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"Il Ventennio di Formigoni l’uomo vittima del suo potere", di Michele Brambilla

Forse più della mannaia dei leghisti colpisce il silenzio di quello che una volta era il suo mondo. Nessuno, a quanto pare, considera più difendibile Roberto Formigoni: neanche gli amici, i quali per tempo, ma inutilmente, gli avevano consigliato di cambiare frequentazioni e di abbandonare supponenza e ostinazione. Finisce così, salvo colpi di scena (quando c’è di mezzo la Lega c’è sempre da aspettarsi di tutto) una delle più lunghe monarchie della democrazia italiana. Il vero ventennio della Seconda Repubblica non è stato infatti quello di Berlusconi, ma quello di Formigoni.

Il quale diventa presidente della Regione Lombardia, per la prima volta, nel 1995: solo un anno dopo la prima vittoria di Berlusconi alle politiche. Ma quando Formigoni si insedia al Pirellone, il Cavaliere è già stato fatto sloggiare da palazzo Chigi. Quando poi Formigoni, presumibilmente nell’aprile dell’anno prossimo, lascerà il suo trono, Berlusconi sarà lontano dal comando già da quasi due anni. E comunque: in questo ventennio Berlusconi a volte ha vinto e a volte ha perso le elezioni; a volte è stato al governo e a volte all’opposizione. Formigoni, invece, ha sempre vinto, anzi stravinto (quattro vittorie elettorali con la maggioranza assoluta) e ha sempre governato, sia pure su scala regionale.

In questa cronologia, probabilmente, c’è già la spiegazione di una parabola politica e umana. Per troppo tempo Formigoni è rimasto al potere: nello stesso potere. E quando si rimane troppo al potere, nello stesso potere, si finisce con il convincersi di essere infallibili, intoccabili, immortali. E si perde il contatto con la realtà.

Vedendo in questi giorni Formigoni sorridere ironico e spavaldo ai cronisti e alle telecamere, tornano alla mente i leader democristiani e socialisti di vent’anni fa, quando liquidavano i primi arresti di Di Pietro come gli avventurismi di un incauto che presto sarebbe stato trasferito a fare il vigile urbano a Gallarate. Solo un paio di anni dopo, e solo davanti alla bava alla bocca di Forlani al processo Enimont, quei politici (che pure erano vecchie volpi) tornarono sulla terra.

Quante volte il potente finisce con il credersi onnipotente. E cade. Rovinando anche il tanto di buono che aveva costruito. Perché Formigoni, in quasi quattro mandati da presidente, di cose buone ne ha fatte tante. Quando dice che «Regione Lombardia è un modello di buona amministrazione» (proprio così: «Regione Lombardia» senza l’articolo determinativo, come se fosse una persona: è il linguaggio dei manager, e lui è un presidente-manager), Formigoni certamente tira acqua al suo mulino, ma non dice una falsità. La Regione Lombardia marcia con molti meno dipendenti di tante altre. I suoi conti sono senz’altro più virtuosi. I suoi ospedali sono i migliori d’Italia.

Ma proprio perché il potere finisce con l’ottenebrare anche le menti migliori, Formigoni – l’ultimo Formigoni – è giunto a pensare che tutto gli sarebbe stato permesso. Passi per l’igienista dentale nel suo listino bloccato. Ma la giunta? In giunta Formigoni ha imbarcato di tutto. Cinque assessori finiti in manette non possono essere un caso: se un manager mette ai posti chiavi dell’azienda cinque disonesti, o cinque incapaci, vuol dire come minimo che ha perso il controllo.

E poi, mentre crescevano efficienza e potere cresceva anche, nell’uomo Roberto Formigoni, un’ambizione, una voglia di grandeur di cui la costruzione del mega-galattico Palazzo Lombardia è l’immagine più eloquente. Quanto diverso, il Formigoni di oggi, dal giovane barbuto che sembrava sempre appena uscito da un oratorio, e che iniziava l’attività politica non nascondendo – per non dire sbandierando – la sua scelta personale di vita, improntata a povertà e castità.

La politica come servizio: questa era la vocazione del Formigoni dei primi anni Ottanta. Quando cominciava a cercarsi uno spazio nella Dc con il suo Movimento popolare. C’erano, allora, meno di quattro soldi e vecchi uffici vicino alla stazione centrale di Milano, in via Copernico. A dargli una mano niente manager o consulenti d’immagine, ma un po’ di volontari, giovanotti accorsi per la Causa. Formigoni aveva contro i notabili del partito, che ne temevano l’ascesa, ma aveva dalla sua un piccolo popolo. Alle elezioni Europee del 1984 fu il primo degli eletti della Dc con 450.000 preferenze. Quando De Mita gli telefonò per complimentarsi, al centralino c’era una ragazza che rispose più o meno così: «Formigoni non può rispondere perché è in bagno». Ma un attimo dopo si corresse in questo modo: «Aspetti aspetti, sento che ha tirato lo sciacquone, adesso glielo passo».

