Chiesuol, Enza, Giuseppina, Antonia, Esmeralda, Carmela, Alfina, Mariana, Vincenza, Rosina, Laila, Mariangela, Antonietta… via elencando fino ad arrivare a 105 nomi.
Sono tante le donne, ma la lista non è aggiornata al minuto, uccise dagli uomini dall’inizio dell’anno in Italia. Sdegno, dichiarazioni di circostanza, appelli, convegni, leggi e… arriva il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ne riparliamo perché dal 1999, con la risoluzione 54/134, le Nazioni Unite hanno voluto designare una data a questa piaga che sembra aver poco a che vedere con l’evoluzione dei costumi, con il benessere, con la scolarizzazione. Risollevo la questione, come tante volte ho fatto in questi ultimi anni, davanti al governo che tante volte si è impegnato ad assumere la lotta alla violenza contro le donne come un punto cardine del suo operato. Lo faccio, insieme ad altri parlamentari del Partito democratico, con un’interpellanza urgente al ministro del lavoro e delle politiche sociali al quale chiedo «quali misure abbia individuato per fronteggiare questa emergenza» e «se esista una raccolta ufficiale dei dati» perché non ha dello scientifico l’elenco fatto sulle pagine dei media dalle associazioni di e per le donne.
Mi sono domandata, mentre preparavo l’interpellanza in aula per lo stesso giorno in cui altre colleghe parlamentari sono impegnate nel seminario “Violenza sulle donne: verso la ratifica della Convenzione di Istanbul del consiglio d’Europa”, se queste nostre iniziative non si elidessero tra loro. Se essere in tante, ma separate in tante sigle e in tanti piccole battaglie, non ci allontanasse dall’obiettivo di vincere la guerra.
La violenza di genere, infatti, non è un problema di oggi, ma strutturale, ed emergeva già molto chiaramente nel 2007 nell’unica ricerca specifica effettuata dell’Istat, “Violenza e maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia”. Nella ricerca si evidenziava molto chiaramente che nel 2006 erano 6 milioni e 743mila le donne dai sedici ai settant’anni vittime di molestie o violenze fisiche sessuali nel corso della vita (una donna su tre tra i 16 ed i 70 anni); che circa un milione di donne era stata vittima di stupri o tentati stupri (il 4,8 per cento della popolazione femminile globale); il 14,3 per cento delle donne aveva subito almeno una violenza fisica o sessuale dal proprio partner; il 24,7 per cento delle donne aveva subito violenze da un altro uomo, mentre 2 milioni e 77 mila donne avevano subito comportamenti persecutori (stalking) dai partner al momento della separazione…
Numeri emblematici, gli ultimi di un qualche valore scientifico.
E allora? Allora, alla vigilia della XIII Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, facciamo i conti con un eterno problema e forse una nuova parola: femminicidio. Vorrei fare un appello all’unità di tutte noi, dovunque siamo. Insieme, senza protagonismi, possiamo chiedere al governo, nazionale e locale, di fare subito qualcosa a cominciare dalla ratifica della Convenzione di Istanbul e dalla raccolta, da parte dell’Istat, di dati statistici periodici sulla violenza ai danni delle donne e sul femminicidio.
da Europa Quotidiano 23.11.12
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“Legge di stabilità corretta. Ora è più equa ed efficace”, di Pier Paolo Baretta
La ragione di questo repentino cambio di rotta è dipesa, a mio avviso, dalla esigenza del governo di rassicurare le autorità europee ed i mercati del nostro stato di salute. Il ragionamento deve essere stato più o meno questo: se raggiungiamo il pareggio di bilancio e in più diamo un segnale di riduzione della pressione fiscale possiamo evitare di chiedere prestiti europei. Ma, la ragionevolezza di questa impostazione è franata nella scelta di merito. La decisione affrettata di ridurre l’Irpef, che dava un debole vantaggio generalizzato a tutti i contribuenti (ma proprio a tutti, anche a chi non ne ha bisogno) era annullata, soprattutto per i ceti medi e medio bassi, dalla introduzione dei tetti e delle franchigie sulle detrazioni e dalla conferma dell’aumento dell’Iva. Un errore grave dal punto di vista degli effetti redistributivi. Per riparare a questo errore era necessario un intervento chirurgico in profondità sul corpo della legge predisposta dal governo. Per garantirci che questo necessario intervento parlamentare potesse essere avallato dal governo stesso, senza che apparisse una totale smentita, era necessario offrire delle rassicurazioni. La più importante è stata quella di dichiarare da subito che ci saremo mossi all’interno dei saldi di bilancio. L’altra è stata quella di non smentire il governo sulla scelta di riduzione delle tasse. Per quanto improvvisata e sbagliata nel merito, l’intenzione è giusta. Sicché abbiamo contestato la soluzione adottata, non il principio.
