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Giornalisti: Ghizzoni, attendiamo pareri per via libera a equo compenso

“Oggi la commissione Cultura della Camera ha iniziato l’esame in terza lettura e in sede legislativa della proposta di legge sull’equo compenso nel settore giornalistico, per la quale non sono stati depositati emendamenti. – lo annuncia Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati – Per approvare in via definitiva il provvedimento la Commissione dovrà attendere i pareri delle commissioni Affari Costituzionali, Giustizia, Bilancio, Trasporti e Lavoro. Mi auguro – conclude la Presidente Ghizzoni – che anche le altre Commissioni comprendano l’urgenza per l’approvazione di una norma attesa da migliaia di precarie e precari dell’informazione.”

Legge di stabilità 2013 – Camera dei Deputati – dichiarazione di voto del capogruppo Pd Dario Franceschini

Signor Presidente, noi voteremo a favore della legge di stabilità, una legge che approviamo ad un anno esatto dalla nascita del Governo Monti e a pochi mesi dalla conclusione della legislatura, quindi, è effettivamente il momento di fare un bilancio.
Noi abbiamo affidato a lei, Presidente Monti, la missione di salvare il Paese che – lo ha ricordato il Presidente Casini – nel novembre di un anno fa era sull’orlo del baratro, con lo spread a 575, con i rischi della speculazione internazionale e in quel momento abbiamo responsabilmente scelto di non andare ad elezioni anticipate, ma di dare la priorità agli interessi del Paese rispetto all’interesse del nostro partito. La ringraziamo oggi per la credibilità personale che ha messo a disposizione del Paese, per le competenze, per il lavoro difficile di questo anno.
Sapevamo che era un lavoro difficile trovarci tra avversari politici a sostenere lo stesso Governo, sapendo che siamo avversari e che saremo avversari alle prossime elezioni politiche, venendo dalla durezza di uno scontro passato, con distanze molto forti su molti punti di programma. Sapevamo che era una sfida difficile, ma tutti i partiti che hanno deciso di sostenerla l’hanno accettata. Noi del PD abbiamo scelto la strada del sostegno leale.
Ora, da lontano, dalle cancellerie più lontane, si può immaginare, sbagliando, che l’Italia sia un sistema presidenziale in cui si mette una persona a guidare il Governo che decide. Noi sappiamo, lei sa, che ogni norma, ogni proposta emendativa, ogni virgola di qualsiasi provvedimento è stata proposta dal Governo, nei decreti-legge, e approvata qui e al Senato attraverso una sintesi, attraverso una mediazione tra i gruppi, quasi mai siamo arrivati ad uno scontro sui voti, sempre nella ricerca di un miglioramento, per noi, per il Partito Democratico, sempre cercando di correggere e di migliorare ogni vostra proposta nel senso dell’equità e della giustizia sociale. Lo abbiamo fatto dall’inizio, sul «salva Italia», salvando l’indicizzazione delle pensioni, difendendo l’articolo 18 sul mercato del lavoro, sulla spending review, e così abbiamo fatto su questa legge di stabilità. Abbiamo detto che non andava bene, che andava cambiata e che andava migliorata. Voglio ringraziare davvero i due relatori, la Commissione bilancio e il suo Presidente che l’hanno migliorata nel senso dell’equità (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Certo, ci sono cose da cambiare al Senato, cito soltanto la non autosufficienza, i malati di SLA, ma è soprattutto il Patto di stabilità interno che va cambiato. Vogliamo dirlo, noi stiamo, senza esitazione, a fianco dei sindaci italiani (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Abbiamo migliorato il testo in moltissimi punti e, come avevamo detto, senza toccare i saldi di bilancio. Abbiamo evitato l’aumento dell’IVA su i beni di prima necessità, che avrebbe colpito la povera gente. Abbiamo evitato il taglio dell’IRPEF anche sui redditi alti e