Un altro secolo, un’altra galassia. Oggi Formigoni a Palazzo Lombardia ha un ufficio forse senza eguali in Europa. Praticamente tutto il trentacinquesimo piano. E l’eliporto. E una vista spettacolare per abbracciare tutto il suo regno. Il regno del Governatore (mai nessun presidente di Regione s’era chiamato così, prima di lui). Il regno del Celeste.

Sbaglia però chi oggi lo mette nello stesso calderone di molti altri politici finiti nel mirino della magistratura. Uomo sicuramente dotato come pochissimi, Formigoni è forse vittima di quel narcisismo che egli stesso ha recentemente riconosciuto. La sua metamorfosi – ahimè riconoscibile anche dalle orribili giacche colorate, dalle disgustose camicie a fiori e dagli imbarazzanti filmati che ha voluto mettere su You Tube – lo ha portato a credersi tanto infallibile da non ascoltare più nemmeno i vecchi amici di Cl.

Infatti anche pensare che Formigoni sia tutt’uno con Cl è una semplificazione, un errore. Invano lo avevano esortato a evitare, ad esempio, un certo Daccò. Invano gli è stato ricordato che don Giussani chiedeva, in politica, una «presenza»: non una «egemonia». Julián Carrón, il successore di don Giussani, in un’intervista al Corriere della Sera e in una lettera a Repubblica ha espresso concetti che Formigoni non ha recepito. Fino ad andare al Meeting – tra lo sconcerto di tutti – a informare che il Papa prega per lui.

Uomo che comunque non meritava un capolinea così, Formigoni cade senza realizzare il sogno del passo vincente da Milano a Roma. Cade anche per i suoi errori. Tocca a lui, adesso, sperimentare come passa la gloria di questo mondo.