Infine, nonostante le differenze di fondo che esistono tra noi del Pd ed il Pdl – che aveva esordito esordito con la richiesta impraticabile di abolizione dell’Imu – avevamo ben presente che una intesa di maggioranza poteva costringere il governo ad accettare cambiamenti profondi.
Una volta «sfondato» su questi tre capisaldi della nostra azione (stabilità dei saldi; riduzione della pressione fiscale; accordo di maggioranza) al governo non è rimasto che accettare il percorso da noi proposto e il progressivo ridisegno dei contenuti, facendo da garante che le coperture finanziarie fossero corrette. Si arriva, così, facilmente a capire la natura dell’intervento redistributivo da noi proposto, Tutti i principali Istituti (Banca d’Italia, Corte dei conti, Istat, per non parlare dei principali economisti ed attori sociali, convergono sul fatto che, in un periodo di recessione, la riduzione delle tasse più utile è quella sul costo del lavoro. Ecco, dunque, esplicitata la nostra proposta: utilizziamo le risorse destinate alla riduzione delle aliquote Irpef per alleviare il peso fiscale sul lavoro, la famiglia e l’impresa. Ma, bisognava tenere presente che se rinunciavamo al beneficio, pur modesto, che derivava dalla riduzione Irpef, non potevamo lasciare, così come le aveva proposte il governo, la franchigia (addirittura retroattiva!), il tetto e l’aumento dell’Iva, pena una… stangata fiscale di proporzioni inedite. Ma, togliere di mezzo tetto e franchigia costa. Eppure, dopo attente analisi, abbiamo convenuto che non c’erano soluzioni intermedie senza fare dei danni sociali. Una soluzione di compromesso, invece, si è resa possibile per l’Iva: evitare l’aumento dell’aliquota più bassa, quella del 10% che comprende i consumi più popolari.
L’esito di queste mosse ha pulito da molte storture la proposta iniziale del governo ed ha liberato un «tesoretto» da destinare alla nuova riduzione delle tasse. Si trattava, a questo punto, di scegliere la soluzione più conveniente. Le statistiche ci dicono la famiglia è il punto di snodo del disagio, il più grande ammortizzatore sociale. L’aumento, già dal 2013, delle detrazioni per i figli, compresi quelli sotto i 3 anni e disabili è un segnale netto a favore di una inversione di tendenza, che vale, a regime, 1300 milioni di euro. Si aggiunga, a completare il quadro, il rifinanziamento del fondo per le politiche sociali (300 milioni) e quello per la non autosufficienza (200 milioni) che era stato azzerato dal governo Berlusconi Tremonti.
Si tratta di una vera e propria manovra sociale, dunque, che ci dice che è possibile, pur nelle ristrettezze dell’attuale congiuntura, dare un significato concreto alla parola equità, tanto proclamata, quanto poco applicata. Ma, si è potuto anche allargare l’orizzonte e, a partire dal 2014, intervenire, per ridurre il costo del lavoro per l’impresa (attribuendovi 1 miliardo) e irrobustire il fondo per la produttività (con ulteriori 800 milioni). La strada della ripresa economica passa per un aumento della produttività generale dei fattori e per il rilancio degli investimenti. Questi due interventi a favore dell’impresa si muovono evidentemente su questa prospettiva.
In definitiva, quella approvata dal Parlamento è una nuova legge di stabilità, ben diversa da quella iniziale, più equa ed efficace; ma che non intacca gli equilibri finanziari. Forse, in questa esperienza, ci spiega il tanto dibattuto tema del rapporto tra «tecnici» e politici. Un governo tecnico è certamente attrezzato per mantenere in equilibrio i conti pubblici, ma solo un governo politico è in condizione di decidere, responsabilmente, dove allocare le risorse, a quali priorità dedicare la propria azione. La legge di stabilità ci dice che una fase politica è terminata ed è una conclusione di una complicata legislatura. Un buon viatico per il lavoro futuro che ci attende a breve.
l’Unità 23.11.12
“È ora di fermare il rigurgito nero nella capitale e nel Paese”, di Vittorio Emiliani
Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, la butta sul «tecnico», «teppismo da stadio trasferito nel centro storico». Non è così: il violentissimo, organizzato raid del pub «Drunken ship» sembra non avere granché a che fare col tifo laziale. La polizia propende per una matrice politica e razzista.
