attualità, lavoro

“Una prova per il governo”, di Patrizio Bianchi

Dopo averlo a lungo predisposta è arrivata la svolta per l’Ilva. Ancora una volta siamo arrivati al baratro, senza essere capaci di mettere in atto nessuna azione effettiva per reindirizzare le condotte della società e nel contempo per avviare quel piano di bonifica dell’impianto – e più in generale del contesto urbano – che avrebbe potuto costituire una occasione per dimostrare che l’intero Paese si poneva sulla via di una economia sostenibile. E questo sia dal punto di vista ambientale che sociale. La richiesta di un incontro urgente a Monti fa tuttavia il paio con la richiesta rivolta al governo di delineare una linea di politica industriale che ci porti fuori da una crisi, che sta colpendo il Paese. Il governo è intervenuto con mano durissima sulla vita dei cittadini, prima con l’intervento sulle pensioni, poi con le norme sul lavoro, poi con i continui tagli alla spesa pubblica, in particolare agli enti locali, che stanno portando a riduzioni vere dei servizi alle persone, e specialmente alle fasce più deboli della nostra società, già segnate da venti anni di ideologia della ineguaglianza.
Un tale sforzo può essere affrontato ed accettato solo se in cambio si offrono prospettive di maggiore eguaglianza e di una ripresa economica, che porti ad un maggior benessere per tutti. In questa straordinaria tensione fra le difficoltà attuali, che per molti significano sofferenza e rischio di emarginazione, e le promesse future stanno pochi atti concreti, nei quali ritrovare il segno di un cammino di speranza. Il caso Ilva, al di là delle vicende giudiziarie, assume oggi una importanza straordinaria per la nostra convivenza civile. Il governo deve trovare una soluzione che dia garanzia di ripresa di ruolo all’impresa ed avvii quella convergenza di azioni, che dimostrino che non si può rottamare un grande impianto, un’azienda, una città intera. Proprio perché siamo a fine legislatura, se il governo tecnico vuole lasciare un segno importante a quello che verrà, dimostri tutta la sua capacità tecnica, coinvolgendo in un grande piano-Paese, che parta proprio da Taranto, tutta l’intelligenza e la ricerca delle nostre università, coinvolga tutte le imprese, e sono tante, che possono trovare anche una crescita nel comparto dell’economia verde, spinga tutte le amministrazioni a convergere su un tale piano, che renderebbe credibile quell’insistente richiamo ad una Europa «intelligente, inclusiva e sostenibile», che viene richiamata come segno della Nuova Europa oltre la crisi.
Si ricordi che nel 2001 la stessa Commissione europea, quella di Romano Prodi, poneva l’educazione, la ricerca, le persone al centro di una Strategia di Lisbona, che non faceva perno solo su una Green Economy, ma che voleva «greening the economy», cioè riorganizzare tutta l’economia europea sul principio di una qualità ambientale che oggi appare essere la via per uscire dalla crisi. Certamente tutto questo sembra inutile, oggi che tutti sono fermi sull’orlo del baratro, ma l’unico modo per non finirci dentro è ancora una volta allungare l’orizzonte e tornare a delineare una via di rilancio del Paese, di cui Taranto sia emblema e laboratorio. A breve bisogna capire come si possa gestire l’impresa in una situazione tanto difficile; la proprietà pone il tema di non poter più garantire produzione e quindi commercializzazione e quindi bloccare l’intero ciclo produttivo a Taranto e negli impianti connessi. Il sindacato pone il tema di non abbandonare la fabbrica, conscio che il primo momento di fuoriuscita dagli impianti può determinarne la disattivazione definitiva.
Il governo dovrà riattivare tutte quelle strumentazioni che permettano una gestione straordinaria dell’impresa e nel contempo, o meglio in parallelo, gestire la bonifica del sito. Bisognerà sostenere gli enti locali in una azione di ridisegno dell’intero contesto urbano e di una attentissima continua analisi della situazione, bisognerà essere presenti in Europa per ricordare che gli slogan europei su sostenibilità e inclusione richiedono una intelligenza collettiva e non solo brillantezza tecnica. Bisogna avere in questo momento una grande capacità di tenere uniti tutti i pezzi di questo gigantesco puzzle, ma questo è il mestiere proprio della politica, che non può più essere contrapposta alla tecnica, ma che deve dimostrarsi oggi più che mai competente e sensibile, e che proprio da qui, da Taranto, deve iniziare un suo nuovo percorso, al di là delle emergenze.
