La nuova fiammata, nel cronico conflitto tra Israele e Gaza, avviene in un Medio Oriente profondamente cambiato. La situazione nella regione è più confusa e più esplosiva. ED È pericoloso accendere fuochi in prossimità di una polveriera. Eppure è quel che hanno fatto e fanno i due contendenti. In un anno più di 750 razzi partiti da Gaza sono piovuti sul Sud di Israele, ma quelli risultati micidiali (tre morti nel piccolo centro di Kiryat Malachi), sono stati lanciati dopo che un missile aveva ucciso Ahmed al-Jabari, capo militare di Hamas, mentre guidava la sua automobile in una strada di Gaza. Dopo una lunga, rischiosa routine, dopo una contenuta ostilità, l’omicidio mirato ha riacceso il conflitto.
Nei quattro anni trascorsi dall’inverno 2008-9, quando l’operazione israeliana (Piombo fuso) fece mille trecento morti nella Striscia di Gaza, provincia separata e non occupata della Palestina, sono intervenuti tanti mutamenti. Mi limito ai due più rilevanti prodotti dalla “primavera araba”: i Fratelli
musulmani sono arrivati al potere nel vicino Egitto e la guerra civile infuria nell’altrettanto limitrofa Siria.
La destituzione al Cairo di Hosni Mubarak, il raìs con il quale per Gerusalemme era facile accordarsi, e l’elezione al suo posto del presidente Mohamed Morsi hanno creato seri problemi tra le due capitali. Ed è finito l’isolamento di Gaza. Il movimento Hamas, che la governa, è infatti un’emanazione, sia pure distinta, della Confraternita dei Fratelli musulmani al governo al Cairo, e dalla quale Morsi proviene. Oltre ai già difficili rapporti con l’ex alleata Turchia, Israele deve adesso gestire un’agitata relazione, o una pace ancora più fredda, con l’Egitto al quale è legato dagli accordi di pace, conclusi a Camp David nel 1978.
I raìs non erano troppo presentabili, ma avevano una qualità: erano interlocutori che non dovevano tener conto delle opinioni dei sudditi, disciplinati da poliziotti e soldati. Il dialogo con loro era diretto. L’egiziano Morsi, eletto al suffragio universale diretto, deve adeguare, almeno in parte, la sua sensibilità di fratello musulmano moderato alle esigenze dei concorrenti salafiti, musulmani più radicali, che chiedono di rivedere i rapporti con Israele. Ed esigono più solidarietà con Gaza governata da Hamas.
E cosi Morsi non è rimasto immobile come il predecessore Mubarak. Ha interpellato la Casa Bianca. Ha richiamato l’ambasciatore da Israele. Si è rivolto alla Lega Araba e al Consiglio di Sicurezza. Ha pronunciato severe condanne alla televisione. E oggi manda il suo primo ministro sul posto, a Gaza, con l’incarico di verificare i danni subiti dalla popolazione, di rendere omaggio ai morti (finora ne sarebbero stati contati diciannove) e di studiare l’invio di aiuti urgenti. In realtà si tratta di una visita con un alto valore politico. L’Egitto dimostra in concreto la sua solidarietà all’avversario di Israele. Un gesto che equivale quasi a una sfida. Gli israeliani oseranno bombardare Gaza durante la visita del primo ministro egiziano? Una crisi seria tra Egitto e Israele spezzerebbe i precari equilibri mediorientali. Barack Obama ha dedicato nelle ultime ore non poco del suo tempo nel tentativo di placare gli animi degli uni e degli altri. Ha dosato le parole. Ha riconosciuto il diritto di Israele a difendersi dalla pioggia di razzi, ma ha invitato a moderare le reazioni. E ha ascoltato a lungo il presidente egiziano, indignato ma non minaccioso.
In quanto alla Siria è un vulcano in eruzione che rischia di travolgere l’intera regione, ed è comunque una fonte di violenza alle porte di Israele. Oltre le alture del Golan, confine contestato tra lo Stato ebraico e la Siria frantumata, infuria una mischia in cui anche la super- esperta intelligence israeliana deve stentare a riconoscere amici e nemici. E deve faticare a evitare le infiltrazioni. Perché ad Aleppo, a Homs, e nei paraggi della stessa Damasco, operano gruppi armati di varie tendenze. Dai laici agli islamisti moderati ai jihadisti. Gli iraniani, irriducibili avversari di Israele, appoggiano il regime di Damasco, e al tempo stesso sono amici di Gaza. Ma anche il ricco Qatar, che appoggia i ribelli, si è manifestato come un benefattore di Gaza. E questo vale per l’Egitto e la Turchia, potenze sunnite e nemiche del regime sciita di Bashar el Assad. Del quale anche gli americani, amici e protettori di Israele, ma non di Hamas, auspicano la destituzione.
