Latest Posts

"I fantasmi di Marghera. Il futuro: industria o palais Lumière?", di Rinaldo Gianola

Ogni volta che si torna a Marghera ne manca un pezzo. Aziende che chiudono, imprenditori in fuga, lavoratori sbattuti in cassa integrazione e licenziati. Sarà pur vero che la nostalgia non è più quella di un tempo e che non bisogna esser troppo sentimentali nel ricordare un glorioso passato industriale, di lavoro e di democrazia perchè si rischia di apparire patetici nella stagione dei tecnocrati, dei bocconiani al governo. Però qualcuno, prima o poi, dovrà pur spiegare dove sono finiti migliaia di posti di lavoro, dove sono scappate le multinazionali che avevano giurato fedeltà eterna, chi ha buttato al vento un enorme patrimonio di competenze, ricerca, innovazione. Adesso ci vuole un po’ di modernità, bando ai rimpianti, basta lamenti. Il futuro? Il futuro di Marghera, che occupa ancora circa 14mila addetti, non sono più la chimica, la cantieristica, l’energia e quegli operai unti e sporchi così fuori moda. Il Palais Lumière ci salverà, la torre delle luci del francese Pierre Cardin cambierà il destino dello storico polo petrolchimico, vigilerà su Venezia, guarderà dall’alto pure il glorioso San Marco e metterà la parola fine sul secolo industriale avviato dal conte Giuseppe Volpi con i finanziamenti della Banca Commerciale. Il palazzo dell’archistar costerà 2,1 miliardi di euro, composto da 3 torri di 66 piani, sarà alto 250 metri. Il governatore veneto, il leghista Luca Zaia, grande esperto di prosecco, ha paragonato l’architetto novantenne Cardin a Lorenzo il Magnifico. Che si possa discutere seriamente di questa specie di luna park, di un investimento di tale dimensione destinato a oltraggiare Venezia, per dare una risposta alla desertificazione industriale e occupazionale, è un segno della decadenza culturale e politica delle nostre classi dirigenti. Sembra che, di fronte alle emergenze sociali ed economiche di un Paese impoverito e indebolito dalla crisi, imprese e amministratori abbiano avviato una gara a chi le spara più grosse. Eppure c’è davvero qualcuno che crede al Palais Lumière, con centri commerciali, appartamenti di lusso, cinema e megastore, come alternativa all’industria, alla ricerca, al porto, alle fabbriche. C’è chi pensa, anche in una parte del sindacato oltre che della politica, di trasformare Marghera in un immenso parcheggio, in un porto per gli yacht dei miliardari russi e arabi, la porta di accesso a Venezia, con alberghi e tapis roulant sul Ponte della Libertà, per avvicinare i turisti alla città più bella del mondo. Tutto questo, compresa la campagna pubblicitaria progressista dei Benetton preoccupati per la disoccupazione giovanile mondiale e pronti a selezionare generosamente un centinaio di belle idee, fa a pugni con una realtà durissima, che impone sacrifici e umiliazioni a una grande massa di lavoratori, alle loro famiglie, che riescono a sfondare il video, a raccogliere l’attenzione dell’opinione pubblica, solo quando compiono qualche gesto eclatante, quando rompono il galateo delle battaglie sindacali. sindacali. «Noi siamo come i fantasmi, nessuno ci vuole vedere e ogni tanto siamo costretti a farci sentire, ad affermare che esistiamo perchè il nostro lavoro, il nostro futuro non possono morire così» afferma Nicoletta Zago, 47 anni, di Mestre, dipendente della Vinyls. È diventata un volto noto perchè conduce, con i suoi colleghi, una lotta pluriennale per la sopravvivenza. È salita con Alessandro Gabarotto e Lucio Sabadin sul campanile di San Marco, nel centro di Venezia. «Questa volta abbiamo fatto il botto, ne ha parlato tutto il mondo» raccontano, «perchè ai veneziani non puoi toccare il campanile: dopo due ore che eravamo su è arrivata la convocazione al ministero dello Sviluppo per martedì prossimo, abbiamo avuto la solidarietà del sindaco. Sono anni che lottiamo per il posto di lavoro, lavoriamo per mantenere in sicurezza gli impianti anche oggi, tre turni di otto ore, ma da cinque mesi non prendiamo un centesimo». C ’è un senso di delusione, di amarezza anche nel momento in cui ci si può godere una piccola conquista, una vittoria, com’è un incontro al ministero. Argomenta ancora Nicoletta: «Sono 25 anni che lavoro al Petrolchimico, sono una cittadina di questo Paese, pago le tasse e vorrei che di fronte al dram ma, perchè di questo si tratta, di lavoratori buttati fuori, presi in giro, ci fosse qualcuno capace di ascoltarci e di contribuire assieme a noi a una soluzione. Perchè dobbiamo andare sui tetti o sul campanile di San Marco? È tutta una follia». Nella storia della Vinyls, da tre anni gestita da due commissari straordinari che l’altro giorno hanno incontrato i lavoratori per illustrare la riforma delle pensioni del ministro Fornero…, c’è davvero qualche cosa di folle. Spiega il segretario della Camera del Lavoro, Roberto Montagner: «Larga parte del tessuto industriale del Nord Est ha come prodotto base il PVC, le aziende lo cercano e lo acquistano in tutte le parti. La Vinyls produceva un PVC di alta qualità, riconosciuto da tutti. Ma da tre anni non si fa nulla e le aziende del Nord Est vanno a comprarlo in Germania quando potrebbero prenderlo qui, a casa. Ma non è l’unico caso incomprensibile. Il problema è che se non si guarda complessivamente ai problemi di Marghera, se non si mette in campo una politica industriale organica e coerente non si va da nessuna parte. Non si può risolvere un caso alla volta, nè dobbiamo intervenire solo quando le aziende hanno già chiuso. Bisogna muoversi prima, superare la pratica dei due tempi, prima chiudo la fabbrica e poi eventualmente trovo la soluzione che non si trova quasi mai». Ma i partiti, la politica cosa fanno? «I partiti sono come i barellanti, arrivano quando bisogna portar via i morti o i feriti», sintetizza Montagner. L’emergenza occupazionale deriva non solo dalla recessione profonda di questi anni, ma anche dal fatto che ormai non si investe più. Non ci sono nuove iniziative imprenditoriali. Restano i grandi gruppi pubblici. L’Eni si è impegnata sulla raffineria, l’Enel mantiene le centrali, Fincantieri sta costruendo la più grande nave mai realizzata a Marghera. Venezia e il Veneto non sono più aree al riparo della crisi. Nella provincia di Venezia sta diventando allarmante il problema dei giovani che non fanno nulla, non studiano nè lavorano e hanno smesso di cercare un’occupazione. Anche il turismo mostra qualche cedimento. Ci sono ristrutturazioni e tagli pure nelle grandi catene alberghiere. P oi ci sono gli ultimi, i lavoratori stranieri. Abul Hasanat, 48 anni, viene dal Bangladesh. È arrivato in Italia nel 1986. Lavora in cantiere per una ditta d’appalto, quasi tutti i dipendenti provengono dal Bangladesh. O meglio lavorava. Racconta:«Vivo a Mestre con la mia famiglia. Ho due bambine nate qui. Da tanti anni sto sulle navi, lavoro con la lana di vetro, che è pericolosa, ti viene l’asma, l’enfisema polmonare. Gli italiani non vogliono più usare la lana di vetro, così noi del Bangladesh abbiamo preso il lavoro. Lo facciano noi perchè gli altri non lo fanno più. La nostra azienda Eurocoibenti aveva gli appalti di Fincantieri, poi finito il lavoro ci hanno lasciato a casa». I dipendenti delle ditte d’appalto, che arrivano a 5000 a Porto Marghera, sono le prime vittime degli appalti al massimo ribasso praticati dai grandi gruppi. Bari Mdrafiqul, 52 anni, è nella stessa condizione:«Sono arrivato a Venezia 22 anni fa, all’inizio facevo tanti mestieri nei ristoranti. Poi nel cantiere c’era questa possibilità di lavorare con la lana di vetro e con altri amici del Bangladesh abbiamo iniziato a stare sulle navi. Siamo bravi nel nostro lavoro, ci hanno sempre cercato. Io ho cinque figli, l’azienda mi ha lasciato senza stipendio. Prendo 659 euro di cassa integrazione al mese, è difficile vivere così in Italia. Ma tornare a casa non si può, al mio paese c’è tanta povertà, ci sono tante disgrazie».

