Milioni di persone spiano con il fiato sospeso ogni minimo segno di miglioramento, il movimento di un dito, di una mano, ogni segno di ripresa. Malala Yusufzai, la giovanissima attivista per i diritti delle donne in Pakistan, gravemente ferita dai talebani, combatte per la sua vita in un ospedale di Rawalpindi, intubata e in terapia intensiva. Forse sarà trasportata all’estero da un aeroambulanza degli Emirati Arabi Uniti, atterrata oggi a Islamabad. Intorno a lei, nel suo paese e nel mondo, cresce un’onda di protesta anti talebana e di solidarietà. Milioni di studenti in Pakistan pregano per lei, insieme agli insegnanti, fiaccolate di ragazzine della sua età gridano per le strade la loro rabbia per l’attacco alla «figlia della nazione».
I social media sono sommersi da accorati appelli, da migliaia di denunce. Sabato, nelle scuole afghane, le lezioni sono iniziate con una preghiera per lei. Ma non solo. Venerdì fedeli e perfino mullah, nelle moschee pachistane, prendevano posizione apertamente, durante la preghiera, dichiarando come anti-islamico il feroce gesto di violenza. Leader politici del suo paese, da sempre ambiguo verso i talebani, che ha sostenuto e sostiene da decenni, denunciano la violenza oscurantista. Per i giovani pachistani è un’eroina, un simbolo.
È questa la vittoria di Malala, una vittoria sanguinosa, che ha svegliato di colpo un paese intero, sotto shock per l’attentato. Come scrive il NewYorkTimes, è successo qualcosa di fondamentalmente diverso, l’attacco a Malala ha «liberato menti incatenate e talebanizzate». Ha dimostrato che, contro la ferocia e l’odio fondamentalista, si può reagire, con strumenti di pace, anche, e soprattutto, all’interno della comunità islamica.
Malala aveva denunciato, con il suo diario scritto per la BBC, nel 2009, l’insostenibile vita quotidiana di ragazze e donne negli anni in cui la Swat Valley, la sua bellissima regione, era sotto il controllo talebano. Da allora è nel mirino. Nelle aree sotto il loro controllo, in Pakistan come in Afghanistan, i talebani proibiscono l’istruzione femminile, attaccano le studentesse con l’acido, danno alle fiamme le scuole, uccidono insegnanti e donne che ricoprono ruoli pubblici, ottengono di trasformare i programmi scolastici e le scuole in madrasse. Impediscono le vaccinazioni, bandiscono le leggi laiche, sostituendole con quelle islamiche, con effetti devastanti per le donne.
IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE
Come studentessa, Malala, figlia di un insegnante illuminato e democratico, ritiene la chiusura delle scuole per le ragazze insopportabile. Come sbarrare una porta sulla vita e sul futuro. Aveva solo 11 anni quando ha deciso di cominciare a parlare e non ha mai smesso, nonostante le minacce. Per Malala l’istruzione è l’unica vera arma contro l’integralismo e per l’affermazione dei diritti umani: «Io ho dei diritti. Ho il diritto all’istruzione. Ho il diritto di giocare. Ho il diritto di cantare. Ho il diritto di parlare. Ho il diritto di andare al mercato. Ho il diritto di parlare in pubblico».
I talebani hanno cercato di farla tacere ma hanno sbagliato strategia. La sua voce si è moltiplicata, portandosi dietro un paese intero. Ha scatenato la reazione di una società civile che non sopporta più gli abusi di potere giustificati da un’ interpretazione oscurantista dell’Islam. In un’intervista di un anno fa, Malala dice che vorrebbe parlare con i talebani e lo farebbe mostrando loro il Corano e sfidandoli a trovare, nelle parole sacre, qualcosa che sostenga le loro feroci intimidazioni.
COME A KABUL
La sfida di Malala è una vittoria per milioni di ragazze, nel suo paese, come in Afghanistan, al di là delle sue montagne, dove il fondamentalismo islamico continua a mietere vittime e a incatenare la vita delle donne. E delle bambine.
Perché la guerra delle donne inizia presto qui. Vendute in matrimonio dall’età di 9 anni, scambiate per rimediare alle offese tra famiglie, stuprate, subiscono ogni tipo di violenza, non possono studiare, uscire da sole, lavorare, curarsi, avere giustizia. Non hanno diritti e non sanno di averli. Vite cancellate, non solo dai talebani che hanno molti fratelli in Pakistan come al di là del Kyber Pass, in Afghanistan. I partiti fondamentalisti che governano molte province afghane non sono da meno. Usare leggi oscurantiste per controllare metà della popolazione e impedire la loro esistenza pubblica non è un problema religioso. È una strategia brutale di controllo politico del potere. Ho incontrato ragazzine, con lo stesso bel viso ancora infantile, con lo stesso sguardo determinato e coraggioso di Malala, anche nelle scuole dei quartieri degradati di Kabul. Ragazzine che sapevano quello che sa e dice Malala: che l’istruzione è un’arma contro il sopruso, la violenza e l’ignoranza. Per cambiare e conquistarsi una chance. Bambine che andavano a scuola di nascosto da padri e mariti, rischiando molto, per avere gli strumenti per prendere in mano la propria vita. Malala è una di loro, cresciuta in una famiglia aperta e lungimirante, e che, anche per loro, rompe la violenza del silenzio. Il suo coraggio è il loro. E la marea di denuncia e di sostegno che ha messo in moto la sua aggressione non si fermerà.
L’Unità 15.10.12
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“La lezione della piccola Malala”, di Jawad Joya
Jawad Joya ha 26 anni e vive a Kabul. Ha vissuto e studiato in Italia e negli Stati Uniti d’America, da dove è tornato a Kabul tre anni fa per rendersi utile nella rinascita della città e del Paese. Può essere contattato all’indirizzo e-mail: postcard.paradiso@gmail.com
La settimana scorsa i taleban hanno sparato alla testa a Malala Yousafzai. Malala è una ragazzina di 14 anni che, a quanto riportano i media, ha mostrato un irriducibile amore per lo studio: per sè e per le ragazze come lei. I taleban hanno considerato questa attività come una minaccia al loro stile di vita e alla prevalenza della loro ideologia. Perciò hanno deciso di uccidere la quattordicenne, affinché servisse da esempio alle altre.
