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"La tentazione di Bersani", di Giovanna Casadio

«Il ricambio è indispensabile ». Quella di Pierluigi Bersani non è solo una parola d’ordine. È una tentazione. Di allargare lo spettro del rinnovamento. E ha iniziato a far scattare una sorta di “moral suasion” nei confronti di molti dei “big”. Sull’onda dell’addio al Parlamento di Veltroni, il segretario del Pd pensa a una strategia per convincere gli amici e compagni di lungo corso a seguire l’esempio di Walter. UN “beau geste” che lui stesso ha indicato come «coraggioso ». «La ruota gira e girerà». Poche parole, un motto dei suoi, ma Bersani sa che il momento è cruciale. Difficilmente sceglierà la strada dello scontro frontale con i decani, della cui esperienza ha sempre detto di non volere fare a meno. Ma non per forza in Parlamento. Perché la strada da imboccare è «il rinnovamento ». Lo chiedono gli elettori. Anche se ieri, con un tempismo che alcuni giudicano sospetto, arriva tutt’altra reazione pugnace di D’Alema: il lìder Massimo rimette nelle mani del partito la questione dei vecchi e dei giovani, con tanto di raccolta di firme che lo sostengono. Del resto il segretario democratico sa che molti faranno “resistenza”. A cominciare da Rosy Bindi che da tempo chiede la “difesa” del partito e non intende rinunciare alla “corsa”. O Anna Finocchiaro che in questo weekend si è limitata a far sapere che «deciderà il partito ». Con tutti loro Bersani parlerà. Senza ultimatum, ma rammentando che il «ricambio ora è indispensabile». Chiederà «generosità » e soprattutto farà notare che la politica non si fa solo alla Camera e al Senato. Ci sarà anche il governo.
I primi risultati già si vedono. Non tutti i leader che Renzi vorrebbe rottamare, sono anche “resistenti”. Alcuni hanno raccolto l’appello che il segretario ha lanciato a Reggio Emilia, a conclusione della Festa del Pd, e che Stefano Fassina ricorda: «Bersani ha chiesto generosità, e Veltroni ha dimostrato generosità». Quanti lo seguiranno, quanti si convinceranno che non è più il momento di deroghe e attaccamento al loro ruolo?
Nelle elezioni politiche del 2008, quando il “rottamatore” Renzi non era ancora in camper, il momento più aspro dello scontro tra vecchi e giovani fu il pensionamento di De Mita da parte dei Democratici. Il “vecchio” De Mita rilanciò a modo suo. In quell’anno, per la composizione delle liste fu prevista una deroga per tutte le donne, a prescindere dai tre mandati. Quindi, Anna Finocchiaro, Livia Turco, Anna Serafini e altre furono riconfermate comunque; Rosy Bindi e Giovanna Melandri non erano arrivate allora ai quindici anni di mandato. E ora? Giovanna Melandri annuncia che, «se resta il Porcellum oppure sono introdotte
le preferenze-spreca soldi», non si ricandida. Altro addio certo è quello di Livia Turco. «E non l’ho detto oggi, ma un anno fa davanti a un’assemblea di mille donne. La rottamazione di Renzi è disastrosa non tanto per noi decani, ma per l’immagine di questi giovani che mostrano di essere “carrieristi”, contro le madri e i padri».
Tra i rottamabili più propensi all’addio ci sarebbero Gian Claudio Bressa, Enrico Morando, Tiziano Treu. Pier Luigi Castagnetti ha tratto il dado: nel 2013 non sarà della partita. Arturo Parisi, che di anni di legislatura ne ha 12, quindi potrebbe formalmente ripresentarsi, non pare voglia farlo. «Non si governa però solo con la freschezza, ci vuole anche esperienza». E a sostenerlo sono i “giovani turchi”, quel gruppo di trenta/quarantenni vicini a Bersani e che fanno loro l’altro motto del segretario: «Le foglie nuove nascono là dove ci sono le radici». Matteo Orfini avverte: «Le aggressioni dei rottamatori sono intollerabili». Alcune settimane fa, Dario Ginefra ha presentato una proposta a Montecitorio per rendere legge il limite dei tre mandati. Con il placet del segretario.
La Repubblica 16.10.12
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D’Alema resiste all’effetto Veltroni “Non sono un oligarca da cacciare mi candido solo se il partito vuole”, di Conchita Sannino
«Avevo detto a Bersani che non volevo candidarmi, ma ora difendo la dignità di una storia». Massimo D’Alema, il giorno dopo l’addio al seggio annunciato da Walter Veltroni, non scioglie fino in fondo la sua “prognosi” e non ci sta a lasciar passare «l’idea che ci sia un gruppo di oligarchi che si devono togliere di mezzo ». Anzi, avverte: «Quell’idea è un’evidente distorsione e denota l’abilità dei nostri competitori a mettere al centro l’eliminazione della classe dirigente del Pd. Non sono alla ricerca di un posto di lavoro ma sono disposto a dare una mano se lo si ritiene necessario, sennò amici come prima».
Per il presidente del Copasir, dunque, non è ancora il tempo di una decisione definitiva. In tour ieri tra Napoli, Salerno e Caserta, ufficialmente per la presentazione di alcuni libri sui democratici, D’Alema si ritrova accanto ad un vecchio compagno come l’ex senatore Umberto Ranieri, già pupillo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E con lieve imbarazzo di D’Alema, Ranieri punta il suo intervento proprio sul «complessivo logoramento della leadership del Pd», sul «successo del fenomeno Renzi, che con tutti i limiti della sua biografia e cultura politica, è vissuto comunque come la liberazione da un’oligarchia ».
Per D’Alema invece c’è solo un punto di partenza. «La mia disposizione è a non candidarmi — sottolinea l’ex premier — Semmai posso candidarmi se il partito mi chiede di farlo». Parole da cui non è lecito trarre conclusioni, perché D’Alema ammette, allo stesso tempo, la volontà di continuare a esercitare la sua rappresentanza, specie per «la sfida del Mezzogiorno ». «Le ragioni del mio impegno politico sono rafforzate dalla solidarietà di tante personalità del sud», aggiunge. Il riferimento è all’appello pubblicato ieri su l’Unità, per una sua candidatura alle politiche, sotto il titolo «Basta divisioni e personalismi. Parta dal sud la sfida per il governo. Per noi D’Alema è punto di riferimento ». Un manifesto firmato da circa 600 nomi tra sindaci, assessori, intellettuali, imprenditori (comprese aziende di calzature, carne e olii) nonché militanti di Puglia, Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia.
Un elenco così lungo che inciampa in qualche imprecisione: il sindaco di Rionero in Vulture, Antonio Placido, smentisce: «Mai firmato per D’Alema, sono inequivocabilmente accanto a Vendola». Così anche il primo cittadino di Avellino Giuseppe Galasso: «Lo stimo ma non ho mai aderito a quell’appello». In compenso ci sono centinaia di docenti universitari e sindaci in carica che si oppongono all’idea della sua “rottamazione” dalla liste.
Si fa ancora più teso, dunque, il braccio di ferro a distanza con Matteo Renzi. E se il sindaco di Firenze prevede: «Bene la scelta di Veltroni: sono sicuro che non sarà l’unico a fare questo passo», D’Alema replica con l’aspra chiarezza di sempre. «Nel momento in cui torneranno in Parlamento Berlusconi, Cicchitto, Dell’Utri, De Gregorio e così via, pensare che il rinnovamento consista nel togliere di mezzo il gruppo dirigente del Pd mi sembra una visione faziosa», puntualizza.
E un assist per l’ex premier D’Alema arriva da un altro ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato, che punta al più concreto aspetto del consenso. «D’Alema è un uomo di grande intelligenza e capacità di leadership, ma, come molti sanno, desta alcune antipatie. Può essere ancora utile, ma si può stare anche fuori dalla politica. Non c’è dubbio che dove D’Alema si presenta prende voti».
La Repubblica 16.10.12

