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"Legge di Stabilità, non era gossip: l’innalzamento a 24 ore c’è e rimane in piedi", di A.G. da La Tecnica della Scuola

A confermarlo è Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd: come temevamo, ci sono tagli insostenibili per la scuola; li contrasteremo con forza stando vicini a tutte le mobilitazioni annunciate. Ma il Partito Democratico avrà la forza di opporsi sino in fondo, sino a votare contro il Governo Monti? Altro che gossip, come aveva detto il ministro Profumo. Erano (purtroppo!) corrette le indiscrezioni dei giorni passati sulla presenza, nella Legge di Stabilità approvata dal Consiglio dei Ministri, dell’incremento sino a 24 ore d’insegnamento settimanale per tutti i docenti. E anche sul dimezzamento dello stipendio per le giornate fruite per assistere (pur avendo ottenuto i permessi previsti dalla Legge 104/92) i parenti non di primo grado.
Tanto è vero che, sebbene rispetto alla bozza iniziale sembra che siano già state attuate delle modifiche, la “stretta” sui dipendenti sarebbe rimasta in piedi.
“Nella legge di stabilità, come temevamo, ci sono tagli insostenibili per la scuola”, ha dichiarato nella serata del 15 ottobre Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd. Secondo la componente del Partito democratico, che nelle ultime ore ha espresso attraverso diversi suoi rappresentanti di rilievo la contrarietà a questi provvedimenti penalizzanti, si tratta di tagli del tutto “insostenibili socialmente. Insostenibili per i ragazzi con disabilità. Non era gossip, dunque”, ha sottolineato la Puglisi.
La quale ha anche confermato che “il Partito democratico li contrasterà con forza. Saremo vicini a tutte le mobilitazioni delle lavoratrici e dei lavoratori annunciate nelle prossime settimane dalle parti sociali”. Quindi anche allo sciopero del 24 novembre, annunciato poche ore fa da Cisl, Uil, Snals e Gilda.
Intanto, molti lettori ritengono che l’impegno preso dal Pd sia una presa di posizione su cui contare. Del resto il partito è tra quelli che sostiene il Governo Monti e deve, per forza di cose, avere una sua influenza sulle norme da votare. Resta però da capire se il Pd, prossimo alle primarie, avrà la forza di opporsi sino in fondo. Ed eventualmente sino al punto saranno disposti a votare contro, anche nel caso si arrivasse alla fiducia, un Governo tecnico che hanno sostenuto (per senso di responsabilità in un momento particolarmente difficile, soprattutto per l’economia del Paese) sin dal primo giorno.
Quel sostegno che ora lavoratori, sindacati e diversi altri partiti politici (contrari a questa Legge di Stabilità sono anche Idv, Lega e almeno alcuni esponenti di Futuro e Libertà) sembrano volere fare venire meno. L’impressione è che il Pd rappresenti l’ago della bilancia. Giocandosi, su questa “partita” anche molta credibilità, sia in vista delle imminenti primarie, sia soprattutto in riferimento alle elezioni politiche di primavera.

La Tecnica della Scuola 16.10.12

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“In arrivo un taglio di 22 mila posti”, di Alessandra Riccardi

Con l’operazione 24 ore si risparmiano 723 milioni di euro. In cambio, 15 giorni di ferie in più. Il governo: avanzano 46 giorni. Tagli per circa 723 milioni di euro, ma senza effetti contabili. Il Tesoro evidentemente non si fida che anche la scuola possa dare un contributo alla sostenibilità dei conti pubblici per il 2013-2014. E però i tagli ci sono tutti: per almeno 22 mila posti. É l’effetto dell’operazione 24 ore, ovvero le 6 ore in più di cattedra la settimana per i docenti di ruolo, prevista dal disegno di legge di stabilità, in queste ore alla camera per l’avvio del suo iter parlamentare.
Nello stimare il risparmio, si precisa che si è scelto, «a fini prudenziali, di non addurre effetti positivi sui saldi di finanza pubblica… sebbene dalla norma conseguirà certamente una riduzione del relativo fabbisogno. Tali effetti potranno essere verificati a consuntivo». Ambienti ministeriali spiegano che la prudenza è dettata non solo dalla necessità di monitorare sul campo il funzionamento dell’operazione (che è facile a dirsi, ma non a farsi) ma anche dall’opportunità di lasciarsi un margine di trattativa con il parlamento e con i sindacati. Per tutti vale quanto detto dal ministro dell’economia, Vittorio Grilli, che ha chiarito: «Sì a modifiche migliorative, ma senza modificare i saldi finanziari». Sull’operazione 24 ore hanno già annunciato battaglia partiti e sigle sindacali. Se l’obiettivo finale di risparmio saranno quei 180 milioni di euro di cui si vociferava a viale Trastevere all’inizio dell’operazione 24 ore, è presto per dirlo. Bisogna attendere fine anno, quando il ddl sarà legge. Il disegno del governo prevede che i prof di ruolo dal prossimo settembre debbano svolgere un orario di cattedra di 24 ore, contro le attuali 18. Le 6 ore in più dovranno essere utilizzate innanzitutto per coprire gli spezzoni orari, ovvero le ore che residuano dalla costituzione delle cattedre ordinarie. Per farlo, è necessario che i docenti abbiano il relativo titolo di studio, non serve neanche l’abilitazione. Già oggi possono insegnare sugli spezzoni e fino a 6 ore in più la settimana ma il tutto è volontario ed è pagato a parte: circa 129 milioni di euro, tanto è costato nel 2011. E poi ci sono le supplenze brevi e saltuarie: in questo caso, tra secondaria di primo e secondo grado, si conteggia che si possano risparmiare altri 265 milioni di euro affidando le sostituzioni a prof di ruolo. Discorso a parte per il sostegno: con l’orario a 24 ore settimanali, da utilizzare solo sul sostegno e non su altre discipline, si risparmiano altre 10mila cattedre nell’organico di fatto. L’operazione 24 ore scatterà nella scuola di titolarità: il che significa che se non ci sono spezzoni o supplenze da fare nel proprio istituto, e sulla propria disciplina, un docente potrebbe trovarsi a non prestare le sue 6 ore in più a differenza di un collega. E però, il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, ha aperto a quella che sembra già essere una modifica alla norma: i docenti potranno avere orari differenziati, chi lavora meno sarà pagato di meno. E comunque si deve andare verso un ampliamento del piano dell’offerta formativa, dice il ministro, che farebbe pensare a un utilizzo su attività complementari delle ore che avanzano.

Il ddl Stabilità prevede che le 6 ore in più di cattedra siano compensate con 15 giorni di ferie. Il governo ha stimato, calendari scolastici alla mano, che si possono tranquillamente fare 47 giorni di ferie l’anno anche quando si fanno scrutini, esami di stato e programmazione dell’attività didattica di inizio anno. Fatte le ferie, infatti, avanzerebbero almeno altri 45 giorni disponibili. Insomma, si chiamano ferie quelle che già oggi sono giorni non lavorati.

da ItaliaOggi 16.10.12

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“Petizione “no alle cattedre di 24 ore“ raggiunge in poche ore 16mila firme”, di A.D.F.