Questa è una notizia choccante ma non è affatto nuova per me. Io ho vissuto laggiù e l’ho visto con i miei occhi. Quando nel 1996 i taleban presero Kabul, chiusero quasi tutte le scuole nella capitale e nel resto del Paese. Dal primo giorno i taleban hanno riservato una speciale attenzione alle donne e alle ragazze. Sono ossessionati dalle donne, dalle loro vite, dai loro corpi. Mi ricordo che nel 1966 sentii annunciare a Radio Kabul che tutte le donne che lavoravano, nel pubblico come nel privato, dovevano restare a casa fino a «ulteriori notizie».
Le «ulteriori notizie» non sono mai arrivate pubblicamente. Da allora, «ulteriori notizie» è diventato un nome in codice per la punizione di chi ha il coraggio di disattendere un ordine dei taleban, specialmente le donne. In molte località del Sud del Paese ricevere «ulteriori notizie» significa essere uccisi o puniti pubblicamente. Quando nessuna di queste due cose è possibile, mandano un kamikaze per consegnare la loro «risposta». È vero che i taleban non hanno più il controllo di Kabul, ma continuano a influenzare la vita pubblica nel Sud e nell’Est dell’Afghanistan. Recentemente hanno lapidato una coppia per adulterio e fucilato una donna per una presunta relazione sessuale con un uomo «non autorizzato». Nell’idea di mondo dei taleban, fare del sesso «non autorizzato» porta alla morte.
Quello che io avverto a Kabul è un senso di crescente differenza generazionale tra i vecchi e i giovani. I più anziani sono socialmente conservatori e la maggior parte di loro è stanca di guerre, personali o nazionali. I giovani invece sono più affamati di rischi. Hanno mostrato un forte desiderio di essere collegati con il mondo globale che è dinamico, vario, interconnesso e allettante. L’istruzione può fornire un biglietto per quel «mondo». In questo contesto i taleban non offrono ai giovani alcunché di utile, mentre tolgono loro la capacità di competere, di costruirsi una vita diversa guadagnandosi il pane legittimamente. Ma i taleban non prevarranno.
La Stampa 15.10.12
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«Gli insegnanti italiani sono eroi», di Alessia Camplone
Oltre a essere uno scrittore affermato, Eraldo Affinati è anche un insegnante. A lui chiediamo di commentare le proposte per la scuola del futuro avanzate dal ministro Profumo nell’intervista al Messaggero, e di fare il punto sulla stagione difficile che sta attraversando il mondo dell’istruzione in Italia.
Il ministro afferma che occorre stipulare un patto per la scuola nel quale dovrà esserci il riconoscimento del grande ruolo dei docenti. Lei cosa ne pensa?
«Detto in questi termini, non si può che essere d’accordo. Oggi abbiamo bisogno di una rifondazione etica: se non si comincia dalla scuola, rischiamo il crollo. I docenti sono la struttura portante dell’istruzione pubblica. In un Paese in cui i miti del successo, della ricchezza e della sanità sembrano catalizzare l’interesse collettivo, gli insegnanti sono rimasti gli unici a richiamare i giovani al rigore, alla concentrazione, all’impegno quotidiano».
Secondo lei come e perché si è arrivati a questa perdita di ruolo degli insegnanti?
«A torto si è pensato che apprendere sia meno importante che possedere. Ma se tu non sai chi sei, non puoi godere di niente. Oggi noi scontiamo una povertà spirituale».
La scuola italiana sembra essere in affanno. Che soluzioni suggerisce?
«Secondo me il ritardo della scuola italiana è legato al mancato rinnovamento tecnologico. Come puoi pensare di intercettare l’attenzione di un adolescente se ti presenti con il gessetto e la lavagna, chiedendo una concentrazione che lui non è in grado di darti?».
Si parla di un aumento delle ore di lavoro da 18 a 24 per i docenti delle superiori. Gli insegnanti italiani lavorano poco?
«Gli insegnanti italiani sono degli eroi contemporanei. Pochi sanno cosa significa fare quattro ore di lezione in una classe di oggi con ragazzi spesso non scolarizzati, numerosi non madrelingua italiana, a volte dislessici non certificati. È una sapienza unica in cui devono entrare in gioco cultura, esperienza, sensibilità, capacità comunicativa, carisma e responsabilità. Un docente può incidere in modo indelebile nella percezione di un ragazzo. Inoltre è colui che consegna il testimone della tradizione alle nuove generazioni. Deve restare sempre lucido, equilibrato. E rischia tantissimo, in molti sensi perché si espone ogni giorno, tutte le ore. Anche il pomeriggio è impegnato a programmare, correggere, riflettere».
Un aumento delle ore lavorative potrebbe andare a scapito della qualità dell’insegnamento?
«Credo proprio di sì. Si fa presto a passare dalla trasmissione del sapere all’intrattenimento».
A confronto con le statistiche degli altri Paesi gli italiani di certo non brillano. Colpa degli insegnanti o di un sistema?
«Intanto bisognerebbe capire meglio se il sistema di valutazione che oggi sembra prevalere, in stile test della patente, sia adeguato oppure no. Secondo me c’è il rischio che ci si prepari per superare le prove Invalsi e non per approfondire davvero gli argomenti. Non è detto che una risposta sbagliata riveli una minore preparazione, o viceversa».
Il Messaggero 15.10.12
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Profumo chiama i sindacati «Stati generali per la scuola», di ALESSIA CAMPLONE
Mano tesa al ministro, ma anche molte critiche. I sindacati rispondono a Francesco Profumo che ha proposto agli insegnanti un «patto per la scuola», per ridare peso al loro ruolo e per rilanciare l’istruzione italiana verso l’Europa. Il ministro ha parlato anche di una conferenza nazionale all’inizio del 2013, «una sorta di stati generali della scuola». Saranno invitati anche i sindacati, che ora dicono: ben venga il dialogo, ma basta proclami e si parli con i fatti.
«Che il ministro faccia una conferenza noi lo chiediamo da tempo» dice Francesco Scrima della Cisl scuola. «Ma il ministro ci sembra uno specialista in annunci. Noi sentiamo i suoi discorsi e poi vediamo interventi come quelli che stiamo vedendo in questi giorni che fanno male alla scuola e al paese».
