendio mi è arrivato a metà e faccio parte della casta?». Il sindacato della scuola, che da tempo ha disseppellito il conflitto (sostenuto da larga parte del Pd), è andato giù duro anche con Monti: «Il presupposto che i nostri docenti lavorino poco e male è falso. Nel suo governo c’è un carattere autoritario, espressione dei banchieri e dei poteri forti che intendono privatizzare l’istruzione pubblica», ha detto Domenica Pantaleo, segretario della Cgil-Flc: «Iveri conservatori sono Monti e Profumo, stanno portando il sistema d’istruzione al fallimento sociale». La classe docente, che pesa sul voto, è schierata da tempo contro il governo Monti. Così gli studenti organizzati, di sinistra e di destra. I moderati della Rete degli studenti hanno detto: «Le parole delprimo ministro, professore alla Bocconi, sono completamente scollegate dal mondo del reale».
La Repubblica 27.11.12
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Monti: «Insegnanti conservatori». Scoppia la polemica sul web. Protesta dei professori contro le parole del premier a Che tempo che fa
Docenti «indignati» per le dichiarazioni rilasciate durante la trasmissione televisiva Che tempo che fa di Fabio Fazio dal presidente del Consiglio,Mario Monti, secondo cui «in alcune sfere del personale della scuola c’è grande conservatorismo ed indisponibilità a fare anche due ore in più alla settimana che avrebbero permesso di aumentare la produttività» e «i corporativismi spesso usano anche i giovani per perpetuarsi». Subito dopo aver sentito in tv le parole del premier, gli insegnanti di tutta Italia si sono messi in contatto tra loro attraverso la rete, hanno invaso con centinaia di commenti la bacheca della pagina Facebook di Che tempo che fa ed hanno predisposto un documento unitario che, sempre grazie a Internet, in poche ore ha fatto il giro del Paese.
La protesta degli insegnanti. «La proposta del ministro Profumo – ricordano i docenti nel documento, rilanciato, tra l’altro, anche dal Coordinamento scuole di Pescara – era di aumentare le ore di lavoro frontale dei docenti da 18 a 24. Non due ore come sostenuto da Monti. Sei ore in più rappresentano il 33% di 18 ore. Di fatto, le ore in più richieste non erano sei, ma almeno il doppio, perchè ad ogni ora di lavoro frontale corrisponde un lavoro sommerso che è almeno pari se non maggiore».
« Senza essere dei tecnici della scuola – prosegue la lettera – è facile capire che se con un orario di 18 ore un docente ha, in media, quattro classi, con 24 ore ne avrebbe sei, il che rappresenta non un incremento del 33%, ma del 50%. Si continua impunemente a misurare il lavoro dei docenti in termini di presenza a scuola, come se si misurasse il lavoro degli avvocati solo con la loro presenza in tribunale, oppure il suo lavoro, caro Fabio Fazio – scrivono gli insegnanti rivolgendosi al conduttore – con la sua presenza in studio».
« Strumentale è stato Monti nel ridurre l’opposizione sociale che cresce nel mondo della scuola soltanto alla questione delle ore. Monti, quello che straparla sempre di crescita – si legge ancora – ha avuto anche il coraggio di presentare come conservatore il rifiuto dei docenti di incrementare l’orario di lavoro. Un incremento che produrrebbe un importante taglio di posti di lavoro (ai precari). Certo che c’è stata una indisponibilità dei docenti a questa stupidaggine economica», concludono i docenti.
Il Messaggero 27.11.12
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Monti e il caso dei «prof conservatori». Gli insegnanti rispondono al premier. «Guardi i colleghi universitari», di Mariolina Iossa
Il premier Monti da Fazio a «Che tempo che fa» dice di aver trovato nella scuola, parlando degli insegnanti, «grande conservatorismo e indisponibilità a fare anche due ore in più alla settimana che avrebbero permesso di aumentare la produttività». Si rammarica, il presidente del Consiglio, che «i corporativismi spesso usano anche i giovani per perpetuarsi». Gli dà ragione il capo dello Stato Giorgio Napolitano, lo dice al Quirinale ricevendo i nuovi Cavalieri del lavoro, che nella scuola «non si può restare prigionieri di conservatorismi e corporativismi, come proprio ieri ha sottolineato il presidente Monti». Anche se poi aggiunge che lo Stato deve fare di più «per la scuola e soprattutto per l’università e la ricerca».