Se passasse il piano che il Ministro dell’Istruzione ha intenzione di proporre, le condizioni di lavoro degli insegnanti diventerebbero a dir poco disumane. Dopo l’annuncio mediatico sulla proposta di istituire nella scuola superiore di primo e secondo grado cattedre di 24 ore, è stata presentata una petizione on line dal titolo “No alle cattedre di 24 ore. Fermiamo il ministro Profumo“.
La proposta del ministro Profumo di aumentare il numero delle ore di insegnamento da 18 a 24 creerà ulteriore scompiglio nelle vite di migliaia e migliaia di famiglie di docenti e di studenti. Secondo la petizione non si tratta soltanto di un ennesimo attacco al salario (l’aumento delle ore, infatti, non equivarrebbe a un aumento dello stipendio mensile!). Se dovesse passare il piano che il Ministro dell’Istruzione ha intenzione di proporre, le condizioni di lavoro degli insegnanti di ruolo diventerebbero a dir poco disumane.
Ad esempio di quanto detto la petizione porta il caso di un insegnante di francese delle medie, che per arrivare a 24 ore, dovrebbe insegnare in dodici classi, partecipare alle riunioni di dodici consigli di classe (lavorando così per molte ore pomeridiane in più, che peraltro non verrebbero computate) e correggere un numero spropositato di verifiche scritte (anche questo lavoro non computato per lo stipendio mensile). In ogni caso, l’aumento naturale degli impegni pomeridiani andrebbe a sottrarre tempo alla fase della preparazione delle lezioni e del materiale didattico, con un naturale scadimento della qualità dell’insegnamento.
La cosa peggiore, però, è che l’aumento delle ore di un terzo rispetto a quelle attuali comporterebbe anche un taglio di un terzo delle cattedre attualmente presenti nel nostro paese! Da segnalare il successo dell’iniziativa che in poche ore ha raggiunto l’adesione di oltre 16mila firme.

16.10.12

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“Cari prof, sporcatevi le mani. Non solo d’inchiostro”, di Giuseppe Caliceti

Il ministro Profumo è bravo a fare gesti di solidarietà. Peccato che, meschinamente, non li faccia di persona, ma li faccia fare ad altri. Parlo del sofisma col quale il ministro ha annunciato la sua proposta di aumentare ai professori, dal prossimo anno scolastico, l’orario settimanale. Dalle 18 ore attuali alle 24 di docenza in classe. Come per altro avviene già per i docenti della scuola primaria. Per la precisione, 22 ore frontali sulla classe e due ore di programmazione settimanale di team. Di fronte a questa possibilità si è assistito a un effluvio di lettere ai giornali. Tra le più belle, appassionate e argomentate, segnalo la lettera al ministro Profumo della prof. Mariangela Calateo Vaglio, nel suo blog sull’Espresso intitolato «Non volevo fare la prof». Un governo che d’imperio minaccia di stracciare un contratto di lavoro per imporne un altro, senza contrattazione, compie un atto gravissimo. Ogni commento è superfluo: siamo alle barbarie. D’altra parte, è interessante analizzare questa reazione docente. Per lo più scomposta, occorre dirlo. Spesso la sacrosanta alzata di scudi delle prof assomigliava a chi improvvisamente si svegliasse da anni di letargo.
Non voler passare da 18 a 24 ore settimanali, se non si spiega bene, rischia difficile da comprendere da un’opinione pubblica addestrata per anni da media e politici all’esercizio delle denigrazione della scuola pubblica e dei suoi docenti, senza che la maggioranza di quest’ultimi, fino ad ora, abbia sentito l’esigenza di scrivere lettere ai giornali e protestare efficacemente. Soprattutto, mi pare che questa protesta metta in luce le ataviche debolezze del corpo docente italiano, di gran lunga più inerme di quello dei taxisti o dei camionisti, degli avvocati o degli operai. Quali? La divisione. L’individualismo. L’incapacità di far gruppo. La pochezza politica. La paura. E pur prendendomi ugualmente del maschilista, non credo che questo accada perché la maggior parte è femminile.
Se si confrontano i livelli di indignazione con i numeri della partecipazione dei docenti, per esempio al recente sciopero della scuola della Cgil, la latitanza politica – in senso partecipativo, non di appartenenza a un sindacato o a un partito – è lampante. La responsabilità di quanto sta accadendo è legata anche a quanto i docenti hanno lasciato fare. Alla diffidenza verso gli scioperi che ha la stragrande maggioranza. All’estrema diligenza con la quale avviene ogni loro forma di protesta e di lotta. Occorre ricordare loro – ricordarci – che la scuola che si trovano a lavorare ora, non è sempre stata così, ma è il frutto di lotte di anni e anni che tanti – docenti, genitori, studenti, sindacati, politici – hanno fatto prima di loro senza guardare al loro solo particolare. E in questo periodo, se i diritti non vengono salvaguardati, non avviene una loro manutenzione, semplicemente vengono tolti. Gli ultimi due governi lo hanno mostrato chiaramente: non intendono dialogare con i docenti né con gli studenti, ma fare quello che vogliono passando sulle teste di tutti. Se si teme di perdere cento euro perché si aderisce a uno sciopero, se ne subiscano poi le conseguenze senza protestare troppo. Non è tempo di belle lettere ai giornali, ma di fatti, di prese di posizioni forti che da decenni mancano nella scuola italiana. Occorre sporcarsi le mani non solo d’inchiostro, ma organizzando una seria protesta. Magari perdendoci anche più di sei ore settimanali. Gratis. Altrimenti qualcun altro ve ne farà fare gratis anche molte più di sei.

Il Manifesto 16.01.12

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“Ma già si lavora più che in Europa. Ricerca Uil scuola”di Emanuela Micucci*

Non solo le retribuzioni più basse d’Europa, ma anche un numero di ore
settimanali di insegnamento tra i più alti d’Europa. I docenti italiani
sono in classe 22 ore a settimana nella scuola primaria contro una media
dell’Ue di 19,6 ore e 18 ore alle superiori contro le 16,3 dei colleghi
europei. Mentre alle superiori l’orario di lezione è in linea con la
media europea: 18 ore. É quanto ricorda una ricerca della Uil Scuola,
mettendo a confronto i dati Eurydice 2011 (www.uil.it/uilscuola/).
Confutando, così, la tesi che sorregge la legge di stabilità che vuole
incrementare di 6 ore settimanali l’orario di insegnamento alla
secondaria, portandolo a 24 ore: allinearsi con l’Europa. Gli insegnati
italiani, infatti, sono in cattedra per più ore dei colleghi francesi,
austriaci, finlandesi e come i docenti tedeschi e belgi. Uno spread di 4
ore alle superiori divide la Francia dall’Italia. Mentre si impenna con
la pluripremiata scuola finlandese: 4 ore alla primaria (18 ore), 2 ore
alle medie (16 ore) e 3 alle superiori (15 ore). Quanto la Grecia. E con
la Germania sul monte ore di insegnamento è patta: spread azzerato alla
secondaria di primo e secondo grado (18 ore) e vantaggio italiano di 2
ore alla primaria (20 ore). La situazione si ribalta con la Spagna, dove
gli insegnati lavorano 25 ore alle elementari e 19 alle secondarie. Ma i
veri stakanovisti sono i maestri maltesi con 26 ore settimanali in
classe e i professori portoghesi e irlandesi che, alle medie e alle
superiori, raggiungono le 22 ore. I più fannulloni, gli insegnanti
dell’Est: 12 ore alle elementari bulgare, che salgono a 14 alle
superiori. Come in Polonia, che alle medie ha il record della settimana
più corta d’Europa di sole 14 ore. Seguono Estonia, Repubblica Ceca e
Slovenia. Restano fuori dal novero dell’orario di cattedra:le ore di
programmazione e preparazione delle lezioni e di correzione dei compiti.

da ItaliaOggi 16.10.12

"Legge di Stabilità, non era gossip: l’innalzamento a 24 ore c’è e rimane in piedi", di A.G. da La Tecnica della Scuola