Tottenham è storicamente il quartiere della comunità ebraica e i bianchi, gli Spurs, ne sono calcisticamente il simbolo dalla fine dell’800. Il termine «ebrei» è risuonato distintamente fra le grida esagitate dei violenti che, spalleggiati da numerosi camerati rimasti fuori a bloccare il locale, hanno preso a mazzate i ragazzi inglesi seduti a bere e a cantare distruggendo il pub. Non a caso fra i primi fermati c’è un tifoso romanista. Quindi, la spedizione, chiaramente preparata e mirata, aveva una connotazione politica razzista, anti-ebraica. Altro che «teppismo da stadio».
La gara con Tottenham era stata pensata dalla società anche come occasione per festeggiare il ritorno a Roma di un campione inglese tanto geniale (e amato) quanto scervellato: Paul Gascoigne detto «Gazza» biancoazzurro per tre campionati.
Inoltre la Lazio punta a salire in alto in Europa dove si sta comportando molto bene. Non ha quindi nessun interesse ad arroventare la vigilia. È vero che in passato la tifoseria laziale più estrema aveva accolto a Roma con scritte antisemite un atleta esemplare, Aaron Winter, ebreo e nero. È vero che nella gara di andata a Londra i laziali avevano più volte fischiato due giocatori del Tottenham di origine israelita e lo stesso è avvenuto ieri sera con i cori razzisti urlati durante la partita. Ma il gravissimo episodio di Campo de’ Fiori ha connotazioni più prettamente «politiche». Lo dimostra anche il fatto che due degli arrestati per il raid al pub di mercoledì notte siano tifosi romanisti.
Da quando Gianni Alemanno ha salito la scala del Campidoglio salutato da una selva di saluti romani, la sottocultura della violenza politica, della compiacenza verso storia e attualità dello squadrismo è riemersa di continuo. A Casapound è stato lasciato fare, in pratica, di tutto, senza cercare di evitare il clima di scontro. La violenza in sé è stata minimizzata, nonostante aggressioni, ribalderie contro i «diversi», incursioni nelle scuole.
Comportamenti squadristici autorizzati dal lassismo (o nullismo) del Campidoglio. Del resto, quando questa giunta promuove ad incarichi significativi personaggi appartenuti al terrorismo «nero» (a Roma micidiale), essa dà un segnale preciso. Si è obiettato che avevano scontato le pene irrogate. Ma, a parte il fatto che non si trattava di dissociati (i Nar sono rimasti impermeabili alla dissociazione), promuoverli ad alti gradi, farne un pezzo di classe dirigente ha avuto un senso inequivocabile.
Come quando nel Comune di Affile (Roma) si è elevato al generale Rodolfo Graziani, colonialista spietato, firmatario dei famosi «bandi» di Salò, rastrellatore di partigiani, un sacrario con finanziamento della Regione Lazio. Come quando a Predappio si lasciano organizzare raduni «nostalgici» vergognosi lasciando sola l’amministrazione comunale di centrosinistra. Non è ancora giunta l’ora di fermare con decisione questo pericoloso rigurgito «nero», a Roma e nel Paese?
L’Unità 23-11-12
“Tempo pieno (2): le ore della verità”, di Pippo Frisone
Quel che è successo al tempo pieno si riassume nelle poche tabelle sugli organici, relative al 2012/13. Il tempo pieno in Italia è passato dal 24,15% del 2007/08 al 30,6% del 2012/13 portando le classi da 33.224 a 39.735 (+5,45%). Il totale delle classi nello stesso periodo cala progressivamente da 137.598 a 132.198 (-4,08%). Gli organici di diritto nel triennio dei tagli 2009/10-2010/11-2011/12 passano da 225.450 a 198.339 (-27.111) pari al 13,66% in meno.
Questi dati nazionali dimostrano che in presenza di una diminuzione costante delle classi dovuta al calo della natalità e contemporaneamente di un costante aumento delle classi a tempo pieno, i tagli che hanno colpito soprattutto i moduli ( due su tre ) non potevano non colpire anche il tempo pieno.