Corporativi? Conservatori? Di qualunque idea politica siano gli insegnanti, ieri in massa, si sono rivoltati a queste parole. Come del resto hanno fatto sindacati e partiti politici, dal Pd al Pdl. Hanno scritto, indignati, i loro commenti sul profilo Facebook della trasmissione di Fazio. Hanno criticato duramente anche Fazio che non ha concesso un contradditorio, e pretendono adesso che questo torto venga riparato, chiedono di andare in studio a spiegare le loro ragioni.
I commenti su Facebook sono un fiume in piena. Scrivono i professori che quelle di Monti sono «affermazioni false e diffamatorie: le ore pretese erano 6 e non 2, differenza non certo irrilevante». Inoltre, «quale categoria, per giunta mal pagata, con contratto nazionale e stipendi bloccati dal 2009 (e secondo la legge di stabilità resteranno bloccati fino al 2014), accetterebbe di lavorare 6 ore in più a settimana, ovvero il 33 per cento in più a stipendio invariato?». E ancora: «Come si fa a pensare di aver ragione quando si scavalca il contratto nazionale e si vuole cambiare il rapporto di lavoro unilateralmente, senza contrattazione, senza uno straccio di tavolo, con una legge d’emergenza?».
«Lasci da parte gli odiosi luoghi comuni — dice Francesco Scrima, Cisl —. Non chieda solo alla scuola di dare al Paese ma ci dica anche che cosa il Paese intende dare alla scuola». «Parole offensive e gravissime — commenta Mimmo Pantaleo, Cgil — che confermano il carattere autoritario e liberista del governo Monti, espressione dei banchieri e dei poteri forti». «Il governo si impegni per i veri corporativismi che non sono stati toccati», ribatte Massimo Di Menna, Uil. E Rino Di Meglio, Gilda: «Prima di accusare gli insegnanti di corporativismo conservatore Monti dovrebbe chiedere lo stesso sacrificio ai suoi colleghi universitari».
S’indignano anche gli studenti, che in questi giorni occupano le scuole, spesso protestando accanto ai loro insegnanti. «Il presidente del Consiglio farebbe bene a chiedersi perché scendiamo in piazza a protestare. Non siamo manipolati dai docenti ma vediamo e subiamo sulla nostra pelle lo sfascio della scuola italiana», dicono Udu e Rete degli studenti.
Il Corriere della Sera 27.11.12
“Per Obama un bravo prof è un investimento”, di Giovanni Scancarello
Un bravo insegnante, dice la Casa Bianca, vale almeno 250mila dollari per ciascuna delle classi in cui lavora. È quanto si calcola incrementerà le retribuzioni dei suoi studenti quando entreranno nel mondo del lavoro. Se si considera che un insegnante americano nel 2010 guadagna, secondo le stime dell’Ocse, mediamente 45mila dollari all’anno alle primarie e 48mila dollari l’anno alle superiori, si può concludere che un buon insegnante, negli Usa vale sicuramente già tanto oro quanto pesa.
Un parallelo con l’Italia in questo senso è più complicato, anche perché, il peso del portafogli dei nostri docenti è sensibilmente inferiore. In generale c’è da dire che mentre da un lato gli insegnanti americani hanno risentito più degli italiani della crisi economica del 2007-2008, in termini di adeguamento dei salari al costo della vita, c’è da dire che però partivano già da stipendi molto più alti dei nostri.
La primaria
Secondo le stime dell’Ocse, un docente di scuola primaria negli Usa guadagnava 43.867 dollari l’anno nel 2000 e 45.226 nel 2010, un docente italiano rispettivamente 31.050 e 32.658 dollari. Ma comunque gli insegnanti americani guadagnavano già molto più della media Ocse che era di 31.289 dollari l’anno nel 2000 e 37.603 dollari nel 2010.
La media
A livello secondario di primo grado, un docente di scuola media negli Usa guadagnava 43.697 dollari l’anno nel 2000 e 45.049 nel 2010, un prof italiano rispettivamente 34.010 e 35.583 dollari. Ma comunque gli insegnanti americani guadagnavano già molto più della media Ocse che era di 33.141 dollari l’anno nel 2000 e 39.401 dollari nel 2010. C’è da notare comunque, come negli Usa i maestri guadagnino più dei prof delle medie.
Le superiori
Per le superiori i dati si riferiscono solo al 2010, quando il salario di un docente di scuola secondaria superiore italiano era di 36.582 dollari l’anno, mentre quello di un americano di 48.446 contro una media Ocse di 41.182.