«Noi siamo aperti alla discussione e al confronto. È da tempo che lo chiediamo gli fa eco Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil ma basta con i messaggi mediatici di Profumo». La Flc Cgil respinge anche quelli che definisce provvedimenti calati dall’alto, «in maniera autoritaria», e il riferimento è all’aumento delle ore di insegnamento, da 18 a 24, annunciato per i docenti delle superiori. «Se si vuole discutere seriamente – aggiunge Pantaleo – dobbiamo ripartire dai contratti che sono fermi. E poi possiamo discutere del resto. Le esternazioni di Profumo, invece, mirano solo ai tagli». A giudizio di Pantaleo «non c’è un’idea di quale scuola si vuole, non c’è un progetto esatto. Noi vediamo solo che gli atti concreti sono tagli. Le scuole cadono a pezzi. Occorre migliorare la didattica e sono necessarie risorse per la formazione degli insegnanti».
Ieri il ministro dell’Istruzione è tornato a parlare del «ruolo degli insegnanti» da «ridisegnare». In un messaggio indirizzato ai docenti di Azione cattolica Profumo ribadisce che «la professione dell’insegnante deve essere adeguatamente valorizzata e sostenuta affinché gli insegnanti possano tornare ad essere maestri di cultura e di vita».
Questo pomeriggio i segretari generali di Cisl scuola, Uil scuola, Snals Confsal e Gilda Fgu si riuniranno per proclamare lo sciopero della categoria dopo la rottura della trattativa per gli scatti di anzianità dei docenti. Quanto ai ragazzi, l’Unione degli studenti (Uds) fa sapere che le proteste proseguiranno con tre giorni di mobilitazione nelle scuole di tutto il Paese dal 24 al 26 ottobre. E sempre l’Uds lancia una vera e propria sfida al ministro, che nell’intervista di ieri aveva definito «una minoranza» gli studenti scesi in piazza venerdì scorso in 90 città d’Italia. «La democrazia – dice l’Uds – non è il governo della maggioranza ma il governo di tutti. Se il ministro Profumo crede che noi siamo una minoranza lo sfidiamo pubblicamente ad aprire una consultazione nazionale in cui gli studenti possano liberamente dire ciò che pensano su legge Aprea, diritto allo studio, edilizia scolastica, finanziamenti alle scuole private e risorse edilizia scolastica, finanziamenti alle scuole private e risorse per la scuola pubblica». E la protesta monta anche sul web contro il possibile aumento di ore di lavoro dei prof. Su Facebook il Comitato genitori e insegnanti per la scuola pubblica sta raccogliendo firme contro la proposta del ministro di aumentare il numero delle ore di insegnamento. Una proposta che «è perniciosa si legge nel documento on line e che creerà ulteriore scompiglio nelle vite di migliaia e migliaia di famiglie di docenti e studenti». Se dovesse passare il piano del dicastero dell’Istruzione, le condizioni degli insegnanti di ruolo diventerebbero, secondo il Comitato, disumane.
Ieri sera alle 20 il Comitato vantava 17.318 condivisioni. Ma il ministro Profumo va avanti, cercando il dialogo anche on line. Nei giorni scorsi ha aperto un canale in cui studenti, insegnanti, genitori e chiunque altro lo voglia, può scrivergli direttamente. Il titolo: «portaascuolaituoisogni». Una bella immagine, purché non resti un sogno.
Il Messaggero 15.10.12
"Il Pd doppia il Pdl. Un partito Monti varrebbe il 20%" di Carlo Buttaroni
La Seconda Repubblica sta finendo come è finita la prima. Sono passati vent’anni. E l’opinione pubblica è nuovamente di fronte a vicende giudiziarie che riguardano la politica. O, meglio, una parte della politica. La caduta della Prima Repubblica fu una tragedia per la statura dei leader coinvolti, questa sembra una farsa per la variopinta galleria di personaggi, talmente improbabili da sembrare caricature di loro stessi.
Colpisce l’analogia tra le due epoche: nella primavera del 1992 la leva per scardinare il sistema politico, messo alla sbarra dalla magistratura e dall’opinione pubblica, fu individuata nella riforma elettorale. La convinzione era che il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario, insieme all’abolizione delle preferenze, avrebbe fatto pulizia. Com’è andata a finire, dopo due decenni, è sotto gli occhi di tutti. Oggi, la speranza è di nuovo affidata a una riforma elettorale, che, paradossalmente, potrebbe segnare il ritorno al vecchio sistema proporzionale e alle preferenze. Cioè, a quelle norme abrogate anni fa.
Il punto è che non c’è norma che tenga fronte alla spudoratezza. D’altronde Franco Fiorito che nell’immaginario collettivo ha occupato il posto che fu di Mario Chiesa è stato eletto con decine di migliaia di voti. E probabilmente sarebbe diventato consigliere anche se candidato in un collegio uninominale. La legge, d’altronde, può essere un deterrente ai reati, ma può solo sanzionarli, non prevenirli.
Proprio la storia degli ultimi vent’anni dovrebbe insegnare che nemmeno il miglior sistema elettorale può placare famelici appetiti. Non bastano le riforme elettorali a diradare le nebbie e far uscire i partiti dall’atmosfera cupa che li avvolge. L’unico antidoto è dato dalla buona politica e dalla consapevolezza che questa è l’unico strumento per un reale cambiamento. Per cambiare non basta l’adesione a un rito di espiazione collettivo, un grido isolato di sdegno. La metà degli elettori che non è in grado (o non ha voglia) di scegliere un partito rappresenta un’evoluzione degenerativa, che si alimenta delle vicende di cronaca giudiziaria ma anche del dissolversi di opzioni alternative. Se tutto appare grigio, nessuna scelta è utile. I processi cognitivi e decisionali hanno bisogno di campi di contrasto chiaro che agiscono sullo stesso terreno. Oggi, invece, le polarità che si oppongono operano su piani diversi e mettono di fronte la politica e l’antipolitica, i politici e i tecnici, la partecipazione e l’astensione. Tutto ciò spinge l’Italia fuori dall’orbita delle democrazie mature. Per l’opinione pubblica il centrosinistra, guidato dal Pd, sembra essere l’unico soggetto iscritto in un campo politico. Sul lato opposto c’è Grillo, oppure l’astensione. Mentre la parte che per vent’anni ha rappresentato l’altra quota del bipolarismo (il centrodestra a marchio Berlusconi) non esiste più, liquidata dal suo stesso ispiratore e fondatore. La corsa del Pd è solitaria. Non ha un competitore su cui misurarsi, con cui confrontarsi, da cui prendere le distanze e tentare la volata. E questo, alla fine, è un danno per la democrazia e per lo stesso partito di Bersani.
