Il capo dello stato insiste sulla legge elettorale, ma frena su possibili alleanze eterogenee. Giorgio Napolitano è contento a metà. Il capo dello stato ha ricordato a ogni occasione utile al parlamento la necessità di riformare la legge elettorale. Per questo, l’adozione di un testo base da parte della commissione affari costituzionali al senato è un fatto «positivo». Lo ha scritto lui stesso in una lettera inviata al presidente dell’assemblea di palazzo Madama, Renato Schifani. Sul merito, però, non mancano le perplessità del Quirinale. Napolitano, infatti, nel suo messaggio insiste su «nuove regole che consentano agli elettori di compiere scelte determinanti per la composizione del parlamento», ma anche «di evitare il ricorso a incentivi e vincoli tali da indurre a vasti raggruppamenti elettorali di dubbia idoneità a garantire stabilmente il governo del paese ».
L’allarme, lanciato ieri anche da Europa, di una legge elettorale che impedirebbe la formazione di una maggioranza stabile in parlamento preoccupa il capo dello stato. Con i numeri previsti attualmente da tutti i sondaggi, infatti, il premio di maggioranza del 12,5 per cento sarebbe insufficiente a qualsiasi coalizione per riuscire a formare un governo autosufficiente. Una nuova Grosse Koalition sarebbe quindi inevitabile, a meno che Pd e Sel non decidano di allargarsi all’Udc o all’Idv.
È facile immaginare la preoccupazione di Napolitano per una maggioranza di governo che, pur di conquistare il premio di coalizione, possa ricomprendere anche Antonio Di Pietro. O si estenda da Vendola a Casini, o perfino a Fini. Da questo punto di vista, più che Schifani, appare soprattutto il Pd il destinatario del suo messaggio. Mentre alle altre due forze che compongono la “strana” maggioranza, Pdl e Udc, il capo dello stato ricorda la necessità di «un ampio consenso parlamentare » a sostegno della riforma.
A rafforzare l’appello di Napolitano è il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Antonio Catricalà, che cita l’insegnamento di Antonio Maccanico: «Vince chi piglia più voti. Il problema è che non tutte le leggi elettorali garantiscono stabilità di governo e noi abbiamo bisogno di governi stabili ».
A esprimere «vivo apprezzamento » per la lettera del capo dello stato è anche il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. I dem condurranno al senato, prima, e alla camera, poi, una aspra battaglia per sostituire, nel testo presentato dal pidiellino Malan, alla quota di parlamentari (i due terzi) scelti con le preferenze l’introduzione dei collegi uninominali. Un correttivo che, oltre a evitare i rischi connessi alle preferenze, introdurrebbe anche un lieve effetto maggioritario. A spingere in quella direzione, tra gli altri, sono stati ieri Stefano Ceccanti e il vicepresidente del senato Vannino Chiti, il quale ha manifestato il proprio «dissenso netto sull’impianto complessivo della legge votata da Pdl, Lega e Terzo polo in commissione». E anche Matteo Renzi si oppone a «pastrocchi», ribadendo la propria preferenza per la «legge elettorale dei sindaci».
Al di là della battaglia sui collegi, però, il Pd non sembra avere intenzione di affossare la riforma. Nessun ostruzionismo, quindi, almeno finché l’ iter parlamentare non assumerà un percorso definito.
Troppo ambigui sono infatti i segnali che giungono ancora del Pdl ai dem: dalla disponibilità a discutere perfino sulle preferenze alla possibilità che questo testo venga affossato dopo l’arrivo a Montecitorio, fino ovviamente, all’intenzione di procedere a testa bassa. Per questo, il Pd non ha ancora deciso quale posizione prendere quando arriverà il momento del voto finale sul testo. Da una parte, ci sono le pressioni del Quirinale per «un ampio consenso parlamentare»; dall’altra, la tentazione (nascosta ma mai sopita) di tornare a votare con il Porcellum.
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"L’altolà del Colle impatta sulla riforma. Nel mirino c’è il premio di coalizione", di Rudy Francesco Calvo
Il capo dello stato insiste sulla legge elettorale, ma frena su possibili alleanze eterogenee. Giorgio Napolitano è contento a metà. Il capo dello stato ha ricordato a ogni occasione utile al parlamento la necessità di riformare la legge elettorale. Per questo, l’adozione di un testo base da parte della commissione affari costituzionali al senato è un fatto «positivo». Lo ha scritto lui stesso in una lettera inviata al presidente dell’assemblea di palazzo Madama, Renato Schifani. Sul merito, però, non mancano le perplessità del Quirinale. Napolitano, infatti, nel suo messaggio insiste su «nuove regole che consentano agli elettori di compiere scelte determinanti per la composizione del parlamento», ma anche «di evitare il ricorso a incentivi e vincoli tali da indurre a vasti raggruppamenti elettorali di dubbia idoneità a garantire stabilmente il governo del paese ».