E cosi è stato. Con l’abolizione per regolamento delle compresenze nel tempo pieno, le 4h mantenute in organico d’istituto, sono state utilizzate dalle scuole in larga parte per mantenere un tempo lungo a 30h anche laddove si riceveva una dotazione a 27h.
Infatti i due modelli che si sono maggiormente rafforzati negli ultimi anni sono due: quello a tempo pieno e quello a 30h.
Questa situazione risalta con forte evidenza soprattutto in alcune regione del nord, Lombardia in testa, dove non solo aumenta la richiesta di tempo pieno ma di pari passa aumenta anche il numero degli alunni e quindi delle classi.
Qui per far fronte alle richieste delle famiglie concentrate prevalentemente sui due modelli a 40h e a 30h. si è agito direttamente tagliando nell’assegnazione dell’organico alle scuole le ore di compresenza.
A Milano, tanto per fare l’esempio più emblematico di tagli alle compresenze, le classi a tempo pieno nello stesso periodo sono passate da 6.885 a 7.034 per un totale di 309.496 ore (310.757 secondo le tabelle iniziali dell’USR Lombardia).
I criteri adottati dal A.T. di Milano sono stati per l’as. 12/13 quelli di attribuire al tempo pieno nelle classi 1° (1.356) e 2° (1.441) 40h mentre nelle 3°(1.332) – 4°(1.462) e 5°(1.429) solo 41h delle 44h spettanti.
Il risultato finale al termine di questa operazione dà su Milano 285.023 ore, cioè 24.473 in meno di quelle spettanti che ricondotte a 22h danno ben 1.112 posti in meno!
Certo il dato è teorico perchè è quello complessivo sulla provincia. L’A.T. di Milano ha in molti casi operato alcuni correttivi sulle ore residue, prevedendo arrotondamenti per difetto e per eccesso a seconda dei casi.
Rimane comunque un taglio consistente di oltre un migliaio di posti, a scapito delle 4 ore di compresenza per classe , azzerate in prima e seconda e ridotte a una sola ora nelle restanti classi.
Ma perché si è verificato tutto questo? Eppure i decreti e le circolari del Miur assegnano in organico il raddoppio pieno con le ore 44h su ogni classe a tempo pieno.
Ovviamente tutto nasce dalle decisione prese a monte dal Miur ( art.64 L.133/08) che avevano previsto un taglio nel triennio 09/12 di oltre 27mila posti nella scuola primaria .
Di conseguenza, a prescindere dall’aumento delle richieste di tempo pieno da parte delle famiglie e dall’aumento degli alunni , quei tagli sono stati rispalmati tra tutte le regioni, con correttivi e varianti d’ordine socio-ambientale che oggettivamente hanno penalizzato le regioni del nord in forte crescita di alunni e classi a tempo pieno come la Lombardia.
Infatti la popolazione scolastica della primaria è aumentata in regione Lombardia negli ultimi dieci anni del 15% mentre le classi del tempo pieno del 10%.
Eppure i posti, sono diminuiti anche in Lombardia per effetto dei tagli a prescindere della Gelmini, più di quanto la sola abolizione dei vecchi moduli avrebbe consentito.
La situazione di Milano, come si è visto, è quella di maggior sofferenza .
Qui i posti rispetto a quelli spettanti sulla base della tipologia del tempo scuola prescelto dalle famiglie sono sottostimati di un migliaio di unità.
A farne le spese è soprattutto il modello didattico-pedagogico del tempo pieno che è stato rovesciato come un calzino, perdendo tutte le caratteristiche originarie e diventando di fatto un tempo lungo di 40h.
Riuscirà il costituendo organico funzionale dell’autonomia a riequilibrare quanto oggi è squilibrato?
Riuscirà il tempo pieno a recuperare tutte le ore (44h) spettante ad ogni classe ?
Riuscirà il tempo pieno a rinnovarsi e a salvare il meglio della sua quarantennale esperienza?
A queste domande difficilmente riuscirà a rispondere il governo dei tecnici.
Ci auguriamo che almeno quello che uscirà dalle urne ci riesca.
O perlomeno ci tenti.