Israele si trova dunque al centro di un panorama mediorientale politicamente imprevedibile, in cui non è facile orientarsi. E per un vecchio riflesso condizionato alza il tradizionale “muro di ferro”. Sfodera la sua forza. L’attacco all’Iran è per il momento rinviato sine die.
La conferma di Barack Obama ha allungato i tempi. Benjamin Netanyahu sperava in una vittoria del suo avversario, un falco come lui; e tuttavia Obama non ha tenuto conto della sua dichiarata ostilità durante la campagna elettorale. E ha subito dimostrato che il legame degli Stati Uniti con Israele non poteva essere in alcun modo inquinato. Ma per lui il problema nucleare iraniano richiede più pazienza.
E quest’ultima, la pazienza, non è una virtù di Netanyahu. Il quale ha sentito subito il bisogno non solo di far cessare la pioggia di razzi proveniente da Gaza, ma anche di dimostrare al Medio Oriente agitato e imprevedibile che Israele sa reagire con determinazione, che né la sua volontà politica né la sua forza militare si sono arrugginite. Il messaggio ci sembra indirizzato all’Iran, all’Egitto, alla Siria, non unicamente alla piccola, fastidiosa, ma non più tanto isolata Gaza. E tra i destinatari ci sono i palestinesi in generale, quelli che tramite l’incruento Abu Mazen, capo dell’altra Palestina, quella occupata, tra dieci giorni chiederà ancora una volta di essere rappresentata più degnamente all’Onu. Inoltre, come quattro anni or sono, ai tempi dell’operazione “Piombo fuso”, Israele è alla vigilia di nuove elezioni. E la fermezza gioca in favore di Netanyahu. Gli imperativi tattici si confondono con quelli elettorali. E per il momento sommergono i rischi reali.
La Repubblica 16.11.12
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“Emilia, la mafia dopo il terremoto”, di Giovanni Tizian
Il 7 novembre è una data importante per i paesi terremotati dell’Emilia: è stata smontata l’ultima tendopoli, testimoniando la volontà di cambiare pagina e passare alla ricostruzione a meno di sei mesi dal sisma. Ma proprio alla vigilia di questo momento simbolico, anche le cosche hanno voluto manifestare la loro presenza: nella notte del 6 a Reggiolo, il centro reggiano più colpito dalle scosse, sono stati incendiati nove camion per il trasporto terra. Un rogo doloso, su cui indagherà la procura antimafia. E che sembra dare corpo all’allarme sull’infiltrazione dei clan nei cantieri del dopo sisma. «Segnali di gruppi che tentano di entrare nell’affare ci sono», osserva Roberto Alfonso, procuratore capo di Bologna: «L’esperienza insegna che laddove arrivano soldi pubblici le organizzazioni mafiose tentano di accaparrarsene una fetta. Lanciare l’allarme è necessario per mettere in guardia».
Dei sei miliardi previsti per sanare le ferite – inclusi i 670 milioni appena sbloccati dall’Unione europea dopo un braccio di ferro con il governo Monti – ben due e mezzo sono destinati alle abitazioni, tra restauri, demolizioni e condomini da realizzare: il business ideale per la schiera di piccole e medie imprese controllate dalla criminalità organizzata che da oltre un decennio hanno delocalizzato i loro investimenti in queste ricche provincie. Qui i padrini di ‘ndrangheta, Cosa nostra e camorra hanno affidato ai loro uomini di fiducia ditte che non temono la concorrenza.
Giancarlo Muzzarelli, assessore regionale alle Attività Produttive e all’edilizia, esterna a “l’Espresso” tutta la sua preoccupazione: «Agli imprenditori ripeto di non fidarsi degli sconosciuti che offrono ribassi che arrivano all’80 per cento». E sottolinea: «Le imprese sospette sono già sul territorio. Ci sono arrivate all’orecchio voci di episodi di caporalato e interessamento per piccoli lavori da aziende improvvisate».
L’ATTENTATO. A Reggiolo le scosse hanno lesionato municipio, scuole, negozi e persino l’antica rocca. Ma tutti si sono messi all’opera per superare l’emergenza. Poi le fiamme del 6 novembre hanno trasmesso un segnale sinistro nella notte: una colonna di fuoco che ha trasformato nove camion in carcasse annerite. E’ solo l’ultimo episodio di una escalation incendiaria che porta il timbro dei clan. La Bassa padana attorno a Reggio Emilia appare sempre più come ostaggio della ‘ndrangheta. Capi indiscussi i padrini agghindati da imprenditori della cosca Grande Aracri, proprietari di un impero fondato sull’edilizia e sul movimento terra, l’attività fondamentale di ogni appalto.
Il feudo di cui si sono impossessati – dopo una sanguinosa faida contro gli ex alleati Dragone combattuta tra la Calabria e l’Emilia – si estende da Reggio città a Parma, comprende alcuni paesi del Mantovano, e ha la sua roccaforte tra Brescello, Gualtieri e Reggiolo. Gli investigatori antimafia sono certi della matrice dolosa del rogo, ma non possono ancora ipotizzare un collegamento diretto con i cantieri del dopo terremoto. E rispetto alla ricostruzione dell’Aquila qui i rischi sono addirittura maggiori. «In Emilia la presenza delle mafie è strutturata», conferma il procuratore Alfonso.