L’Unità 14.10.12

"I fantasmi di Marghera. Il futuro: industria o palais Lumière?", di Rinaldo Gianola

Ogni volta che si torna a Marghera ne manca un pezzo. Aziende che chiudono, imprenditori in fuga, lavoratori sbattuti in cassa integrazione e licenziati. Sarà pur vero che la nostalgia non è più quella di un tempo e che non bisogna esser troppo sentimentali nel ricordare un glorioso passato industriale, di lavoro e di democrazia perchè si rischia di apparire patetici nella stagione dei tecnocrati, dei bocconiani al governo. Però qualcuno, prima o poi, dovrà pur spiegare dove sono finiti migliaia di posti di lavoro, dove sono scappate le multinazionali che avevano giurato fedeltà eterna, chi ha buttato al vento un enorme patrimonio di competenze, ricerca, innovazione. Adesso ci vuole un po’ di modernità, bando ai rimpianti, basta lamenti. Il futuro? Il futuro di Marghera, che occupa ancora circa 14mila addetti, non sono più la chimica, la cantieristica, l’energia e quegli operai unti e sporchi così fuori moda. Il Palais Lumière ci salverà, la torre delle luci del francese Pierre Cardin cambierà il destino dello storico polo petrolchimico, vigilerà su Venezia, guarderà dall’alto pure il glorioso San Marco e metterà la parola fine sul secolo industriale avviato dal conte Giuseppe Volpi con i finanziamenti della Banca Commerciale. Il palazzo dell’archistar costerà 2,1 miliardi di euro, composto da 3 torri di 66 piani, sarà alto 250 metri. Il governatore veneto, il leghista Luca Zaia, grande esperto di prosecco, ha paragonato l’architetto novantenne Cardin a Lorenzo il Magnifico. Che si possa discutere seriamente di questa specie di luna park, di un investimento di tale dimensione destinato a oltraggiare Venezia, per dare una risposta alla desertificazione industriale e occupazionale, è un segno della decadenza culturale e politica delle nostre classi dirigenti. Sembra che, di fronte alle emergenze sociali ed economiche di un Paese impoverito e indebolito dalla crisi, imprese e amministratori abbiano avviato una gara a chi le spara più grosse. Eppure c’è davvero qualcuno che crede al Palais Lumière, con centri commerciali, appartamenti di lusso, cinema e megastore, come alternativa all’industria, alla ricerca, al porto, alle fabbriche. C’è chi pensa, anche in una parte del sindacato oltre che della politica, di trasformare Marghera in un immenso parcheggio, in un porto per gli yacht dei miliardari russi e arabi, la porta di accesso a Venezia, con alberghi e tapis roulant sul Ponte della Libertà, per avvicinare i turisti alla città più bella del mondo. Tutto questo, compresa la campagna pubblicitaria progressista dei Benetton preoccupati per la disoccupazione giovanile mondiale e pronti a selezionare generosamente un centinaio di belle idee, fa a pugni con una realtà durissima, che impone sacrifici e umiliazioni a una grande massa di lavoratori, alle loro famiglie, che riescono a sfondare il video, a raccogliere l’attenzione dell’opinione pubblica, solo quando compiono qualche gesto eclatante, quando rompono il galateo delle battaglie sindacali. sindacali. «Noi siamo come i fantasmi, nessuno ci vuole vedere e ogni tanto siamo costretti a farci sentire, ad affermare che esistiamo perchè il nostro lavoro, il nostro futuro non possono morire così» afferma Nicoletta Zago, 47 anni, di Mestre, dipendente della Vinyls. È diventata un volto noto perchè conduce, con i suoi colleghi, una lotta pluriennale per la sopravvivenza. È salita con Alessandro Gabarotto e Lucio Sabadin sul campanile di San Marco, nel centro di Venezia. «Questa volta abbiamo fatto il botto, ne ha parlato tutto il mondo» raccontano, «perchè ai veneziani non puoi toccare il campanile: dopo due ore che eravamo su è arrivata la convocazione al ministero dello Sviluppo per martedì prossimo, abbiamo avuto la solidarietà del sindaco. Sono anni che lottiamo per il posto di lavoro, lavoriamo per mantenere in sicurezza gli impianti anche oggi, tre turni di otto