Tempo pieno 1
da Scuola Oggi 23.11.12
“Cgil, sui precari il Governo non la dice giusta: sono 230mila, l’apice nella scuola”, da La Tecnica della Scuola
Altro che qualche migliaio, come sostiene la Funzione Pubblica: per il sindacato siamo di fronte ad una vera e propria “bomba sociale”. Solo tra docenti e Ata si contano 70mila supplenti annuali. A complicare le cose “la Spending Review che elimina posti di lavoro e le ultime manovre”. Il Governo non può abbandonare questi lavoratori: servono le proroghe. Ogni tre precari “stabili” dell’amministrazione pubblica appartengono alla scuola. A sottolinearlo è la Cgil, dopo una ricognizione sui contratti precari del pubblico impiego svolta nei giorni in cui la Funzione Pubblica ha riavviato quel tavolo sul precariato chiesto da tempo e a gran voce dai sindacati.
Secondo le stime del sindacato Confederale, i precari con contratto in scadenza che operano nel pubblico sono circa 230 mila precari. “Una vera e propria bomba sociale – sostiene la Cgil – che potrebbe esplodere il 31 dicembre”, quando cioè alla gran parte degli oltre 160 mila precari della pubblica amministrazione scadrà il loro contratto di lavoro. Senza dimenticare che al termine dell’anno scolastico saranno oltre 70 mila persone del settore scuola a ritrovarsi senza contratto, senza stipendio e senza lavoro, per la scadenza del loro contratto annuale”.
Considerando le difficoltà lavorative, con il tasso di disoccupazione in aumento, il sindacato sostiene che”questa bomba deve essere disinnescata attraverso un provvedimento urgente di proroga immediata dei contratti precari in scadenza”.
Nella sua ricognizione sul fenomeno del precariato la Cgil punta il dito contro “l’effetto perverso” determinato da una legge come “la Spending Review che elimina posti di lavoro e le ultime manovre che tagliano il lavoro precario”. Sul primo punto, spiega la Cgil, “la manovra di taglio delle dotazioni organiche delle amministrazioni centrali, tra questi ministeri, enti previdenziali, agenzie fiscali, enti di ricerca e altro, ha portato a 4.028 posti di lavoro in meno e ad altrettante eccedenze di lavoratori”.
Manca da questo conto, infatti, “l’Inps, il Ministero degli Interni, degli Esteri e dell’Economia, così come non ci sono le agenzie fiscali e la stessa Presidenza del Consiglio”. Non è quindi rappresentato un pezzo dello stato centrale ma allo stesso tempo non è conteggiato tutto l’universo degli enti locali: “Continuano a mancare poi Comuni e Province, queste ultime sconvolte dalle nuove dimensioni territoriali e dalle funzioni sottratte che coinvolgono migliaia di lavoratori con moltissimi precari”. Per fare solo un esempio “non è ancora chiaro il destino delle oltre 5 mila persone che lavorano nei Centri per l’impiego”.
Ma accanto a questi numeri “sta per esplodere il tema del lavoro precario nelle amministrazioni pubbliche”, afferma la Cgil. I dati “assolutamente parziali” forniti dal Ministero della Funzione pubblica il 21 novembre parlano di 5.900 precari (tra tempi determinati, Cococo e interinali) il cui contratto di lavoro scade entro la fine dell’anno o al massimo entro giugno del prossimo”.
Ma per il sindacato guidato dalla Camusso si tratta di “una goccia nel mare del precariato esistente: il vasto mondo del precariato è costituito da 90 mila contratti a tempo determinato, 12 mila interinali, 18 mila Lsu e 42 mila contratti di collaborazione. Il tutto per un totale di 162 mila lavoratori che rischiano il non rinnovo dei contratti di lavoro”.
Per la Cgil, la dimostrazione della “emergenza precariato” si rileva nei numeri della scuola. “In questo segmento contiamo 200 mila lavoratori presenti nelle graduatorie, di questi 70 mila lavorano con un contratto annuale che scadrà entro la fine dell’anno scolastico”. Ecco perché la Cgil parla di “bomba sociale” e di “emergenza precariato”, ovvero “il dramma che vivono questi lavoratori che non hanno prospettive di rinnovo mentre l’intero sistema pubblico rischia il collasso senza il loro lavoro”. Ed è per questo che il sindacato di corso d’Italia chiede “una proroga immediata dei contratti di lavoro precari, anche attraverso un provvedimento urgente che garantisca ai tantissimi lavoratori precari in servizio da più anni, e addetti alle funzioni fondamentali del sistema pubblico, il mantenimento del lavoro. Sarebbe grave se il Governo – conclude la Cgil – continuasse ad ignorare il problema rendendosi in tal modo responsabile di licenziamenti di massa”.