L’inchiesta completa di Giovanni Tizian è in edicola da venerdì sul nuovo numero dell’Espresso.
L’Espresso 15.11.12
“Un deficit di libertà”, di Ezio Mauro
Soltanto chi non vuol vedere ciò che ha sotto gli occhi può ridurre ad una questione di ordine pubblico la mobilitazione contro l’austerità, per il lavoro e il welfare che ha riempito mercoledì le piazze d’Europa. Sulla violenza abbiamo imparato ad essere netti e precisi: chi va in strada per rivendicare i suoi diritti non ha nulla a che spartire con chi cerca lo scontro fisico con la polizia o compie atti vandalici, presenze che vanno dunque denunciate, isolate e contrastate senza nessuna forma di ambiguità. Nel farlo, la polizia ha il dovere di ricordarsi di essere al servizio di uno Stato democratico e dunque mentre garantisce la sicurezza dei cittadini – tutti, anche i manifestanti – deve evitare l’abuso di potere e l’esercizio di una violenza di Stato che purtroppo abbiamo già visto altre volte andare vergognosamente in scena nelle nostre città. E che abbiamo documentato anche ieri, portando il governo a prenderne atto.
Ma detto questo c’è tutto il resto, di cui non si parla. La coesione sociale di questo Paese ha del miracoloso di fronte al processo di esclusione di un pezzo di società dal sistema occidentale di garanzie in cui eravamo cresciuti per decenni. La crisi che stiamo tutti vivendo ha accentuato fortemente la disuguaglianza sociale, che è diventata una cifra dell’epoca, esplosiva. In un Paese irrisolto e malato come l’Italia questa disuguaglianza è diventata sproporzione. E tuttavia il capitale sociale ha tenuto: un insieme di relazioni, interdipendenze, fiducia e speranza, connessioni, che ha consentito al “sistema” di essere tale anche sotto l’urto della crisi. Aggiungiamo la frammentazione dei soggetti sociali e delle loro culture di riferimento, l’egemonia culturale di un neoliberismo storpiato all’italiana in una falsa ideologia che consentiva ogni dismisura e scusava qualsiasi privilegio, giustificando e applaudendo qualunque abuso.
Quegli studenti e quegli operai che sono andati in piazza, disorganizzati e divisi in mille rivoli, rappresentano l’irruzione in scena di ciò che è stato escluso, nel senso vero e proprio del termine: tagliato fuori. Un ceto, una fascia di popolazione, una generazione, possono essere compressi fino all’irrilevanza sociale, dunque politica, cioè fino all’invisibilità. È quanto sta accadendo nelle nostre società, sotto i nostri sguardi che non vedono. E tutto ciò, com’è naturale, avviene attorno alla questione capitale di una società democratica, che è la questione del lavoro.
La perdita del lavoro (e nello stesso modo il lavoro che non c’è) è infatti qualcosa di più della perdita del reddito e della sicurezza economica. È lo smarrimento dei legami sociali, dell’interdipendenza dei ruoli, del riconoscimento reciproco attraverso le funzioni e le obbligazioni volontarie che nascono dalle scelte individuali e dalle necessità collettive. Ma è anche il venir meno dei diritti, fino al diritto democratico supremo, il sentimento della cittadinanza. Molto semplicemente, senza libertà materiale non c’è libertà politica: il lavoro è partecipazione, emancipazione, costruzione di sé e della propria libertà in relazione con gli altri e con le libertà altrui. È la trama in cui la realizzazione della nostra vita entra pubblicamente in rapporto con le vite degli altri, in quel disegno che abbiamo chiamato società, cioè lo stare insieme liberamente accettato in una composizione di diritti e di doveri che tende al cosiddetto bene comune, o qualcosa di simile.
Se si rompe il nucleo di valori comunemente riconosciuto nella civiltà occidentale del lavoro, salta tutto questo. Per gli individui, va in crisi il rapporto stesso con la democrazia, perché quando io non sono più in grado di far fronte ai doveri fondamentali davanti alla mia famiglia e ai miei figli, alle loro necessità primarie, alle legittime aspirazioni (cioè alla libertà), la democrazia può diventare per me un guscio vuoto, un insieme di formule che non trova senso pratico e traduzione concreta nella vita di tutti i giorni. Peggio, la democrazia diventa un sistema che si predica per tutti e si declina per alcuni, il regime degli “inclusi”, dei protetti e dei garantiti, che taglia fuori il resto.