La Stampa 14.10.12

"Il Ventennio di Formigoni l’uomo vittima del suo potere", di Michele Brambilla

Forse più della mannaia dei leghisti colpisce il silenzio di quello che una volta era il suo mondo. Nessuno, a quanto pare, considera più difendibile Roberto Formigoni: neanche gli amici, i quali per tempo, ma inutilmente, gli avevano consigliato di cambiare frequentazioni e di abbandonare supponenza e ostinazione. Finisce così, salvo colpi di scena (quando c’è di mezzo la Lega c’è sempre da aspettarsi di tutto) una delle più lunghe monarchie della democrazia italiana. Il vero ventennio della Seconda Repubblica non è stato infatti quello di Berlusconi, ma quello di Formigoni.
Il quale diventa presidente della Regione Lombardia, per la prima volta, nel 1995: solo un anno dopo la prima vittoria di Berlusconi alle politiche. Ma quando Formigoni si insedia al Pirellone, il Cavaliere è già stato fatto sloggiare da palazzo Chigi. Quando poi Formigoni, presumibilmente nell’aprile dell’anno prossimo, lascerà il suo trono, Berlusconi sarà lontano dal comando già da quasi due anni. E comunque: in questo ventennio Berlusconi a volte ha vinto e a volte ha perso le elezioni; a volte è stato al governo e a volte all’opposizione. Formigoni, invece, ha sempre vinto, anzi stravinto (quattro vittorie elettorali con la maggioranza assoluta) e ha sempre governato, sia pure su scala regionale.
In questa cronologia, probabilmente, c’è già la spiegazione di una parabola politica e umana. Per troppo tempo Formigoni è rimasto al potere: nello stesso potere. E quando si rimane troppo al potere, nello stesso potere, si finisce con il convincersi di essere infallibili, intoccabili, immortali. E si perde il contatto con la realtà.
Vedendo in questi giorni Formigoni sorridere ironico e spavaldo ai cronisti e alle telecamere, tornano alla mente i leader democristiani e socialisti di vent’anni fa, quando liquidavano i primi arresti di Di Pietro come gli avventurismi di un incauto che presto sarebbe stato trasferito a fare il vigile urbano a Gallarate. Solo un paio di anni dopo, e solo davanti alla bava alla bocca di Forlani al processo Enimont, quei politici (che pure erano vecchie volpi) tornarono sulla terra.
Quante volte il potente finisce con il credersi onnipotente. E cade. Rovinando anche il tanto di buono che aveva costruito. Perché Formigoni, in quasi quattro mandati da presidente, di cose buone ne ha fatte tante. Quando dice che «Regione Lombardia è un modello di buona amministrazione» (proprio così: «Regione Lombardia» senza l’articolo determinativo, come se fosse una persona: è il linguaggio dei manager, e lui è un presidente-manager), Formigoni certamente tira acqua al suo mulino, ma non dice una falsità. La Regione Lombardia marcia con molti meno dipendenti di tante altre. I suoi conti sono senz’altro più virtuosi. I suoi ospedali sono i migliori d’Italia.
Ma proprio perché il potere finisce con l’ottenebrare anche le menti migliori, Formigoni – l’ultimo Formigoni – è giunto a pensare che tutto gli sarebbe stato permesso. Passi per l’igienista dentale nel suo listino bloccato. Ma la giunta? In giunta Formigoni ha imbarcato di tutto. Cinque assessori finiti in manette non possono essere un caso: se un manager mette ai posti chiavi dell’azienda cinque disonesti, o cinque incapaci, vuol dire come minimo che ha perso il controllo.
E poi, mentre crescevano efficienza e potere cresceva anche, nell’uomo Roberto Formigoni, un’ambizione, una voglia di grandeur di cui la costruzione del mega-galattico Palazzo Lombardia è l’immagine più eloquente. Quanto diverso, il Formigoni di oggi, dal giovane barbuto che sembrava sempre appena uscito da un oratorio, e che iniziava l’attività politica non nascondendo – per non dire sbandierando – la sua scelta personale di vita, improntata a povertà e castità.
La politica come servizio: questa era la vocazione del Formigoni dei primi anni Ottanta. Quando cominciava a cercarsi uno spazio nella Dc con il suo Movimento popolare. C’erano, allora, meno di quattro soldi e vecchi uffici vicino alla stazione centrale di Milano, in via Copernico. A dargli una mano niente manager o consulenti d’immagine, ma un po’ di volontari, giovanotti accorsi per la Causa. Formigoni aveva contro i notabili del partito, che ne temevano l’ascesa, ma aveva dalla sua un piccolo popolo. Alle elezioni Europee del 1984 fu il primo degli eletti della Dc con 450.000 preferenze. Quando De Mita gli telefonò per complimentarsi, al centralino c’era una ragazza che rispose più o meno così: «Formigoni non può rispondere perché è in bagno». Ma un attimo dopo si corresse in questo modo: «Aspetti aspetti, sento che ha tirato lo sciacquone, adesso glielo passo».
Un altro secolo, un’altra galassia. Oggi Formigoni a Palazzo Lombardia ha un ufficio forse senza eguali in Europa. Praticamente tutto il trentacinquesimo piano. E l’eliporto. E una vista spettacolare per abbracciare tutto il suo regno. Il regno del Governatore (mai nessun presidente di Regione s’era chiamato così, prima di lui). Il regno del Celeste.
Sbaglia però chi oggi lo mette nello stesso calderone di molti altri politici finiti nel mirino della magistratura. Uomo sicuramente dotato come pochissimi, Formigoni è forse vittima di quel narcisismo che egli stesso ha recentemente riconosciuto. La sua metamorfosi – ahimè riconoscibile anche dalle orribili giacche colorate, dalle disgustose camicie a fiori e dagli imbarazzanti filmati che ha voluto mettere su You Tube – lo ha portato a credersi tanto infallibile da non ascoltare più nemmeno i vecchi amici di Cl.
Infatti anche pensare che Formigoni sia tutt’uno con Cl è una semplificazione, un errore. Invano lo avevano esortato a evitare, ad esempio, un certo Daccò. Invano gli è stato ricordato che don Giussani chiedeva, in politica, una «presenza»: non una «egemonia». Julián Carrón, il successore di don Giussani, in un’intervista al Corriere della Sera e in una lettera a Repubblica ha espresso concetti che Formigoni non ha recepito. Fino ad andare al Meeting – tra lo sconcerto di tutti – a informare che il Papa prega per lui.
Uomo che comunque non meritava un capolinea così, Formigoni cade senza realizzare il sogno del passo vincente da Milano a Roma. Cade anche per i suoi errori. Tocca a lui, adesso, sperimentare come passa la gloria di questo mondo.
La Stampa 14.10.12