ore, ma da cinque mesi non prendiamo un centesimo». C ’è un senso di delusione, di amarezza anche nel momento in cui ci si può godere una piccola conquista, una vittoria, com’è un incontro al ministero. Argomenta ancora Nicoletta: «Sono 25 anni che lavoro al Petrolchimico, sono una cittadina di questo Paese, pago le tasse e vorrei che di fronte al dram ma, perchè di questo si tratta, di lavoratori buttati fuori, presi in giro, ci fosse qualcuno capace di ascoltarci e di contribuire assieme a noi a una soluzione. Perchè dobbiamo andare sui tetti o sul campanile di San Marco? È tutta una follia». Nella storia della Vinyls, da tre anni gestita da due commissari straordinari che l’altro giorno hanno incontrato i lavoratori per illustrare la riforma delle pensioni del ministro Fornero…, c’è davvero qualche cosa di folle. Spiega il segretario della Camera del Lavoro, Roberto Montagner: «Larga parte del tessuto industriale del Nord Est ha come prodotto base il PVC, le aziende lo cercano e lo acquistano in tutte le parti. La Vinyls produceva un PVC di alta qualità, riconosciuto da tutti. Ma da tre anni non si fa nulla e le aziende del Nord Est vanno a comprarlo in Germania quando potrebbero prenderlo qui, a casa. Ma non è l’unico caso incomprensibile. Il problema è che se non si guarda complessivamente ai problemi di Marghera, se non si mette in campo una politica industriale organica e coerente non si va da nessuna parte. Non si può risolvere un caso alla volta, nè dobbiamo intervenire solo quando le aziende hanno già chiuso. Bisogna muoversi prima, superare la pratica dei due tempi, prima chiudo la fabbrica e poi eventualmente trovo la soluzione che non si trova quasi mai». Ma i partiti, la politica cosa fanno? «I partiti sono come i barellanti, arrivano quando bisogna portar via i morti o i feriti», sintetizza Montagner. L’emergenza occupazionale deriva non solo dalla recessione profonda di questi anni, ma anche dal fatto che ormai non si investe più. Non ci sono nuove iniziative imprenditoriali. Restano i grandi gruppi pubblici. L’Eni si è impegnata sulla raffineria, l’Enel mantiene le centrali, Fincantieri sta costruendo la più grande nave mai realizzata a Marghera. Venezia e il Veneto non sono più aree al riparo della crisi. Nella provincia di Venezia sta diventando allarmante il problema dei giovani che non fanno nulla, non studiano nè lavorano e hanno smesso di cercare un’occupazione. Anche il turismo mostra qualche cedimento. Ci sono ristrutturazioni e tagli pure nelle grandi catene alberghiere. P oi ci sono gli ultimi, i lavoratori stranieri. Abul Hasanat, 48 anni, viene dal Bangladesh. È arrivato in Italia nel 1986. Lavora in cantiere per una ditta d’appalto, quasi tutti i dipendenti provengono dal Bangladesh. O meglio lavorava. Racconta:«Vivo a Mestre con la mia famiglia. Ho due bambine nate qui. Da tanti anni sto sulle navi, lavoro con la lana di vetro, che è pericolosa, ti viene l’asma, l’enfisema polmonare. Gli italiani non vogliono più usare la lana di vetro, così noi del Bangladesh abbiamo preso il lavoro. Lo facciano noi perchè gli altri non lo fanno più. La nostra azienda Eurocoibenti aveva gli appalti di Fincantieri, poi finito il lavoro ci hanno lasciato a casa». I dipendenti delle ditte d’appalto, che arrivano a 5000 a Porto Marghera, sono le prime vittime degli appalti al massimo ribasso praticati dai grandi gruppi. Bari Mdrafiqul, 52 anni, è nella stessa condizione:«Sono arrivato a Venezia 22 anni fa, all’inizio facevo tanti mestieri nei ristoranti. Poi nel cantiere c’era questa possibilità di lavorare con la lana di vetro e con altri amici del Bangladesh abbiamo iniziato a stare sulle navi. Siamo bravi nel nostro lavoro, ci hanno sempre cercato. Io ho cinque figli, l’azienda mi ha lasciato senza stipendio. Prendo 659 euro di cassa integrazione al mese, è difficile vivere così in Italia. Ma tornare a casa non si può, al mio paese c’è tanta povertà, ci sono tante disgrazie».
L’Unità 14.10.12