La Tecnica della Scuola 23.11.12
“La battaglia delle donne perché balliamo in piazza”, di Elena Stancanelli
Domenica Menna era a lavoro, alla guida di uno scuolabus. Giustiziata. Francesca dormiva nel suo letto, come Rosanna. Giustiziate. Gabriella era in macchina accanto al suo assassino, Antonia aveva appuntamento con lui, per strada… giustiziate giustiziate giustiziate. Sono più di cento dall’inizio dell’anno.
Nessuna di loro stava tradendo, o raccogliendo le sue cose per andarsene, quando è stata ammazzata. Cento donne inermi, uccise a freddo come farebbe un killer. Invece i loro assassini sono uomini che conoscevano bene. Cento donne diverse, giovanissime, madri, professioniste, migranti, e un’unica responsabi-lità: essere femmina.
Come si può comprendere e quindi combattere un crimine, che si fonda su una motivazione tanto spaventosa, irrazionale, disincarnata? Inaspriremo la pena, faremo del femminicidio un reato che prevede l’ergastolo. Ma questo orrore, questa mostruosa guerra civile, la si combatte soprattutto nella testa delle persone. Cosa dovremmo modificare, perché non si verifichino le circostanze che armano la mano di un uomo? Dovremmo imparare insieme a loro ad uscire da una relazione, così come ci sembra divertente e senza conseguenze entrarci. Quanto coraggio ci vuole a strapparsi via di dosso la persona alla quale hai dato tutta la tua intimità, i giorni, il corpo? Eppure dobbiamo riuscirci, se noi abbiamo prodotto questa serialità sentimentale, e fare in modo che quella disperazione non generi mostri, fantasmi. Un uomo che uccide una donna — la donna con cui un tempo faceva l’amore, figli, sogni — deve averla cancellata, non ricordare più neanche più il suo nome. Deve aver fatto di lei un simbolo, una sagoma di cartone sulla quale sparare per sfogarsi. Contro questa follia, il 25 novembre è stata proclamata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E per tutta la settimana che segue ci saranno incontri, piazze, spettacoli, grazie alla devozione e la fatica di Snoq (Se non ora quando).
“Ferite a morte” è il titolo dello spettacolo scritto da Serena Dandini, dove le storie di cronaca verranno raccontate da intellettuali e attrici: Paola Cortellesi, Anna Bonaiuto, Concita de Gregorio… E sarà inoltre l’occasione per lanciare un’altra giornata, quella del 14 febbraio 2013. One billion rising: in piedi, e balliamo. L’ha immaginata Eve Ensler, l’autrice dei Monologhi della Vagina, e sarà una festa in tutto il mondo. Un giorno speciale nel quale le donne, e gli uomini, manifesteranno per lo sforzo di capirsi, di mettere da parte paure e reciproche diffidenze, e immaginare un riconoscimento del diritto ad amarsi e lasciarsi, ad essere felici e infelici. E dove tutto questo è ancora lontano a venire, semplicemente a poter essere femmina senza l’incubo dello stupro, la violenza, l’impossibilità di lavorare, camminare per strada da sola, vivere. Molte persone, famose e non, hanno già aderito, e balleranno. Di tutto quanto potrà essere fatto, questo ballo mondiale mi sembra che risponda con più precisione a quell’idea di libertà del corpo, a quella necessità di tornare a guardarsi come persone e non come fantasmi di un’ossessione. Racconta la mitologia che Tiresia, l’indovino, un giorno passeggiando vide due serpenti intrecciati in un amplesso. Ne uccise uno, per sfregio. La femmina. Per punizione fu tramutato all’istante in una donna. Da donna visse e amò per sette anni. Fin quando, incontrando di nuovo due serpenti avvinti in un identico accoppiamento, ne uccise di nuovo uno. Il maschio, stavolta. E per questo tornò a essere un uomo. Qualche tempo dopo Zeus ed Era lo interpellarono, non riuscendo a risolvere una disputa che li divideva: sono gli uomini o le donne a provare più piacere sessuale? Tiresia rispose che se il piacere potesse essere diviso in dieci parti, una sarebbe quella dell’uomo e nove quelle della donna. Era, furibonda, lo accecò: certi segreti non si rivelano. Zeus, per consolarlo, gli donò la facoltà di prevedere il futuro. Qualunque sia la verità, più o meno è questo il campo di battaglia. Quello che non sappiamo le une degli altri, un mistero che talvolta ci sembra sublime, e fa scattare il nostro desiderio, altre orrorifico. Un male dal quale non c’è scampo, se non attraverso la distruzione. Ma seppure il corpo è la contesa, il corpo, ovviamente, è anche il confine invalicabile. Scriveva Walt Whitman “If anything is sacred/the human body is sacred”.