La grande novità della fase che viviamo sta proprio qui. Le disuguaglianze sono state molto forti nei decenni che abbiamo alle spalle, in alcuni casi sono state odiose. Ma il sistema politico- economico in cui siamo cresciuti, il suo orizzonte culturale tendevano fortemente all’inclusione. I sessant’anni del dopoguerra hanno esteso in tutta l’Europa una sorta di economia sociale di mercato che ha liberato la forza e le potenzialità del capitalismo regolandolo con il welfare state: prima forma strutturale di redistribuzione in basso del reddito e sistema di garanzia per i più deboli, evitando che diventassero esclusi. Qualcosa di ben lontano, com’è
evidente, dalla “democrazia compassionevole” e anche dalla “Big society” che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi sociali all’organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti. Com’è chiaro, la beneficenza non ha bisogno della democrazia: ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza.
Siamo al nucleo fondamentale della questione, i diritti. Vedendo che sotto la spinta mai neutrale della crisi i soggetti più deboli e più esposti della nostra società sono stati più volte costretti a scegliere tra lavoro e diritti, addirittura tra lavoro e salute, abbiamo dovuto prendere atto di una questione a cui non eravamo preparati: i diritti nati dal lavoro sono dei diritti “nani”, cioè subordinati e condizionati, che possono venire revocati se la crisi lo impone, dunque sono della variabili dipendenti e non autonome. Eppure fanno parte di quel contesto democratico ngenerale di cui tutti usufruiamo qualunque sia il nostro ruolo, perché è la civiltà materiale italiana nel suo progredire. E tuttavia poiché sono frutto del negoziato (e dunque necessariamente del rapporto di forza) e soprattutto perché costano, in quanto rispondono a delle spettanze, sono comprimibili come non accadrebbe mai ad altri diritti. Dimostrando così che il lavoro può tornare ad essere semplice prestazione, cioè merce, quando perde ogni valenza generale, simbolica, culturale, infine e soprattutto politica.
Questo accade perché il neoliberismo, dopo aver generato la crisi, è riuscito paradossalmente a trasformarsi nel suo presunto antidoto, cioè nell’unica legge di sopravvivenza delle democrazie esauste d’Occidente, diventando nei fatti la religione superstite, una moderna ideologia. Non c’è oggi un confronto culturale in atto, nei nostri Paesi. Non c’è una cultura capace di coniugare capitale, lavoro, responsabilità fuori dal paradigma che ha fallito, ma domina ancora il campo. Le destre non hanno elaborato cultura, declinando il modello dominante in un laissez faire smodato nel campo privato, politico, istituzionale. La sinistra scambia la modernità con il senso comune altrui, in cui nuota controcorrente, da gregaria. L’establishment lucra quel che può dalle rendite di posizione della fase, incapace di guardare oltre. La tecnocrazia, impegnata in una necessaria azione di risanamento e in una nuova forma politica di rispetto delle istituzioni, soffre tuttavia di una specie di “integralismo accademico” che la porta a privilegiare i paradigmi scolastici rispetto alla realtà, salvo prendere atto periodicamente che il governo di un Paese moderno per fortuna non è un convegno di Cernobbio.
A questo bisogna aggiungere la divaricazione crescente tra il vincolo europeo e la sua legittimazione democratica. Strumenti decisivi e cruciali della costruzione europea come la Bce (che dobbiamo ringraziare, nella guerra allo spread) si sono trasformati davanti a noi in veri e propri soggetti della governance comunitaria, senza essere mai stati eletti. Leadership di fatto, come quella di Angela Merkel, contano più delle istituzioni dell’Unione, trojke e istituti che non rispondono ai cittadini commissariano i governi, agenzie di rating pesano più delle pubbliche opinioni. È evidente che ci sarà bisogno di più Europa, per uscire dalla crisi: ma ci sarà soprattutto bisogno di una governance democratica, con una rispondenza visibile e riscontrabile tra autorità, potestà, cittadinanza, rappresentanza. Per il momento, questo deficit di legittimazione produce un deficit di politica, e tutto diventa meccanica: anche il rigore, non temperato dall’equità, dalla valutazione del consenso, dal principio di giustizia sociale, è un paradigma obbligato e obbligatorio, non una politica.
La mancanza di politica si avverte drammaticamente anche dall’altra parte del mondo in cui viviamo. Gli esclusi, i senza lavoro, i ragazzi senza prospettive, non hanno oggi una cultura politica che sappia parlare a loro e per loro. Chi rappresenta il lavoro, quando c’è e deve difendere i suoi diritti, quando non c’è e diventa un deficit di libertà? Oggi non c’è rappresentanza. Con il rischio, come avvertono in molti guardando alla Grecia, che la destra prenda in mano temi tipicamente di sinistra e li agiti nella sua strumentalità antieuropea, in una rinascita modernissima e ambigua di una protesta nazional-sociale sotto altre forme.