altissimi. Abbiamo abolito la franchigia di 250 euro sulle spese deducibili, comprese quelle sanitarie, e il tetto di 3 mila euro compresi i mutui. Abbiamo reintrodotto l’esenzione IRPEF sulle pensioni di guerra, c’è da fare adesso quella sulla reversibilità. Abbiamo incrementato le detrazioni per i figli a carico da 150 a 500 euro in più. Abbiamo ridotto l’IRAP attraverso le deduzioni e effettuato molti interventi sociali: rifinanziato il fondo per le politiche sociali di 300 milioni di euro; aumentato il fondo per la non autosufficienza, compresi i malati di SLA; stanziati 50 milioni di euro per le borse di studio; salvaguardati altri 10 mila esodati, e proseguiremo; abrogato l’aumento delle ventiquattr’ore ai docenti della scuola, un’altra botta sbagliata al modo della scuola che avrebbe portato a meno qualità dell’insediamento e a trasformare 50 mila precari in altrettanti disoccupati (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Abbiamo rifinanziato la cooperazione internazionale, riaperto il turnover delle Forze armate e delle forze dell’ordine, aumentato il fondo di produttività, evitato l’aumento dell’IVA alle cooperative sociali e il taglio ai patronati sindacali. E poi, all’ultimo momento, abbiamo stanziato i primi – solo i primi – 300 milioni di euro per le calamità naturali, compresa la Toscana. Altro che assalto alla diligenza, io penso che la Camera, tutta la Camera, debba essere orgogliosa del lavoro che è stato fatto sulla legge di stabilità (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Il limite di questo anno è quella rappresentazione: tecnici bravi da una parte e politici dall’altra. A parte che, dopo un anno, è finito il periodo di apprendistato, il periodo di prova e siete politici come noi a tutti gli effetti, avendo fatto i Ministri e guidato il Governo, ma soprattutto su questa rappresentazione forzata: Governo virtuoso-Parlamento ozioso, noi qui rivendichiamo il ruolo del Parlamento. Ricordiamo che il Governo nel nostro sistema è espressione delle Camere e vive nel rapporto fiduciario con il Parlamento e soltanto al Parlamento risponde. Per questo abbiamo il dovere di reagire a quella rappresentazione del Parlamento che frena su tutto. È importante non per noi, ma per la Costituzione, perché noi singoli deputati possiamo anche vivere come un dolore la mortificazione individuale, ma è il Parlamento che non può essere mortificato (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Un prezzo di questo lavoro di ricostruzione della credibilità delle istruzioni sarà nella prossima legislatura, ma passa anche attraverso questo anno. In un anno abbiamo provato 90 leggi, abbiamo convertito, migliorandoli, 27 decreti-legge. È un lavoro talmente ampio che il Governo – sono dati de Il Sole 24 Ore, di quell’indagine semestrale molto interessante che fa – di fronte a questa mole di norme, a novembre aveva trasformato in provvedimenti applicativi dovuti soltanto il 17,4 per cento delle leggi approvate, e il lavoro dell’Esecutivo non è soltanto produrre norme, ma anche applicarle dopo che il Parlamento le ha approvate. Ma oltre a questo, oltre al ruolo parlamentare di tutti i gruppi di maggioranza, c’è il ruolo e il lavoro dei partiti. Io credo che nelle cancellerie più lontane dal nostro Paese, e molti editorialisti nostrani, si dovranno pur chiedere perché in Grecia e in Spagna, di fronte a misure adottate magari meno difficili e meno dolorose delle nostre, sono scoppiate tensioni e conflitti sociali di ogni tipo, e in Italia no. Ciò perché i partiti che sostengono il Governo e le forze sindacali, responsabilmente si sono fatti carico di spiegare al Paese, pur avendo il problema del consenso, il perché di tante scelte difficili ed inevitabili, e hanno fatto opera di filtro e di mediazione sociale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). E il PD ha fatto prima di tutto questo.