Il peso per studente
Vediamo quanto pesa nella spesa per studente il salario dei docenti in Italia e negli Usa. In Italia il salario del docente pesava per 2.891 dollari l’anno nel 2000 e pesa 2.988 dollari l’anno nel 2010 (secondo le stime Ocse, la spesa pubblica per studente in Italia si aggira sugli 8000 euro l’anno). Negli Usa il costo del salario del docente sulla spesa per studente è di 2.776 dollari nel 2000 e di 3.110 nel 2010 (la spesa pubblica per studente qui è di circa 12.000 dollari l’anno). Rispetto ad un costo Ocse medio del salario del docente sulla spesa per studente, che era di 1.733 dollari nel 2000, osserviamo che mentre in Italia il peso del salario del docente scende di 11 dollari all’anno sulla spesa pubblica per studente, negli usa aumenta di 334. Cosa che riflette, a questo punto, il cerchio dell’incidenza dei bravi insegnanti sul futuro economico degli studenti americani.
da ItaliaOggi 27.11.12
“Una prova per il governo”, di Patrizio Bianchi
Dopo averlo a lungo predisposta è arrivata la svolta per l’Ilva. Ancora una volta siamo arrivati al baratro, senza essere capaci di mettere in atto nessuna azione effettiva per reindirizzare le condotte della società e nel contempo per avviare quel piano di bonifica dell’impianto – e più in generale del contesto urbano – che avrebbe potuto costituire una occasione per dimostrare che l’intero Paese si poneva sulla via di una economia sostenibile. E questo sia dal punto di vista ambientale che sociale. La richiesta di un incontro urgente a Monti fa tuttavia il paio con la richiesta rivolta al governo di delineare una linea di politica industriale che ci porti fuori da una crisi, che sta colpendo il Paese. Il governo è intervenuto con mano durissima sulla vita dei cittadini, prima con l’intervento sulle pensioni, poi con le norme sul lavoro, poi con i continui tagli alla spesa pubblica, in particolare agli enti locali, che stanno portando a riduzioni vere dei servizi alle persone, e specialmente alle fasce più deboli della nostra società, già segnate da venti anni di ideologia della ineguaglianza.
Un tale sforzo può essere affrontato ed accettato solo se in cambio si offrono prospettive di maggiore eguaglianza e di una ripresa economica, che porti ad un maggior benessere per tutti. In questa straordinaria tensione fra le difficoltà attuali, che per molti significano sofferenza e rischio di emarginazione, e le promesse future stanno pochi atti concreti, nei quali ritrovare il segno di un cammino di speranza. Il caso Ilva, al di là delle vicende giudiziarie, assume oggi una importanza straordinaria per la nostra convivenza civile. Il governo deve trovare una soluzione che dia garanzia di ripresa di ruolo all’impresa ed avvii quella convergenza di azioni, che dimostrino che non si può rottamare un grande impianto, un’azienda, una città intera. Proprio perché siamo a fine legislatura, se il governo tecnico vuole lasciare un segno importante a quello che verrà, dimostri tutta la sua capacità tecnica, coinvolgendo in un grande piano-Paese, che parta proprio da Taranto, tutta l’intelligenza e la ricerca delle nostre università, coinvolga tutte le imprese, e sono tante, che possono trovare anche una crescita nel comparto dell’economia verde, spinga tutte le amministrazioni a convergere su un tale piano, che renderebbe credibile quell’insistente richiamo ad una Europa «intelligente, inclusiva e sostenibile», che viene richiamata come segno della Nuova Europa oltre la crisi.
Si ricordi che nel 2001 la stessa Commissione europea, quella di Romano Prodi, poneva l’educazione, la ricerca, le persone al centro di una Strategia di Lisbona, che non faceva perno solo su una Green Economy, ma che voleva «greening the economy», cioè riorganizzare tutta l’economia europea sul principio di una qualità ambientale che oggi appare essere la via per uscire dalla crisi. Certamente tutto questo sembra inutile, oggi che tutti sono fermi sull’orlo del baratro, ma l’unico modo per non finirci dentro è ancora una volta allungare l’orizzonte e tornare a delineare una via di rilancio del Paese, di cui Taranto sia emblema e laboratorio. A breve bisogna capire come si possa gestire l’impresa in una situazione tanto difficile; la proprietà pone il tema di non poter più garantire produzione e quindi commercializzazione e quindi bloccare l’intero ciclo produttivo a Taranto e negli impianti connessi. Il sindacato pone il tema di non abbandonare la fabbrica, conscio che il primo momento di fuoriuscita dagli impianti può determinarne la disattivazione definitiva.