A confermarlo è Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd: come temevamo, ci sono tagli insostenibili per la scuola; li contrasteremo con forza stando vicini a tutte le mobilitazioni annunciate. Ma il Partito Democratico avrà la forza di opporsi sino in fondo, sino a votare contro il Governo Monti? Altro che gossip, come aveva detto il ministro Profumo. Erano (purtroppo!) corrette le indiscrezioni dei giorni passati sulla presenza, nella Legge di Stabilità approvata dal Consiglio dei Ministri, dell’incremento sino a 24 ore d’insegnamento settimanale per tutti i docenti. E anche sul dimezzamento dello stipendio per le giornate fruite per assistere (pur avendo ottenuto i permessi previsti dalla Legge 104/92) i parenti non di primo grado.
Tanto è vero che, sebbene rispetto alla bozza iniziale sembra che siano già state attuate delle modifiche, la “stretta” sui dipendenti sarebbe rimasta in piedi.
“Nella legge di stabilità, come temevamo, ci sono tagli insostenibili per la scuola”, ha dichiarato nella serata del 15 ottobre Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd. Secondo la componente del Partito democratico, che nelle ultime ore ha espresso attraverso diversi suoi rappresentanti di rilievo la contrarietà a questi provvedimenti penalizzanti, si tratta di tagli del tutto “insostenibili socialmente. Insostenibili per i ragazzi con disabilità. Non era gossip, dunque”, ha sottolineato la Puglisi.
La quale ha anche confermato che “il Partito democratico li contrasterà con forza. Saremo vicini a tutte le mobilitazioni delle lavoratrici e dei lavoratori annunciate nelle prossime settimane dalle parti sociali”. Quindi anche allo sciopero del 24 novembre, annunciato poche ore fa da Cisl, Uil, Snals e Gilda.
Intanto, molti lettori ritengono che l’impegno preso dal Pd sia una presa di posizione su cui contare. Del resto il partito è tra quelli che sostiene il Governo Monti e deve, per forza di cose, avere una sua influenza sulle norme da votare. Resta però da capire se il Pd, prossimo alle primarie, avrà la forza di opporsi sino in fondo. Ed eventualmente sino al punto saranno disposti a votare contro, anche nel caso si arrivasse alla fiducia, un Governo tecnico che hanno sostenuto (per senso di responsabilità in un momento particolarmente difficile, soprattutto per l’economia del Paese) sin dal primo giorno.
Quel sostegno che ora lavoratori, sindacati e diversi altri partiti politici (contrari a questa Legge di Stabilità sono anche Idv, Lega e almeno alcuni esponenti di Futuro e Libertà) sembrano volere fare venire meno. L’impressione è che il Pd rappresenti l’ago della bilancia. Giocandosi, su questa “partita” anche molta credibilità, sia in vista delle imminenti primarie, sia soprattutto in riferimento alle elezioni politiche di primavera.
La Tecnica della Scuola 16.10.12
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“In arrivo un taglio di 22 mila posti”, di Alessandra Riccardi
Con l’operazione 24 ore si risparmiano 723 milioni di euro. In cambio, 15 giorni di ferie in più. Il governo: avanzano 46 giorni. Tagli per circa 723 milioni di euro, ma senza effetti contabili. Il Tesoro evidentemente non si fida che anche la scuola possa dare un contributo alla sostenibilità dei conti pubblici per il 2013-2014. E però i tagli ci sono tutti: per almeno 22 mila posti. É l’effetto dell’operazione 24 ore, ovvero le 6 ore in più di cattedra la settimana per i docenti di ruolo, prevista dal disegno di legge di stabilità, in queste ore alla camera per l’avvio del suo iter parlamentare.
Nello stimare il risparmio, si precisa che si è scelto, «a fini prudenziali, di non addurre effetti positivi sui saldi di finanza pubblica… sebbene dalla norma conseguirà certamente una riduzione del relativo fabbisogno. Tali effetti potranno essere verificati a consuntivo». Ambienti ministeriali spiegano che la prudenza è dettata non solo dalla necessità di monitorare sul campo il funzionamento dell’operazione (che è facile a dirsi, ma non a farsi) ma anche dall’opportunità di lasciarsi un margine di trattativa con il parlamento e con i sindacati. Per tutti vale quanto detto dal ministro dell’economia, Vittorio Grilli, che ha chiarito: «Sì a modifiche migliorative, ma senza modificare i saldi finanziari». Sull’operazione 24 ore hanno già annunciato battaglia partiti e sigle sindacali. Se l’obiettivo finale di risparmio saranno quei 180 milioni di euro di cui si vociferava a viale Trastevere all’inizio dell’operazione 24 ore, è presto per dirlo. Bisogna attendere fine anno, quando il ddl sarà legge. Il disegno del governo prevede che i prof di ruolo dal prossimo settembre debbano svolgere un orario di cattedra di 24 ore, contro le attuali 18. Le 6 ore in più dovranno essere utilizzate innanzitutto per coprire gli spezzoni orari, ovvero le ore che residuano dalla costituzione delle cattedre ordinarie. Per farlo, è necessario che i docenti abbiano il relativo titolo di studio, non serve neanche l’abilitazione. Già oggi possono insegnare sugli spezzoni e fino a 6 ore in più la settimana ma il tutto è volontario ed è pagato a parte: circa 129 milioni di euro, tanto è costato nel 2011. E poi ci sono le supplenze brevi e saltuarie: in questo caso, tra secondaria di primo e secondo grado, si conteggia che si possano risparmiare altri 265 milioni di euro affidando le sostituzioni a prof di ruolo. Discorso a parte per il sostegno: con l’orario a 24 ore settimanali, da utilizzare solo sul sostegno e non su altre discipline, si risparmiano altre 10mila cattedre nell’organico di fatto. L’operazione 24 ore scatterà nella scuola di titolarità: il che significa che se non ci sono spezzoni o supplenze da fare nel proprio istituto, e sulla propria disciplina, un docente potrebbe trovarsi a non prestare le sue 6 ore in più a differenza di un collega. E però, il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, ha aperto a quella che sembra già essere una modifica alla norma: i docenti potranno avere orari differenziati, chi lavora meno sarà pagato di meno. E comunque si deve andare verso un ampliamento del piano dell’offerta formativa, dice il ministro, che farebbe pensare a un utilizzo su attività complementari delle ore che avanzano.
Il ddl Stabilità prevede che le 6 ore in più di cattedra siano compensate con 15 giorni di ferie. Il governo ha stimato, calendari scolastici alla mano, che si possono tranquillamente fare 47 giorni di ferie l’anno anche quando si fanno scrutini, esami di stato e programmazione dell’attività didattica di inizio anno. Fatte le ferie, infatti, avanzerebbero almeno altri 45 giorni disponibili. Insomma, si chiamano ferie quelle che già oggi sono giorni non lavorati.
da ItaliaOggi 16.10.12
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“Petizione “no alle cattedre di 24 ore“ raggiunge in poche ore 16mila firme”, di A.D.F.
Se passasse il piano che il Ministro dell’Istruzione ha intenzione di proporre, le condizioni di lavoro degli insegnanti diventerebbero a dir poco disumane. Dopo l’annuncio mediatico sulla proposta di istituire nella scuola superiore di primo e secondo grado cattedre di 24 ore, è stata presentata una petizione on line dal titolo “No alle cattedre di 24 ore. Fermiamo il ministro Profumo“.