"Milano e la follia della tragica grandeur", di Michele Serra

Tra i milanesi e i lombardi che ancora si occupano della cosa pubblica (non pochi, nonostante tutto) la fase terminale del lungo potere di Formigoni suscita, più ancora che scandalo, una specie di muto sgomento. NEL caparbio arroccarsi a Palazzo, nel rifiutarsi di prendere atto che le mura crollano, nei toni stizziti e immotivatamente offesi dell’indiscusso protagonista del dramma in corso, balena un raggio di follia di non facile lettura in una città pragmatica e spiccia, che al potere ha sempre chiesto di non essere troppo ingombrante e di essere possibilmente efficiente. Magari onestà e trasparenza non sono attitudini altrettanto richieste: non dalla totalità dei milanesi e dei lombardi, perlomeno, viste qualità e quantità degli scandali in corso, tutti fondati su una vistosa compartecipazione tra Palazzo e società. Ma perfino nel malaffare, dalle manfrine spicciole su appalti e subappalti alle grandi spartizioni finanziarie, Milano genera raramente quelle schiume da basso impero che lordano il sottopotere romano. I suoi scandali fanno poco colore e poco folklore, così da far risultare fuori ordinanza, e parecchio incongrui, le vacanze ai Caraibi sul panfilo del faccendiere, i viaggi premio per le comitive di trafficoni, le inquadrature per paparazzi.
Anche il cittadino di Lecco, chissà se oppositore o elettore deluso, che ieri ha gridato a Formigoni “vattene ad Hammamet” dovrebbe rivedere le sue categorie di giudizio storico.
Nella leva di politici travolta vent’anni fa da Tangentopoli i coinvolti erano in maggioranza funzionari di partito dalla vita privata di basso profilo, puntuali esattori per conto delle rispettive parrocchie, e la baldoria della “Milano da bere” riguardò prevalentemente gli ambienti rampanti delle nuove professioni. Faccendieri e mediatori della pacchia immobiliare e borsistica degli anni Ottanta erano, quanto a ingordigia e spregiudicatezza, molto più avanti dei loro interlocutori politici. (Viene da dire, col senno di poi, che dopo la decapitazione giudiziaria della vecchia classe politica i suoi ex complici hanno preso direttamente in mano anche la gestione del Palazzo: Berlusconi successore di Craxi dice già tutto, e davvero in questo caso a dire già tutto è stata Milano).
Quanto all’efficienza, nel nome della quale la Milano degli affari sa anche chiudere un occhio quando serve, ai milanesi (anche quelli non d’affari) non pare neanche vero che un business planetario come l’Expo abbia avuto un percorso così accidentato, ritardato, controverso, litigioso, scoordinato, tanto da far dubitare sul suo effettivo avvento. E un potere come quello formigoniano e fu-morattiano, così introdotto nel fare e nel costruire, ha perso nella vicenda dell’Expo molto del suo credito, perché si può ben sopportare, negli ambienti che hanno premura di far girare i quattrini, il sospetto di qualche infiltrazione mafiosa. Non il sospetto che nella stanza dei bottoni non si sappia quali bottoni premere, e di chi deve essere il dito.
Sia pure nel quadro di un deterioramento etico generalizzato, la tragica grandeur formigoniana ha comunque qualcosa di inatteso e di quasi incomprensibile. Perché le sue basi “ideologiche”, il cattolicesimo un po’ troppo operoso ma pur sempre sociale di Comunione e Liberazione, tutto lasciavano supporre tranne una così vistosa perdita di misura, un lievitare così smodato delle ambizioni personali e in qualche caso degli stili di vita, infine un’idea della politica smisurata e incontenibile, senza controlli o filtri o limiti che ne possano circoscrivere l’azione e giudicare gli atti. A partire da quella nuova sede regionale, un immenso grattacielo a specchio di impronta kuwaitiana, che per guardarlo dalle strade strette e dalle case basse del quartiere del-l’Isola, che più milanese non si può, bisogna mettersi gli occhiali da sole. E sarà anche vero che, nel lungo periodo, la Regione risparmierà sugli affitti, come assicurano i suoi contabili; ma chiunque pensi che le Regioni si sono montate la testa, credendosi Stati e come Stati spendendo, davanti a quel falansterio vanitoso troverà conferma che sì, le Regioni si sono montate la testa.
Se nemmeno l’arresto di un consigliere regionale del suo partito con l’accusa, gravissima, di avere comperato voti dai boss calabresi; se nemmeno lo svelamento diciamo così “ufficiale” di una penetrazione mafiosa oramai consolidata (e metabolizzata con amarezza da una città, e soprattutto da un hinterland, che quando va al ristorante o in pizzeria o entra in un negozio sa di avere buone probabilità di pagare il conto a una cosca); se nemmeno la voragine surreale nei conti di don Verzé e le carte sporche della sanità lombarda; se nemmeno il massacrante stillicidio di atti giudiziari contro uomini della Regione e l’opacissima vicenda che lo riguarda personalmente, sono bastati a Roberto Formigoni per prendere atto che la sua stagione politica è finita; viene davvero da pensare che ci sia, in questa caduta senza stile e senza ammortizzatori, una traccia di dissennatezza. Attenuante o aggravante che sia (un bravo leader politico dovrebbe avere, accanto a sé, chi lo avverte che sta passando il segno) questa dissennatezza dovrebbe far ragionare su una parabola politico-culturale che dai suoi presupposti e dalle sue presunzioni spirituali fino alle seduzioni del potere e degli affari, copre evidentemente un territorio troppo vasto. Anche psicologicamente troppo vasto. La formazione ascetico-penitenziale prepara all’estasi e alla fede, non al duro lavoro della politica. Lo si dice senza asprezza, quasi con un’ombra di pietas verso l’ex asceta che non ha retto l’impatto con il potere, con i ricchi, con le vacanze ai Caraibi, e ora che tutto sta per finire non trova la misura, così mondana, della sconfitta politica.