"Il Governo vuole docenti da record: i meno pagati, ma in classe più ore di tutti!", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Lo dimostra uno studio della Uil Scuola sui dati forniti dalla banca dati europea Eurydice e dal titolo eloquente “Orario di insegnamento: siamo allineati agli altri paesi europei”: in confronto ai più sviluppati, i prof italiani stanno in classe come in Germania, mentre fanno più ore di Francia, Austria, Finlandia. Alla primaria 22 ore contro una media di 19,6; alle superiori 18 contro 16,3. Solo alle medie in linea: 18 contro 18,1. Di Menna: siamo molto oltre il paradosso, pronti a protestare per l’intero anno. Fare l’insegnante in Italia rischia di diventare una scelta quasi eroica. Alla recente pubblicazione dell’Ocse Education at a Glance , che posiziona i docenti italiani in fondo nella graduatoria degli stipendi fruiti in tutta l’area considerato, anche perché praticamente fermi (escludendo l’inflazione) a 12 anni fa , ora il Governo decide, attraverso un inatteso e unilaterale decreto, che tutti i titolari di un insegnamento, dalla primaria alle superiori, debbano svolgere 24 ore di lezioni settimanali. Andando così determinare una doppia penalizzazione: i docenti italiani dopo essere tra i peggio pagati, diventano anche quelli con più ore di insegnamento frontali.
Quest’ultimo dato è stato bene evidenziato da uno studio dettagliato della Uil Scuola, emerso dagli ultimi dati forniti dalla banca dati europea Eurydice e dal titolo più che eloquente “Orario di insegnamento: siamo allineati agli altri paesi europei”. Dallo studio deriva che non c’è “nessuna ragione plausibile” di incrementare il numero di ore settimanali. Questa la sintesi del confronto: i nostri insegnanti stanno in classe come in Germania , mentre fanno più ore di Francia, Austria, Finlandia.
“I docenti italiani – si legge nel rapporto finale del sindacato – hanno un carico settimanale di ore di lezione in classe superiore alla media europea sia nella scuola primaria (22 contro 19,6) che nella secondaria superiore (18 contro 16,3) e praticamente identico nella scuola media (18 contro 18,1)”.
Secondo Massimo Di Menna, segretario generale della Uil Scuola, gli insegnanti italiani sono quindi “in classe per un maggior numero di ore dei loro colleghi francesi, austriaci, finlandesi e come tedeschi e belgi a voler guardare le nazioni più sviluppate dell’area euro. Se tutti gli altri paesi hanno un numero di ore di insegnamento allineato intorno alla media europea (18,1) Non c’è dunque alcuna ragione plausibile per obbligare a 24 ore di lezione”.
“E’ una logica sbagliata – continua Di Menna – quella che sottende all’aumento delle ore di insegnamento. Va considerato che si tratta di ore di insegnamento, di didattica che richiedono programmazione, preparazione, professionalità e che vengono svolte molte, molto spesso, in presenza di classi con tantissimi alunni”.
Il sindacalista della Uil Scuola, peraltro tra i più pacati della categoria, stavolta è un fiume in piena: “non è in questo modo che si dà qualità all’istruzione, come dimostra l’analisi comparativa dei dati. E’ assurdo pensare che ci possa essere un decreto, approvato dal Parlamento, che aumenti le ore di insegnamento portando l’Italia ad essere l’unico caso con 24 ore, cancelli il contratto di lavoro, aumenti gli obblighi di servizio, riduca la retribuzione. Siamo molto oltre il paradosso”.
Di Menna preannuncia quindi gli esiti dell’incontro con gli altri sindacati, in programma lunedì 15 ottobre, da cui deriverà sicuramente la data dello sciopero unitario (con Cisl Scuola, Snals e Gilda): “gli insegnanti hanno buoni motivi per protestare: alle retribuzioni più basse d’Europa, al blocco del contratto, al rinvio del pagamento degli scatti di anzianità si aggiunge un investimento sulla scuola tra i più bassi del vecchio continente e ora l’insopportabilità di una politica che sceglie di tagliare ancora sulla scuola. Attiveremo, insieme agli altri sindacati – sottolinea il leader della Uil Scuola – tutte le modalità di protesta per l’intero anno scolastico per sostenere le ragioni degli insegnanti e della scuola. Va assolutamente evitata una frattura tra chi ogni giorno fa funzionare bene il nostro sistema scolastico e le scelte di chi decide, senza nessuna attenzione per la qualità e la modernizzazione del nostro sistema di istruzione ma solo con la finalità di recuperare, ancora dalla scuola, risorse finanziarie”.

La Tecnica della scuola 14.10.12

******

“Cattedre a 24: così nasce l’organico funzionale”, di Reginaldo Palermo

Ma quanti saranno davvero i posti che si perderanno? Il Sisa parla di 100mila posti in meno, la Flc di 29mila. Per ora si possono fare solo congetture perchè non si conosce ancora il testo ufficiale e definitivo del provvedimento. Sugli effetti delle norme contenute nella legge stabilità in materia di orario di insegnamento nella scuola secondaria stanno già circolando calcoli di vario genere.
Catastrofica la previsione del Sisa (Sindacato indipendente scuola ambiente) che parla di 100mila posti di lavoro in meno, in pratica un insegnante in meno ogni 6 in servizio.
Il Sisa dà anzi cifre precise: 20mila docenti in meno nella primaria, 33mila nella secondaria di primo grado e 48mila nella secondaria di secondo grado.
La Flc-Cgil si contiene ma afferma che il taglio sarà di 29.000 cattedre (25mila di posti comuni e 4mila di sostegno).
Il Ministro avrebbe parlato di poco meno di 7mila cattedre (la cifra è stata citata da Pier Luigi Bersani e altri esponenti del PD).
Ma come mai i numeri divergono in modo così significativo ?
Il fatto è che per ora si sta ragionando solamente su anticipazioni giornalistiche e anche il testo della norma che sta circolando in rete non ha nulla di ufficiale.
E poi, soprattutto, c’è il fatto che la norma così come è nota in questo momento lascia lo spazio a interpretazioni applicative diverse fra loro.
Secondo la versione più accreditata nelle 6 ore eccedenti l’orario di cattedra gli insegnanti della secondaria dovrebbero provvedere alla copertura delle supplenze oltre che degli spezzoni orario disponibili nell’istituzione scolastica di titolarità; e, se dispongono del titolo di specializzazione, devono coprire anche i posti di sostegno.
Se le regole fossero queste il calcolo del Sisa sarebbe del tutto errato mentre sarebbe più credibile il numero di 4mila posti di sostegno in meno di cui parla la Flc-Cgil.
Attualmente, infatti, i posti di sostegno in organico di diritto nella secondaria sono più di 30mila e e garantiscono circa 600mila ore di sostegno.
Se l’orario passasse a 24 ore settimanali basterebbero 25mila posti, con un saldo negativo di 8mila posti “teorici”
Se però la norma verrà applicata ponendo il limite all’utilizzo dei docenti nella scuola di titolarità, il saldo negativo potrebbe diminuire.
Un dato è certo: con questo meccanismo nella scuola secondaria potrebbe essere finalmente attuato il cosiddetto “organico funzionale” di cui Profumo aveva parlato fin dalle prime settimane del suo incarico.
Il Ministro, insomma, ha mantenuto la promessa, peccato che lo sta facendo non aumentando il numero degli insegnanti ma aumentando l’orario di servizio.