La proposta del ministro Profumo di aumentare il numero delle ore di insegnamento da 18 a 24 creerà ulteriore scompiglio nelle vite di migliaia e migliaia di famiglie di docenti e di studenti. Secondo la petizione non si tratta soltanto di un ennesimo attacco al salario (l’aumento delle ore, infatti, non equivarrebbe a un aumento dello stipendio mensile!). Se dovesse passare il piano che il Ministro dell’Istruzione ha intenzione di proporre, le condizioni di lavoro degli insegnanti di ruolo diventerebbero a dir poco disumane.
Ad esempio di quanto detto la petizione porta il caso di un insegnante di francese delle medie, che per arrivare a 24 ore, dovrebbe insegnare in dodici classi, partecipare alle riunioni di dodici consigli di classe (lavorando così per molte ore pomeridiane in più, che peraltro non verrebbero computate) e correggere un numero spropositato di verifiche scritte (anche questo lavoro non computato per lo stipendio mensile). In ogni caso, l’aumento naturale degli impegni pomeridiani andrebbe a sottrarre tempo alla fase della preparazione delle lezioni e del materiale didattico, con un naturale scadimento della qualità dell’insegnamento.
La cosa peggiore, però, è che l’aumento delle ore di un terzo rispetto a quelle attuali comporterebbe anche un taglio di un terzo delle cattedre attualmente presenti nel nostro paese! Da segnalare il successo dell’iniziativa che in poche ore ha raggiunto l’adesione di oltre 16mila firme.
16.10.12
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“Cari prof, sporcatevi le mani. Non solo d’inchiostro”, di Giuseppe Caliceti
Il ministro Profumo è bravo a fare gesti di solidarietà. Peccato che, meschinamente, non li faccia di persona, ma li faccia fare ad altri. Parlo del sofisma col quale il ministro ha annunciato la sua proposta di aumentare ai professori, dal prossimo anno scolastico, l’orario settimanale. Dalle 18 ore attuali alle 24 di docenza in classe. Come per altro avviene già per i docenti della scuola primaria. Per la precisione, 22 ore frontali sulla classe e due ore di programmazione settimanale di team. Di fronte a questa possibilità si è assistito a un effluvio di lettere ai giornali. Tra le più belle, appassionate e argomentate, segnalo la lettera al ministro Profumo della prof. Mariangela Calateo Vaglio, nel suo blog sull’Espresso intitolato «Non volevo fare la prof». Un governo che d’imperio minaccia di stracciare un contratto di lavoro per imporne un altro, senza contrattazione, compie un atto gravissimo. Ogni commento è superfluo: siamo alle barbarie. D’altra parte, è interessante analizzare questa reazione docente. Per lo più scomposta, occorre dirlo. Spesso la sacrosanta alzata di scudi delle prof assomigliava a chi improvvisamente si svegliasse da anni di letargo.
Non voler passare da 18 a 24 ore settimanali, se non si spiega bene, rischia difficile da comprendere da un’opinione pubblica addestrata per anni da media e politici all’esercizio delle denigrazione della scuola pubblica e dei suoi docenti, senza che la maggioranza di quest’ultimi, fino ad ora, abbia sentito l’esigenza di scrivere lettere ai giornali e protestare efficacemente. Soprattutto, mi pare che questa protesta metta in luce le ataviche debolezze del corpo docente italiano, di gran lunga più inerme di quello dei taxisti o dei camionisti, degli avvocati o degli operai. Quali? La divisione. L’individualismo. L’incapacità di far gruppo. La pochezza politica. La paura. E pur prendendomi ugualmente del maschilista, non credo che questo accada perché la maggior parte è femminile.
Se si confrontano i livelli di indignazione con i numeri della partecipazione dei docenti, per esempio al recente sciopero della scuola della Cgil, la latitanza politica – in senso partecipativo, non di appartenenza a un sindacato o a un partito – è lampante. La responsabilità di quanto sta accadendo è legata anche a quanto i docenti hanno lasciato fare. Alla diffidenza verso gli scioperi che ha la stragrande maggioranza. All’estrema diligenza con la quale avviene ogni loro forma di protesta e di lotta. Occorre ricordare loro – ricordarci – che la scuola che si trovano a lavorare ora, non è sempre stata così, ma è il frutto di lotte di anni e anni che tanti – docenti, genitori, studenti, sindacati, politici – hanno fatto prima di loro senza guardare al loro solo particolare. E in questo periodo, se i diritti non vengono salvaguardati, non avviene una loro manutenzione, semplicemente vengono tolti. Gli ultimi due governi lo hanno mostrato chiaramente: non intendono dialogare con i docenti né con gli studenti, ma fare quello che vogliono passando sulle teste di tutti. Se si teme di perdere cento euro perché si aderisce a uno sciopero, se ne subiscano poi le conseguenze senza protestare troppo. Non è tempo di belle lettere ai giornali, ma di fatti, di prese di posizioni forti che da decenni mancano nella scuola italiana. Occorre sporcarsi le mani non solo d’inchiostro, ma organizzando una seria protesta. Magari perdendoci anche più di sei ore settimanali. Gratis. Altrimenti qualcun altro ve ne farà fare gratis anche molte più di sei.
Il Manifesto 16.01.12
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“Ma già si lavora più che in Europa. Ricerca Uil scuola”di Emanuela Micucci*
Non solo le retribuzioni più basse d’Europa, ma anche un numero di ore
settimanali di insegnamento tra i più alti d’Europa. I docenti italiani
sono in classe 22 ore a settimana nella scuola primaria contro una media
dell’Ue di 19,6 ore e 18 ore alle superiori contro le 16,3 dei colleghi
europei. Mentre alle superiori l’orario di lezione è in linea con la
media europea: 18 ore. É quanto ricorda una ricerca della Uil Scuola,
mettendo a confronto i dati Eurydice 2011 (www.uil.it/uilscuola/).
Confutando, così, la tesi che sorregge la legge di stabilità che vuole
incrementare di 6 ore settimanali l’orario di insegnamento alla
secondaria, portandolo a 24 ore: allinearsi con l’Europa. Gli insegnati
italiani, infatti, sono in cattedra per più ore dei colleghi francesi,
austriaci, finlandesi e come i docenti tedeschi e belgi. Uno spread di 4
ore alle superiori divide la Francia dall’Italia. Mentre si impenna con
la pluripremiata scuola finlandese: 4 ore alla primaria (18 ore), 2 ore
alle medie (16 ore) e 3 alle superiori (15 ore). Quanto la Grecia. E con
la Germania sul monte ore di insegnamento è patta: spread azzerato alla
secondaria di primo e secondo grado (18 ore) e vantaggio italiano di 2
ore alla primaria (20 ore). La situazione si ribalta con la Spagna, dove
gli insegnati lavorano 25 ore alle elementari e 19 alle secondarie. Ma i
veri stakanovisti sono i maestri maltesi con 26 ore settimanali in
classe e i professori portoghesi e irlandesi che, alle medie e alle
superiori, raggiungono le 22 ore. I più fannulloni, gli insegnanti
dell’Est: 12 ore alle elementari bulgare, che salgono a 14 alle
superiori. Come in Polonia, che alle medie ha il record della settimana
più corta d’Europa di sole 14 ore. Seguono Estonia, Repubblica Ceca e
Slovenia. Restano fuori dal novero dell’orario di cattedra:le ore di
programmazione e preparazione delle lezioni e di correzione dei compiti.
da ItaliaOggi 16.10.12