Il modello che per vent’anni ha significato per gli italiani scegliere tra centrosinistra e centrodestra, oggi non c’è più. Al suo posto un ventaglio di possibilità che non rappresentano alternative dello stesso campo. Anche i sondaggi riflettono la distonia del sistema. Gli elettori che dichiarano il proprio orientamento di base (centrodestra o centrosinistra) si dividono quasi a metà, con una leggera prevalenza dello schieramento progressista. Ma quest’orientamento non ha riscontro con le intenzioni di voto, che tendono, invece, a disporsi prevalentemente verso il Pd e il centrosinistra.
L’ABISSO
La distanza tra le due principali forze politiche supera ormai i tredici punti percentuali. Un abisso. E mentre il Pd continua a crescere in termini di consensi, il Pdl continua a perdere voti, tanto che pochi punti percentuali dividono il movimento di Grillo dal partito di Alfano e Berlusconi. L’apertura di quest’ultimo alla nascita di un polo moderato che faccia riferimento a Mario Monti s’innesta in questo scenario di dissolvenze. L’obiettivo, evidentemente, è quello di spostare la messa a fuoco sulla scelta tra «politica» e «tecnica». Perché, se la contrapposizione dovesse essere solo sul piano politico, il centrodestra al momento sarebbe destinato alla sconfitta. Così come non potrebbe reggere una competizione basata sul confronto tra politica e antipolitica, perché l’astensionismo e la grillo-ribellione diventerebbero, nell’opinione pubblica, l’alternativa al centrosinistra. Sostenere i tecnici, per beneficiare dei consensi che continua ad avere il governo, deve essere sembrata l’unica strada percorribile a un centrodestra in deficit di elettori e di leadership. Nonostante le differenze con Monti su temi fondamentali come l’economia, l’Europa, la giustizia. E indipendentemente dalle reali intenzioni di Mario Monti. Ciò che conta, per il centrodestra, è scegliere un terreno di gioco.
E una parte del campo dove iniziare la partita. La decisione di Berlusconi, ben lungi dall’essere un semplice passo indietro, rappresenta il tentativo di cambiare i termini della competizione e far diventare i tecnici l’alternativa al centrosinistra. Ma la tattica, finalizzata a una quadratura provvisoria della contabilità elettorale, ha un respiro corto, come hanno giustamente fatto notare Casini e Fini. La nascita di un polo moderato può recuperare, invece, una visione strategica e un respiro lungo, nel momento in cui l’alternativa è tra visioni politiche che si misurano sullo stesso campo. E ciò gioverebbe anche al centrosinistra, per vent’anni perimetro variopinto dell’alternativa al berlusconismo. Tanto eterogeneo che, anche quando ha vinto le elezioni politiche, ha dato vita a governi con spazi di manovra ridotti al minimo a causa delle contrapposizioni e dei veti incrociati dei partiti.
Il «polo moderato» ha molti nodi da sciogliere prima di poter rappresentare la sponda politica che si contrappone a quella democratica e socialista. A cominciare da questioni fondamentali: lo sviluppo, il ruolo dello Stato, il funzionamento dei mercati, l’Europa, l’euro, l’immigrazione, la giustizia, il welfare. Mario Monti rappresenta una scorciatoia, non un denominatore comune che tenga insieme visioni diverse o contrapposte.
PROPOSTE DI GOVERNO
Per il momento è tattica. Ma il nuovo scenario, seppur ipotetico, impone un’accelerazione anche al Pd e a tutto il centrosinistra, rispetto a quella che sarà la cifra della proposta di governo. E questo indipendentemente dall’esito delle primarie. La politica del centrosinistra deve trasferirsi dal piano delle procedure e delle alleanze, a quello della proposta politica, dando sostanza a un programma chiaro rispetto ai temi del lavoro, dello sviluppo, dell’ambiente, delle politiche pubbliche, dell’uguaglianza. Argomenti chiave che han-
no pagato il prezzo prima al berlusconismo, poi alla coabitazione forzata nel governo dei tecnici. Ora, però, hanno bisogno di esprimersi compiutamente per rappresentare un’offerta politica. E, per fare questo, bisogna mettere un punto alla favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nel momento in cui agisce in una determinata direzione. Bisogna far tornare, cioè, la politica alla responsabilità delle scelte, perché è l’unica strada per invertire il deterioramento del sistema. Il problema dell’Italia non è la domanda, ma l’offerta politica, problema che ha il suo punto di ricaduta nell’inaspettato protagonismo di personaggi che non troverebbero mai spazio in un sistema in cui gli anticorpi del controllo sociale fossero in grado di contrastarne la diffusione. Anche la crisi economica attende delle risposte forti. Le grandi corporation che influenzano i destini degli Stati nazionali possono essere contrastate solo da una politica che si nutre della partecipazione di milioni di cittadini, che ha il respiro dei popoli che scelgono con consapevolezza il loro futuro.
L’Unità 15.10.12
"Il Pd doppia il Pdl. Un partito Monti varrebbe il 20%" di Carlo Buttaroni
La Seconda Repubblica sta finendo come è finita la prima. Sono passati vent’anni. E l’opinione pubblica è nuovamente di fronte a vicende giudiziarie che riguardano la politica. O, meglio, una parte della politica. La caduta della Prima Repubblica fu una tragedia per la statura dei leader coinvolti, questa sembra una farsa per la variopinta galleria di personaggi, talmente improbabili da sembrare caricature di loro stessi.
Colpisce l’analogia tra le due epoche: nella primavera del 1992 la leva per scardinare il sistema politico, messo alla sbarra dalla magistratura e dall’opinione pubblica, fu individuata nella riforma elettorale. La convinzione era che il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario, insieme all’abolizione delle preferenze, avrebbe fatto pulizia. Com’è andata a finire, dopo due decenni, è sotto gli occhi di tutti. Oggi, la speranza è di nuovo affidata a una riforma elettorale, che, paradossalmente, potrebbe segnare il ritorno al vecchio sistema proporzionale e alle preferenze. Cioè, a quelle norme abrogate anni fa.