La Repubblica 14.10.12

"Milano e la follia della tragica grandeur", di Michele Serra

Tra i milanesi e i lombardi che ancora si occupano della cosa pubblica (non pochi, nonostante tutto) la fase terminale del lungo potere di Formigoni suscita, più ancora che scandalo, una specie di muto sgomento. NEL caparbio arroccarsi a Palazzo, nel rifiutarsi di prendere atto che le mura crollano, nei toni stizziti e immotivatamente offesi dell’indiscusso protagonista del dramma in corso, balena un raggio di follia di non facile lettura in una città pragmatica e spiccia, che al potere ha sempre chiesto di non essere troppo ingombrante e di essere possibilmente efficiente. Magari onestà e trasparenza non sono attitudini altrettanto richieste: non dalla totalità dei milanesi e dei lombardi, perlomeno, viste qualità e quantità degli scandali in corso, tutti fondati su una vistosa compartecipazione tra Palazzo e società. Ma perfino nel malaffare, dalle manfrine spicciole su appalti e subappalti alle grandi spartizioni finanziarie, Milano genera raramente quelle schiume da basso impero che lordano il sottopotere romano. I suoi scandali fanno poco colore e poco folklore, così da far risultare fuori ordinanza, e parecchio incongrui, le vacanze ai Caraibi sul panfilo del faccendiere, i viaggi premio per le comitive di trafficoni, le inquadrature per paparazzi.
Anche il cittadino di Lecco, chissà se oppositore o elettore deluso, che ieri ha gridato a Formigoni “vattene ad Hammamet” dovrebbe rivedere le sue categorie di giudizio storico.
Nella leva di politici travolta vent’anni fa da Tangentopoli i coinvolti erano in maggioranza funzionari di partito dalla vita privata di basso profilo, puntuali esattori per conto delle rispettive parrocchie, e la baldoria della “Milano da bere” riguardò prevalentemente gli ambienti rampanti delle nuove professioni. Faccendieri e mediatori della pacchia immobiliare e borsistica degli anni Ottanta erano, quanto a ingordigia e spregiudicatezza, molto più avanti dei loro interlocutori politici. (Viene da dire, col senno di poi, che dopo la decapitazione giudiziaria della vecchia classe politica i suoi ex complici hanno preso direttamente in mano anche la gestione del Palazzo: Berlusconi successore di Craxi dice già tutto, e davvero in questo caso a dire già tutto è stata Milano).
Quanto all’efficienza, nel nome della quale la Milano degli affari sa anche chiudere un occhio quando serve, ai milanesi (anche quelli non d’affari) non pare neanche vero che un business planetario come l’Expo abbia avuto un percorso così accidentato, ritardato, controverso, litigioso, scoordinato, tanto da far dubitare sul suo effettivo avvento. E un potere come quello formigoniano e fu-morattiano, così introdotto nel fare e nel costruire, ha perso nella vicenda dell’Expo molto del suo credito, perché si può ben sopportare, negli ambienti che hanno premura di far girare i quattrini, il sospetto di qualche infiltrazione mafiosa. Non il sospetto che nella stanza dei bottoni non si sappia quali bottoni premere, e di chi deve essere il dito.
Sia pure nel quadro di un deterioramento etico generalizzato, la tragica grandeur formigoniana ha comunque qualcosa di inatteso e di quasi incomprensibile. Perché le sue basi “ideologiche”, il cattolicesimo un po’ troppo operoso ma pur sempre sociale di Comunione e Liberazione, tutto lasciavano supporre tranne una così vistosa perdita di misura, un lievitare così smodato delle ambizioni personali e in qualche caso degli stili di vita, infine un’idea della politica smisurata e incontenibile, senza controlli o filtri o limiti che ne possano circoscrivere l’azione e giudicare gli atti. A partire da quella nuova sede regionale, un immenso grattacielo a specchio di impronta kuwaitiana, che per guardarlo dalle strade strette e dalle case basse del quartiere del-l’Isola, che più milanese non si può, bisogna mettersi gli occhiali da sole. E sarà anche vero che, nel lungo periodo, la Regione risparmierà sugli affitti, come assicurano i suoi contabili; ma chiunque pensi che le Regioni si sono montate la testa, credendosi Stati e come Stati spendendo, davanti a quel falansterio vanitoso troverà conferma che sì, le Regioni si sono montate la testa.
Se nemmeno l’arresto di un consigliere regionale del suo partito con l’accusa, gravissima, di avere comperato voti dai boss calabresi; se nemmeno lo svelamento diciamo così “ufficiale” di una penetrazione mafiosa oramai consolidata (e metabolizzata con amarezza da una città, e soprattutto da un hinterland, che quando va al ristorante o in pizzeria o entra in un negozio sa di avere buone probabilità di pagare il conto a una cosca); se nemmeno la voragine surreale nei conti di don Verzé e le carte sporche della sanità lombarda; se nemmeno il massacrante stillicidio di atti giudiziari contro uomini della Regione e l’opacissima vicenda che lo riguarda personalmente, sono bastati a Roberto Formigoni per prendere atto che la sua stagione politica è finita; viene davvero da pensare che ci sia, in questa caduta senza stile e senza ammortizzatori, una traccia di dissennatezza. Attenuante o aggravante che sia (un bravo leader politico dovrebbe avere, accanto a sé, chi lo avverte che sta passando il segno) questa dissennatezza dovrebbe far ragionare su una parabola politico-culturale che dai suoi presupposti e dalle sue presunzioni spirituali fino alle seduzioni del potere e degli affari, copre evidentemente un territorio troppo vasto. Anche psicologicamente troppo vasto. La formazione ascetico-penitenziale prepara all’estasi e alla fede, non al duro lavoro della politica. Lo si dice senza asprezza, quasi con un’ombra di pietas verso l’ex asceta che non ha retto l’impatto con il potere, con i ricchi, con le vacanze ai Caraibi, e ora che tutto sta per finire non trova la misura, così mondana, della sconfitta politica.
La Repubblica 14.10.12