Allora, e concludo, la risposta all’antipolitica non è rinunciare alla politica, la risposta all’antipolitica è la buona politica. Io spero che le primarie del Partito Democratico, domenica prossima, e spero in dicembre quelle del PdL, siano una risposta proprio in questo senso: buona politica, partecipazione e ascolto. E buona politica è anche e soprattutto restituire le scelte ai cittadini. L’articolo 1 della nostra Costituzione dice: «La sovranità appartiene al popolo». Al popolo, non ai mercati e ai grandi interessi finanziari (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Alle prossime elezioni la parola tornerà ai cittadini. Finirà la transizione. Ci sarà chi vince e governerà, e chi perde e farà l’opposizione e, comunque vada, chiunque vinca, sarà una bella giornata per la democrazia italiana, un nuovo inizio per la democrazia italiana che noi vogliamo torni ad essere orgogliosa delle proprie istituzioni repubblicane, a cominciare dal Parlamento (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
www.partitodemocratico.it

“Un preside su tre ha più di 60 anni”, di Lorenzo Salvia

Forse non è una sorpresa, visto che il record è ben saldo nelle nostre mani per le categorie più diverse: dai politici ai manager, dai vescovi ai professori universitari. Ma se tutti sappiamo che l’Italia è un Paese per vecchi, al lungo elenco delle prove possiamo aggiungere un’altra voce. Abbiamo i presidi più anziani d’Europa. L’85% ha più di 50 anni contro una media europea del 60%. E uno su tre ha superato pure i 60 anni. L’esperienza è un patrimonio che non va sprecato, ci mancherebbe. Ma forse abbiamo esagerato e anche l’accesso alla professione non aiuta.
L’ultimo concorso per presidi, partito un anno e mezzo fa, non si è ancora chiuso. Trentamila partecipanti, errori nelle domande, ritardi, ricorsi al Tar perché le buste erano trasparenti e non garantivano l’anonimato. Il risultato è che, su 2.300 posti messi a concorso, solo 800 sono stati coperti e abbiamo ancora 2 mila scuole in «reggenza», cioè con un dirigente in condominio, che guida almeno un altro istituto. Proprio a questi problemi è dedicato il seminario internazionale organizzato dall’Associazione TreLLLe e dalla Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo che si tiene oggi al ministero dell’Istruzione. Un incontro con i massimi esperti stranieri del settore, per studiare le migliori esperienze degli altri Paesi e provare a portare da noi qualche buona pratica. Nella maggior parte dei Paesi europei, ad esempio, è prevista un’età massima per partecipare alla selezione. Il tetto varia tra i 50 e i 55 anni. Noi siamo tra i pochi a non aver una soglia di sbarramento che metterebbe un freno al numero dei candidati, evitando che il concorso si riduca a lotteria.
Un altro modello arriva dalla Francia. E lo spiega Claude Thélot, tra gli invitati al seminario e già responsabile della commissione sul futuro della scuola sotto la presidenza Chirac. «Chi vince il concorso non viene nominato subito preside, ma adjoint, vicario. Viene assegnato a un preside che lo tiene con sé almeno un anno e poi lo valuta insieme a un ispettore». Un periodo di prova, insomma, non l’automatismo previsto da noi. Sul tavolo ci sono altri elementi ancora, come la possibilità che sia la singola scuola a scegliere il preside da una lista di idonei, come in Gran Bretagna. Ma al di là dei singoli esempi, quel che conta è l’impostazione generale.
«Noi speriamo — dice Attilio Oliva, presidente dell’associazione TreLLLe — che il ministero si impegni per lo sviluppo di questa professione cruciale e per certi aspetti nuova». In che senso nuova? «Il modello — spiega Anna Maria Poggi, presidente della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo — non deve essere quello del primus inter pares, con il preside che amministra. Piuttosto deve essere un leader educativo che gestisce la scuola e ha come obiettivo lo sviluppo professionale degli insegnanti». Non un accentramento di potere ma, come spiega ancora Oliva, «quella che si chiama leadership distribuita e condivisa, con il preside più uno stretto gruppo di collaboratori di fiducia». «A parità di condizioni il preside può fare la differenza», dice il sottosegretario all’Istruzione Elena Ugolini. E per questo richiama l’importanza del regolamento in corso di approvazione «per valutare i dirigenti scolastici sulla base di obiettivi precisi».
Il Corriere della Sera 22.11.12

“Produttività, accordo separato: Cgil non firma. Camusso: “così si riducono salari lavoratori”, di Massimo Franchi

Si è persa un’occasione e si è scelto di ridurre i salari dei lavoratori. Gli appelli di Monti sono più segno di imbarazzo che di volontà di trovare soluzioni unitarie”. Susanna Camusso parla in nottata dalla sede della Cgil e non da Palazzo Chigi. Lo sguardo e il volto sono sereni nonostante la firma separata all’accordo sulla produttività da parte di governo, imprese e altri sindacati.