Il punto è che non c’è norma che tenga fronte alla spudoratezza. D’altronde Franco Fiorito che nell’immaginario collettivo ha occupato il posto che fu di Mario Chiesa è stato eletto con decine di migliaia di voti. E probabilmente sarebbe diventato consigliere anche se candidato in un collegio uninominale. La legge, d’altronde, può essere un deterrente ai reati, ma può solo sanzionarli, non prevenirli.
Proprio la storia degli ultimi vent’anni dovrebbe insegnare che nemmeno il miglior sistema elettorale può placare famelici appetiti. Non bastano le riforme elettorali a diradare le nebbie e far uscire i partiti dall’atmosfera cupa che li avvolge. L’unico antidoto è dato dalla buona politica e dalla consapevolezza che questa è l’unico strumento per un reale cambiamento. Per cambiare non basta l’adesione a un rito di espiazione collettivo, un grido isolato di sdegno. La metà degli elettori che non è in grado (o non ha voglia) di scegliere un partito rappresenta un’evoluzione degenerativa, che si alimenta delle vicende di cronaca giudiziaria ma anche del dissolversi di opzioni alternative. Se tutto appare grigio, nessuna scelta è utile. I processi cognitivi e decisionali hanno bisogno di campi di contrasto chiaro che agiscono sullo stesso terreno. Oggi, invece, le polarità che si oppongono operano su piani diversi e mettono di fronte la politica e l’antipolitica, i politici e i tecnici, la partecipazione e l’astensione. Tutto ciò spinge l’Italia fuori dall’orbita delle democrazie mature. Per l’opinione pubblica il centrosinistra, guidato dal Pd, sembra essere l’unico soggetto iscritto in un campo politico. Sul lato opposto c’è Grillo, oppure l’astensione. Mentre la parte che per vent’anni ha rappresentato l’altra quota del bipolarismo (il centrodestra a marchio Berlusconi) non esiste più, liquidata dal suo stesso ispiratore e fondatore. La corsa del Pd è solitaria. Non ha un competitore su cui misurarsi, con cui confrontarsi, da cui prendere le distanze e tentare la volata. E questo, alla fine, è un danno per la democrazia e per lo stesso partito di Bersani.
Il modello che per vent’anni ha significato per gli italiani scegliere tra centrosinistra e centrodestra, oggi non c’è più. Al suo posto un ventaglio di possibilità che non rappresentano alternative dello stesso campo. Anche i sondaggi riflettono la distonia del sistema. Gli elettori che dichiarano il proprio orientamento di base (centrodestra o centrosinistra) si dividono quasi a metà, con una leggera prevalenza dello schieramento progressista. Ma quest’orientamento non ha riscontro con le intenzioni di voto, che tendono, invece, a disporsi prevalentemente verso il Pd e il centrosinistra.
L’ABISSO
La distanza tra le due principali forze politiche supera ormai i tredici punti percentuali. Un abisso. E mentre il Pd continua a crescere in termini di consensi, il Pdl continua a perdere voti, tanto che pochi punti percentuali dividono il movimento di Grillo dal partito di Alfano e Berlusconi. L’apertura di quest’ultimo alla nascita di un polo moderato che faccia riferimento a Mario Monti s’innesta in questo scenario di dissolvenze. L’obiettivo, evidentemente, è quello di spostare la messa a fuoco sulla scelta tra «politica» e «tecnica». Perché, se la contrapposizione dovesse essere solo sul piano politico, il centrodestra al momento sarebbe destinato alla sconfitta. Così come non potrebbe reggere una competizione basata sul confronto tra politica e antipolitica, perché l’astensionismo e la grillo-ribellione diventerebbero, nell’opinione pubblica, l’alternativa al centrosinistra. Sostenere i tecnici, per beneficiare dei consensi che continua ad avere il governo, deve essere sembrata l’unica strada percorribile a un centrodestra in deficit di elettori e di leadership. Nonostante le differenze con Monti su temi fondamentali come l’economia, l’Europa, la giustizia. E indipendentemente dalle reali intenzioni di Mario Monti. Ciò che conta, per il centrodestra, è scegliere un terreno di gioco.
E una parte del campo dove iniziare la partita. La decisione di Berlusconi, ben lungi dall’essere un semplice passo indietro, rappresenta il tentativo di cambiare i termini della competizione e far diventare i tecnici l’alternativa al centrosinistra. Ma la tattica, finalizzata a una quadratura provvisoria della contabilità elettorale, ha un respiro corto, come hanno giustamente fatto notare Casini e Fini. La nascita di un polo moderato può recuperare, invece, una visione strategica e un respiro lungo, nel momento in cui l’alternativa è tra visioni politiche che si misurano sullo stesso campo. E ciò gioverebbe anche al centrosinistra, per vent’anni perimetro variopinto dell’alternativa al berlusconismo. Tanto eterogeneo che, anche quando ha vinto le elezioni politiche, ha dato vita a governi con spazi di manovra ridotti al minimo a causa delle contrapposizioni e dei veti incrociati dei partiti.
Il «polo moderato» ha molti nodi da sciogliere prima di poter rappresentare la sponda politica che si contrappone a quella democratica e socialista. A cominciare da questioni fondamentali: lo sviluppo, il ruolo dello Stato, il funzionamento dei mercati, l’Europa, l’euro, l’immigrazione, la giustizia, il welfare. Mario Monti rappresenta una scorciatoia, non un denominatore comune che tenga insieme visioni diverse o contrapposte.