"In Sicilia anche l'arte è a Statuto speciale", di Salvatore Settis

Lo sferzante articolo di Francesco Merlo comparso in queste pagine (“Togliamo alla Sicilia lo Statuto speciale”) colpisce al cuore il tabù delle Regioni a statuto speciale, scoperchiando la pentola della fallimentare super-autonomia siciliana. Alla sua serrata argomentazione si può aggiungere una pennellata sul versante della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale. Quando la Costituente discuteva il testo di quello che fu poi l’articolo 9, dalla Sicilia venne il meglio e il peggio. Il meglio venne nella persona di Concetto Marchesi, latinista catanese, rettore a Padova e deputato comunista, che col democristiano Aldo Moro tenacemente propose e difese l’idea, tutt’altro che scontata, che la tutela trovasse posto fra i principi fondamentali dello Stato. La prima bozza del testo si ispirava a una più generica formulazione nella Costituzione della Repubblica di Weimar (1919), ma cambiò molto prima di raggiungere la forma attuale: l’Italia fu così prima al mondo a porre questo tra i principi fondamentali dello Stato, come poi molti Stati han fatto. Ma dalla Sicilia venne anche il peggio: perché nel suo primo Statuto regionale (approvato con Regio decreto n. 455 del 15 maggio 1946, ben prima della Costituzione) la Sicilia avocava a sé il potere esclusivo su “turismo, vigilanza alberghiera e tutela del paesaggio, conservazione delle antichità e delle opere artistiche, urbanistica, lavori pubblici e musei” (articolo 14). L’Italia era in macerie, la Repubblica nasceva il 2 giugno 1946, la Costituente si metteva al lavoro, ma in Sicilia era già cominciata, pur con gli scarsi mezzi economici di allora, l’aggressione selvaggia al territorio. È quello che disse Marchesi in aula, quando per un breve momento parve che l’articolo 9 venisse cancellato dal testo della Carta perché superfluo: chi potrebbe mai negare, sostenne il democristiano Clerici, questo principio fissato «già nella legislazione pontificia dall’editto Pacca, che segnò quasi 150 anni or sono l’esempio a tutta la legislazione moderna»?
La durissima reazione di Marchesi dà la temperatura di quel che stava già accadendo in Sicilia, esempio lampante, egli disse, del forte rischio che «interessi locali e irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale » (l’Assemblea reagì con «vivi applausi»). «Le esigenze locali reclamano restauri irrazionali o demolizioni non necessarie », continua Marchesi, e proprio per questo «ho proposto quell’articolo nella previsione che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale », usando l’autonomia siciliana come punta di diamante. La Costituzione accolse l’idea di una tutela a livello nazionale, ma i timori di Marchesi erano più che giustificati: la Sicilia riuscì a svincolarsi da ogni soggezione a Roma nel settore con due decreti “balneari” del 30 agosto 1975 (Dpr 635 e 637), emanati, paradossalmente, a pochi mesi di distanza dall’istituzione del ministero dei Beni culturali (29 gennaio 1975). Pochi italiani lo sanno, ma da allora il ministero dei Beni culturali nulla può in Sicilia (e solo in Sicilia), dove l’assessore regionale ha tutti i poteri del ministro. Anche le amministrazioni sono separate: Messina e Reggio sono due fondazioni calcidesi in stretta simbiosi almeno dal VII secolo a.C. e distano pochi chilometri, ma un archeologo che lavora a Messina non può essere trasferito a Reggio, e viceversa, come se lo Stretto fosse una frontiera. Il sogno della Lega, di incatenare al perimetro regionale docenti e impiegati, da quasi quarant’anni è qui una realtà.
E il respiro regionale si fa sentire: i funzionari dei Beni culturali sentono sul collo il fiato dei politici, le Soprintendenze sono state di fatto degradate da centri tecnicoscientifici di ricerca e tutela a organismi politico-amministrativi a misura di collegi elettorali, il degrado del territorio e gli sprechi sono sotto gli occhi di tutti. Giuseppe Voza, storico Soprintendente a Siracusa, ha scritto che “l’abusivismo è stato dilagante, mostruosa l’industrializzazione e sconsiderata la gestione del territorio nel quale il patrimonio archeologico e monumentale è quasi totalmente abbandonato a se stesso”. Un assessore (Antinoro) che si ripromette di cedere integralmente ai privati la gestione dei beni culturali della Sicilia, un presidente (Lombardo) che ipotizza di cedere i siti archeologici in Val di Noto alla compagnia petrolifera russa Lukoil, un sindaco (Zambuto) che si chiede se sia meglio cedere i templi di Agrigento al magnate russo Prokhorov o metterli all’asta da Sotheby’s: questi e altri deliri dovrebbero portare alla ribalta nazionale l’enormità di un degrado, etico e culturale prima che politico.
Eppure la Sicilia fu all’avanguardia nel settore. Qui il vicerè Bartolomeo Corsini emanò nel 1745 l’Ordine del Real Patrimonio di Sicilia che tutelava insieme i boschi alle pendici dell’Etna e le antichità di Taormina (primo esempio al mondo di tutela congiunta di monumenti e paesaggio: proprio come, due secoli dopo, nell’articolo 9 della Costituzione). Il Corsini era fratello del cardinal Neri Corsini, artefice del “patto di famiglia” Medici-Lorena che in quegli anni assicurò la permanenza a Firenze delle collezioni medicee. Entrambi erano nipoti del papa Clemente XII, il fondatore dei Musei Capitolini: dalla Sicilia a Roma a Firenze, questo piccolo spaccato di famiglia mostra come il “modello Italia” di tutela nascesse di concerto da Palermo a Roma a Firenze. E fu in Sicilia che nacque quella Regia Custodia delle Antichità di Sicilia (1778) che è il più importante “precedente” delle Soprintendenze italiane. Nell’inerzia degli ultimi ministri (qualità in cui Ornaghi è ben deciso a battere ogni primato), chi si ricorderà che la formazione e il reclutamento del personale, i criteri e le pratiche della tutela, il carattere tecnico-scientifico degli uffici preposti devono essere identici in tutta Italia? L’autonomia siciliana, ha scritto Francesco Merlo, “è un delitto, lo strumento attraverso cui i siciliani vengono asserviti”, e alla sua mercé è posto l’immenso, preziosissimo patrimonio culturale e paesaggistico dell’isola. Riportiamo dunque in Italia una Sicilia che sembra essersene staccata, come per un perfido processo tettonico che nessun ponte sullo Stretto potrà sanare. Perché non abbia ragione anche oggi Claudio Maria Arezzo, uno storico del XVI secolo che, quando fu chiusa la Camera Regionale di Siracusa a cui erano affidati i rapporti commerciali con la Spagna, commentò così: «Ora che siamo disgiunti, non ci dovesse capitare che siamo congiunti all’Africa? ».