“È stata una scelta di politica economica coerente con quelle fatte finora dal governo che scaricano sul lavoro le scelte per uscire dalla crisi” e questo è il primo capitolo dei punti che la Cgil non ha accettato.
Il secondo è il mettere mano al modello contrattuale senza risolvere il problema della democrazia e della rappresentanza. “Se si sposta al secondo livello una quota del salario, è ancora più importante la rappresentanza” negata, ad esempio, alla Fiom nella trattativa sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici.
Il terzo capitolo riguarda “le modifiche alla legislazione sul demansionamento che è figlio della scelta sull’allungamento dell’età pensionabile”. Ai lavoratori anziani viene chiesto di cambiare mansione per lasciare spazio ai giovani.
Al tavolo la Cgil aveva invece proposto “la detassazione di tutte le tredicesime come segnale per rilanciare la domanda”. Il governo ha risposto picche e invece ha rilanciato sulla “semplificazione degli appalti, un altro provvedimento contro i lavoratori”.
Le parole del segretario generale del più grande sindacato italiano arrivano al termine di una giornata frenetica di contatti e pressioni. Sfociata nella soluzione già prevista. L’accordo firmato da tutti, tranne dalla Cgil. Come sulla modifica sull’articolo 18 nella riforma del lavoro, Monti scandisce le stesse parole: “Tutti i sindacati tranne la Cgil”.
E anche l’invito a sottoscrivere l’accordo in un secondo momento viene rispedito al mittente. Da parte della Cgil c’è grande serenità, una serenità data dal fatto di “aver sempre difeso e motivato le nostre opinioni”.
Susanna Camusso, rientrata in anticipo dalla missione in Turchia, è voluta andare da sola al vertice a palazzo Chigi. Lì ha subito ribadito le critiche che la Cgil ha sempre portato a questa trattativa e riassunte nel “No” uscito dal direttivo Cgil di giovedì scorso. La principale è quella che spostando una quota di aumenti contrattuali sul secondo livello (aziendale o territoriale che sia) c’è il rischio di una contrazione reale dei salari.
Proprio da questo è partita il segretario della Cgil nel suo intervento al tavolo. ”La strada scelta è sbagliata, è una strada per cui il contratto nazionale non tutelerà più il potere d’acquisto dei lavoratori”.
Camusso poi ha fatto due precise domande al governo: “Come saranno divisi i fondi previsti per la detassazione sugli aumenti per la produttività? Se i fondi stanziati (2,1 miliardi in due anni, ndr) non basteranno per tutti gli accordi, come verranno suddivisi?”.
Alle due domande il governo non ha risposto. Il vertice è stato sospeso, il governo si è riunito. Ma nessuna risposta è arrivata. Anzi. Dopo una mezz’ora è arrivata la convocazione di una conferenza stampa unitaria di governo e parti sociali. La disposizione dei cartoncini sul tavolo al primo piano di palazzo Chigi era inequivocabile: a sinistra le imprese, al centro il governo, a destra i sindacati. Tutti tranne la Cgil.
Ma passano pochi minuti e arriva il contrordine. La conferenza è del solo governo. Con le parti sociali che arriveranno in un secondo tempo. Con lo stesso Monti che specifica: “Avevamo chiesto anche alla dottoressa Camusso di poter parlare, ma non ha accettato”.
Si chiude così, in un pomeriggio di voci che si rincorrono tra promesse del governo su un intervento forte sulla rappresentanza e di un incontro (smentito) tra Camusso e Fornero, una trattativa lunga due mesi e mezzo. Partita il 5 settembre, ha vissuto di alti e bassi. Se Monti convocò a palazzo Chigi prima le imprese e poi (l’11 settembre) i sindacati demandando a loro un accordo, il governo è intervenuto ad intermittenza.
Ma la svolta è arrivata proprio grazie all’intervento del ministro Corrado Passera che, quando le imprese erano divise al loro interno, le ha convocate mettendo sul tavolo le risorse: prima 1,6 miliardi, poi aumentati con gli emendamenti alla Legge di stabilità aumentati a 2,15 miliardi. E pochi giorni dopo è arrivata la ormai inaspettata fumata bianca da parte imprenditoriale.