L’Unità 27.11.12
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LA RABBIA DEGLI OPERAI «NON USCIAMO DA QUI», di Marzio Cencioni
La doccia fredda alla fine del turno serale, prima che la notte cambiasse il cielo su Taranto. L’Ilva chiude, stop all’area a freddo e quindi produzione bloccata, perché non avrebbe senso continuare a fare colate senza poter far uscire dai cancelli nemmeno un etto di acciaio. Inimmaginabili i danni e le ripercussioni sul sistema produttivo italiano che viene alimentato, al 40%, dai prodotti Ilva. Intanto, pagano ancora gli operai, in questa storiaccia sempre tra l’incudine e il martello, a pagare il prezzo di altri. Un incubo che si materializza col blocco dei cartellini e con migliaia di dipendenti, oltre cinquemila, già messi in libertà, dopo quelli messi in ferie obbligate nei giorni scorsi. La situazione è così grave che il governo, forse per compensare la sua assenza dall’inizio della vicenda, ha convocato per giovedì prossimo alle 15 a palazzo Chigi le parti sociali e le istituzioni locali. L’azienda è stata lapidaria, comunicando «la chiusura, pressoché immediata, di tutta l`area attualmente non sottoposta a sequestro» e con la conseguente chiusura, entro pochi giorni, degli stabilimenti di Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica. Gli operai, spinti inizialmente dai capi ad uscire («tutti fuori»), hanno poi reagito, organizzando un’assemblea permanente dentro ai cancelli della portineria, sulla via Appia. «Invitiamo i lavoratori che devono finire il turno a rimanere al loro posto e a quelli che montando domani mattina di presentarsi regolarmente» ha dichiarato il segretario della Fiom Cgil di Taranto Donato Stefanelli. «Questo atteggiamento ricattatorio andate a casa aggiunge Stefanelli non esiste. Abbiamo chiesto cosa significa sul piano lavorativo, ma non lo sanno nemmeno loro. È un’azienda allo sbando e l’unica cosa che sa fare è mettere in atto una rappresaglia. Hanno subito i provvedimenti giudiziari e ora scaricano tutto sui lavoratori». Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil, tramite i loro dirigenti nazionali hanno chiesto di essere convocati dal governo, ribadendo una richiesta già fatta il 20 novembre: Monti intervenga chiedono e tuteli occupazione e salute pubblica. «Purtroppo dice il segretario generale Uil, Luigi Angeletti la catastrofe è arrivata. E, ancora una volta, purtroppo, i primi a pagare saranno gli operai dell’Ilva. Subito dopo pagheranno i cittadini di Taranto, perchè nessuno più risanerà l’ambiente». Sono passate poche ore dalla notizia della nuova bufera che ha colpito il colosso d’acciaio. Dallo spettro degli esuberi allo spettro della chiusura del più grande stabilimento d’Europa. E di tutti gli stabilimenti del gruppo in Italia che da Taranto si riforniscono di prodotti semifiniti per le lavorazioni a freddo. Solo a Taranto sono a rischio migliaia di posti di lavoro (12.000 i dipendenti diretti e altrettanti dell’indotto) e per la città è un’apocalisse sul piano occupazionale. Ma l’inquinamento dell’Ilva, secondo le perizie dei magistrati, provoca malattie e morte. BARATTO INFERNALE Dall’altro lato c’è il dramma dei lavoratori, alcuni dei quali vorrebbero tornare subito a manifestare, ad occupare gli impianti, a salire sugli altoforni. Perchè non è possibile barattare il diritto alla vita con il diritto al lavoro. «Questa vicenda sostiene il segretario generale della Uil Puglia, Aldo Pugliese riporta indietro di 17 anni, al 15 marzo 1995. Oggi si parla di ambiente venduto. All’epoca si parlava di Italsider svenduta. Queste sono le conseguenze di come sono state fatte le privatizzazioni in Italia e nella fattispecie l’Italsider». Il presidente di Peacelink, Alessandro Marescotti parla di «una ventata di legalità. Attendevamo un sussulto di giustizia ed è finalmente arrivato. A Taranto la cupola del malaffare ambientale comincia a crollare, colpo su colpo».