La Repubblica 16.10.12

"In Sicilia anche l'arte è a Statuto speciale", di Salvatore Settis

Lo sferzante articolo di Francesco Merlo comparso in queste pagine (“Togliamo alla Sicilia lo Statuto speciale”) colpisce al cuore il tabù delle Regioni a statuto speciale, scoperchiando la pentola della fallimentare super-autonomia siciliana. Alla sua serrata argomentazione si può aggiungere una pennellata sul versante della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale. Quando la Costituente discuteva il testo di quello che fu poi l’articolo 9, dalla Sicilia venne il meglio e il peggio. Il meglio venne nella persona di Concetto Marchesi, latinista catanese, rettore a Padova e deputato comunista, che col democristiano Aldo Moro tenacemente propose e difese l’idea, tutt’altro che scontata, che la tutela trovasse posto fra i principi fondamentali dello Stato. La prima bozza del testo si ispirava a una più generica formulazione nella Costituzione della Repubblica di Weimar (1919), ma cambiò molto prima di raggiungere la forma attuale: l’Italia fu così prima al mondo a porre questo tra i principi fondamentali dello Stato, come poi molti Stati han fatto. Ma dalla Sicilia venne anche il peggio: perché nel suo primo Statuto regionale (approvato con Regio decreto n. 455 del 15 maggio 1946, ben prima della Costituzione) la Sicilia avocava a sé il potere esclusivo su “turismo, vigilanza alberghiera e tutela del paesaggio, conservazione delle antichità e delle opere artistiche, urbanistica, lavori pubblici e musei” (articolo 14). L’Italia era in macerie, la Repubblica nasceva il 2 giugno 1946, la Costituente si metteva al lavoro, ma in Sicilia era già cominciata, pur con gli scarsi mezzi economici di allora, l’aggressione selvaggia al territorio. È quello che disse Marchesi in aula, quando per un breve momento parve che l’articolo 9 venisse cancellato dal testo della Carta perché superfluo: chi potrebbe mai negare, sostenne il democristiano Clerici, questo principio fissato «già nella legislazione pontificia dall’editto Pacca, che segnò quasi 150 anni or sono l’esempio a tutta la legislazione moderna»?
La durissima reazione di Marchesi dà la temperatura di quel che stava già accadendo in Sicilia, esempio lampante, egli disse, del forte rischio che «interessi locali e irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale » (l’Assemblea reagì con «vivi applausi»). «Le esigenze locali reclamano restauri irrazionali o demolizioni non necessarie », continua Marchesi, e proprio per questo «ho proposto quell’articolo nella previsione che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale », usando l’autonomia siciliana come punta di diamante. La Costituzione accolse l’idea di una tutela a livello nazionale, ma i timori di Marchesi erano più che giustificati: la Sicilia riuscì a svincolarsi da ogni soggezione a Roma nel settore con due decreti “balneari” del 30 agosto 1975 (Dpr 635 e 637), emanati, paradossalmente, a pochi mesi di distanza dall’istituzione del ministero dei Beni culturali (29 gennaio 1975). Pochi italiani lo sanno, ma da allora il ministero dei Beni culturali nulla può in Sicilia (e solo in Sicilia), dove l’assessore regionale ha tutti i poteri del ministro. Anche le amministrazioni sono separate: Messina e Reggio sono due fondazioni calcidesi in stretta simbiosi almeno dal VII secolo a.C. e distano pochi chilometri, ma un archeologo che lavora a Messina non può essere trasferito a Reggio, e viceversa, come se lo Stretto fosse una frontiera. Il sogno della Lega, di incatenare al perimetro regionale docenti e impiegati, da quasi quarant’anni è qui una realtà.
E il respiro regionale si fa sentire: i funzionari dei Beni culturali sentono sul collo il fiato dei politici, le Soprintendenze sono state di fatto degradate da centri tecnicoscientifici di ricerca e tutela a organismi politico-amministrativi a misura di collegi elettorali, il degrado del territorio e gli sprechi sono sotto gli occhi di tutti. Giuseppe Voza, storico Soprintendente a Siracusa, ha scritto che “l’abusivismo è stato dilagante, mostruosa l’industrializzazione e sconsiderata la gestione del territorio nel quale il patrimonio archeologico e monumentale è quasi totalmente abbandonato a se stesso”. Un assessore (Antinoro) che si ripromette di cedere integralmente ai privati la gestione dei beni culturali della Sicilia, un presidente (Lombardo) che ipotizza di cedere i siti archeologici in Val di Noto alla compagnia petrolifera russa Lukoil, un sindaco (Zambuto) che si chiede se sia meglio cedere i templi di Agrigento al magnate russo Prokhorov o metterli all’asta da Sotheby’s: questi e altri deliri dovrebbero portare alla ribalta nazionale l’enormità di un degrado, etico e culturale prima che politico.
Eppure la Sicilia fu all’avanguardia nel settore. Qui il vicerè Bartolomeo Corsini emanò nel 1745 l’Ordine del Real Patrimonio di Sicilia che tutelava insieme i boschi alle pendici dell’Etna e le antichità di Taormina (primo esempio al mondo di tutela congiunta di monumenti e paesaggio: proprio come, due secoli dopo, nell’articolo 9 della Costituzione). Il Corsini era fratello del cardinal Neri Corsini, artefice del “patto di famiglia” Medici-Lorena che in quegli anni assicurò la permanenza a Firenze delle collezioni medicee. Entrambi erano nipoti del papa Clemente XII, il fondatore dei Musei Capitolini: dalla Sicilia a Roma a Firenze, questo piccolo spaccato di famiglia mostra come il “modello Italia” di tutela nascesse di concerto da Palermo a Roma a Firenze. E fu in Sicilia che nacque quella Regia Custodia delle Antichità di Sicilia (1778) che è il più importante “precedente” delle Soprintendenze italiane. Nell’inerzia degli ultimi ministri (qualità in cui Ornaghi è ben deciso a battere ogni primato), chi si ricorderà che la formazione e il reclutamento del personale, i criteri e le pratiche della tutela, il carattere tecnico-scientifico degli uffici preposti devono essere identici in tutta Italia? L’autonomia siciliana, ha scritto Francesco Merlo, “è un delitto, lo strumento attraverso cui i siciliani vengono asserviti”, e alla sua mercé è posto l’immenso, preziosissimo patrimonio culturale e paesaggistico dell’isola. Riportiamo dunque in Italia una Sicilia che sembra essersene staccata, come per un perfido processo tettonico che nessun ponte sullo Stretto potrà sanare. Perché non abbia ragione anche oggi Claudio Maria Arezzo, uno storico del XVI secolo che, quando fu chiusa la Camera Regionale di Siracusa a cui erano affidati i rapporti commerciali con la Spagna, commentò così: «Ora che siamo disgiunti, non ci dovesse capitare che siamo congiunti all’Africa? ».
La Repubblica 16.10.12