Se per settimane i piccoli, guidati da Rete Imprese, non avevano accettato il testo messo a punto dai tecnici di Confindustria e sindacati, spingendo perché la contrattazione di secondo livello avesse più spazio, così come la flessibilità su orari e mansioni, quella sera è arrivato il compromesso.
Modifiche al testo che prevedevano come fosse la contrattazione fra le parti a poter intervenire sul demansionamento e sulla flessibilità dell’orario, modificando le leggi vigenti. Che oggi prevedono come nessun lavoratore possa essere cambiato di mansione, di livello e retribuzione senza essere d’accordo o venendo prima licenziato e poi riassunto nella nuova mansione.
L’altro grande tema è stato quello della rappresentanza. La Cgil ha sempre chiesto l’attuazione dell’accordo del 28 giugno 2011 che prevede la certificazione della rappresentanza sindacale e ilo fatto che tutte le organizzazioni sopra il 5 per cento siano presenti al tavolo. Il nodo della questione è il rinnovo del contratto metalmeccanico da cui è esclusa la Fiom Cgil, nonostante sia il sindacato più rappresentativo. Qui le divisioni con Cisl e Uil hanno reso difficile andare oltre ad un accordo che prevede di fissare le norme per la certificazione autonoma della rappresentanza entro la fine dell’anno.
L’Unità 22.11.12
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L’ULTIMO “NO” DELLA CAMUSSO “COSÌ RIDUCETE SOLO I SALARI”, di Roberto Giovannini
Il premier Mario Monti sembra (per quanto ciò sia possibile per una persona tanto lucida, se non “fredda”) quasi accorato nel suo appello. «Esprimiamo il vivo auspicio – dice – che l’intesa possa essere estesa anche alla Cgil». Spiega che «non c’è stata alcuna volontà di isolare nessuno», rifiuta di fissare un termine per ciò che rifiuta persino di chiamare un «ripensamento» del sindacato rosso, che chiama anzi «evoluzione di pensiero». E a un certo punto chiarisce che avrebbe voluto in conferenza stampa anche il segretario Cgil Susanna Camusso. Lei, invece, se n’è andata nel suo ufficio in Corso d’Italia. Ed appare furiosa per quella che giudica «una cosa antipatica, che mostra il carattere autoritario del premier». «Mi voleva far parlare – ci racconta Camusso – dopo di lui, Squinzi e Bonanni, e prima delle conclusioni di Passera. Uno show. “Dottoressa Camusso”, mi ha detto Monti, “non vuole mettere alla prova la capacità del governo di sopportare la critica”?»
E forse il leader della Cgil ha interpretato come paternalistica anche la replica di Monti alla richiesta Cgil di detassare le tredicesime. «Non è possibile, non lo consentono le condizioni della finanza pubblica – ha risposto gelido Monti – Spero che i futuri governi abbiano il cuore meno raggrinzito».
Facile dedurre come il numero uno della Cgil si auguri caldamente (a differenza del suo omologo Cisl Raffaele Bonanni) che, dopo le elezioni, a Palazzo Chigi non sieda più quel Professore dal cuore tanto «raggrinzito». «Con questo accordo – spiega il segretario Cgil – il governo stabilisce chiaramente che la “sua” via per lo sviluppo del paese è la riduzione generalizzata dei salari». Una strategia tutto sommato simile a quella perseguita in Grecia dalla trojka UeBce-Fmi: «sono sempre i lavoratori a pagare il conto. Prima con la mannaia sulle pensioni, poi con i tagli della sanità e dei servizi, e ora con il taglio dei salari».
Ma questo accordo, obiettiamo, non dovrebbe aprire la strada ad aumenti salariali detassati? Macché, risponde Camusso, d’ora in poi («come ha giustamente compreso e scritto il professor Pietro Ichino») il tetto massimo degli aumenti salariali sarà dato dall’Ipca, ovvero l’inflazione depurata dagli aumenti del petrolio. «Da quella somma si prenderanno i soldi per gli aumenti salariali aziendali di produttività – puntualizza il leader Cgil – e tirando le somme, per i lavoratori non solo non ci sarà alcun aumento netto di salario, ma piuttosto una riduzione netta della retribuzione rispetto a oggi». Ma la Cgil non applicherà mai e poi mai questa intesa? «Dove gli accordi aziendali sono buoni – conclude – li firmeremo. Altrimenti, no».