Ma se questo è il cuore del problema, non abbiamo finito. Perché l’alleanza capitale-lavoro- welfare è stata un’identità naturale delle democrazie rappresentative dell’Occidente, per tutti questi decenni. Se salta, salta anche il tavolo di compensazione dei conflitti che ci ha tutelati tutti, cioè quel vincolo d’interdipendenza che ha legato e tenuto insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle crisi cicliche, di internet, della globalizzazione, quel nesso di destino comune che ha scusato e reso fin qui tollerabili le disuguaglianze. Fuori da quel vincolo di libertà tra capitale lavoro e cittadinanza è difficile trovare nuove legittimazioni di sistema per tutti, l’imprenditore e il lavoratore. Da lì è nata un’idea di società, con le istituzioni e i legami che ne derivano. Fuori, non sappiamo come riscrivere il contratto sociale, le obbligazioni reciproche, le protezioni e le opportunità di crescita, i nuovi diritti e i nuovi doveri. Il rischio è che la nuova legittimazione sconti l’esclusione, cioè non sia democratica, o meglio che conservi la forma della democrazia, ma non la sostanza a cui eravamo abituati.
Tutto questo crea uno spazio enorme per la politica, e naturalmente per la sinistra. Se solo lo sapessero.
La Repubblica 16.11.12
“Ma mi faggi il piacere! Ghizzoni (PD) a Mazzucca (PDL) su quota 96”, di P.A. da La Tecnica della Scuola
“Un passo importante”, l’aveva definito il deputato Pdl, Giancarlo Mazzuca, il ‘sì’ della commissione Bilancio della Camera al suo subemendamento sugli esodati del personale scolastico recepito dal maxiemendamento alla legge di stabilità. E Ghizzoni (Pd): ma che dice?
“Avevo provveduto a presentare questo subemendamento per risolvere anche il grave problema degli esodati nella scuola. Accolgo quindi con grande soddisfazione il suo recepimento”. Ma il deputato Pdl non avrebbe capito bene neanche che tipo di emendamento abbia egli steso presentato, visto che non è stato affatto recepito. Né quindi si sarebbe reso conto che la scuola non ha esodati, semmai ha personale che è stato brutalmente buggerato da una legge, scritta dal ministro Fornero, sulle pensioni, che non si è accorta colpevolmente della specificità della scuola, della chiusura dell’anno, della continuità didattica.
Questo personale della scuola infatti ha solo chiesto di avere prorogato i benefici del pensionamento dal 31 dicembre 2011 al 31 agosto 2012 per la lapalissiana ragione che la scuola ha una sola finestra di uscita, quella di fine anno appunto, contrariamente al resto pubblico impiego che non ha vincoli didattici o di continuità educativa. L’emendamento quindi avrebbe dovuto riconoscere semplicemente un dato di fatto oggettivo.
E infatti a lui prontamente risponde Manuela Ghizzoni (Pd), presidente della Commissione Cultura della Camera, proprio nel merito dell’annuncio del deputato del PdL Giancarlo Mazzuca sul fantomatico quanto assurdo recepimento di un suo emendamento sul trattamento pensionistico del personale della scuola, dichiarato inammissibile da giorni.
“Di cosa parla l’on. Mazzuca? Purtroppo, sui lavoratori della scuola, la realtà è ben diversa da quella prospettata”.
“Questa mattina alle 5 la Commissione Bilancio ha respinto per l’aula anche il mio emendamento, a causa del parere contrario da parte del Governo, basato sulla valutazione negativa della Ragioneria dello Stato. Quest’ultima, peraltro, non si è espressa attraverso una relazione tecnica supportata da dati certificati dall’Inpdap e dal Miur. Un errore nato con la Riforma Fornero che – spiega Ghizzoni – non aveva tenuto in alcun conto la specificità della scuola e del fatto che quei lavoratori possono andare in pensione un solo giorno all’anno, il 1 settembre, indipendentemente dalla data di maturazione dei requisiti, per le giuste esigenze di funzionalità e di continuità didattica. Se l’emendamento fosse stato approvato – conclude la Presidente Ghizzoni – il Parlamento avrebbe, dopo molteplici tentativi, emendato un torto generato dall’Esecutivo nei confronti dei lavoratori della scuola (quelli appunto della “Quota 96”), che ora saranno costretti a ricorrere alla giustizia per vedere affermato un proprio diritto”.
E’ bene sospendere il giudizio ancora una volta su questa strana quanto assurda vicenda che interessa circa 3.500 dipendenti della scuola, ma che un deputato, seppure distratto e seppure preso da mille problemi politici, non si accorga della macroscopica differenza fra esodati e personale della Istruzione, che brutalmente e dall’oggi al domani è stato privato di un diritto, la dice lunga sulla perspicace che la politica ha dei problemi della gente e pure sull’idea del buon governo, tanto caro a Platone.
Che tipo di emendamento dunque abbia presentato l’on. Mazzuca è tutto da capire, visto che lui stesso ha qualche difficoltà a specificarlo.