La Tecnica della Scuola 14.10.12

"Il Governo vuole docenti da record: i meno pagati, ma in classe più ore di tutti!", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Lo dimostra uno studio della Uil Scuola sui dati forniti dalla banca dati europea Eurydice e dal titolo eloquente “Orario di insegnamento: siamo allineati agli altri paesi europei”: in confronto ai più sviluppati, i prof italiani stanno in classe come in Germania, mentre fanno più ore di Francia, Austria, Finlandia. Alla primaria 22 ore contro una media di 19,6; alle superiori 18 contro 16,3. Solo alle medie in linea: 18 contro 18,1. Di Menna: siamo molto oltre il paradosso, pronti a protestare per l’intero anno. Fare l’insegnante in Italia rischia di diventare una scelta quasi eroica. Alla recente pubblicazione dell’Ocse Education at a Glance , che posiziona i docenti italiani in fondo nella graduatoria degli stipendi fruiti in tutta l’area considerato, anche perché praticamente fermi (escludendo l’inflazione) a 12 anni fa , ora il Governo decide, attraverso un inatteso e unilaterale decreto, che tutti i titolari di un insegnamento, dalla primaria alle superiori, debbano svolgere 24 ore di lezioni settimanali. Andando così determinare una doppia penalizzazione: i docenti italiani dopo essere tra i peggio pagati, diventano anche quelli con più ore di insegnamento frontali.
Quest’ultimo dato è stato bene evidenziato da uno studio dettagliato della Uil Scuola, emerso dagli ultimi dati forniti dalla banca dati europea Eurydice e dal titolo più che eloquente “Orario di insegnamento: siamo allineati agli altri paesi europei”. Dallo studio deriva che non c’è “nessuna ragione plausibile” di incrementare il numero di ore settimanali. Questa la sintesi del confronto: i nostri insegnanti stanno in classe come in Germania , mentre fanno più ore di Francia, Austria, Finlandia.
“I docenti italiani – si legge nel rapporto finale del sindacato – hanno un carico settimanale di ore di lezione in classe superiore alla media europea sia nella scuola primaria (22 contro 19,6) che nella secondaria superiore (18 contro 16,3) e praticamente identico nella scuola media (18 contro 18,1)”.
Secondo Massimo Di Menna, segretario generale della Uil Scuola, gli insegnanti italiani sono quindi “in classe per un maggior numero di ore dei loro colleghi francesi, austriaci, finlandesi e come tedeschi e belgi a voler guardare le nazioni più sviluppate dell’area euro. Se tutti gli altri paesi hanno un numero di ore di insegnamento allineato intorno alla media europea (18,1) Non c’è dunque alcuna ragione plausibile per obbligare a 24 ore di lezione”.
“E’ una logica sbagliata – continua Di Menna – quella che sottende all’aumento delle ore di insegnamento. Va considerato che si tratta di ore di insegnamento, di didattica che richiedono programmazione, preparazione, professionalità e che vengono svolte molte, molto spesso, in presenza di classi con tantissimi alunni”.
Il sindacalista della Uil Scuola, peraltro tra i più pacati della categoria, stavolta è un fiume in piena: “non è in questo modo che si dà qualità all’istruzione, come dimostra l’analisi comparativa dei dati. E’ assurdo pensare che ci possa essere un decreto, approvato dal Parlamento, che aumenti le ore di insegnamento portando l’Italia ad essere l’unico caso con 24 ore, cancelli il contratto di lavoro, aumenti gli obblighi di servizio, riduca la retribuzione. Siamo molto oltre il paradosso”.
Di Menna preannuncia quindi gli esiti dell’incontro con gli altri sindacati, in programma lunedì 15 ottobre, da cui deriverà sicuramente la data dello sciopero unitario (con Cisl Scuola, Snals e Gilda): “gli insegnanti hanno buoni motivi per protestare: alle retribuzioni più basse d’Europa, al blocco del contratto, al rinvio del pagamento degli scatti di anzianità si aggiunge un investimento sulla scuola tra i più bassi del vecchio continente e ora l’insopportabilità di una politica che sceglie di tagliare ancora sulla scuola. Attiveremo, insieme agli altri sindacati – sottolinea il leader della Uil Scuola – tutte le modalità di protesta per l’intero anno scolastico per sostenere le ragioni degli insegnanti e della scuola. Va assolutamente evitata una frattura tra chi ogni giorno fa funzionare bene il nostro sistema scolastico e le scelte di chi decide, senza nessuna attenzione per la qualità e la modernizzazione del nostro sistema di istruzione ma solo con la finalità di recuperare, ancora dalla scuola, risorse finanziarie”.
La Tecnica della scuola 14.10.12
******
“Cattedre a 24: così nasce l’organico funzionale”, di Reginaldo Palermo
Ma quanti saranno davvero i posti che si perderanno? Il Sisa parla di 100mila posti in meno, la Flc di 29mila. Per ora si possono fare solo congetture perchè non si conosce ancora il testo ufficiale e definitivo del provvedimento. Sugli effetti delle norme contenute nella legge stabilità in materia di orario di insegnamento nella scuola secondaria stanno già circolando calcoli di vario genere.
Catastrofica la previsione del Sisa (Sindacato indipendente scuola ambiente) che parla di 100mila posti di lavoro in meno, in pratica un insegnante in meno ogni 6 in servizio.
Il Sisa dà anzi cifre precise: 20mila docenti in meno nella primaria, 33mila nella secondaria di primo grado e 48mila nella secondaria di secondo grado.
La Flc-Cgil si contiene ma afferma che il taglio sarà di 29.000 cattedre (25mila di posti comuni e 4mila di sostegno).
Il Ministro avrebbe parlato di poco meno di 7mila cattedre (la cifra è stata citata da Pier Luigi Bersani e altri esponenti del PD).
Ma come mai i numeri divergono in modo così significativo ?
Il fatto è che per ora si sta ragionando solamente su anticipazioni giornalistiche e anche il testo della norma che sta circolando in rete non ha nulla di ufficiale.
E poi, soprattutto, c’è il fatto che la norma così come è nota in questo momento lascia lo spazio a interpretazioni applicative diverse fra loro.
Secondo la versione più accreditata nelle 6 ore eccedenti l’orario di cattedra gli insegnanti della secondaria dovrebbero provvedere alla copertura delle supplenze oltre che degli spezzoni orario disponibili nell’istituzione scolastica di titolarità; e, se dispongono del titolo di specializzazione, devono coprire anche i posti di sostegno.
Se le regole fossero queste il calcolo del Sisa sarebbe del tutto errato mentre sarebbe più credibile il numero di 4mila posti di sostegno in meno di cui parla la Flc-Cgil.
Attualmente, infatti, i posti di sostegno in organico di diritto nella secondaria sono più di 30mila e e garantiscono circa 600mila ore di sostegno.
Se l’orario passasse a 24 ore settimanali basterebbero 25mila posti, con un saldo negativo di 8mila posti “teorici”
Se però la norma verrà applicata ponendo il limite all’utilizzo dei docenti nella scuola di titolarità, il saldo negativo potrebbe diminuire.
Un dato è certo: con questo meccanismo nella scuola secondaria potrebbe essere finalmente attuato il cosiddetto “organico funzionale” di cui Profumo aveva parlato fin dalle prime settimane del suo incarico.
Il Ministro, insomma, ha mantenuto la promessa, peccato che lo sta facendo non aumentando il numero degli insegnanti ma aumentando l’orario di servizio.
La Tecnica della Scuola 14.10.12