C'era una volta la Lega

Oggi sono di lotta e di cadrega. Lo scandalo alla Regione Lombardia, il Pirellone assediato, l’ombra della ‘ndrangheta: non è mai abbastanza per arrendersi. Duri e puri. Lontani dagli scandali dei palazzi romani, predicavano la secessione, l’amore incondizionato per la Padania, leggendario territorio bagnato dal fiume sacro Po. Come delle incarnazioni di William Wallace anche loro, cuori impavidi, urlavano libertà. Erano i leghisti, i verdi paladini della sicurezza incontaminata del Nord.

Oggi Lega fa rima con “cadrega”, ovvero poltrona: non certo un modello Ikea ma uno scranno rosso .

Lo scandalo nella Regione Lombardia è un esempio della conversione. Si comincia la mattina dopo l’arresto dell’assessore regionale Domenico Zambetti con le dichiarazioni del segretario lombardo Matteo Salvini che annuncia in uno stato ancora onirico di essere “orgoglioso dei nostri consiglieri e assessori perché disposti a dimettersi, dimostrando così che non siamo attaccati alle poltrone. Vorrei che fosse chiaro a tutti – aggiunge forse alzando il kilt scozzese in segno di sfida – che per noi la puzza della ‘ndrangheta dentro l’istituzione Regione è insopportabile”.

Non avendo ricevuto alcun ragguaglio su come proseguire, se continuare ad accelerare o fermarsi, decide per un “Formigoni prenda atto che ha sbagliato nominando un assessore che aveva contatti con la ‘ndrangheta. Per questo noi chiediamo l’azzeramento totale della giunta. Tra noi c’è forte consapevolezza che si voterà in primavera. Al voto il Carroccio si presenterà probabilmente da solo, sia alle regionali sia alle politiche”. Salvo poi mettere una mano di dietro e ricordare che “è questa la richiesta che sale dalla nostra base. Ma decideremo all’assemblea federale convocata a febbraio”. Insomma non si sa mai.

Quindi è il momento per rispondere a Roberto Saviano, che a ‘Italia In Controluce’ su Radio 24 accusava la Lega di avere “profonda responsabilità del dilagare della ‘ndrangheta al Nord perché ha taciuto, anzi ha attaccato chiunque parlasse di legame tra economia settentrionale e criminalità organizzata!”.

“Sciur Saviano – tuona Salvini – invitandoLa a sciacquarsi la bocca prima di pronunciare la parola ‘Lega’, La invitiamo a riparlare quando avrà ottenuto un decimo dei risultati che la Lega, con Maroni e i suoi… Sindaci, ha ottenuto nella lotta alle mafie. C’è chi chiacchiera, c’è chi fa!”

“P.s. Le ricordo – aggiunge – che la ‘ndrangheta e le altre mafie non sono nate in Lombardia, in Veneto o in Piemonte, ma sono un ‘gentile dono’ esportato da altre terre tramite quel soggiorno obbligato contro cui la Lega combatteva quando Lei giocava ancora coi pupazzi”.

Petto in fuori e tutto gonfio, SuperSalvini ha solo dimenticato un dettaglio: se la ‘ndrangheta è presente nella Regione Lombardia oggi, come la si può combattere oggi? Ci dimettiamo oggi? Oggi che si fa?

La giornata trionfale del segretario lombardo si conclude però con un epilogo inatteso. Sono bastate due chiacchiere con Maroni e Bossi. Stringiamoci la mano e arriviamo compatti fino al…
2013? 2015? Dai non mettiamo delle date ora che portano male, piuttosto accendi la Tv che sta iniziando il Tg1.