Cultura: Ghizzoni, politica trasformi in fatti le parole di Napolitano
“Ringrazio il Presidente Napolitano per le sue osservazioni, la politica ha la responsabilità di trasformarle in azioni. Sarà dunque dovere di un governo politico invertire una tendenza che per troppi anni ha imposto all’Italia irragionevoli tagli alla cultura. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati – La cultura non può essere interpretata come un onere per il Paese perché, e lo dimostrano i dati, è un motore essenziale per lo sviluppo e la competitività, una risorsa per uscire dalla crisi. Solo attraverso seri investimenti per la cultura, la ricerca e la formazione e – conclude la Presidente Ghizzoni – abbandonando politiche economiche ottuse, l’Italia potrà avviare un percorso per la crescita non solo economica ma anche sociale e culturale.”
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Napolitano: per la cultura anche il governo Monti non fa abbastanza
In Italia la cultura è promossa “pochissimo e in modo radicamente insufficiente”. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Questa – ha spiegato – è la politica e la reponsabilità della politica sta nel dire dei no e dei sì e credo che occorra dire più sì a cultura e ricerca”.
Anche il Governo Monti non sta facendo abbastanza per la cultura e la ricerca in Italia, ha aggiunto il capo dello Stato, riservando una stoccata “ai comportamenti dell’attuale governo nel suo complesso”, pur sottolineando la buona attività dei singoli ministri e riconoscendo il “recupero incontestabile di credibilità”.
“Un oscuro estensore di norme” aveva previsto la “soppressione immediata di 12 istituti di ricerca” ma per fortuna “insieme al ministro Profumo siamo rimasti vigili e quel provvedimento è finito nel cestino. Ma questo è l’esempio di cosa succede quando si chiede alla peggiore mentalità burocratica di partecipare alle decisioni di governo”.
Col debito lo Stato può fallire, basta giochi a rischio
”Non possiamo giocare” con il rischio fallimento ”qualunque governo ci sia”. Lo dice Giorgio Napolitano sottolineando che ”ci sono 80 miliardi di interessi da pagare in un anno” e ”questi sono i modi in cui uno stato puo’ fallire”. “Alla tanta gente che ha comprato i buoni del Tesoro – ha aggiunto – come facciamo a non pagare quello che ci siamo impegnati a pagare?”. Il debito, ha ricordato Napolitano, costa “80 miliardi che dobbiamo pagare solo di interessi ogni anno. Quante cose potremmo fare con questi soldi? Questo è il modo in cui uno Stato può fallire e non possiamo più giocare con questo rischio”.
Voto anticipato? Di questo non parlo
“Di questo ora non parlo”. Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha risposto ai giornalisti che gli facevano presente che si parla in queste ore di elezioni anticipate rispetto alla data prevista di aprile.
Le proteste dei ricercatori sono legittime, ma serve razionalità
“Fate valere le vostre legittime preoccupazioni e proteste, ma con il massimo sforzo di razionalità per portare la cultura più avanti e il Paese fuori dalla crisi”. Cosi’ il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha concluso il suo intervento alla fine degli Stati Generali della cultura, durante i quali alcuni studenti e ricercatori avevano contestato i ministri Profumo e Barca. “Capisco interruzioni e impazienze – ha detto Napolitano – nel passato ho fatto il comiziante, ma oggi faccio un altro mestiere”.
da rainews 24
“Quel treno che unisce le generazioni”, di Pino Stoppan
Il convoglio si sta componendo un vagone dopo l’altro. A mano a mano che arrivano le prenotazioni si aggiunge una carrozza. La partenza è prevista per il 18 novembre dalla stazione di Roma Ostiense. Il treno farà tappa in diverse stazioni d’Italia fino a raggiungere Cracovia in Polonia, da dove si prosegue per la visita ai campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau. Questo primo «Treno della memoria» è stato voluto dallo Spi Cgil per aprire uno spazio di riflessione e condivisione in cui giovani e anziani possano camminare insieme. L’iniziativa si svolgerà dal 18 al 23 novembre e vi parteciperanno circa 600 militanti e dirigenti dello Spi e oltre 150 giovani dell’Unione universitari (Udu) e della Rete studenti medi.
Coltivare la memoria della deportazione e dello sterminio nazista ha lo scopo di tenere «vivo il pensiero» di questa ferita insanabile aperta nella coscienza umana. Per non dimenticare mai quell’orrore bisogna fare come ci ha insegnato Primo Levi che amava ripetere: «Se comprendere è importante, conoscere è necessario». È per questo che lo Spi ha deciso di andare lì di persona a portare il fiore del ricordo.
Una carrozza del treno ospiterà una mostra fotografica e documentaria, una sorta di «biblioteca viaggiante», con libri e testimonianze del periodo storico, un impianto di filodiffusione per ascoltare narrazioni, canti e musiche di artisti. Per prepararsi bene a questo viaggio lo Spi ha già compiuto inoltre un percorso della memoria puntellato da una serie di iniziative.
