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“Un deficit di libertà”, di Ezio Mauro

Soltanto chi non vuol vedere ciò che ha sotto gli occhi può ridurre ad una questione di ordine pubblico la mobilitazione contro l’austerità, per il lavoro e il welfare che ha riempito mercoledì le piazze d’Europa. Sulla violenza abbiamo imparato ad essere netti e precisi: chi va in strada per rivendicare i suoi diritti non ha nulla a che spartire con chi cerca lo scontro fisico con la polizia o compie atti vandalici, presenze che vanno dunque denunciate, isolate e contrastate senza nessuna forma di ambiguità. Nel farlo, la polizia ha il dovere di ricordarsi di essere al servizio di uno Stato democratico e dunque mentre garantisce la sicurezza dei cittadini – tutti, anche i manifestanti – deve evitare l’abuso di potere e l’esercizio di una violenza di Stato che purtroppo abbiamo già visto altre volte andare vergognosamente in scena nelle nostre città. E che abbiamo documentato anche ieri, portando il governo a prenderne atto.
Ma detto questo c’è tutto il resto, di cui non si parla. La coesione sociale di questo Paese ha del miracoloso di fronte al processo di esclusione di un pezzo di società dal sistema occidentale di garanzie in cui eravamo cresciuti per decenni. La crisi che stiamo tutti vivendo ha accentuato fortemente la disuguaglianza sociale, che è diventata una cifra dell’epoca, esplosiva. In un Paese irrisolto e malato come l’Italia questa disuguaglianza è diventata sproporzione. E tuttavia il capitale sociale ha tenuto: un insieme di relazioni, interdipendenze, fiducia e speranza, connessioni, che ha consentito al “sistema” di essere tale anche sotto l’urto della crisi. Aggiungiamo la frammentazione dei soggetti sociali e delle loro culture di riferimento, l’egemonia culturale di un neoliberismo storpiato all’italiana in una falsa ideologia che consentiva ogni dismisura e scusava qualsiasi privilegio, giustificando e applaudendo qualunque abuso.
Quegli studenti e quegli operai che sono andati in piazza, disorganizzati e divisi in mille rivoli, rappresentano l’irruzione in scena di ciò che è stato escluso, nel senso vero e proprio del termine: tagliato fuori. Un ceto, una fascia di popolazione, una generazione, possono essere compressi fino all’irrilevanza sociale, dunque politica, cioè fino all’invisibilità. È quanto sta accadendo nelle nostre società, sotto i nostri sguardi che non vedono. E tutto ciò, com’è naturale, avviene attorno alla questione capitale di una società democratica, che è la questione del lavoro.
La perdita del lavoro (e nello stesso modo il lavoro che non c’è) è infatti qualcosa di più della perdita del reddito e della sicurezza economica. È lo smarrimento dei legami sociali, dell’interdipendenza dei ruoli, del riconoscimento reciproco attraverso le funzioni e le obbligazioni volontarie che nascono dalle scelte individuali e dalle necessità collettive. Ma è anche il venir meno dei diritti, fino al diritto democratico supremo, il sentimento della cittadinanza. Molto semplicemente, senza libertà materiale non c’è libertà politica: il lavoro è partecipazione, emancipazione, costruzione di sé e della propria libertà in relazione con gli altri e con le libertà altrui. È la trama in cui la realizzazione della nostra vita entra pubblicamente in rapporto con le vite degli altri, in quel disegno che abbiamo chiamato società, cioè lo stare insieme liberamente accettato in una composizione di diritti e di doveri che tende al cosiddetto bene comune, o qualcosa di simile.
Se si rompe il nucleo di valori comunemente riconosciuto nella civiltà occidentale del lavoro, salta tutto questo. Per gli individui, va in crisi il rapporto stesso con la democrazia, perché quando io non sono più in grado di far fronte ai doveri fondamentali davanti alla mia famiglia e ai miei figli, alle loro necessità primarie, alle legittime aspirazioni (cioè alla libertà), la democrazia può diventare per me un guscio vuoto, un insieme di formule che non trova senso pratico e traduzione concreta nella vita di tutti i giorni. Peggio, la democrazia diventa un sistema che si predica per tutti e si declina per alcuni, il regime degli “inclusi”, dei protetti e dei garantiti, che taglia fuori il resto.
La grande novità della fase che viviamo sta proprio qui. Le disuguaglianze sono state molto forti nei decenni che abbiamo alle spalle, in alcuni casi sono state odiose. Ma il sistema politico- economico in cui siamo cresciuti, il suo orizzonte culturale tendevano fortemente all’inclusione. I sessant’anni del dopoguerra hanno esteso in tutta l’Europa una sorta di economia sociale di mercato che ha liberato la forza e le potenzialità del capitalismo regolandolo con il welfare state: prima forma strutturale di redistribuzione in basso del reddito e sistema di garanzia per i più deboli, evitando che diventassero esclusi. Qualcosa di ben lontano, com’è
evidente, dalla “democrazia compassionevole” e anche dalla “Big society” che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi sociali all’organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti. Com’è chiaro, la beneficenza non ha bisogno della democrazia: ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza.