Ascoli, dopo denuncia de l'Unità sarà rimosso il quadro del Duce

Il ritratto «idealizzato» di Benito Mussolini (a cavallo, con una tunica bianca e con tanto di capelli) verrà rimosso oggi dall’aula magna dell’Itcg Umberto primo di Ascoli Piceno. Lo rende noto sul suo sito l’Anpi di Ascoli Piceno suo, al quale è stato comunicato dal preside Arturo Verna. Dopo la denuncia di ieri de l’Unità, il dipinto, del 1937 realizzato da Aldo Castelli e restaurato da poco, verrà restituito agli originari proprietari. L’esposizione aveva suscitato un mare di polemiche e secondo l’Anpi, la decisione è stata presa per evitare di «esacerbare ulteriormente gli animi e provocare incidenti.

Il preside, desistendo dalle precedenti considerazioni espresse sull’infausta iniziativa – sottolinea l’associazione partigiana – ha accolto l’invito dell’Anpi ad un sereno confronto, da sviluppare nella scuola, sui temi della Resistenza e dell’antifascismo».

«Pensiamo che tale saggia decisione rappresenti la vittoria del buon senso e della ragione e quindi una vittoria di tutti – conclude il post dell’Anci -, anche per i familiari dell’autore dell’opera, che avevano manifestato il loro disagio per l’iniziativa». Eppure fino a qualche giorno fa sembrava che il muro alzato dal preside fosse ancora alto. L’opera era stata esposta venerdì alla presenza delle istituzioni cittadine per nulla imbarazzate.

Luogo dell’esposizione permanente: l’aula magna di uno degli istituti scolastici più popolosi della città. Il preside Verna, dopo la prima opposizione dell’Anpi, non aveva battuto ciglio ribattendo che «si tratta di un fatto artistico e culturale, con un’opera che è tornata nel luogo per il quale era stato progettata». Senza contare che il dipinto fu fatto nel cuore del Ventennio per celebrare Mussolini e la sua politica fscista. «Non siamo in presenza di un ritratto di Mussolini – aveva detto ancora Verna -, ma di un’allegoria della scuola fascista. Il fatto stesso che sia stato dipinto con i capelli fa capire che si tratta di un Duce idealizzato.

Il ritratto non è specificatamente suo, ma del fascismo». Giustificazione cervellotica visto che non si celebrava il dittatore, ma proprio la dittatura. I motivi per cui fu deciso di togliere il quadro dopo la Liberazione sono gli stessi per cui valeva la pena esporlo di nuovo, in un capovolgimento della storia da consumare ad Ascoli, città medaglia d’oro al valore militare per attività partigiana.

La contestatissima opera rappresenta, nelle intenzioni dell’artista, l’ideale fascista di futuro e innovazione: un vecchio e un giovane insieme a due figure allegoriche (l’arte e la musica), con il grande condottiero a cavallo che sovrasta il tutto.Quando finì la guerra, il dipinto fu smontato e accantonato nei sotterranei di Palazzo della Sanità, per poi sparire nel nulla.

Poco tempo fa, infine, l’opera è riapparsa: una parte era stata comprata da un privato, mentre l’altra era finita a fare da arredamento nella stanza di una dipendente dell’Ufficio Igiene. Alla fine, il preside dell’istituto ha chiesto e ottenuto di esporla nella sua scuola. «Siamo in una scuola intitolata a Umberto I e ora esponiamo un bel dipinto del Duce – avevano detto gli studenti – Il prossimo passo è intitolare un’aula a Licio Gelli». Per quello c’è sempre tempo.