L’Unità 27.11.12
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“EFFETTO DOMINO, A RISCHIO VENTIMILA POSTI”, di Enrico Marro
Se chiude l’Ilva di Taranto, scompare l’ultimo grande impianto in Italia per la produzione di acciaio a ciclo integrale, dall’altoforno ai laminati, ai tubi. Per il gruppo Riva, quarto in Europa nella siderurgia, sarebbe un colpo durissimo. Per l’economia italiana un danno a catena, che colpirebbe, innanzitutto gli altri stabilimenti del gruppo (Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica), quindi l’indotto (oltre ai 12 mila dipendenti diretti, ce ne sono tra i 5 e i 7 mila che vivono dei servizi che ruotano intorno al megastabilimento, il più grande d’Europa, e i clienti, che vanno dal distretto metalmeccanico di Brescia all’industria degli elettrodomestici, dai cantieri navali al settore dell’auto, dall’edilizia al comparto dell’energia. Tanto che Federacciai-Confindustria ha quantificato in una cifra oscillante tra 5,7 miliardi e 8,2 miliardi di euro le ripercussioni negative sull’economia nazionale. Cioè qualcosa che può valere mezzo punto del prodotto interno lordo.
L’acciaio serve per fare viti, chiodi, bulloni e chiavi, dei quali l’Italia è grande produttrice. Ma anche per costruire navi, altro settore nel quale, nel segmento crociere, primeggiamo nel mondo, piattaforme offshore, caldaie e impianti industriali. Le lamiere d’acciaio danno forma alle lavatrici, alle automobili e ai treni, che oltretutto corrono sui binari. Gasdotti e oleodotti necessitano dei grandi tubi che escono dagli stabilimenti siderurgici. Le costruzioni e le ristrutturazioni vivono sull’acciaio: dai ponteggi esterni sui quali si muovono gli operai ai tondini per il cemento armato alle travi che sorreggono strutture e ponti. Le macchine industriali, altra leadership italiana nel mondo, non si muovono senza alberi di trasmissione e altri componenti in acciaio.
Taranto ha prodotto l’anno scorso circa 8 milioni di tonnellate di nastri e lamiere d’acciaio, ma negli anni che l’economia tirava ne ha sfornati anche 9-10 milioni, pari a più del 40% della produzione nazionale. Degli 8 milioni di tonnellate circa 5 sono andati a rifornire il mercato nazionale, da colossi come Fiat e Fincantieri alle piccole imprese dei distretti metalmeccanici. Tre milioni di tonnellate, invece, sono state esportate, la gran parte, 2,5 milioni, in Europa, dove la Germania è prontissima a prendere il nostro posto, e mezzo milione nel resto del mondo, dove la concorrenza cinese è sempre più agguerrita.
Se l’Italia dovesse importare i 5 milioni di tonnellate di acciaio che ora prende da Taranto, stima Federacciai, l’esborso verso l’estero oscillerebbe tra 2,5 miliardi e 3,5 miliardi, dipende dalle condizioni di prezzo e dalla congiuntura. Stessa cosa vale per le esportazioni, dove si perderebbero tra 1,2 e 2 miliardi di euro. Il danno per la bilancia commerciale andrebbe da un minimo di 3,7 miliardi a un massimo di 5,5 miliardi. A questi si devono aggiungere fra 750 milioni e 1,5 miliardi che gli attuali clienti dell’Ilva dovrebbero sopportare di maggiori costi per la logistica e gli oneri finanziari. Un altro miliardo andrebbe considerato per gli ammortizzatori sociali e 250 milioni per il calo dei consumi conseguente al tracollo dei redditi in tutta l’area di Taranto. Totale, appunto: minimo 5,7 miliardi, massimo 8,2 miliardi.
Secondo Rocco Palombella, segretario della Uilm, che all’Ilva di Taranto fu assunto nel lontano 1973, questi calcoli, oltretutto, non tengono conto del dramma sociale che si aprirebbe, «anche perché l’età media dei dipendenti è intorno ai 35 anni» e quindi non c’è ammortizzatore sociale che possa bastare. Dovrebbero trovare un altro lavoro. «Ma quale in quella zona?», si chiede il sindacalista.
Il Corriere della Sera 27.11.12

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