La Repubblica 23.11.12
“L’ultima brutta legge ad personam”, di Cesare Martinetti
Il pessimo dibattito sulla riforma della diffamazione sta partorendo una legge pessima e paradossale, che salva i direttori dall’omesso controllo, ma non cancella l’assurdità del carcere per i giornalisti. È l’ultima norma ad personam, come se questo Parlamento non sapesse fare altro, incapace di affrontare i problemi dal punto di vista dell’interesse pubblico e generale. Salvo il direttore de «il Giornale» Alessandro Sallusti, condannato a 14 mesi per aver diffamato una magistrato con una notizia falsa e mai rettificata; a mare tutti gli altri, condannati e condannabili.
Senza alcuna vergogna la legge è stata definita «salva direttori», come per confermare l’istintivo senso subalterno della funzione legislativa di questo Parlamento in scadenza.
Come se le leggi, che devono essere fatte nell’interesse di tutti, dovessero invece rispondere a bisogni e contingenze particolari, su comando, ad personam, appunto. È così che il Parlamento dei «nominati» secondo sistema elettorale passato alla storia come «Porcellum», ha inteso il suo ruolo, prima con Silvio Berlusconi, poi con il direttore del giornale di famiglia.
Accanto a questo c’è poi una rivalsa trasversale e bipartisan della politica nei confronti di giornali e giornalisti. Mai come in questi ultimi anni le due «caste», da sempre contigue e spesso complici, si sono trovate su strade separate e opposte. Una politica malata ha generato un’antipolitica avvelenata e un giornalismo fazioso. Il risultato è questa cacofonia con la quale abbiamo a che fare ogni giorno nella quale si è smarrito il filo di un discorso pubblico condiviso. Il dibattito isterico e vendicativo nel quale si è svolta la discussione intorno alla diffamazione ne è la prova.
Naturalmente la questione andava affrontata, discussa, riformata e regolata. Se ne parlava da anni. Si arriva a conclusione nel modo peggiore. Nel mondo di Internet, in cui i giornali diventano produttori ed elaboratori di informazione su piattaforme diverse e multimediali – carta e digitali – il reato di omesso controllo per i direttori non era più sostenibile. Ma anche per i giornalisti la minaccia del carcere appare anacronistica, vessatoria, sbagliata. E sia chiaro che non lo diciamo per una banale difesa corporativa. Noi riteniamo che i giornalisti che diffamano per superficialità o mancanza di professionalità o – peggio – per scelta editoriale devono essere sanzionati. Ci sono molti modi, a cominciare dal risarcimento civile accanto alla condanna penale. Ma la minaccia del carcere – dove poi non ci finisce mai nessuno – è soltanto un’inutile, arrogante e retorica prova di forza simbolica dettata dalla frustrazione dei politici.
Giustamente la categoria dei giornalisti – che peraltro non ha mai davvero discusso questo problema – si è indignata e la Federazione della stampa – il sindacato – ha proclamato per lunedì lo sciopero dell’informazione. Ma anche questa reazione che ha un sapore antico e assomiglia tanto a un riflesso pavloviano, ha senso? È efficace? Risponde alla necessità di cambiare le cose? Noi pensiamo di no, ci sembra un’iniziativa speculare e sbagliata a una legge sbagliata. I giornalisti hanno un grande potere e una grande responsabilità che si esercita dando informazioni, trasmettendo idee e discussioni, affrontando i problemi. Non tappandosi la bocca. E questo sciopero sarà tanto più paradossale perché il giornale da cui ha preso le mosse questa sciagurata vicenda – «il Giornale» di Alessandro Sallusti – come fa ormai da molti anni non parteciperà alla protesta. Esito grottesco tanto più anacronistico nel mondo d’oggi quando per effetto di Internet l’informazione – buona, cattiva, qualunque – è diventata il rumore di fondo della nostra vita. Questo sciopero è un regalo alla cattiva politica e al cattivo giornalismo.
La Stampa 23.11.12