da unita.it

"Scuola senza soldi le famiglie pagano 100 euro a figlio", di Salvo Intravaia

A carico dei genitori il 30% delle spese per la gestione Quasi 100 euro a studente per far “funzionare” le scuole. Mentre il ministero dell’Istruzione pensa a Tablet e Lim per rilanciare gli istituti, sulle spalle delle famiglie pesano i registri di classe per gli insegnanti come la carta igienica e tutte quelle attività per rendere la scuola al passo coi tempi. Un terzo delle spese che servono alla gestione quotidiana degli istituti sono a carico dei genitori. Il paradosso emerge dagli ultimi dati diffusi dal ministero dell’Istruzione sui bilanci degli istituti: se si escludono le risorse per pagare lo stipendio agli insegnanti (quasi 38 miliardi di euro) e quelle per la pulizia affidata a imprese esterne (360 milioni), si scoprono le dimensioni corpose del contributo. E se mamme e papà decidessero all’improvviso di chiudere i cordoni della borsa
alla scuola italiana non resterebbe che offrire solo il minimo indispensabile: niente patente per ciclomotore, gite d’istruzione, mensa, assicurazione per gli alunni o certificati linguistici, per citare soltanto alcune attività.
Del resto, quella di chiedere un “contributo volontario” ai genitori è prassi consolidata. In alcuni istituti, come al liceo classico Beccaria di Milano, l’obolo raggiunge la cifra record dell’88 per cento del totale dei finanziamenti, è l’86 per cento all’istituto internazionale statale Spinelli di Torino. Lo scorso 18 maggio, l’Asal (l’Associazione delle scuole autonome del Lazio) — cui aderisce quasi il 40 per cento delle scuole della Regione — ha spedito una lettera alle famiglie per spiegare la situazione degli istituti dopo “la drammatica stagione dei tagli degli scorsi anni”.
E denunciare l’emergenza che sarebbe scattata con la ripresa delle lezioni: “I finanziamenti per assicurare aspetti fondamentali del funzionamento degli istituti sono stati, nel triennio, drasticamente
ridotti: quasi completamente azzerati per i corsi di recupero delle superiori, ridotti del 71 per cento quelli per il miglioramento dell’offerta formativa, gravemente insufficienti quelli per gli acquisti di materiali di consumo, fotocopie, manutenzioni, sicurezza, ecc”. “In questa situazione — ammette la missiva — molte scuole, anche dell’obbligo, hanno deciso di richiedere contributi alle famiglie che rappresentano effettivamente una valida risorsa per migliorare il servizio”.
Ma quanto spendono gli italiani per consentire alle scuole statali di funzionare e offrire agli alunni una formazione che almeno assomigli a quella auspicata dai partner europei? E quanto spendono enti locali e Regioni, lo Stato e l’Unione europea? Dai dati del ministero si deduce che su oltre due miliardi e mezzo di finanziamenti per le spese di funzionamento, le famiglie scuciono 744 milioni, pari al 30 per cento di tutti i finanziamenti ricevuti dalle scuole per il funzionamento didattico e amministrativo. Nelle regioni dell’Italia centrale questa quota sfiora il 40 per cento, mentre al Sud scende al 22 per cento. Gli enti locali, obbligati ad affiancare lo Stato nel sostenere le scuole pubbliche, non vanno oltre il 17 per cento di quanto inserito nei bilanci scolastici. Lo Stato si sobbarca il 37 per cento delle spese per il funzionamento generale e una quota consistente, ma solo al Sud, arriva anche dall’Unione europea soprattutto attraverso i fondi destinati alle regioni meridionali. Nell’elenco dei più tartassati invece spiccano alunni e genitori del Lazio: dove il contributo delle famiglie tocca quota 42 per cento.