PROPOSTE DI GOVERNO
Per il momento è tattica. Ma il nuovo scenario, seppur ipotetico, impone un’accelerazione anche al Pd e a tutto il centrosinistra, rispetto a quella che sarà la cifra della proposta di governo. E questo indipendentemente dall’esito delle primarie. La politica del centrosinistra deve trasferirsi dal piano delle procedure e delle alleanze, a quello della proposta politica, dando sostanza a un programma chiaro rispetto ai temi del lavoro, dello sviluppo, dell’ambiente, delle politiche pubbliche, dell’uguaglianza. Argomenti chiave che han-
no pagato il prezzo prima al berlusconismo, poi alla coabitazione forzata nel governo dei tecnici. Ora, però, hanno bisogno di esprimersi compiutamente per rappresentare un’offerta politica. E, per fare questo, bisogna mettere un punto alla favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nel momento in cui agisce in una determinata direzione. Bisogna far tornare, cioè, la politica alla responsabilità delle scelte, perché è l’unica strada per invertire il deterioramento del sistema. Il problema dell’Italia non è la domanda, ma l’offerta politica, problema che ha il suo punto di ricaduta nell’inaspettato protagonismo di personaggi che non troverebbero mai spazio in un sistema in cui gli anticorpi del controllo sociale fossero in grado di contrastarne la diffusione. Anche la crisi economica attende delle risposte forti. Le grandi corporation che influenzano i destini degli Stati nazionali possono essere contrastate solo da una politica che si nutre della partecipazione di milioni di cittadini, che ha il respiro dei popoli che scelgono con consapevolezza il loro futuro.
L’Unità 15.10.12
"Bersani lancia la sfida: il Pd è la sola speranza", di Simone Collini
«Mio padre era capace di abbandonare tutto, qui in officina, se arrivava un bambino con la bicicletta rotta a chiedere aiuto». Ci pensa un po’ su. «Ecco cosa vuol dire darsi da fare». Poi Pier Luigi Bersani si guarda intorno, il ponte meccanico con sopra una macchina da riparare, strumentazioni elettroniche moderne, una vecchia Due cavalli faccia al muro. «Qui non era mica così in grande. Si era partiti dal niente. C’erano i fondamentali. C’era la voglia di rimboccarsi le maniche».
Lui aiutava fuori, alla pompa di benzina. Qui dentro in officina no, pensava a tutto Giuseppe, che tutti chiamavano Pino. Che votava Dc. E che era tutt’altro che entusiasta del modo in cui il figlio minore impiegava il suo tempo libero. Poco distante da questo distributore Esso c’è il “Bar Colombo”. «Lì feci il mio primo comizio. Mi ricordo, era un lunedì di mercato, la piazza era piena. Ad ascoltarmi ci saranno state sì e no venti persone. Le idee che portavo non è che fossero di una popolarità smisurata. Ma la vera ansia era attraversare il ponte e ascoltare quello che poi avevano da dirmi a casa. Ma ci vuole coraggio. Io ci ho messo coraggio. Quello che ora voglio risvegliare negli italiani, che come hanno saputo reagire in passato di fronte a difficoltà gravi oggi devono accettare uno sforzo comune, perché chi ha di più deve dare di più, con spirito di solidarietà». Nell’officina entra il fratello, Mauro. Il distributore è invece rimasto al cugino, Sergio. Entra anche qualche vecchio amico. Abbracci, risate, occhi che all’improvviso si fanno lucidi. «I ricordi arrivano a folate».
E allora conviene lasciarsi andare alle battute, per non cedere troppo alla commozione. «Quel ponte? No, non ci entrerebbe un camper. Ma non è un problema, facciamo una deroga e lo allarghiamo. Convocando l’assemblea nazionale? Macché, non c’è bisogno, lo facciamo subito». E suo nipote, quel bambino che stava con suo fratello e che chiedeva di Renzi? «No, no, è figlio di amici, non è mio nipote», mette in chiaro. E giù una bella risata per scaricare la tensione.
Bersani parte dalle radici per la sfida del «cambiamento». Torna a Bettola, suo paese natale, per il via della campagna elettorale. Poi toccherà al Cern di Ginevra, e dopo i luoghi dell’ eccellenza italiana toccherà a quelli della crisi, ai simboli della necessità di ricostruire, e quindi a L’Aquila. Perché le primarie sono la prossima tappa, ma l’obiettivo è Palazzo Chigi. «Mi sono posto questa domanda: uno che si candida, cosa deve dire? Quel che farà, sì. Ma prima di tutto chi è. Troppo spesso le parole sul futuro sono state al vento. Non è questa la nostra consuetudine. Io favole non ne racconterò. Se qualcuno le vuole scelga altri, io non sono capace. Ma intanto il passato è scritto, c’è». Ecco perché ha scelto di cominciare da qui il percorso che lo dovrebbe portare al governo. Perché per lui la politica è ancora «essere fedeli agli ideali della gioventù», citando le parole di Enrico Berlinguer. «Ho fatto tante cose», dice ricordando gli anni da presidente di Regione, quelli da ministro. «Ma il Bersani vero è questo qua, tra il distributore e l’officina, dove stanno le mie radici. Il Paese ha bisogno di cambiamento, ma le foglie nuove possono venire solo se ci sono le radici». E pazienza se Renzi manda a dire che «vanno tagliati i rami vecchi». Gli si può rispondere che «non può essere lui a decidere quali tagliare». Poco importa che il sindaco di Firenze lamenti che sulle regole delle primarie Bersani «non è stato di parola». Gli si può ricordare che è stato cambiato lo Statuto del Pd per permettergli di candidarsi «e sfido chiunque a dubitare della nostra volontà di apertura». Ma lo si può fare così, senza dedicarci più che una battuta. «L’insegnamento fondamentale che mi è venuto da quell’officina è che la vita reale, la vita comune dei cittadini viene prima di ogni altra cosa, della comunicazione, dell’interpretazione politica, e io terrò fermo questo punto».