La prima tappa di questo è stata il 28 febbraio 2012 a Sant’Anna di Stazzema, dove è stato ricordato il tremendo eccidio del 12 agosto del 1944 quando la furia omicida dei nazisti, con la complicità dei fascisti locali, fece strage di una comunità senza colpe. A maggio, invece, la Festa annuale di LiberEtà si è tenuta a Casa Cervi a Gattatico mentre ad ottobre si sono tenuti incontri con le comunità ebraiche, i rappresentanti degli studenti, dell’Anpi, delle forze politiche democratiche in luoghi dove si è consumato il dolore di intere comunità: Borgo San DalmazzoBoves, Ferramonti di Tarsia, Fossoli, e poi Roma.
Il «Treno della memoria» è una sorta di «maratona del ricordo» per trasformare la tragedia della Shoah in memoria comune, in nome dei diritti e della dignità degli uomini. Con questa testimonianza lo Spi intende rafforzare uno dei punti più alti della propria strategia sindacale, il rapporto permanente fra giovani e anziani. L’obiettivo di questo progetto è un percorso comune che si ritrova sulle pietre miliari che segnano la storia. La visita ai campi di sterminio sarà il momento più alto del viaggio. Non sarà un punto di arrivo ma la tappa di partenza per la costruzione di un percorso ancora più impegnativo.
Sarà un treno 2.0. I giovani sono molto sensibili alla tecnologia ma anche gli anziani e i pensionati dello Spi non sono da meno. Ed è per questo che tutto il viaggio sarà raccontato e commentato in diretta on-line. Sarà infatti possibile seguire quanto avviene sul treno tappa dopo tappa collegandosi al sito www.untrenopernondimenticare. it, dove ogni giorno saranno inseriti resoconti scritti, audio, video e foto.
l’Unità 15.11.12
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“Coltivare la memoria per combattere le discriminazioni”, di Carla Cantone
LO SPI NAZIONALE, CHE CON IL TRENO DELLA MEMORIA E CON LA PAROLA D’ORDINE «PER NON DIMENTICARE» IN UN COMUNE viaggio con i giovani studenti dell’Udu e della Rete porteranno la loro testimonianza verso i campi di annientamento di Auschwitz e Birkenau, per tenere viva la memoria, rafforzando anche con questa scelta democratica quel patto generazionale con i giovani, che rappresenta un punto alto nella azione strategica sindacale e sociale dello Spi-Cgil. È un obiettivo che porta in sé lo scopo di coltivare la memoria, ricordando quella immane tragedia di uomini, donne, bambini che sono stati barbaramente trucidati. Con questa iniziativa, che ha avuto l’adesione del presidente della Repubblica ripercorriamo la stessa strada di tutti quegli innocenti che hanno viaggiato sui «treni della morte». Un viaggio, un percorso di storia e memoria.
Quest’anno nel ricordo ancora vivo, che non smette di sanguinare, non ci sarà Shlomo Venezia, uno degli ultimi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz e Birkenau, una persona straordinaria, un uomo buono e giusto, che si è spento, dopo aver portato la sua testimonianza vissuta nell’internamento del campo per farla vivere alle nuove generazioni, nella stessa giornata in cui la Procura di Stoccarda con una decisione disumana ha archiviato, manipolando la verità della storia, la responsabilità dei gerarchi delle Ss che assieme ai fascisti annientarono il 12 agosto 1944 la comunità di Sant’Anna di Stazzema, dove vennero uccise 560 persone senza colpa, uomini, donne e dolorosamente 107 bambini, il più piccolo di loro aveva venti giorni.
Sono tanti gli episodi criminali dell’orrore nazi-fascista e la vergogna di quel tragico periodo. È con questo sentimento di profondo riconoscimento a quelle persone libere che sacrificarono la loro vita, e di grande affetto e solidarietà verso i familiari di questi innocenti, che lo Spi nazionale ha deciso questo viaggio, nella consapevolezza che con il trascorrere del tempo, si può correre il rischio di dimenticare le grandi tragedie della vita, e l’orrore di un’azione di morte che non ha precedenti nell’umanità. Noi tutti abbiamo lavorato per preparare un treno che ci porterà a vedere con i nostri occhi quanto è accaduto e a camminare nella stessa terra dove hanno finito le loro vite oltre un milione di esseri umani, e bisogna andare in questi luoghi soprattutto per imparare a prendere coscienza dei pericoli che si devono evitare nel mondo a difesa della libertà, della giustizia sociale, della dignità delle persone, con un profondo sentimento democratico, valori alti che dovranno accompagnare il cammino delle nuove generazioni.
La storia passata insegna ad aprire gli occhi, a non far finta di nulla davanti ad alcuna discriminazione ad alcuna forma di violenza verbale o fisica che sia, ed essere attenti su molti inquietanti episodi che stanno portando avanti movimenti fascisti vecchi e nuovi in alcune scuole del nostro Paese, con insistenza nella città di Roma.