Il governo dovrà riattivare tutte quelle strumentazioni che permettano una gestione straordinaria dell’impresa e nel contempo, o meglio in parallelo, gestire la bonifica del sito. Bisognerà sostenere gli enti locali in una azione di ridisegno dell’intero contesto urbano e di una attentissima continua analisi della situazione, bisognerà essere presenti in Europa per ricordare che gli slogan europei su sostenibilità e inclusione richiedono una intelligenza collettiva e non solo brillantezza tecnica. Bisogna avere in questo momento una grande capacità di tenere uniti tutti i pezzi di questo gigantesco puzzle, ma questo è il mestiere proprio della politica, che non può più essere contrapposta alla tecnica, ma che deve dimostrarsi oggi più che mai competente e sensibile, e che proprio da qui, da Taranto, deve iniziare un suo nuovo percorso, al di là delle emergenze.
L’Unità 27.11.12
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LA RABBIA DEGLI OPERAI «NON USCIAMO DA QUI», di Marzio Cencioni
La doccia fredda alla fine del turno serale, prima che la notte cambiasse il cielo su Taranto. L’Ilva chiude, stop all’area a freddo e quindi produzione bloccata, perché non avrebbe senso continuare a fare colate senza poter far uscire dai cancelli nemmeno un etto di acciaio. Inimmaginabili i danni e le ripercussioni sul sistema produttivo italiano che viene alimentato, al 40%, dai prodotti Ilva. Intanto, pagano ancora gli operai, in questa storiaccia sempre tra l’incudine e il martello, a pagare il prezzo di altri. Un incubo che si materializza col blocco dei cartellini e con migliaia di dipendenti, oltre cinquemila, già messi in libertà, dopo quelli messi in ferie obbligate nei giorni scorsi. La situazione è così grave che il governo, forse per compensare la sua assenza dall’inizio della vicenda, ha convocato per giovedì prossimo alle 15 a palazzo Chigi le parti sociali e le istituzioni locali. L’azienda è stata lapidaria, comunicando «la chiusura, pressoché immediata, di tutta l`area attualmente non sottoposta a sequestro» e con la conseguente chiusura, entro pochi giorni, degli stabilimenti di Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica. Gli operai, spinti inizialmente dai capi ad uscire («tutti fuori»), hanno poi reagito, organizzando un’assemblea permanente dentro ai cancelli della portineria, sulla via Appia. «Invitiamo i lavoratori che devono finire il turno a rimanere al loro posto e a quelli che montando domani mattina di presentarsi regolarmente» ha dichiarato il segretario della Fiom Cgil di Taranto Donato Stefanelli. «Questo atteggiamento ricattatorio andate a casa aggiunge Stefanelli non esiste. Abbiamo chiesto cosa significa sul piano lavorativo, ma non lo sanno nemmeno loro. È un’azienda allo sbando e l’unica cosa che sa fare è mettere in atto una rappresaglia. Hanno subito i provvedimenti giudiziari e ora scaricano tutto sui lavoratori». Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil, tramite i loro dirigenti nazionali hanno chiesto di essere convocati dal governo, ribadendo una richiesta già fatta il 20 novembre: Monti intervenga chiedono e tuteli occupazione e salute pubblica. «Purtroppo dice il segretario generale Uil, Luigi Angeletti la catastrofe è arrivata. E, ancora una volta, purtroppo, i primi a pagare saranno gli operai dell’Ilva. Subito dopo pagheranno i cittadini di Taranto, perchè nessuno più risanerà l’ambiente». Sono passate poche ore dalla notizia della nuova bufera che ha colpito il colosso d’acciaio. Dallo spettro degli esuberi allo spettro della chiusura del più grande stabilimento d’Europa. E di tutti gli stabilimenti del gruppo in Italia che da Taranto si riforniscono di prodotti semifiniti per le lavorazioni a freddo. Solo a Taranto sono a rischio migliaia di posti di lavoro (12.000 i dipendenti diretti e altrettanti dell’indotto) e per la città è un’apocalisse sul piano occupazionale. Ma l’inquinamento dell’Ilva, secondo le perizie dei magistrati, provoca malattie e morte. BARATTO INFERNALE Dall’altro lato c’è il dramma dei lavoratori, alcuni dei quali vorrebbero tornare subito a manifestare, ad occupare gli impianti, a salire sugli altoforni. Perchè non è possibile barattare il diritto alla vita con il diritto al lavoro. «Questa vicenda sostiene il segretario generale della Uil Puglia, Aldo Pugliese riporta indietro di 17 anni, al 15 marzo 1995. Oggi si parla di ambiente venduto. All’epoca si parlava di Italsider svenduta. Queste sono le conseguenze di come sono state fatte le privatizzazioni in Italia e nella fattispecie l’Italsider». Il presidente di Peacelink, Alessandro Marescotti parla di «una ventata di legalità. Attendevamo un sussulto di giustizia ed è finalmente arrivato. A Taranto la cupola del malaffare ambientale comincia a crollare, colpo su colpo».