"Ora un'agenda che affronti la crisi del lavoro", di Laura Pennacchi

La caduta o il rallentamento del reddito e della produzione che si stanno verificando in tutto il mondo sono tali che ormai la parola «recessione» non appare più adeguata a descrivere con chiarezza i fenomeni in atto Per alcuni Paesi l’intensità del decremento (in Italia sommando il 2012 e il 2013 si arriverà a superare il -3%) di per sé rende più appropriata la parola «depressione». Ma in generale la durata della crisi, la sua prevedibile estensione se perdura l’approccio dell’austerità «a tutti i costi», fanno pensare che siamo di fronte a una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo. Le pratiche monetarie promesse da Draghi per la Bce – tuttavia subordinate a una condizionalità che potrebbe rivelarsi un capestro per i Paesi richiedenti – e quelle ancor più «rivoluzionarie» praticate da Bernanke per la Fed, per quanto «non convenzionali», non possono essere sufficienti a far intraprendere all’economia mondiale una nuova rotta. Specie se l’Europa rimane prigioniera dell’austerità restrittiva e deflazionistica imposta dalla Merkel e contrastata da Hollande e a livello globale la leadership più all’altezza della situazione rimane quella di Obama (né si osa pensare a cosa accadrebbe se Romney dovesse vincere le elezion). Già oggi lo scenario è impressionante: crisi bancarie a catena, bolle finanziarie, investimenti decurtati, fabbriche che chiudono, consumi che crollano, disoccupazione di lunga durata che esplode superando l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ‘70, inoccupazione giovanile e femminile che si allarga paurosamente. In effetti, il lavoro è investito da quella che i democratici americani non esitano a definire «job catastrophe», ritenendo che sia in gioco una questione di civiltà, che un capitalismo così rovinoso rischia di essere messo in questione nei suoi fondamenti di civilizzazione e di legittimazione. Le conseguenze, drammatiche nel presente, si rovesciano sul futuro. Coloro che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro o ne sono espulsi per lunghi periodi sono condannati a diventare meno occupabili e produttivi vedendo deteriorato il loro patrimonio di abilità e di competenze. I disoccupati che riusciranno a ritrovare un lavoro subiranno una riduzione dell’aspettativa di vita e una perdita fino al 20% del loro reddito precedente che può protrarsi per decenni dopo il loro reimpiego. I risultati scolastici e lavorativi di bambini che nascono da genitori che sperimentano una carenza di lavoro saranno inferiori a quelli degli altri. In sostanza ogni mese di assenza di lavoro farà più poveri per decenni sia il singolo sia la comunità. Nella enorme ristrutturazione che sta avvenendo si preparano anche grandi semi di opportunità. Ma a farli germogliare non saranno i mercati se vengono lasciati alla loro autoregolazione, secondo i dettami non solo delle teorie neoliberiste ma anche delle più temperate teorie liberali – interpretate da vari esponenti del governo Monti – quando seguano sistematicamente l’antidecisionismo e l’antiprogettualità pubblica e si affidino solo ai tagli di spesa, sollecitazione della concorrenza, flessibilizzazione dei mercati del lavoro, privatizzazioni, riduzioni del cuneo fiscale, incentivi indiretti, compressione salariale. Solo una «grande spinta» generata dall’operatore pubblico – che si esprima in primo luogo con un Piano straordinario per la creazione di lavoro per giovani e donne – può sanare la «job catastrophe» e, al tempo stesso, porre le basi di una crescita «progressista», dunque di un nuovo modello di sviluppo centrato sui beni comuni, i beni sociali, la green economy. Non va diluita, va anzi rafforzata, la spinta che la Carta di intenti proposta da Bersani per il confronto sulle primarie imprime verso l’equità e verso l’orientamento dell’economia da parte dell’operatore pubblico. Questa spinta non si limita a chiedere correttivi dell’«agenda Monti», essa persegue un rovesciamento dell’agenda europea e di conseguenza dell’agenda italiana. I nodi da sciogliere sono immani, a partire dai tre principali: 1) il rapporto domanda/offerta (specie in Europa carenze di domanda coesistono con squilibri di offerta i quali fanno sì che in alcuni settori, per esempio l’auto, gli eccessi di capacità produttiva siano pari al 70% della capacità installata); 2) il rapporto domanda interna/esportazioni (porsi i problemi delle divergenze strutturali fra Paesi europei, comprese quelle di competitività, non in termini di germanizzazione dell’Europa implica che le esportazioni non abbiano per tutti il ruolo esorbitante che hanno attualmente in Germania e che ovunque sia fatto maggiore spazio alla domanda interna); 3) il rapporto consumi individuali/consumi collettivi (la sollecitazione dello sviluppo di beni sociali quali asili nido, servizi, spazi urbani, protezione dalla non autosufficienza è un modo concreto di rendere l’equità un fattore di sviluppo). Costruire una prospettiva di «lavoro di cittadinanza» piuttosto che di «reddito di cittadinanza» e di salario sociale è il modo più incisivo per aggredire i nodi indicati