Nella piazza principale del Paese, dove c’è quel «Bar Colombo» del primo comizio, è stato montato un palchetto di non più di cinque metri quadrati e corredato della sola scritta «Il coraggio dell’Italia». Più una grande chiave inglese in polistirolo grigio, con in rosso «costruiamo il futuro». Si sta accalcati, stretti tra la chiesa e il municipio. In prima fila c’è chi tiene un lenzuolo, con su scritto: «Noi aggiustiamo, non rottamiamo». Si aspetta che finisca la messa. Poi si aspetta che il gruppo di musica popolare finisca di suonare un valzer. Chitarra, violino, fisarmonica e piffero, prodotto dall’ultimo artigiano rimasto a costruirlo, in una valle qui a fianco, Bobbio. Gliel’ha chiesto Bersani di venire a suonare qui. Il valzer, il piffero, un’ Italia sparita. «No, ti sbagli». Il sorriso di chi è convinto di saperla lunga. Poi sale sul palchetto ed è da qui che dice che «Monti deve continuare a dare un contributo al Paese», che il prossimo governo deve mandare avanti «il meglio dell’esperienza» dell’attuale esecutivo. È il giorno dopo la presentazione della «carta d’intenti», e sui giornali si sottolinea l’assenza di espliciti riferimenti all’operato dell’attuale premier. «Mi misurano il tasso di montismo, mi fanno il prelievo tutte le mattine. Cosa devo dire? Lo abbiamo voluto noi Monti, abbiamo lavorato per questa scelta. E lo sosteniamo, anche ingoiando bocconi amari. Se non ci fossimo rotti le gambe noi a correre ogni volta a votare la fiducia, con una destra che non c’è più, hai voglia dov’ era questo governo». Però in futuro no, un Monti-bis, un governissimo col Pdl «non esiste».
Si vota tra sei mesi circa, ma ieri era il quinto anno dalla nascita del Pd. «In molti erano scettici allora, ma è diventato il primo partito. Con i suoi limiti e con i suoi difetti, questo bambino qui è l’unica speranza del Paese».
L’Unità 15.10.12
"Bersani lancia la sfida: il Pd è la sola speranza", di Simone Collini
«Mio padre era capace di abbandonare tutto, qui in officina, se arrivava un bambino con la bicicletta rotta a chiedere aiuto». Ci pensa un po’ su. «Ecco cosa vuol dire darsi da fare». Poi Pier Luigi Bersani si guarda intorno, il ponte meccanico con sopra una macchina da riparare, strumentazioni elettroniche moderne, una vecchia Due cavalli faccia al muro. «Qui non era mica così in grande. Si era partiti dal niente. C’erano i fondamentali. C’era la voglia di rimboccarsi le maniche».
Lui aiutava fuori, alla pompa di benzina. Qui dentro in officina no, pensava a tutto Giuseppe, che tutti chiamavano Pino. Che votava Dc. E che era tutt’altro che entusiasta del modo in cui il figlio minore impiegava il suo tempo libero. Poco distante da questo distributore Esso c’è il “Bar Colombo”. «Lì feci il mio primo comizio. Mi ricordo, era un lunedì di mercato, la piazza era piena. Ad ascoltarmi ci saranno state sì e no venti persone. Le idee che portavo non è che fossero di una popolarità smisurata. Ma la vera ansia era attraversare il ponte e ascoltare quello che poi avevano da dirmi a casa. Ma ci vuole coraggio. Io ci ho messo coraggio. Quello che ora voglio risvegliare negli italiani, che come hanno saputo reagire in passato di fronte a difficoltà gravi oggi devono accettare uno sforzo comune, perché chi ha di più deve dare di più, con spirito di solidarietà». Nell’officina entra il fratello, Mauro. Il distributore è invece rimasto al cugino, Sergio. Entra anche qualche vecchio amico. Abbracci, risate, occhi che all’improvviso si fanno lucidi. «I ricordi arrivano a folate».
E allora conviene lasciarsi andare alle battute, per non cedere troppo alla commozione. «Quel ponte? No, non ci entrerebbe un camper. Ma non è un problema, facciamo una deroga e lo allarghiamo. Convocando l’assemblea nazionale? Macché, non c’è bisogno, lo facciamo subito». E suo nipote, quel bambino che stava con suo fratello e che chiedeva di Renzi? «No, no, è figlio di amici, non è mio nipote», mette in chiaro. E giù una bella risata per scaricare la tensione.
Bersani parte dalle radici per la sfida del «cambiamento». Torna a Bettola, suo paese natale, per il via della campagna elettorale. Poi toccherà al Cern di Ginevra, e dopo i luoghi dell’ eccellenza italiana toccherà a quelli della crisi, ai simboli della necessità di ricostruire, e quindi a L’Aquila. Perché le primarie sono la prossima tappa, ma l’obiettivo è Palazzo Chigi. «Mi sono posto questa domanda: uno che si candida, cosa deve dire? Quel che farà, sì. Ma prima di tutto chi è. Troppo spesso le parole sul futuro sono state al vento. Non è questa la nostra consuetudine. Io favole non ne racconterò. Se qualcuno le vuole scelga altri, io non sono capace. Ma intanto il passato è scritto, c’è». Ecco perché ha scelto di cominciare da qui il percorso che lo dovrebbe portare al governo. Perché per lui la politica è ancora «essere fedeli agli ideali della gioventù», citando le parole di Enrico Berlinguer. «Ho fatto tante cose», dice ricordando gli anni da presidente di Regione, quelli da ministro. «Ma il Bersani vero è questo qua, tra il distributore e l’officina, dove stanno le mie radici. Il Paese ha bisogno di cambiamento, ma le foglie nuove possono venire solo se ci sono le radici». E pazienza se Renzi manda a dire che «vanno tagliati i rami vecchi». Gli si può rispondere che «non può essere lui a decidere quali tagliare». Poco importa che il sindaco di Firenze lamenti che sulle regole delle primarie Bersani «non è stato di parola». Gli si può ricordare che è stato cambiato lo Statuto del Pd per permettergli di candidarsi «e sfido chiunque a dubitare della nostra volontà di apertura». Ma lo si può fare così, senza dedicarci più che una battuta. «L’insegnamento fondamentale che mi è venuto da quell’officina è che la vita reale, la vita comune dei cittadini viene prima di ogni altra cosa, della comunicazione, dell’interpretazione politica, e io terrò fermo questo punto».