La Repubblica 15.10.12

"Scuola senza soldi le famiglie pagano 100 euro a figlio", di Salvo Intravaia

A carico dei genitori il 30% delle spese per la gestione Quasi 100 euro a studente per far “funzionare” le scuole. Mentre il ministero dell’Istruzione pensa a Tablet e Lim per rilanciare gli istituti, sulle spalle delle famiglie pesano i registri di classe per gli insegnanti come la carta igienica e tutte quelle attività per rendere la scuola al passo coi tempi. Un terzo delle spese che servono alla gestione quotidiana degli istituti sono a carico dei genitori. Il paradosso emerge dagli ultimi dati diffusi dal ministero dell’Istruzione sui bilanci degli istituti: se si escludono le risorse per pagare lo stipendio agli insegnanti (quasi 38 miliardi di euro) e quelle per la pulizia affidata a imprese esterne (360 milioni), si scoprono le dimensioni corpose del contributo. E se mamme e papà decidessero all’improvviso di chiudere i cordoni della borsa
alla scuola italiana non resterebbe che offrire solo il minimo indispensabile: niente patente per ciclomotore, gite d’istruzione, mensa, assicurazione per gli alunni o certificati linguistici, per citare soltanto alcune attività.
Del resto, quella di chiedere un “contributo volontario” ai genitori è prassi consolidata. In alcuni istituti, come al liceo classico Beccaria di Milano, l’obolo raggiunge la cifra record dell’88 per cento del totale dei finanziamenti, è l’86 per cento all’istituto internazionale statale Spinelli di Torino. Lo scorso 18 maggio, l’Asal (l’Associazione delle scuole autonome del Lazio) — cui aderisce quasi il 40 per cento delle scuole della Regione — ha spedito una lettera alle famiglie per spiegare la situazione degli istituti dopo “la drammatica stagione dei tagli degli scorsi anni”.
E denunciare l’emergenza che sarebbe scattata con la ripresa delle lezioni: “I finanziamenti per assicurare aspetti fondamentali del funzionamento degli istituti sono stati, nel triennio, drasticamente
ridotti: quasi completamente azzerati per i corsi di recupero delle superiori, ridotti del 71 per cento quelli per il miglioramento dell’offerta formativa, gravemente insufficienti quelli per gli acquisti di materiali di consumo, fotocopie, manutenzioni, sicurezza, ecc”. “In questa situazione — ammette la missiva — molte scuole, anche dell’obbligo, hanno deciso di richiedere contributi alle famiglie che rappresentano effettivamente una valida risorsa per migliorare il servizio”.
Ma quanto spendono gli italiani per consentire alle scuole statali di funzionare e offrire agli alunni una formazione che almeno assomigli a quella auspicata dai partner europei? E quanto spendono enti locali e Regioni, lo Stato e l’Unione europea? Dai dati del ministero si deduce che su oltre due miliardi e mezzo di finanziamenti per le spese di funzionamento, le famiglie scuciono 744 milioni, pari al 30 per cento di tutti i finanziamenti ricevuti dalle scuole per il funzionamento didattico e amministrativo. Nelle regioni dell’Italia centrale questa quota sfiora il 40 per cento, mentre al Sud scende al 22 per cento. Gli enti locali, obbligati ad affiancare lo Stato nel sostenere le scuole pubbliche, non vanno oltre il 17 per cento di quanto inserito nei bilanci scolastici. Lo Stato si sobbarca il 37 per cento delle spese per il funzionamento generale e una quota consistente, ma solo al Sud, arriva anche dall’Unione europea soprattutto attraverso i fondi destinati alle regioni meridionali. Nell’elenco dei più tartassati invece spiccano alunni e genitori del Lazio: dove il contributo delle famiglie tocca quota 42 per cento.
La Repubblica 15.10.12

"Malala ha vinto, con lei le giovani del Pakistan", di Cristiana Cella

Milioni di persone spiano con il fiato sospeso ogni minimo segno di miglioramento, il movimento di un dito, di una mano, ogni segno di ripresa. Malala Yusufzai, la giovanissima attivista per i diritti delle donne in Pakistan, gravemente ferita dai talebani, combatte per la sua vita in un ospedale di Rawalpindi, intubata e in terapia intensiva. Forse sarà trasportata all’estero da un aeroambulanza degli Emirati Arabi Uniti, atterrata oggi a Islamabad. Intorno a lei, nel suo paese e nel mondo, cresce un’onda di protesta anti talebana e di solidarietà. Milioni di studenti in Pakistan pregano per lei, insieme agli insegnanti, fiaccolate di ragazzine della sua età gridano per le strade la loro rabbia per l’attacco alla «figlia della nazione».