Il Polemista

*****

“La Lega e il Pdl di nuovo insieme difendono con i denti le loro poltrone lombarde. Se come si sente dire, dalla riunione in corso in via dell’Umiltà tra Alfano, Maroni e Formigoni dovesse venir fuori il pasticcio impresentabile di un governicchio di transizione per la Lombardia con a capo sempre il governatore, sarebbe la pietra tombale sulla residua credibilità della nuova Lega di Maroni. In Lombardia serve pulizia e solo il ritorno alle urne dei cittadini può ridare dignità al governo della Regione”. Così Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza del PD

“La nuova Lega di Maroni che prometteva pulizia, ramazze e piazza pulita dei corrotti non si è sottratta al vecchio abbraccio con Formigoni e con il Pdl” è stato il commento di Francesca Puglisi, responsabile Scuola del PD. Incollata com’è alle poltrone della Lombardia, del Piemonte e del Vento, – ha continuato la Puglisi – ha preferito la proprio fettina di potere piuttosto che la liberazione della Lombardia dal sistema di potere di Formigoni e dagli scandali che sono sotto gli occhi di tutti gli italiani.
Siamo sicuri che la Lega pagherà questo errore nelle urna ma intanto a pagarne per primi le conseguenza saranno i cittadini lombardi, privi ormai di un governo degno di questo nome al vertice della più importante regione italiana.

“Lascia sinceramente sconcertati il tentativo fatto questa sera dal Tg1 di presentare la crisi della regione Lombardia come conseguenza di poco chiare questioni politiche”. Questa la dichiarazione di Matteo Orfini responsabile cultura del PD. “E’ assurdo che il reale motivo alla base della crisi della Regione Lombarda, ovvero la notizia dall’arresto avvenuto ieri dell’assessore regionale Domenico Zambetti del Pdl, con l’accusa, tra l’altro, di avere comprato i voti per la sua elezione dalla’ndrangheta, sia stata data in un servizio a parte impedendo alle persone di mettere in relazione le due cose. Se è questo quello che ci attende in vista delle elezioni è il caso che il Presidente della Rai e il Direttore generale si pongano il problema”.

“Senza nulla togliere al ricordo del Concilio Vaticano Secondo , è davvero incredibile che il Tg1 ritenga secondaria la notizia sulle vicende della giunta lombarda e da attenuare il tema della complicità con la criminalità organizzata. Anche questa volta il Tg1 ha perso l’occasione di svolgere la funzione che storicamente era stata assegnata alla testata ammiraglia”. Così Vincenzo Vita, componente Pd in Commissione Vigilanza Rai.

www.partitodemocratico.it

"Quei minori «rapiti per legge» che non fanno notizia", di Carla Forcolin*

Tutta l’Italia si indigna o finge di indignarsi davanti al filmato che ci mostra un bambino di 10 anni, conteso dai genitori, mentre viene preso con la forza all’uscita da scuola e caricato in una macchina della polizia. Leonardo si oppone disperatamente al suo trasferimento forzato in una struttura di Cittadella, al suo allontanamento dalla madre, dalla zia, dai suoi compagni … Ma non viene ascoltato, viene preso a viva forza.
Non entro in merito alle decisioni della Corte d’Appello del Tribunale dei Minorenni di Venezia, non ho gli elementi per farlo, ma non posso non vedere in questo bambino, che tutta l’Italia ha visto combattere una lotta impari contro i poliziotti che lo hanno prelevato all’uscita della scuola, tutti i bambini rapiti per legge. E per bambini «rapiti» intendo coloro che sono costretti a cambiare famiglia, ambiente e tutta la loro vita contro la loro volontà.
Non solo i bambini contesi tra madre e padre, ma anche i bambini posti in affidamento e poi costretti a lasciare la famiglia affidataria, per finire in qualche struttura e da lì passare ad una famiglia adottiva. I bambini tolti ai genitori naturali perché considerati «inadeguati», anche se i bambini li amano e gli stessi genitori, con tutti i loro limiti, amano loro. I bambini sottratti ai genitori ingiustamente accusati di violenza (è successo tante volte). Sono rapiti tutti quei bambini che all’uscita dalla scuola trovano una persona diversa da quella che aspettavano e che da quella persona (assistente sociale o poliziotto) vengono costretti a cambiare residenza e a perdere tutti coloro che amano nel loro cuore.
La giustizia minorile, nei paesi che si ispirano alla «Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989», non potrebbe ignorare i desideri, i sentimenti e la volontà dei bambini, trattandolo come oggetti, ma lo fa lo stesso. La Convenzione, all’art. 12, stabilisce che il fanciullo ha «il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, essendo essa debitamente presa in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità». Leonardo ha espresso ben chiaramente la sua opinione opponendosi a chi lo ha voluto rinchiudere in una comunità e tutto il mondo lo ha visto, ma ci sono bambini portati via da casa o da scuola in modo meno vistoso, ma ugualmente violento.
Già ieri sera il questore di Padova, intervistato in televisione, ci dice che il piccolo Leonardo sta bene. Anche Maria, Felice, Carlotta, che del padre aveva tanta paura ed è stata mandata da lui, stanno bene. Stanno tutti bene questi bambini, anche se costretti a separarsi in un momento da tutto ciò che è loro caro, proprio come succede nella morte.
Ormai tre anni fa fu lanciata dall’ associazione «La gabbianella e altri animali» la petizione «Diritto ai sentimenti per i bambini in affidamento». L’onorevole Francesco Paolo Sisto (PdL) è il relatore della materia, ma nessuna legge è stata ancora fatta. Si farebbe ancora in tempo a discutere le proposte di legge che giacciono in Commissione Giustizia e sono frutto di petizione popolare, se lui e i suoi onorevoli colleghi volessero.
Le migliaia di firmatari della petizione lo pregano di porre la questione di nuovo con urgenza, non lasciar cadere la legislatura senza avere fatto ciò che è in suo potere perché il problema sia risolto.
I bambini vengono rapiti per legge con grande frequenza, ma nessuno se ne occupa se non fanno notizia, se non c’è un filmato che li renda «famosi».
Ora ci si aspetta che almeno Lorenzo sia ascoltato, che la sua richiesta di aiuto urlata al mondo abbia un seguito, anche quando i riflettori della cronaca si spegneranno su di lui.