"Ascesa e caduta del Celeste il re nella torre di cristallo così lontano dal cuore di Milano", di Natalia Aspesi

Come lui, Roberto Formigoni, è sempre stato estraneo a Milano, che non lo ha mai davvero amato, pover’uomo, anche quando si scommetteva sulla sua probità e capacità. Eppure, pur venendo da Lecco, a Milano si è laureato, alla Cattolica, e ha incontrato il suo maestro Don Giussani; dopo una veloce carriera parlamentare anche europea, diventato Presidente della Regione Lombardia, a Milano si è stabilito, scegliendo di vivere in una comunità di laici cattolici; qui nel 1995 si è insediato negli uffici firmati nel 1961 da Giò Ponti, qui ha costruito il monumento al suo potere, il Pirellone 2, capolavoro di cristallo di uno studio archistar americano, premio per il più bel grattacielo europeo che Formigoni stesso ritirerà a Chicago tra qualche giorno, regalandosi una tregua dal tumulto politico e giudiziario milanese, e regalando alla città una pausa dalla sua inviperita e vociferante combattività.
A Milano c’è il San Raffaele, con il defunto protettore don Verzé e le truffe che hanno portato il venerato ospedale alla bancarotta, e il centro della fondazione Maugeri su cui hanno lucrato allegramente e sfrontatamente i suoi scalmanati amici che stanno finendo in prigione, compromettendo in modo irreversibile la sua intangibilità prepotente e il suo imperio cieco.
Quella sua dittatura pareva invincibile, 17 anni su una montagna di denaro pubblico, di trappole politiche, di ladri affamati, scalata da quell’ ’ndrangheta sprezzante e minacciosa che ha invaso ormai da tempo la sua regione: senza che lui, troppo impegnato a darsi consensi, se ne accorgesse, senza che i suoi fidi sistemati in amministrazioni locali, lo ritenessero un pericolo, piuttosto che come un’altra buona occasione, scivolando nel malaffare come inevitabile strada per mantenere poltrone e privilegi.
Lui quasi invisibile in città, se non negli ultimi anni presente a un paio di sfilate di moda, sempre le stesse, di industriali amici, imbarazzato nella prima fila affollata di starlette che lo attorniavano entusiaste, compresa la sua ex fidanzata Emanuela Talenti, pronta a farsi fotografare con lui e che via lei, non era stata più sostituita. Anche lì, con le modelle sculettanti a pochi centimetri dal suo naso refrattario, senza raccogliere i sospetti, i sussurri, che la ’ndrangheta si stava avvicinando pure al nostro glorioso made in Italy.
Naturalmente lo si vedeva in televisione con la sua bella faccia di sessantacinquenne in gran forma, l’eterno sorriso di sufficienza e scherno, l’erre moscia sibilante di disprezzo, non una difesa dalle domande pericolose, ma un rifiuto inglorioso della realtà: senza mai perdere la calma, tranne l’altro giorno, quando, percependo il baratro, ha minacciato di querelare Alessio Vinci che gli poneva le solite domande diventate di colpo insopportabili e inevitabili. Con tutto il potere che Formigoni ha avuto e ancora ha sulla Lombardia e quindi su Milano, non è mai riuscito, o non ha mai voluto, conquistarla, se non certo nel periodo elettorale: i suoi gusti, il suo piacere, le sue amicizie, le sue idee, i suoi affari, il suo prestigio, le sue ambizioni, le sue scelte di vita, lo hanno sempre portato altrove, Bagdad, Bruxelles, Roma, Varese, la sua Lecco che l’altro giorno ha osato fischiarlo. Poi addirittura nei Caraibi.
Ed è da queste isole vacanziere, da subito cancellate dal turismo dei milanesi di classe per queste presenze inopportune, che il pio gentiluomo di Comunione e Liberazione, dopo una lunga carriera in varie formazioni politiche cattoliche (Dc, Ppi, Cdu, Cdl) confluito poi nella più vispa Forza Italia e quindi nell’ormai moribondo Pdl, scopre che il voto di castità e povertà non impedisce di far baldoria, di tuffarsi dagli yacht, di viaggiare sontuosamente, di farsi fotografare in mutande, sdutto come un ragazzo, in mezzo a belle signore in bikini.
Se sono altri a pagare, non c’è peccato, o, visto che lui nega ancora ogni favore, lassù sarà perdonato se usa il suo ottimo stipendio per il proprio svago virtuoso, anziché devolverlo, come sarebbe doveroso secondo le regole della sua comunità, la Memores Domini, a chi poi lo ridistribuisce ai bisognosi; a meno che siano ritenuti bisogni doverosi quelli suoi, di andare a Parigi con un lieta brigata di fedeli. Ferreo ciellino da sempre, io lo ricordo quando alla fine degli anni ’70 si cominciò a discutere di una legge per l’interruzione di gravidanza e, invitato a dibattiti, si scagliava contro quella eventualità con tale violenza da ammutolire le pur attrezzate femministe di allora.
Come Presidente della Regione e casto scapolone, non ha mai nascosto il suo fastidio per l’autonomia delle donne, per esempio tentando inutilmente di opporsi all’introduzione in Italia della pillola abortiva, e privilegiando negli ospedali lombardi il personale medico obiettore di coscienza.
Per compiacere il Vaticano, ha rifiutato che nella sua regione fosse applicata la sentenza della Corte d’Appello che autorizzava l’interruzione dell’alimentazione forzata della povera Eluana Englaro, in coma irreversibile da 17 anni, che chiuse la sua tragica vicenda in una casa di cura di Udine. Se Formigoni non è mai stato molto simpatico alla buona società milanese, che comunque in gran parte l’ha votato per quattro mandati, come al solito per paura dei famosi anche se estinti, “comunisti”, neppure i cattolici non intruppati in Cl lo amano: per la superbia, l’esibizionismo, l’autoritarismo, l’assenza di carità. E per gli sprechi, in una regione colpita da una crisi morale profonda, dalla delusione di ogni colore politico, soprattutto dalla sempre più diffusa disoccupazione e paura, dove anche i ricchi si defilano nel basso profilo per non dare nell’occhio.
Massima dissipazione, quel monumento imponente e anche bello, alla sua grandeur che è appunto la nuova sede di cristallo della Regione, costata 500 milioni, spiegati come un vero risparmio (ma la vecchia non è stata abbandonata): per lasciare ai posteri il segno del suo regno, il nuovo Pirellone doveva essere il più alto dei tanti grattacieli di grandi firme che stanno cambiando l’orizzonte di Milano, come fosse Shangai o Seul: ma i suoi 39 piani, i suoi 167 metri di altezza, sono stati battuti, con sua irritazione, dalla torre Hines di César Pelli, che col suo pinnacolo raggiunge 231 metri (ma solo 35 piani). Di sicuro non lo ama neppure Berlusconi, che pure gli deve riconoscenza per essersi preso
in consiglio, contro ogni logica, Nicole Minetti, per tacitarla.
Ma certo come tutto il Pdl ne teme tuttora lo sfrenato sgomitamento, oltre l’impero lombardo sfregiato dagli scandali anche mafiosi, dagli avvisi di garanzia e dagli arresti di assessori e consiglieri, e lui stesso indagato per corruzione. Il suo presuntuoso destino potrebbe portarlo a Roma a metter casino nelle prossime elezioni politiche.
Ma intanto in Lombardia il suo potere potrebbe subire solo un’incrinatura di immagine, perché poi per esempio, la sanità lombarda è quasi del tutto in mano sua e dei suoi, e sarà difficile sottrargliela. Ma poi il vero problema sarà, per tutti: dove mettiamo la Minetti?