I social media sono sommersi da accorati appelli, da migliaia di denunce. Sabato, nelle scuole afghane, le lezioni sono iniziate con una preghiera per lei. Ma non solo. Venerdì fedeli e perfino mullah, nelle moschee pachistane, prendevano posizione apertamente, durante la preghiera, dichiarando come anti-islamico il feroce gesto di violenza. Leader politici del suo paese, da sempre ambiguo verso i talebani, che ha sostenuto e sostiene da decenni, denunciano la violenza oscurantista. Per i giovani pachistani è un’eroina, un simbolo.
È questa la vittoria di Malala, una vittoria sanguinosa, che ha svegliato di colpo un paese intero, sotto shock per l’attentato. Come scrive il NewYorkTimes, è successo qualcosa di fondamentalmente diverso, l’attacco a Malala ha «liberato menti incatenate e talebanizzate». Ha dimostrato che, contro la ferocia e l’odio fondamentalista, si può reagire, con strumenti di pace, anche, e soprattutto, all’interno della comunità islamica.
Malala aveva denunciato, con il suo diario scritto per la BBC, nel 2009, l’insostenibile vita quotidiana di ragazze e donne negli anni in cui la Swat Valley, la sua bellissima regione, era sotto il controllo talebano. Da allora è nel mirino. Nelle aree sotto il loro controllo, in Pakistan come in Afghanistan, i talebani proibiscono l’istruzione femminile, attaccano le studentesse con l’acido, danno alle fiamme le scuole, uccidono insegnanti e donne che ricoprono ruoli pubblici, ottengono di trasformare i programmi scolastici e le scuole in madrasse. Impediscono le vaccinazioni, bandiscono le leggi laiche, sostituendole con quelle islamiche, con effetti devastanti per le donne.
IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE
Come studentessa, Malala, figlia di un insegnante illuminato e democratico, ritiene la chiusura delle scuole per le ragazze insopportabile. Come sbarrare una porta sulla vita e sul futuro. Aveva solo 11 anni quando ha deciso di cominciare a parlare e non ha mai smesso, nonostante le minacce. Per Malala l’istruzione è l’unica vera arma contro l’integralismo e per l’affermazione dei diritti umani: «Io ho dei diritti. Ho il diritto all’istruzione. Ho il diritto di giocare. Ho il diritto di cantare. Ho il diritto di parlare. Ho il diritto di andare al mercato. Ho il diritto di parlare in pubblico».
I talebani hanno cercato di farla tacere ma hanno sbagliato strategia. La sua voce si è moltiplicata, portandosi dietro un paese intero. Ha scatenato la reazione di una società civile che non sopporta più gli abusi di potere giustificati da un’ interpretazione oscurantista dell’Islam. In un’intervista di un anno fa, Malala dice che vorrebbe parlare con i talebani e lo farebbe mostrando loro il Corano e sfidandoli a trovare, nelle parole sacre, qualcosa che sostenga le loro feroci intimidazioni.
COME A KABUL
La sfida di Malala è una vittoria per milioni di ragazze, nel suo paese, come in Afghanistan, al di là delle sue montagne, dove il fondamentalismo islamico continua a mietere vittime e a incatenare la vita delle donne. E delle bambine.
Perché la guerra delle donne inizia presto qui. Vendute in matrimonio dall’età di 9 anni, scambiate per rimediare alle offese tra famiglie, stuprate, subiscono ogni tipo di violenza, non possono studiare, uscire da sole, lavorare, curarsi, avere giustizia. Non hanno diritti e non sanno di averli. Vite cancellate, non solo dai talebani che hanno molti fratelli in Pakistan come al di là del Kyber Pass, in Afghanistan. I partiti fondamentalisti che governano molte province afghane non sono da meno. Usare leggi oscurantiste per controllare metà della popolazione e impedire la loro esistenza pubblica non è un problema religioso. È una strategia brutale di controllo politico del potere. Ho incontrato ragazzine, con lo stesso bel viso ancora infantile, con lo stesso sguardo determinato e coraggioso di Malala, anche nelle scuole dei quartieri degradati di Kabul. Ragazzine che sapevano quello che sa e dice Malala: che l’istruzione è un’arma contro il sopruso, la violenza e l’ignoranza. Per cambiare e conquistarsi una chance. Bambine che andavano a scuola di nascosto da padri e mariti, rischiando molto, per avere gli strumenti per prendere in mano la propria vita. Malala è una di loro, cresciuta in una famiglia aperta e lungimirante, e che, anche per loro, rompe la violenza del silenzio. Il suo coraggio è il loro. E la marea di denuncia e di sostegno che ha messo in moto la sua aggressione non si fermerà.

