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“Una giornata tra gli operai: dramma sotto gli occhi di tutti, però serve il rilancio”, di Grazia Longo

Siamo al sud di uno degli 8 Paesi più industrializzati del mondo, ai confini con la prosperosa terra di Salento, con i ragazzini che sul lungomare smanettano sugli smartphone, eppure i racconti degli operai Ilva portano a tempi e luoghi lontani. La fabbrica che uccide e divora, di dickensiana memoria, abita qui a Taranto. Con contraddizioni ai limiti del grottesco. «Perché gli impianti sono talmente antiquati da non garantire la tutela alla salute» dice Biagio Prisciano, 38 anni, all’Ilva da quando ne aveva 24. Ma anche perché «al giorno d’oggi in un Paese come il nostro è vergognoso essere vittime di un ricatto psicologico che confonde il diritto al lavoro con quello alla salute» aggiunge Claudio Lucaselli, 42 anni, da 12 operaio al colosso siderurgico più grande d’Europa.
Claudio ha una moglie casalinga, un mutuo della casa da pagare e due figli di 12 e 16 anni. «La più grande frequenta il terzo liceo, lavoro perché possa avere un futuro migliore del mio» precisa Claudio, ed è l’unica volta in cui gli scappa un sorriso. Per il resto c’è poco da ridere. Anzi, sinceramente c’è quasi da piangere quando Claudio cita come «modello» la Thyssenkrupp. Non quella di Torino, dove 5 anni fa morirono bruciati vivi 7 operai, ma quella tedesca di Duisburg. «Un mese fa sono andato a visitarla con la Fiom – ricorda Claudio – e sono rimasto impressionato per l’efficienza e l’avanguardia dei macchinari. Un riferimento esemplare per la produzione dell’acciaio, consolidato già da molti anni. E allora mi sono chiesto com’è possibile che la Thyssen in Germania sia un gioiello mentre a Torino è stata la tomba per 7 miei colleghi. Evidentemente c’è un problema politico all’origine».
Ne è convinto anche il segretario tarantino della Fiom-Cgil, Donato Stefanelli: «È evidente che in Italia c’è qualcosa che non funziona nei governi che ci hanno amministrato. Non ha senso che qui noi, soprattutto nel quartiere Tamburi, dobbiamo fare la conta dei morti e dei malati di cancro per l’inadeguatezza del sistema industriale della famiglia Riva, mentre la Riva Group in Germania ha due aziende che operano nel totale rispetto dell’impatto ambientale e della salute».
Lo sciopero è l’unica arma nelle mani di questi operai che ieri, dopo aver occupato la direzione dello stabilimento in mattinata, hanno interrotto la manifestazione solo quando, nel primo pomeriggio, è stato raggiunto un accordo tra azienda e organizzazioni sindacali Fim, Uilm e Fiom. I successi strappati? Il pagamento delle giornate lavorative, nonostante la chiusura dell’area a freddo della fabbrica voluta dall’Ilva dopo il sequestro dei prodotti ordinato dalla magistratura, in attesa della sentenza del Tribunale del Riesame a cui ha fatto ricorso il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante. E ancora: la sospensione della cassa integrazione per 1492 operai .
La giornata di ieri non è stata, invece, pagata a causa dello sciopero protratto fino alle 23. «Ma ne è valsa la pena – dice Francesco Maggio, 40 anni, all’Ilva dal ‘96 -. Io rispetto ad altri sono fortunato, perché mia moglie lavora, fa le pulizie, e abbiamo una casa già pagata, ma il futuro è più che incerto. Abbiamo un figlio di un anno e due mesi e proprio l’altra sera io e mia moglie ci chiedevamo che fine faremo. Tra meno di un mese è Natale, ma dubito che potremo festeggiarlo con la serenità di chi ha uno stipendio su cui può contare». Per non parlare poi della pena di quelle famiglie di operai Ilva con un malato di cancro in casa. «Io e mia moglie abitiamo a 16 chilometri da Taranto – specifica Francesco -, ma mio suocero, anche lui dipendente Ilva, vive a Tamburi. Un suo vicino e collega di lavoro fa la chemioterapia e i suoi nipotini devono fare i conti con l’ordinanza del sindaco che vieta di giocare ai giardinetti perché sono inquinati».
Bambini e adulti che convivono con l’incubo della diossina. Bambini che stasera riceveranno dai loro padri un bacio della buonanotte dal sapore tra la speranza e la paura. È un sentimento misto, orientato però a sconfiggere lo spettro della rassegnazione, quello che domattina all’alba accompagnerà la delegazione di un migliaio di operai, in partenza su 12 pullman alla volta di Roma. «Il vertice a palazzo Chigi è assai importante – chiosa il segretario Fiom ma non credano di accontentarci solo con il decreto Clini, abbiamo bisogno di risposte concrete sul piano del rilancio tecnologico. Per il bene di Taranto, ma anche e soprattutto per il bene dell’intero Paese». Fiducioso si appresta all’incontro il segretario Fim-Cisl Vincenzo Castronuovo: «Il dramma che viviamo è sotto gli occhi di tutti. Il governo non ci può abbandonare in queste condizioni. Abbiamo l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale ndr) tra le mani, la magistratura faccia il suo corso ma la produzione deve andare avanti parallelamente al rispetto dell’impatto ambientale». Opinione condivisa da Antonio Talò, segretario UilmUil di Taranto: «L’Ilva deve riprendere a produrre e al contempo deve essere risanata». Ad una «soluzione ragionevole per tutti» aspira il presidente Ferrante che guarda al vertice romano come ad «un’opportunità in grado di difendere il sistema siderurgico italiano». Intanto davanti all’ingresso della direzione resta appeso uno striscione ricavato da un lenzuolo bianco. Si commenta da sé: «Senza lavoro nessun futuro».
La Stampa 28.11.12