L’Unità 27.11.12
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“EFFETTO DOMINO, A RISCHIO VENTIMILA POSTI”, di Enrico Marro
Se chiude l’Ilva di Taranto, scompare l’ultimo grande impianto in Italia per la produzione di acciaio a ciclo integrale, dall’altoforno ai laminati, ai tubi. Per il gruppo Riva, quarto in Europa nella siderurgia, sarebbe un colpo durissimo. Per l’economia italiana un danno a catena, che colpirebbe, innanzitutto gli altri stabilimenti del gruppo (Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica), quindi l’indotto (oltre ai 12 mila dipendenti diretti, ce ne sono tra i 5 e i 7 mila che vivono dei servizi che ruotano intorno al megastabilimento, il più grande d’Europa, e i clienti, che vanno dal distretto metalmeccanico di Brescia all’industria degli elettrodomestici, dai cantieri navali al settore dell’auto, dall’edilizia al comparto dell’energia. Tanto che Federacciai-Confindustria ha quantificato in una cifra oscillante tra 5,7 miliardi e 8,2 miliardi di euro le ripercussioni negative sull’economia nazionale. Cioè qualcosa che può valere mezzo punto del prodotto interno lordo.
L’acciaio serve per fare viti, chiodi, bulloni e chiavi, dei quali l’Italia è grande produttrice. Ma anche per costruire navi, altro settore nel quale, nel segmento crociere, primeggiamo nel mondo, piattaforme offshore, caldaie e impianti industriali. Le lamiere d’acciaio danno forma alle lavatrici, alle automobili e ai treni, che oltretutto corrono sui binari. Gasdotti e oleodotti necessitano dei grandi tubi che escono dagli stabilimenti siderurgici. Le costruzioni e le ristrutturazioni vivono sull’acciaio: dai ponteggi esterni sui quali si muovono gli operai ai tondini per il cemento armato alle travi che sorreggono strutture e ponti. Le macchine industriali, altra leadership italiana nel mondo, non si muovono senza alberi di trasmissione e altri componenti in acciaio.
Taranto ha prodotto l’anno scorso circa 8 milioni di tonnellate di nastri e lamiere d’acciaio, ma negli anni che l’economia tirava ne ha sfornati anche 9-10 milioni, pari a più del 40% della produzione nazionale. Degli 8 milioni di tonnellate circa 5 sono andati a rifornire il mercato nazionale, da colossi come Fiat e Fincantieri alle piccole imprese dei distretti metalmeccanici. Tre milioni di tonnellate, invece, sono state esportate, la gran parte, 2,5 milioni, in Europa, dove la Germania è prontissima a prendere il nostro posto, e mezzo milione nel resto del mondo, dove la concorrenza cinese è sempre più agguerrita.
Se l’Italia dovesse importare i 5 milioni di tonnellate di acciaio che ora prende da Taranto, stima Federacciai, l’esborso verso l’estero oscillerebbe tra 2,5 miliardi e 3,5 miliardi, dipende dalle condizioni di prezzo e dalla congiuntura. Stessa cosa vale per le esportazioni, dove si perderebbero tra 1,2 e 2 miliardi di euro. Il danno per la bilancia commerciale andrebbe da un minimo di 3,7 miliardi a un massimo di 5,5 miliardi. A questi si devono aggiungere fra 750 milioni e 1,5 miliardi che gli attuali clienti dell’Ilva dovrebbero sopportare di maggiori costi per la logistica e gli oneri finanziari. Un altro miliardo andrebbe considerato per gli ammortizzatori sociali e 250 milioni per il calo dei consumi conseguente al tracollo dei redditi in tutta l’area di Taranto. Totale, appunto: minimo 5,7 miliardi, massimo 8,2 miliardi.
Secondo Rocco Palombella, segretario della Uilm, che all’Ilva di Taranto fu assunto nel lontano 1973, questi calcoli, oltretutto, non tengono conto del dramma sociale che si aprirebbe, «anche perché l’età media dei dipendenti è intorno ai 35 anni» e quindi non c’è ammortizzatore sociale che possa bastare. Dovrebbero trovare un altro lavoro. «Ma quale in quella zona?», si chiede il sindacalista.
Il Corriere della Sera 27.11.12