La Repubblica 16.10.12

"Ascesa e caduta del Celeste il re nella torre di cristallo così lontano dal cuore di Milano", di Natalia Aspesi

Come lui, Roberto Formigoni, è sempre stato estraneo a Milano, che non lo ha mai davvero amato, pover’uomo, anche quando si scommetteva sulla sua probità e capacità. Eppure, pur venendo da Lecco, a Milano si è laureato, alla Cattolica, e ha incontrato il suo maestro Don Giussani; dopo una veloce carriera parlamentare anche europea, diventato Presidente della Regione Lombardia, a Milano si è stabilito, scegliendo di vivere in una comunità di laici cattolici; qui nel 1995 si è insediato negli uffici firmati nel 1961 da Giò Ponti, qui ha costruito il monumento al suo potere, il Pirellone 2, capolavoro di cristallo di uno studio archistar americano, premio per il più bel grattacielo europeo che Formigoni stesso ritirerà a Chicago tra qualche giorno, regalandosi una tregua dal tumulto politico e giudiziario milanese, e regalando alla città una pausa dalla sua inviperita e vociferante combattività.
A Milano c’è il San Raffaele, con il defunto protettore don Verzé e le truffe che hanno portato il venerato ospedale alla bancarotta, e il centro della fondazione Maugeri su cui hanno lucrato allegramente e sfrontatamente i suoi scalmanati amici che stanno finendo in prigione, compromettendo in modo irreversibile la sua intangibilità prepotente e il suo imperio cieco.
Quella sua dittatura pareva invincibile, 17 anni su una montagna di denaro pubblico, di trappole politiche, di ladri affamati, scalata da quell’ ’ndrangheta sprezzante e minacciosa che ha invaso ormai da tempo la sua regione: senza che lui, troppo impegnato a darsi consensi, se ne accorgesse, senza che i suoi fidi sistemati in amministrazioni locali, lo ritenessero un pericolo, piuttosto che come un’altra buona occasione, scivolando nel malaffare come inevitabile strada per mantenere poltrone e privilegi.
Lui quasi invisibile in città, se non negli ultimi anni presente a un paio di sfilate di moda, sempre le stesse, di industriali amici, imbarazzato nella prima fila affollata di starlette che lo attorniavano entusiaste, compresa la sua ex fidanzata Emanuela Talenti, pronta a farsi fotografare con lui e che via lei, non era stata più sostituita. Anche lì, con le modelle sculettanti a pochi centimetri dal suo naso refrattario, senza raccogliere i sospetti, i sussurri, che la ’ndrangheta si stava avvicinando pure al nostro glorioso made in Italy.
Naturalmente lo si vedeva in televisione con la sua bella faccia di sessantacinquenne in gran forma, l’eterno sorriso di sufficienza e scherno, l’erre moscia sibilante di disprezzo, non una difesa dalle domande pericolose, ma un rifiuto inglorioso della realtà: senza mai perdere la calma, tranne l’altro giorno, quando, percependo il baratro, ha minacciato di querelare Alessio Vinci che gli poneva le solite domande diventate di colpo insopportabili e inevitabili. Con tutto il potere che Formigoni ha avuto e ancora ha sulla Lombardia e quindi su Milano, non è mai riuscito, o non ha mai voluto, conquistarla, se non certo nel periodo elettorale: i suoi gusti, il suo piacere, le sue amicizie, le sue idee, i suoi affari, il suo prestigio, le sue ambizioni, le sue scelte di vita, lo hanno sempre portato altrove, Bagdad, Bruxelles, Roma, Varese, la sua Lecco che l’altro giorno ha osato fischiarlo. Poi addirittura nei Caraibi.
Ed è da queste isole vacanziere, da subito cancellate dal turismo dei milanesi di classe per queste presenze inopportune, che il pio gentiluomo di Comunione e Liberazione, dopo una lunga carriera in varie formazioni politiche cattoliche (Dc, Ppi, Cdu, Cdl) confluito poi nella più vispa Forza Italia e quindi nell’ormai moribondo Pdl, scopre che il voto di castità e povertà non impedisce di far baldoria, di tuffarsi dagli yacht, di viaggiare sontuosamente, di farsi fotografare in mutande, sdutto come un ragazzo, in mezzo a belle signore in bikini.
Se sono altri a pagare, non c’è peccato, o, visto che lui nega ancora ogni favore, lassù sarà perdonato se usa il suo ottimo stipendio per il proprio svago virtuoso, anziché devolverlo, come sarebbe doveroso secondo le regole della sua comunità, la Memores Domini, a chi poi lo ridistribuisce ai bisognosi; a meno che siano ritenuti bisogni doverosi quelli suoi, di andare a Parigi con un lieta brigata di fedeli. Ferreo ciellino da sempre, io lo ricordo quando alla fine degli anni ’70 si cominciò a discutere di una legge per l’interruzione di gravidanza e, invitato a dibattiti, si scagliava contro quella eventualità con tale violenza da ammutolire le pur attrezzate femministe di allora.
Come Presidente della Regione e casto scapolone, non ha mai nascosto il suo fastidio per l’autonomia delle donne, per esempio tentando inutilmente di opporsi all’introduzione in Italia della pillola abortiva, e privilegiando negli ospedali lombardi il personale medico obiettore di coscienza.
Per compiacere il Vaticano, ha rifiutato che nella sua regione fosse applicata la sentenza della Corte d’Appello che autorizzava l’interruzione dell’alimentazione forzata della povera Eluana Englaro, in coma irreversibile da 17 anni, che chiuse la sua tragica vicenda in una casa di cura di Udine. Se Formigoni non è mai stato molto simpatico alla buona società milanese, che comunque in gran parte l’ha votato per quattro mandati, come al solito per paura dei famosi anche se estinti, “comunisti”, neppure i cattolici non intruppati in Cl lo amano: per la superbia, l’esibizionismo, l’autoritarismo, l’assenza di carità. E per gli sprechi, in una regione colpita da una crisi morale profonda, dalla delusione di ogni colore politico, soprattutto dalla sempre più diffusa disoccupazione e paura, dove anche i ricchi si defilano nel basso profilo per non dare nell’occhio.
Massima dissipazione, quel monumento imponente e anche bello, alla sua grandeur che è appunto la nuova sede di cristallo della Regione, costata 500 milioni, spiegati come un vero risparmio (ma la vecchia non è stata abbandonata): per lasciare ai posteri il segno del suo regno, il nuovo Pirellone doveva essere il più alto dei tanti grattacieli di grandi firme che stanno cambiando l’orizzonte di Milano, come fosse Shangai o Seul: ma i suoi 39 piani, i suoi 167 metri di altezza, sono stati battuti, con sua irritazione, dalla torre Hines di César Pelli, che col suo pinnacolo raggiunge 231 metri (ma solo 35 piani). Di sicuro non lo ama neppure Berlusconi, che pure gli deve riconoscenza per essersi preso
in consiglio, contro ogni logica, Nicole Minetti, per tacitarla.
Ma certo come tutto il Pdl ne teme tuttora lo sfrenato sgomitamento, oltre l’impero lombardo sfregiato dagli scandali anche mafiosi, dagli avvisi di garanzia e dagli arresti di assessori e consiglieri, e lui stesso indagato per corruzione. Il suo presuntuoso destino potrebbe portarlo a Roma a metter casino nelle prossime elezioni politiche.
Ma intanto in Lombardia il suo potere potrebbe subire solo un’incrinatura di immagine, perché poi per esempio, la sanità lombarda è quasi del tutto in mano sua e dei suoi, e sarà difficile sottrargliela. Ma poi il vero problema sarà, per tutti: dove mettiamo la Minetti?
La Repubblica 16.10.12

"Napolitano: insinuati sospetti su di me", di Antonella Rampino

In memoria di un uomo «competente, serio e discreto». In memoria di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di due presidenti della Repubblica, e morto di un crepacuore lo scorso luglio, nel pieno della polemica che investì il Quirinale per le telefonate di Napolitano con Nicola Mancino «captate» dalla procura di Palermo che indagava sulla trattativa Stato-mafia. In memoria di un magistrato di alto valore, antico sodale di Giovanni Falcone e autore materiale del 41-bis, Giorgio Napolitano è salito al castello Pulci per inaugurare, col Guardasigilli Paola Severino e il vicepresidente del Csm Michele Vietti, la scuola di formazione per magistrati diretta da Valerio Onida.
E dice subito, il presidente, che adesso sembra attenuato quel conflitto tra magistratura e politica che fu così «acuto e paralizzante tra maggioranza e opposizione sui temi della giustizia e della sua riforma» da provocare, nel 2008, un suo deciso richiamo «a non percepirsi ed esprimersi come mondi ostili». Dice subito quel che ha sempre detto, «rigorosa osservanza delle leggi, il più severo controllo di legalità sono imperativo assoluto per la salute della Repubblica e dobbiamo avere il massimo rispetto per la magistratura». Ma, insiste col pensiero rivolto ai giovani giudici che si perfezioneranno a Scandicci, «il magistrato è chiamato all’assoluta imparzialità, al senso della misura», «a non lasciarsi condizionare e turbare da contrapposizioni e polemiche».