La Stampa 22.11.12

“Sindaci, si alza il tono della protesta”, di Gianni Trovati

Dimissioni di massa. La parola d’ordine ha fatto breccia tra i sindaci nel corso della manifestazione organizzata ieri dall’Anci a Milano (oltre mille primi cittadini presenti secondo l’associazione), ed è stata confermata dopo l’incontro con il ministro Piero Giarda che non ha potuto far altro se non impegnarsi a trasmettere al presidente del Consiglio il «profondo malessere» dei Comuni. Termini e modalità delle dimissioni saranno decisi giovedì 29 nel prossimo ufficio di presidenza dell’Anci, ma il senso della decisione è chiaro: alzare il livello anche simbolico della protesta, per provare a spuntare qualche modifica significativa nell’ultimo passaggio parlamentare della legge di stabilità. «Come abbiamo chiarito al Governo – spiega il presidente dell’Anci, Graziano Delrio – questa è l’ultima occasione per rivedere le norme che stanno uccidendo i Comuni». Gli occhi, certo, sono puntati sull’Esecutivo, ma fra i destinatari ci sono anche i partiti a cui i sindaci appartengono, e che in caso di mancate risposte si troveranno ad affrontare una campagna elettorale di primavera fra l’ostilità dei loro primi esponenti sul territorio.
Ad alimentare il «profondo malessere» dei sindaci, e delle imprese che lavorano per loro, come attestato ieri dalla «piena condivisione delle preoccupazioni» espressa ieri dal presidente dell’associazione costruttori (Ance) Paolo Buzzetti, sono parecchi temi disseminati nelle manovre dell’ultimo anno. Il posto d’onore spetta ancora una volta all’Imu perché, mentre all’assemblea di Bologna a fine ottobre il Governo apriva sulla possibilità di chiarirne meglio il gettito comunale dal 2013, sono venuti definitivamente al pettine i nodi 2012 con i tagli “compensativi” ai fondi di riequilibrio. Tagli che in 1.200 casi si sono aggravati per una revisione ex-post dell’Ici 2010, secondo un meccanismo contro cui l’Anci ha avviato la battaglia giudiziaria mettendo a disposizione dei Comuni i modelli di ricorso e l’assistenza legale. Ad aggravare il quadro delle entrate ci sono gli effetti già messi in calendario dal decreto di luglio sulla revisione di spesa, che l’anno prossimo faranno crescere il conto da 500 milioni a 2 miliardi, tutti tradotti in tagli ai fondi di riequilibrio: in un panorama in cui già oggi circa 400 sindaci devono “restituire” somme allo Stato, spesso perché i fondi loro assegnati sono già andati sotto zero, l’applicazione di questa misura solleva più di un problema di applicabilità matematica.
Nell’agenda che ha portato i sindaci in piazza non poteva poi mancare il Patto di stabilità, che dal 2013 si dovrebbe estendere anche ai Comuni fra mille e 5mila abitanti. «Una misura tecnicamente impossibile nello stesso anno in cui si è costretti ad avviare la gestione associata di 9 funzioni fondamentali su 10 – sottolinea Mauro Guerra, coordinatore piccoli Comuni dell’Anci – e mentre si scrivono nelle leggi tempi di pagamento che proprio il Patto rende irrealizzabili». Un altro fattore, quest’ultimo, determinante anche per i costruttori perché, spiega il presidente Ance, Buzzetti, «l’estensione del Patto andrà a colpire soprattutto l’imprenditoria medio-piccola».
Il Sole 24 Ore 22.11.12

“All’Onu un posto per la Palestina”, di Lapo Pistelli*

Come può ripartire il dialogo in Medioriente? È velleitario pensare alla pace mentre esplodono le bombe? Possiamo arrenderci? La guerra conferma le lezioni di sempre: la forza non rende più credibili le rivendicazioni dei palestinesi, Israele conferma una indiscussa supremazia militare ma non si assicura solo così il diritto di vivere in pace, i civili e fra essi le donne e i bambini pagano un prezzo insostenibile alla logica dello scontro. La tregua interrompe la spirale dei lutti e della paura. Ma una tregua non è una pace. Ed è quello invece il nostro obiettivo per la regione più martoriata del mondo a noi vicino. È necessario però prendere le mosse da più lontano.