*(Presidente dell’associazione «La gabbianella e altri animali»)

L’Unità 13.10.12

"Quei minori «rapiti per legge» che non fanno notizia", di Carla Forcolin*

Tutta l’Italia si indigna o finge di indignarsi davanti al filmato che ci mostra un bambino di 10 anni, conteso dai genitori, mentre viene preso con la forza all’uscita da scuola e caricato in una macchina della polizia. Leonardo si oppone disperatamente al suo trasferimento forzato in una struttura di Cittadella, al suo allontanamento dalla madre, dalla zia, dai suoi compagni … Ma non viene ascoltato, viene preso a viva forza.
Non entro in merito alle decisioni della Corte d’Appello del Tribunale dei Minorenni di Venezia, non ho gli elementi per farlo, ma non posso non vedere in questo bambino, che tutta l’Italia ha visto combattere una lotta impari contro i poliziotti che lo hanno prelevato all’uscita della scuola, tutti i bambini rapiti per legge. E per bambini «rapiti» intendo coloro che sono costretti a cambiare famiglia, ambiente e tutta la loro vita contro la loro volontà.
Non solo i bambini contesi tra madre e padre, ma anche i bambini posti in affidamento e poi costretti a lasciare la famiglia affidataria, per finire in qualche struttura e da lì passare ad una famiglia adottiva. I bambini tolti ai genitori naturali perché considerati «inadeguati», anche se i bambini li amano e gli stessi genitori, con tutti i loro limiti, amano loro. I bambini sottratti ai genitori ingiustamente accusati di violenza (è successo tante volte). Sono rapiti tutti quei bambini che all’uscita dalla scuola trovano una persona diversa da quella che aspettavano e che da quella persona (assistente sociale o poliziotto) vengono costretti a cambiare residenza e a perdere tutti coloro che amano nel loro cuore.
La giustizia minorile, nei paesi che si ispirano alla «Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989», non potrebbe ignorare i desideri, i sentimenti e la volontà dei bambini, trattandolo come oggetti, ma lo fa lo stesso. La Convenzione, all’art. 12, stabilisce che il fanciullo ha «il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, essendo essa debitamente presa in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità». Leonardo ha espresso ben chiaramente la sua opinione opponendosi a chi lo ha voluto rinchiudere in una comunità e tutto il mondo lo ha visto, ma ci sono bambini portati via da casa o da scuola in modo meno vistoso, ma ugualmente violento.
Già ieri sera il questore di Padova, intervistato in televisione, ci dice che il piccolo Leonardo sta bene. Anche Maria, Felice, Carlotta, che del padre aveva tanta paura ed è stata mandata da lui, stanno bene. Stanno tutti bene questi bambini, anche se costretti a separarsi in un momento da tutto ciò che è loro caro, proprio come succede nella morte.
Ormai tre anni fa fu lanciata dall’ associazione «La gabbianella e altri animali» la petizione «Diritto ai sentimenti per i bambini in affidamento». L’onorevole Francesco Paolo Sisto (PdL) è il relatore della materia, ma nessuna legge è stata ancora fatta. Si farebbe ancora in tempo a discutere le proposte di legge che giacciono in Commissione Giustizia e sono frutto di petizione popolare, se lui e i suoi onorevoli colleghi volessero.
Le migliaia di firmatari della petizione lo pregano di porre la questione di nuovo con urgenza, non lasciar cadere la legislatura senza avere fatto ciò che è in suo potere perché il problema sia risolto.
I bambini vengono rapiti per legge con grande frequenza, ma nessuno se ne occupa se non fanno notizia, se non c’è un filmato che li renda «famosi».
Ora ci si aspetta che almeno Lorenzo sia ascoltato, che la sua richiesta di aiuto urlata al mondo abbia un seguito, anche quando i riflettori della cronaca si spegneranno su di lui.
*(Presidente dell’associazione «La gabbianella e altri animali»)
L’Unità 13.10.12