E proprio perché «la politica e la giustizia non possono percepirsi ed esprimersi come mondi ostili», Napolitano rivendica «coerenza e trasparenza» nel sollevare il conflitto d’attribuzione alla Corte Costituzionale contro la Procura di Palermo. Fu quella, ripete ancora una volta, «una decisione obbligata, perché si è tentato, attraverso i canali di un’informazione sensazionalistica e qualche marginale settore politico» – riferimento chiaro al «Fatto quotidiano» e all’Italia dei Valori- di «mescolare un’iniziativa di assoluta correttezza istituzionale con il travagliato percorso delle indagini giudiziarie sulle ipotesi di trattiva Stato-mafia negli Anni 90, insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze da parte della Presidenza della Repubblica».

Decisione obbligata «per chi abbia giurato dinanzi al Parlamento di osservare la Costituzione, e avverta la necessità di una chiara puntualizzazione nella sola sede appropriata delle norme poste a tutela del libero svolgimento delle funzioni del presidente della Repubblica». «Decisione obbligata» dopo che la Procura di Palermo, – e solo la Procura di Palermo, sottolinea- «aveva data pubblica notizia di avvenute intercettazioni di mie conversazioni telefoniche, con un’interpretazione difforme da quella che io ritengo costituzionalmente legittima».

È la risposta, durissima, ai pm di Palermo che solo pochi giorni fa, nella memoria con la quale si costituiscono in giudizio presso la Corte Costituzionale, gli avevano dato del monarca, perchè a loro giudizio solo per i re vale l’immunità totale. Parole sinora mai commentate da Napolitano, dopo che in quel documento la Procura di Palermo aveva anche reso noto il numero delle intercettazioni di cui era stato oggetto, nel numero di quattro mentre si era sinora sostenuto che fossero solo due, e su un totale di alcune migliaia di telefonate registrate di Nicola Mancino.

Al centro di tutto, e anche del discorso di Scandicci, c’è una lettera sinora inedita di Loris D’Ambrosio, nella quale il magistrato al presidente scrive di non aver «mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente, potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze».

In quella accorata missiva del 18 giugno scorso, ora pubblicata in un volume che raccoglie tutti gli scritti di Napolitano sulla giustizia, D’Ambrosio diceva di essere «profondamente amareggiato dal fatto che sia stia cercando di spostare sulla Sua persona e sul Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che invece soltanto a me sono riferibili». Il giorno dopo, Napolitano gli risponde: «Tentano di colpire lei per colpire me». Perché è una vera lettera di dimissioni, quella che il consigliere giuridico scrive al suo presidente. Una vicenda amara, e di ancor più amara conclusione.

La Stampa 16.10.12

"Napolitano: insinuati sospetti su di me", di Antonella Rampino

In memoria di un uomo «competente, serio e discreto». In memoria di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di due presidenti della Repubblica, e morto di un crepacuore lo scorso luglio, nel pieno della polemica che investì il Quirinale per le telefonate di Napolitano con Nicola Mancino «captate» dalla procura di Palermo che indagava sulla trattativa Stato-mafia. In memoria di un magistrato di alto valore, antico sodale di Giovanni Falcone e autore materiale del 41-bis, Giorgio Napolitano è salito al castello Pulci per inaugurare, col Guardasigilli Paola Severino e il vicepresidente del Csm Michele Vietti, la scuola di formazione per magistrati diretta da Valerio Onida.
E dice subito, il presidente, che adesso sembra attenuato quel conflitto tra magistratura e politica che fu così «acuto e paralizzante tra maggioranza e opposizione sui temi della giustizia e della sua riforma» da provocare, nel 2008, un suo deciso richiamo «a non percepirsi ed esprimersi come mondi ostili». Dice subito quel che ha sempre detto, «rigorosa osservanza delle leggi, il più severo controllo di legalità sono imperativo assoluto per la salute della Repubblica e dobbiamo avere il massimo rispetto per la magistratura». Ma, insiste col pensiero rivolto ai giovani giudici che si perfezioneranno a Scandicci, «il magistrato è chiamato all’assoluta imparzialità, al senso della misura», «a non lasciarsi condizionare e turbare da contrapposizioni e polemiche».
E proprio perché «la politica e la giustizia non possono percepirsi ed esprimersi come mondi ostili», Napolitano rivendica «coerenza e trasparenza» nel sollevare il conflitto d’attribuzione alla Corte Costituzionale contro la Procura di Palermo. Fu quella, ripete ancora una volta, «una decisione obbligata, perché si è tentato, attraverso i canali di un’informazione sensazionalistica e qualche marginale settore politico» – riferimento chiaro al «Fatto quotidiano» e all’Italia dei Valori- di «mescolare un’iniziativa di assoluta correttezza istituzionale con il travagliato percorso delle indagini giudiziarie sulle ipotesi di trattiva Stato-mafia negli Anni 90, insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze da parte della Presidenza della Repubblica».
Decisione obbligata «per chi abbia giurato dinanzi al Parlamento di osservare la Costituzione, e avverta la necessità di una chiara puntualizzazione nella sola sede appropriata delle norme poste a tutela del libero svolgimento delle funzioni del presidente della Repubblica». «Decisione obbligata» dopo che la Procura di Palermo, – e solo la Procura di Palermo, sottolinea- «aveva data pubblica notizia di avvenute intercettazioni di mie conversazioni telefoniche, con un’interpretazione difforme da quella che io ritengo costituzionalmente legittima».
È la risposta, durissima, ai pm di Palermo che solo pochi giorni fa, nella memoria con la quale si costituiscono in giudizio presso la Corte Costituzionale, gli avevano dato del monarca, perchè a loro giudizio solo per i re vale l’immunità totale. Parole sinora mai commentate da Napolitano, dopo che in quel documento la Procura di Palermo aveva anche reso noto il numero delle intercettazioni di cui era stato oggetto, nel numero di quattro mentre si era sinora sostenuto che fossero solo due, e su un totale di alcune migliaia di telefonate registrate di Nicola Mancino.
Al centro di tutto, e anche del discorso di Scandicci, c’è una lettera sinora inedita di Loris D’Ambrosio, nella quale il magistrato al presidente scrive di non aver «mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente, potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze».
In quella accorata missiva del 18 giugno scorso, ora pubblicata in un volume che raccoglie tutti gli scritti di Napolitano sulla giustizia, D’Ambrosio diceva di essere «profondamente amareggiato dal fatto che sia stia cercando di spostare sulla Sua persona e sul Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che invece soltanto a me sono riferibili». Il giorno dopo, Napolitano gli risponde: «Tentano di colpire lei per colpire me». Perché è una vera lettera di dimissioni, quella che il consigliere giuridico scrive al suo presidente. Una vicenda amara, e di ancor più amara conclusione.
La Stampa 16.10.12