Ecco perché non dimenticare quello che è stato vuol dire creare gli anticorpi perché non avvenga più, perché a «perdere la democrazie e la libertà si fa in fretta, riaverla è dura». Abbiamo bisogno della «memoria della memoria», per questo portando il, nostro cuore ad Auschwitz e a Birkenau, lo Spi Cgil vuole trasmettere ai giovani i valori indimenticabili di quella generazione di uomini e donne che hanno dato la loro vita con la lotta della Resistenza, della liberazione per la conquista della Repubblica e della nostra Carta costitutiva, ricordando loro che tutti abbiamo il compito di far camminare la memoria, e percorrere assieme un cammino, portando sulle spalle un sentimento di passione civile e democratica, protagonisti ieri come oggi di un anelito di speranza, di libertà, di pace, di giustizia sociale, di legalità, e far camminare la forza delle idee con quel passaparola da generazione in generazione.
Anche per questo è indispensabile una nuova stagione politica che ricostruisca, utilizzando i valori di riscatto e libertà che hanno caratterizzato la memoria del nostro tempo passato, un Paese giusto, democratico , caratterizzato da un forte impegno civile che serva per l’oggi e per il domani.
*Segretario generale Spi-Cgil
L’Unità 15.11.12
“Carcere ai giornalisti. Il Consiglio d’Europa «censura» la norma”, di Natalia Lombardo
Preoccupa non solo chi ha a cuore la libertà d’informazione in Italia e il ministro della Giustizia Severino, ma anche il Consiglio d’Europa, quanto accade al Senato sulla legge che riguarda la diffamazione a mezzo stampa, dopo che la pena del carcere è rispuntata grazie al voto segreto di un emendamento della Lega sostenuto dall’Api di Rutelli. Una legge nata male, tra pulsioni di vendetta da una fetta trasversale del Parlamento, e sulla quale il governo starebbe elaborando un decreto legge «minimale» per l’abolizione del carcere, da sostituire con sanzioni pecuniarie.
Dopo il blitz di martedì nell’aula di Palazzo Madama il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, esprime «grande preoccupazione». Mantenere il carcere sarebbe un «grave passo indietro» e un «messaggio negativo ad altri paesi europei in cui la libertà dei media è seriamente minacciata». Il paradosso è che la legge è stata pensata proprio per evitare che Alessandro Sallusti andasse in carcere. Ora rischia davvero, 19 novembre scadono i trenta giorni dalla notifica. Il direttore del Giornale ieri ha scritto un durissimo editoriale: «Mi fate ridere e pena», ha detto ai leghisti e a Maroni (che gli ha mandato un libro con dedica), senza risparmiare Rutelli, ma anche il Pd e il Pdl.
Da Strasburgo Muiznieks sperava che la diffamazione fosse depenalizzata «portando così l’Italia in linea con gli standard del Consiglio d’Europa». Prevedono che i giornalisti «non devono andare in carcere per le notizie date, e la diffamazione dovrebbe essere sanzionata solo attraverso misure proporzionate previste nel codice civile». Quindi se restasse così la legge verrebbe bocciata in Europa.
La frittata (della vendetta) è fatta e il ddl tornerà in aula al Senato martedì, ha deciso una riunione fiume dei capigruppo. Ma l’auspicio, e la battaglia, del Pd è che la legge pasticcio finisca su un binario morto in commissione e decada. Ma per il Pdl Gasparri propone l’ennesimo emendamento per tenere in piedi la legge e levare il carcere (salvando Sallusti), il relatore Berselli, se pur recalcitrante, sta riscrivendo il testo di nuovo ma tenendo conto del parere europeo.
Una via d’uscita quindi potrebbe essere quella di un decreto del governo a cui segua una norma più ragionata dal Parlamento. La Guardasigilli Paola Severino auspica «che possa riprendere il dibattito parlamentare che porti a un consolidamento della linea dell’esclusione del carcere e un miglioramento delle misure a garanzia da una parte del diritto-dovere di informare e dall’altra del diritto di riparazione, come la rettifica».
Per il leader Pd, Pierluigi Bersani, «non è accettabile» la pena del carcere, però aggiunge: «Non posso dimenticare che il buon nome dei cittadini deve essere preservato», quindi è necessaria una «soluzione di responsabilità, certamente non con lo strumento del carcere». Dura la polemica tra Francesco Rutelli e Franco Siddi, segretario della Federazione della Stampa. Il leader dell’Api, avvelenato per la vicenda Lusi, nella sua dichiarazione di voto martedì ha detto che «in tutte le democrazie europee è previsto il carcere per le diffamazioni gravi, oppure sanzioni pecuniarie severe», a queste non rinuncia e sul carcere ha votato sì. Ma in Europa, come si è visto, la pensano diversamente.
Pronte a mobilitarsi sono anche le giornaliste di Giulia: «Quanto accaduto al Senato, nella cui aula siedono 39 indagati, con lo schermo del voto segreto su un emendamento proposto da Api e Lega, e votato a maggioranza, è vergognoso».
L’Unità 15.11.12