Nella piazza principale del Paese, dove c’è quel «Bar Colombo» del primo comizio, è stato montato un palchetto di non più di cinque metri quadrati e corredato della sola scritta «Il coraggio dell’Italia». Più una grande chiave inglese in polistirolo grigio, con in rosso «costruiamo il futuro». Si sta accalcati, stretti tra la chiesa e il municipio. In prima fila c’è chi tiene un lenzuolo, con su scritto: «Noi aggiustiamo, non rottamiamo». Si aspetta che finisca la messa. Poi si aspetta che il gruppo di musica popolare finisca di suonare un valzer. Chitarra, violino, fisarmonica e piffero, prodotto dall’ultimo artigiano rimasto a costruirlo, in una valle qui a fianco, Bobbio. Gliel’ha chiesto Bersani di venire a suonare qui. Il valzer, il piffero, un’ Italia sparita. «No, ti sbagli». Il sorriso di chi è convinto di saperla lunga. Poi sale sul palchetto ed è da qui che dice che «Monti deve continuare a dare un contributo al Paese», che il prossimo governo deve mandare avanti «il meglio dell’esperienza» dell’attuale esecutivo. È il giorno dopo la presentazione della «carta d’intenti», e sui giornali si sottolinea l’assenza di espliciti riferimenti all’operato dell’attuale premier. «Mi misurano il tasso di montismo, mi fanno il prelievo tutte le mattine. Cosa devo dire? Lo abbiamo voluto noi Monti, abbiamo lavorato per questa scelta. E lo sosteniamo, anche ingoiando bocconi amari. Se non ci fossimo rotti le gambe noi a correre ogni volta a votare la fiducia, con una destra che non c’è più, hai voglia dov’ era questo governo». Però in futuro no, un Monti-bis, un governissimo col Pdl «non esiste».
Si vota tra sei mesi circa, ma ieri era il quinto anno dalla nascita del Pd. «In molti erano scettici allora, ma è diventato il primo partito. Con i suoi limiti e con i suoi difetti, questo bambino qui è l’unica speranza del Paese».
L’Unità 15.10.12
"Il Nobel all'Europa e la sfida della democrazia", di Nadia Urbinati
La democrazia riceve il Nobel per la Pace. Perché ha trasformato l’Europa da continente di sanguinosi e atroci conflitti a unione di intenti nella libertà e nella tolleranza, le condizioni che creano la pace e allontanano le ragioni della guerra. È la democrazia che ha portato i popoli europei a creare un’unione e a godere di un benessere largo del quale hanno beneficiato sia i molti che i pochi. Ed è la democrazia ad essere in grave crisi oggi, insieme all’identità dell’Unione Europea, insieme alla crescita delle diseguaglianze sociali e, come si vede nell’umiliata Grecia, insieme alla pace sociale. L’Italia è sull’orlo di questo ciclo vorticoso di crisi e instabilità. Per ragioni simili e diverse a quelle che segnano i paesi del Sud Europa.
L’Italia è ad un tempo un laboratorio e un monito di questa fase di appannamento del regime democratico. Ezio Mauro parlava su questo giornale di democrazia malata, descrivendo i sistemi di corruzione che coprono tutta la penisola, le gravissime combutte dei politici eletti con la malavita organizzata che ha suoi uomini nel governo della regione più ricca ed europea del paese, nel profondo nord trasformato in un libero mercato delle camarille e della spartizione mafiosa del bene pubblico. L’origine dei mali sta dentro la politica. Sta nella sua pratica generalizzata, usata come un grande affare per sé, la propria famiglia, i propri amici, la propria fazione. Familismo immorale e clientelismo cronico. Con l’aiuto questa volta – ecco l’aspetto preoccupante – della riscrittura delle regole (di quel brutto Titolo V della Costituzione
scritto sotto la dettatura della Lega e dei partiti «nuovi») affinché fare affari senza lacci e con pochi controlli diventasse prassi ordinaria, nel nome della sussidiarietà. Nella politica ha allora trovato il proprio porto franco una società civile affamata di risorse ottenute con poca fatica, di privilegi, di complicità illecite. Il marcio è nelle istituzioni perché è fuori. C’è davvero poco di che illudersi a leggere le cronache di queste settimane. Eppure non c’è un altrove dal quale attingere per trovare le risorse che dovranno risanare la nostra democrazia. E quindi occorre che cittadini onesti e pubblica opinione con senso di responsabilità e amore della verità vogliano mettere la loro consapevolezza e la loro fatica al servizio di questa democrazia malata.
Amare la democrazia tuttavia non è facile quando questa non sa essere convincente abbastanza, non sa dare segnali espliciti che vale la pena rendere un servizio buono alla società. Perché mentre i comitati mafiosi e politici delle amministrazioni regionali demoliscono il bene pubblico, il governo degli onesti tecnici non sa proporre altro che l’erosione dei due pilastri della cittadinanza democratica: la scuola e la sanità. Ad un anno dal suo insediamento, questo governo di emergenza economica non è ancora riuscito a produrre un disegno di legge sulla corruzione mentre è riuscito con più di un intervento a continuare nell’opera di dimagrimento dei servizi pubblici buoni e utili, ad appesantire le contribuzioni delle fasce medie e basse, a rendere il lavoro più precario. Il governo della democrazia dovrebbe fare uno sforzo per
prendere decisioni che favoriscano la maggioranza della popolazione, e invece, gli sforzi sembrano andare nella direzione contraria. Questa politica è improvvida, soprattutto in questo momento di grave crisi di credibilità del sistema. Perché il rischio è che l’appello ai cittadini onesti cada nel vuoto se la democrazia non si dimostrerà conveniente per tutti – conveniente in senso buono, perché fa il bene dei suoi cittadini. Coltivare la scuola pubblica e non privarla anno dopo anno di risorse vitali; difendere la struttura sanitaria pubblica: su queste scelte la democrazia misura la sua capacità di convincerci che è un bene per tutti difenderla. Ma se tutto viene depauperato, non solo la legalità e la legittimità, bensì anche questi beni che generazioni di cittadini hanno costruito, allora c’è il rischio che in molti pensino che in fondo la democrazia non ha poi così tanto valore.
Ecco perché nel laboratorio Italia si combattono due battaglie: per l’onestà e per la giustizia sociale; per la democrazia delle regole e per la democrazia del welfare. Se queste due battaglie sono tenute disgiunte, se la prima battaglia non è affiancata dalla seconda, allora molti cittadini già provati dalla crisi e attoniti di fronte allo sciacallaggio delle loro risorse possono provare indifferenza per il malanno della democrazia. Il Nobel che l’Unione Europea si è guadagnato è un monito e un incitamento a tenere unite queste due battaglie in tutti i paesi europei, perché c’è il rischio serio che un passo più in là nella direzione sbagliata la democrazia si trovi a vivere il suo tramonto.
La Repubblica 15.10.12