Israele e le fazioni palestinesi non prevedevano la primavera araba. Israele non ripone fiducia in questo processo, rivendica di essere l’unica democrazia dell’area e rimprovera l’Occidente di non capire la vera natura degli islamici al potere. Hamas e Fatah hanno sperato che la «primavera» ponesse al centro la loro questione, che le masse arabe premessero i nuovi governi. Hanno sofferto dunque la delusione di vedere i Paesi arabi concentrarsi sulle proprie transizioni. Così, si sono intrecciate più crisi. Il processo di pace è rimasto in uno stallo senza precedenti: nessuna trattativa, né palese, né riservata fra Israele e Anp. La riconciliazione tra Fatah e Hamas, mediata dall’Egitto e firmata a denti stretti, carica di promesse di finanziamento dai Paesi del Golfo, è rimasta lettera morta. È invece continuato lo scontro in Hamas, fra il governo Haniyeh a Gaza e l’ufficio politico di Meshal, espulso da Damasco per non aver appoggiato Assad e ora ospitato in Qatar. In questo quadro cupo è maturata l’escalation delle violenze di Gaza, le azioni anti-terrorismo, i razzi, l’omicidio mirato di Al Jabaari, la cronaca di questa settimana di sangue.
Israele non ha interesse strategico a invadere Gaza per tenerla. L’azione «punitiva» deve mostrare di ridimensionare la capacità di Hamas e trasmettere un messaggio di forza alla regione, in particolare all’Iran. Ma il quadro strategico è assai diverso dal 2008. Allora, Hamas aveva al suo fianco Hezbollah in Libano, un forte regime siriano e un Iran senza sanzioni, mentre l’Egitto sosteneva Israele. Oggi, Siria e Libano hanno altro cui pensare, Meshal ha trovato nuovo protagonismo in Egitto; Israele non può contare sulla Turchia, ma intanto l’Egitto è divenuto protettore e garante di Gaza. Si sono recati lì, l’emiro del Qatar, il premier egiziano, i ministri degli esteri turco e tunisino. Hamas non piace, ma Gaza non è più isolata. La primavera araba ha cambiato il quadro. Tregua subito. Ma quale pace vogliamo dopo? Non vediamo alternative all’obiettivo «due popoli, due Stati», anche se oggi sul campo vige semmai la regola del «due popoli, tre Stati». Da una parte il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza entro confini riconosciuti. Dall’altra il diritto del popolo palestinese a un proprio Stato. Più volte l’accordo è stato solo sfiorato.
Con chi negoziare la pace? Israele ha mostrato sempre grande pragmatismo, arrivando a trattare perfino con Al Jabaari, capo dell’ala militare di Hamas poi eliminato, la liberazione del caporale Shalit. Crediamo che sarebbe più semplice e utile negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, dando un segnale al fronte moderato. Come aiutare i moderati? L’Anp ha chiesto alle Nazioni Unite di votare fra poco sullo status di Paese osservatore. Nel 2010, il Quartetto promise che di lì a un anno la Palestina sarebbe divenuto Paese membro dell’Onu. Nel 2011, la richiesta fu affidata a un’istruttoria che ne ha certificato l’impossibilità politica ma fu chiesto a Abu Mazen di accontentarsi dello status di «osservatore». Oggi quella cambiale politica arriva a scadenza. Può il mondo chiedere ancora tempo? Cosa devono fare l’Europa e l’Italia? Nel prossimo decennio, gli Usa ridurranno il loro impegno nel Mediterraneo e in Medioriente. L’Europa dovrà assumere un ruolo più deciso. Iniziare rifugiandosi dietro una ventilata astensione mentre la maggioranza del mondo pare orientata verso il sì, sarebbe un esordio di inutile timidezza. Non siamo ingenui ottimisti e conosciamo la fatica della politica. Proprio per questo, una tregua a Gaza, un voto alle Nazioni Unite potrebbe muovere il rapporto fra Israele e Palestina dalle secche in cui è attualmente precipitato. È questa la prospettiva dei democratici.
* responsabile esteri del Pd
L’Unità 22.11.12