"La tentazione di Bersani", di Giovanna Casadio

«Il ricambio è indispensabile ». Quella di Pierluigi Bersani non è solo una parola d’ordine. È una tentazione. Di allargare lo spettro del rinnovamento. E ha iniziato a far scattare una sorta di “moral suasion” nei confronti di molti dei “big”. Sull’onda dell’addio al Parlamento di Veltroni, il segretario del Pd pensa a una strategia per convincere gli amici e compagni di lungo corso a seguire l’esempio di Walter. UN “beau geste” che lui stesso ha indicato come «coraggioso ». «La ruota gira e girerà». Poche parole, un motto dei suoi, ma Bersani sa che il momento è cruciale. Difficilmente sceglierà la strada dello scontro frontale con i decani, della cui esperienza ha sempre detto di non volere fare a meno. Ma non per forza in Parlamento. Perché la strada da imboccare è «il rinnovamento ». Lo chiedono gli elettori. Anche se ieri, con un tempismo che alcuni giudicano sospetto, arriva tutt’altra reazione pugnace di D’Alema: il lìder Massimo rimette nelle mani del partito la questione dei vecchi e dei giovani, con tanto di raccolta di firme che lo sostengono. Del resto il segretario democratico sa che molti faranno “resistenza”. A cominciare da Rosy Bindi che da tempo chiede la “difesa” del partito e non intende rinunciare alla “corsa”. O Anna Finocchiaro che in questo weekend si è limitata a far sapere che «deciderà il partito ». Con tutti loro Bersani parlerà. Senza ultimatum, ma rammentando che il «ricambio ora è indispensabile». Chiederà «generosità » e soprattutto farà notare che la politica non si fa solo alla Camera e al Senato. Ci sarà anche il governo.
I primi risultati già si vedono. Non tutti i leader che Renzi vorrebbe rottamare, sono anche “resistenti”. Alcuni hanno raccolto l’appello che il segretario ha lanciato a Reggio Emilia, a conclusione della Festa del Pd, e che Stefano Fassina ricorda: «Bersani ha chiesto generosità, e Veltroni ha dimostrato generosità». Quanti lo seguiranno, quanti si convinceranno che non è più il momento di deroghe e attaccamento al loro ruolo?
Nelle elezioni politiche del 2008, quando il “rottamatore” Renzi non era ancora in camper, il momento più aspro dello scontro tra vecchi e giovani fu il pensionamento di De Mita da parte dei Democratici. Il “vecchio” De Mita rilanciò a modo suo. In quell’anno, per la composizione delle liste fu prevista una deroga per tutte le donne, a prescindere dai tre mandati. Quindi, Anna Finocchiaro, Livia Turco, Anna Serafini e altre furono riconfermate comunque; Rosy Bindi e Giovanna Melandri non erano arrivate allora ai quindici anni di mandato. E ora? Giovanna Melandri annuncia che, «se resta il Porcellum oppure sono introdotte
le preferenze-spreca soldi», non si ricandida. Altro addio certo è quello di Livia Turco. «E non l’ho detto oggi, ma un anno fa davanti a un’assemblea di mille donne. La rottamazione di Renzi è disastrosa non tanto per noi decani, ma per l’immagine di questi giovani che mostrano di essere “carrieristi”, contro le madri e i padri».
Tra i rottamabili più propensi all’addio ci sarebbero Gian Claudio Bressa, Enrico Morando, Tiziano Treu. Pier Luigi Castagnetti ha tratto il dado: nel 2013 non sarà della partita. Arturo Parisi, che di anni di legislatura ne ha 12, quindi potrebbe formalmente ripresentarsi, non pare voglia farlo. «Non si governa però solo con la freschezza, ci vuole anche esperienza». E a sostenerlo sono i “giovani turchi”, quel gruppo di trenta/quarantenni vicini a Bersani e che fanno loro l’altro motto del segretario: «Le foglie nuove nascono là dove ci sono le radici». Matteo Orfini avverte: «Le aggressioni dei rottamatori sono intollerabili». Alcune settimane fa, Dario Ginefra ha presentato una proposta a Montecitorio per rendere legge il limite dei tre mandati. Con il placet del segretario.

La Repubblica 16.10.12

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D’Alema resiste all’effetto Veltroni “Non sono un oligarca da cacciare mi candido solo se il partito vuole”, di Conchita Sannino

«Avevo detto a Bersani che non volevo candidarmi, ma ora difendo la dignità di una storia». Massimo D’Alema, il giorno dopo l’addio al seggio annunciato da Walter Veltroni, non scioglie fino in fondo la sua “prognosi” e non ci sta a lasciar passare «l’idea che ci sia un gruppo di oligarchi che si devono togliere di mezzo ». Anzi, avverte: «Quell’idea è un’evidente distorsione e denota l’abilità dei nostri competitori a mettere al centro l’eliminazione della classe dirigente del Pd. Non sono alla ricerca di un posto di lavoro ma sono disposto a dare una mano se lo si ritiene necessario, sennò amici come prima».
Per il presidente del Copasir, dunque, non è ancora il tempo di una decisione definitiva. In tour ieri tra Napoli, Salerno e Caserta, ufficialmente per la presentazione di alcuni libri sui democratici, D’Alema si ritrova accanto ad un vecchio compagno come l’ex senatore Umberto Ranieri, già pupillo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E con lieve imbarazzo di D’Alema, Ranieri punta il suo intervento proprio sul «complessivo logoramento della leadership del Pd», sul «successo del fenomeno Renzi, che con tutti i limiti della sua biografia e cultura politica, è vissuto comunque come la liberazione da un’oligarchia ».
Per D’Alema invece c’è solo un punto di partenza. «La mia disposizione è a non candidarmi — sottolinea l’ex premier — Semmai posso candidarmi se il partito mi chiede di farlo». Parole da cui non è lecito trarre conclusioni, perché D’Alema ammette, allo stesso tempo, la volontà di continuare a esercitare la sua rappresentanza, specie per «la sfida del Mezzogiorno ». «Le ragioni del mio impegno politico sono rafforzate dalla solidarietà di tante personalità del sud», aggiunge. Il riferimento è all’appello pubblicato ieri su l’Unità, per una sua candidatura alle politiche, sotto il titolo «Basta divisioni e personalismi. Parta dal sud la sfida per il governo. Per noi D’Alema è punto di riferimento ». Un manifesto firmato da circa 600 nomi tra sindaci, assessori, intellettuali, imprenditori (comprese aziende di calzature, carne e olii) nonché militanti di Puglia, Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia.
Un elenco così lungo che inciampa in qualche imprecisione: il sindaco di Rionero in Vulture, Antonio Placido, smentisce: «Mai firmato per D’Alema, sono inequivocabilmente accanto a Vendola». Così anche il primo cittadino di Avellino Giuseppe Galasso: «Lo stimo ma non ho mai aderito a quell’appello». In compenso ci sono centinaia di docenti universitari e sindaci in carica che si oppongono all’idea della sua “rottamazione” dalla liste.
Si fa ancora più teso, dunque, il braccio di ferro a distanza con Matteo Renzi. E se il sindaco di Firenze prevede: «Bene la scelta di Veltroni: sono sicuro che non sarà l’unico a fare questo passo», D’Alema replica con l’aspra chiarezza di sempre. «Nel momento in cui torneranno in Parlamento Berlusconi, Cicchitto, Dell’Utri, De Gregorio e così via, pensare che il rinnovamento consista nel togliere di mezzo il gruppo dirigente del Pd mi sembra una visione faziosa», puntualizza.
E un assist per l’ex premier D’Alema arriva da un altro ex presidente del Consiglio, Giuliano Amato, che punta al più concreto aspetto del consenso. «D’Alema è un uomo di grande intelligenza e capacità di leadership, ma, come molti sanno, desta alcune antipatie. Può essere ancora utile, ma si può stare anche fuori dalla politica. Non c’è dubbio che dove D’Alema si presenta prende voti».

La Repubblica 16.10.12