L’Unità 15.10.12

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“La lezione della piccola Malala”, di Jawad Joya

Jawad Joya ha 26 anni e vive a Kabul. Ha vissuto e studiato in Italia e negli Stati Uniti d’America, da dove è tornato a Kabul tre anni fa per rendersi utile nella rinascita della città e del Paese. Può essere contattato all’indirizzo e-mail: postcard.paradiso@gmail.com

La settimana scorsa i taleban hanno sparato alla testa a Malala Yousafzai. Malala è una ragazzina di 14 anni che, a quanto riportano i media, ha mostrato un irriducibile amore per lo studio: per sè e per le ragazze come lei. I taleban hanno considerato questa attività come una minaccia al loro stile di vita e alla prevalenza della loro ideologia. Perciò hanno deciso di uccidere la quattordicenne, affinché servisse da esempio alle altre.
Questa è una notizia choccante ma non è affatto nuova per me. Io ho vissuto laggiù e l’ho visto con i miei occhi. Quando nel 1996 i taleban presero Kabul, chiusero quasi tutte le scuole nella capitale e nel resto del Paese. Dal primo giorno i taleban hanno riservato una speciale attenzione alle donne e alle ragazze. Sono ossessionati dalle donne, dalle loro vite, dai loro corpi. Mi ricordo che nel 1966 sentii annunciare a Radio Kabul che tutte le donne che lavoravano, nel pubblico come nel privato, dovevano restare a casa fino a «ulteriori notizie».
Le «ulteriori notizie» non sono mai arrivate pubblicamente. Da allora, «ulteriori notizie» è diventato un nome in codice per la punizione di chi ha il coraggio di disattendere un ordine dei taleban, specialmente le donne. In molte località del Sud del Paese ricevere «ulteriori notizie» significa essere uccisi o puniti pubblicamente. Quando nessuna di queste due cose è possibile, mandano un kamikaze per consegnare la loro «risposta». È vero che i taleban non hanno più il controllo di Kabul, ma continuano a influenzare la vita pubblica nel Sud e nell’Est dell’Afghanistan. Recentemente hanno lapidato una coppia per adulterio e fucilato una donna per una presunta relazione sessuale con un uomo «non autorizzato». Nell’idea di mondo dei taleban, fare del sesso «non autorizzato» porta alla morte.
Quello che io avverto a Kabul è un senso di crescente differenza generazionale tra i vecchi e i giovani. I più anziani sono socialmente conservatori e la maggior parte di loro è stanca di guerre, personali o nazionali. I giovani invece sono più affamati di rischi. Hanno mostrato un forte desiderio di essere collegati con il mondo globale che è dinamico, vario, interconnesso e allettante. L’istruzione può fornire un biglietto per quel «mondo». In questo contesto i taleban non offrono ai giovani alcunché di utile, mentre tolgono loro la capacità di competere, di costruirsi una vita diversa guadagnandosi il pane legittimamente. Ma i taleban non prevarranno.

La Stampa 15.10.12