Siamo al nucleo fondamentale della questione, i diritti. Vedendo che sotto la spinta mai neutrale della crisi i soggetti più deboli e più esposti della nostra società sono stati più volte costretti a scegliere tra lavoro e diritti, addirittura tra lavoro e salute, abbiamo dovuto prendere atto di una questione a cui non eravamo preparati: i diritti nati dal lavoro sono dei diritti “nani”, cioè subordinati e condizionati, che possono venire revocati se la crisi lo impone, dunque sono della variabili dipendenti e non autonome. Eppure fanno parte di quel contesto democratico ngenerale di cui tutti usufruiamo qualunque sia il nostro ruolo, perché è la civiltà materiale italiana nel suo progredire. E tuttavia poiché sono frutto del negoziato (e dunque necessariamente del rapporto di forza) e soprattutto perché costano, in quanto rispondono a delle spettanze, sono comprimibili come non accadrebbe mai ad altri diritti. Dimostrando così che il lavoro può tornare ad essere semplice prestazione, cioè merce, quando perde ogni valenza generale, simbolica, culturale, infine e soprattutto politica.
Questo accade perché il neoliberismo, dopo aver generato la crisi, è riuscito paradossalmente a trasformarsi nel suo presunto antidoto, cioè nell’unica legge di sopravvivenza delle democrazie esauste d’Occidente, diventando nei fatti la religione superstite, una moderna ideologia. Non c’è oggi un confronto culturale in atto, nei nostri Paesi. Non c’è una cultura capace di coniugare capitale, lavoro, responsabilità fuori dal paradigma che ha fallito, ma domina ancora il campo. Le destre non hanno elaborato cultura, declinando il modello dominante in un laissez faire smodato nel campo privato, politico, istituzionale. La sinistra scambia la modernità con il senso comune altrui, in cui nuota controcorrente, da gregaria. L’establishment lucra quel che può dalle rendite di posizione della fase, incapace di guardare oltre. La tecnocrazia, impegnata in una necessaria azione di risanamento e in una nuova forma politica di rispetto delle istituzioni, soffre tuttavia di una specie di “integralismo accademico” che la porta a privilegiare i paradigmi scolastici rispetto alla realtà, salvo prendere atto periodicamente che il governo di un Paese moderno per fortuna non è un convegno di Cernobbio.
A questo bisogna aggiungere la divaricazione crescente tra il vincolo europeo e la sua legittimazione democratica. Strumenti decisivi e cruciali della costruzione europea come la Bce (che dobbiamo ringraziare, nella guerra allo spread) si sono trasformati davanti a noi in veri e propri soggetti della governance comunitaria, senza essere mai stati eletti. Leadership di fatto, come quella di Angela Merkel, contano più delle istituzioni dell’Unione, trojke e istituti che non rispondono ai cittadini commissariano i governi, agenzie di rating pesano più delle pubbliche opinioni. È evidente che ci sarà bisogno di più Europa, per uscire dalla crisi: ma ci sarà soprattutto bisogno di una governance democratica, con una rispondenza visibile e riscontrabile tra autorità, potestà, cittadinanza, rappresentanza. Per il momento, questo deficit di legittimazione produce un deficit di politica, e tutto diventa meccanica: anche il rigore, non temperato dall’equità, dalla valutazione del consenso, dal principio di giustizia sociale, è un paradigma obbligato e obbligatorio, non una politica.
La mancanza di politica si avverte drammaticamente anche dall’altra parte del mondo in cui viviamo. Gli esclusi, i senza lavoro, i ragazzi senza prospettive, non hanno oggi una cultura politica che sappia parlare a loro e per loro. Chi rappresenta il lavoro, quando c’è e deve difendere i suoi diritti, quando non c’è e diventa un deficit di libertà? Oggi non c’è rappresentanza. Con il rischio, come avvertono in molti guardando alla Grecia, che la destra prenda in mano temi tipicamente di sinistra e li agiti nella sua strumentalità antieuropea, in una rinascita modernissima e ambigua di una protesta nazional-sociale sotto altre forme.
Ma se questo è il cuore del problema, non abbiamo finito. Perché l’alleanza capitale-lavoro- welfare è stata un’identità naturale delle democrazie rappresentative dell’Occidente, per tutti questi decenni. Se salta, salta anche il tavolo di compensazione dei conflitti che ci ha tutelati tutti, cioè quel vincolo d’interdipendenza che ha legato e tenuto insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle crisi cicliche, di internet, della globalizzazione, quel nesso di destino comune che ha scusato e reso fin qui tollerabili le disuguaglianze. Fuori da quel vincolo di libertà tra capitale lavoro e cittadinanza è difficile trovare nuove legittimazioni di sistema per tutti, l’imprenditore e il lavoratore. Da lì è nata un’idea di società, con le istituzioni e i legami che ne derivano. Fuori, non sappiamo come riscrivere il contratto sociale, le obbligazioni reciproche, le protezioni e le opportunità di crescita, i nuovi diritti e i nuovi doveri. Il rischio è che la nuova legittimazione sconti l’esclusione, cioè non sia democratica, o meglio che conservi la forma della democrazia, ma non la sostanza a cui eravamo abituati.
Tutto questo crea uno spazio enorme per la politica, e naturalmente per la sinistra. Se solo lo sapessero.
La Repubblica 16.11.12