L’Unità 14.10.12

"Ora un'agenda che affronti la crisi del lavoro", di Laura Pennacchi

La caduta o il rallentamento del reddito e della produzione che si stanno verificando in tutto il mondo sono tali che ormai la parola «recessione» non appare più adeguata a descrivere con chiarezza i fenomeni in atto Per alcuni Paesi l’intensità del decremento (in Italia sommando il 2012 e il 2013 si arriverà a superare il -3%) di per sé rende più appropriata la parola «depressione». Ma in generale la durata della crisi, la sua prevedibile estensione se perdura l’approccio dell’austerità «a tutti i costi», fanno pensare che siamo di fronte a una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo. Le pratiche monetarie promesse da Draghi per la Bce – tuttavia subordinate a una condizionalità che potrebbe rivelarsi un capestro per i Paesi richiedenti – e quelle ancor più «rivoluzionarie» praticate da Bernanke per la Fed, per quanto «non convenzionali», non possono essere sufficienti a far intraprendere all’economia mondiale una nuova rotta. Specie se l’Europa rimane prigioniera dell’austerità restrittiva e deflazionistica imposta dalla Merkel e contrastata da Hollande e a livello globale la leadership più all’altezza della situazione rimane quella di Obama (né si osa pensare a cosa accadrebbe se Romney dovesse vincere le elezion). Già oggi lo scenario è impressionante: crisi bancarie a catena, bolle finanziarie, investimenti decurtati, fabbriche che chiudono, consumi che crollano, disoccupazione di lunga durata che esplode superando l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ‘70, inoccupazione giovanile e femminile che si allarga paurosamente. In effetti, il lavoro è investito da quella che i democratici americani non esitano a definire «job catastrophe», ritenendo che sia in gioco una questione di civiltà, che un capitalismo così rovinoso rischia di essere messo in questione nei suoi fondamenti di civilizzazione e di legittimazione. Le conseguenze, drammatiche nel presente, si rovesciano sul futuro. Coloro che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro o ne sono espulsi per lunghi periodi sono condannati a diventare meno occupabili e produttivi vedendo deteriorato il loro patrimonio di abilità e di competenze. I disoccupati che riusciranno a ritrovare un lavoro subiranno una riduzione dell’aspettativa di vita e una perdita fino al 20% del loro reddito precedente che può protrarsi per decenni dopo il loro reimpiego. I risultati scolastici e lavorativi di bambini che nascono da genitori che sperimentano una carenza di lavoro saranno inferiori a quelli degli altri. In sostanza ogni mese di assenza di lavoro farà più poveri per decenni sia il singolo sia la comunità. Nella enorme ristrutturazione che sta avvenendo si preparano anche grandi semi di opportunità. Ma a farli germogliare non saranno i mercati se vengono lasciati alla loro autoregolazione, secondo i dettami non solo delle teorie neoliberiste ma anche delle più temperate teorie liberali – interpretate da vari esponenti del governo Monti – quando seguano sistematicamente l’antidecisionismo e l’antiprogettualità pubblica e si affidino solo ai tagli di spesa, sollecitazione della concorrenza, flessibilizzazione dei mercati del lavoro, privatizzazioni, riduzioni del cuneo fiscale, incentivi indiretti, compressione salariale. Solo una «grande spinta» generata dall’operatore pubblico – che si esprima in primo luogo con un Piano straordinario per la creazione di lavoro per giovani e donne – può sanare la «job catastrophe» e, al tempo stesso, porre le basi di una crescita «progressista», dunque di un nuovo modello di sviluppo centrato sui beni comuni, i beni sociali, la green economy. Non va diluita, va anzi rafforzata, la spinta che la Carta di intenti proposta da Bersani per il confronto sulle primarie imprime verso l’equità e verso l’orientamento dell’economia da parte dell’operatore pubblico. Questa spinta non si limita a chiedere correttivi dell’«agenda Monti», essa persegue un rovesciamento dell’agenda europea e di conseguenza dell’agenda italiana. I nodi da sciogliere sono immani, a partire dai tre principali: 1) il rapporto domanda/offerta (specie in Europa carenze di domanda coesistono con squilibri di offerta i quali fanno sì che in alcuni settori, per esempio l’auto, gli eccessi di capacità produttiva siano pari al 70% della capacità installata); 2) il rapporto domanda interna/esportazioni (porsi i problemi delle divergenze strutturali fra Paesi europei, comprese quelle di competitività, non in termini di germanizzazione dell’Europa implica che le esportazioni non abbiano per tutti il ruolo esorbitante che hanno attualmente in Germania e che ovunque sia fatto maggiore spazio alla domanda interna); 3) il rapporto consumi individuali/consumi collettivi (la sollecitazione dello sviluppo di beni sociali quali asili nido, servizi, spazi urbani, protezione dalla non autosufficienza è un modo concreto di rendere l’equità un fattore di sviluppo). Costruire una prospettiva di «lavoro di cittadinanza» piuttosto che di «reddito di cittadinanza» e di salario sociale è il modo più incisivo per aggredire i nodi indicati
L’Unità 14.10.12

Pd, battaglia sul manifesto “Avanti senza il Professore”, di Giovanna Casadio

Il manifesto dell’alleanza Pd-Sel-Psi diventa un caso. Dal testo spariscono i ringraziamenti all’attuale premier ed è subito polemica. Casini attacca Bersani: «È un grave errore». L’orizzonte fissato è “oltre Monti” e fa perno su dieci parole chiave e qualche paletto, soprattutto per quanto riguarda le future intese. Per Giuseppe Fioroni «il patto con Vendola è ad alto rischio, nella carta d’intenti dei riformisti è sancito l’impegno ad allearsi con i centristi». Il “manifesto” del centrosinistra di governo dà l’addio a Monti. Pd, Sel e Psi firmano un «patto vincolante» che prevede decisioni a maggioranza e una clausola anti-crisi, cioè lealtà al premier scelto con le primarie per i cinque anni di legislatura. La “carta d’intenti” è in dieci punti, da cui è scomparso ogni riferimento al premier Monti e alla sua agenda. Cancellato quel ringraziamento che c’era nel testo del Pd («Il nostro posto è in Europa, lì dove Mario Monti ha avuto l’autorevolezza di portarci»), per lasciare posto a una frase secca: «Noi collocheremo l’Italia nel cuore di un’Europa da ripensare su basi democratiche». Con tempismo voluto, ieri il “manifesto” per andare “oltre Monti” e oggi da Bettola, suo paese natale, Pierluigi Bersani comincia tour-primarie. Suo fratello Mauro racconta l’attesa: «Abbiamo fatto le danze contro la pioggia…». Ma il segretario del Pd è certo di avere dalla sua i migliori auspici.
La “carta d’intenti” però allarga il solco con Casini. Il leader dell’Udc twitta mentre è in corso la convention Pd-Sel-Psi: «L’ipoteca di Vendola è superiore a quella di Renzi. Che errore eliminare ogni riferimento al governo Monti dal manifesto del centrosinistra. Mi preoccupa come italiano e come politico». Replica Bersani: «Casini non si preoccupi, questa è una bella giornata per noi e per l’Italia. Noi qui ci stiamo prendendo un rischio e una responsabilità».
Più dura la risposta di Nichi Vendola a Casini: «Non mi preoccuperei del fatto che Casini è preoccupato: quando Casini è tranquillo è l’Italia che si deve preoccupare. Casini si rassegni, l’Italia che vogliamo non è il paese dei gattopardi». C’è un solo passaggio nel manifesto a proposito dell’alleanza con i centristi. È al paragrafo “Europa”, dove viene evocato «un terreno di collaborazione con le forze del centro liberale per un patto di legislatura». Casini ormai perso al centrosinistra? «Penso che non l’abbiamo mai trovato. La carta d’intenti è alternativa ai pensieri conservatori di Casini» afferma Vendola. Invece per Matteo Renzi il documento è «fin troppo generico, ciascuno lo riempirà di contenuti propri».
L’unico che cita Monti alla convention del centrosinistra è Riccardo
Nencini, leader del Psi: «Di Monti non dobbiamo buttare via la sobrietà e il rigore, però basta catenaccio, vorrei un’Italia alla Bearzot, che va all’attacco». Troppo poco per una parte del partito. Gentiloni su Twitter rilancia: «Difficile nascondere agli elettori che noi l’abbiamo sostenuto e Vendola no».
E la sfida-2013 del centrosinistra prevede responsabilità rispetto
degli impegni europei, ma anche centralità del lavoro e dei diritti. Nel programma è scritto che «una coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione ottenendone il riconoscimento giuridico». Non i matrimoni gay, ma un punto di equilibrio. Sui temi controversi la coalizione deciderà a maggioranza nei gruppi parlamentari.
Restano le tensioni sulle regole delle primarie. Renzi parla di «regole sbagliate», e si dice deluso da norme giudicate restrittive, in particolare quelle che confermano la registrazione in un luogo diverso dal seggio e che permettono di votare al ballottaggio — salvo deroghe a discrezione dei garanti — solo ai partecipanti al primo turno. Roberto Reggi, capo staff del sindaco di Firenze, parla di «ostruzionismo». «Ma il nostro entusiasmo sarà più forte delle loro regole» taglia corto il candidato.

La Repubblica 14.10.12