L’allarme, lanciato ieri anche da Europa, di una legge elettorale che impedirebbe la formazione di una maggioranza stabile in parlamento preoccupa il capo dello stato. Con i numeri previsti attualmente da tutti i sondaggi, infatti, il premio di maggioranza del 12,5 per cento sarebbe insufficiente a qualsiasi coalizione per riuscire a formare un governo autosufficiente. Una nuova Grosse Koalition sarebbe quindi inevitabile, a meno che Pd e Sel non decidano di allargarsi all’Udc o all’Idv.
È facile immaginare la preoccupazione di Napolitano per una maggioranza di governo che, pur di conquistare il premio di coalizione, possa ricomprendere anche Antonio Di Pietro. O si estenda da Vendola a Casini, o perfino a Fini. Da questo punto di vista, più che Schifani, appare soprattutto il Pd il destinatario del suo messaggio. Mentre alle altre due forze che compongono la “strana” maggioranza, Pdl e Udc, il capo dello stato ricorda la necessità di «un ampio consenso parlamentare » a sostegno della riforma.
A rafforzare l’appello di Napolitano è il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Antonio Catricalà, che cita l’insegnamento di Antonio Maccanico: «Vince chi piglia più voti. Il problema è che non tutte le leggi elettorali garantiscono stabilità di governo e noi abbiamo bisogno di governi stabili ».
A esprimere «vivo apprezzamento » per la lettera del capo dello stato è anche il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. I dem condurranno al senato, prima, e alla camera, poi, una aspra battaglia per sostituire, nel testo presentato dal pidiellino Malan, alla quota di parlamentari (i due terzi) scelti con le preferenze l’introduzione dei collegi uninominali. Un correttivo che, oltre a evitare i rischi connessi alle preferenze, introdurrebbe anche un lieve effetto maggioritario. A spingere in quella direzione, tra gli altri, sono stati ieri Stefano Ceccanti e il vicepresidente del senato Vannino Chiti, il quale ha manifestato il proprio «dissenso netto sull’impianto complessivo della legge votata da Pdl, Lega e Terzo polo in commissione». E anche Matteo Renzi si oppone a «pastrocchi», ribadendo la propria preferenza per la «legge elettorale dei sindaci».
Al di là della battaglia sui collegi, però, il Pd non sembra avere intenzione di affossare la riforma. Nessun ostruzionismo, quindi, almeno finché l’ iter parlamentare non assumerà un percorso definito.
Troppo ambigui sono infatti i segnali che giungono ancora del Pdl ai dem: dalla disponibilità a discutere perfino sulle preferenze alla possibilità che questo testo venga affossato dopo l’arrivo a Montecitorio, fino ovviamente, all’intenzione di procedere a testa bassa. Per questo, il Pd non ha ancora deciso quale posizione prendere quando arriverà il momento del voto finale sul testo. Da una parte, ci sono le pressioni del Quirinale per «un ampio consenso parlamentare»; dall’altra, la tentazione (nascosta ma mai sopita) di tornare a votare con il Porcellum.
Il prossimo giro non si governa senza popolo
Presentata a Roma la Carta d’Intenti per l?italia bene comune e le regole delle Primarie 2012 del centrosinistra. “Le primarie sono fatte cosi’: ci può essere qualche intoppo e il dibattito può essere un po’ troppo aspro. Ma le primarie sono la più grande e bella cosa che la politica possa offrire oggi in Italia. Noi siamo orgogliosi di quello che stiamo facendo, non solo per noi ma per l’Italia: siamo orgogliosi di mettere finalmente una cosa bella”. Così Pier Luigi Bersani intervenendo sul palco della Sala Fellini presso il Centro Congressi Roma Eventi per la presentazione della Carta d’Intenti per l’Italia bene comune.
Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza, libertà, sapere, sviluppo sostenibile, beni comuni diritti e responsabilità: sono queste le 10 parole che ispirano e caratterizzano l’alleanza di centrosinistra che si riconosce e darà vita alle primarie. 10 parole e 10 impegni programmatici che sono delineati nella Carta d’Intenti che è stata sottoscritta da Pier Luigi Bersani, il leader di Sinistra Ecologia e Libertà, Nichi Vendola e il segretario del Psi, Riccardo Nencini.
*****
Appello degli elettori dell’Italia Bene Comune
Noi, cittadine e cittadini democratici e progressisti, ci riconosciamo nella Costituzione repubblicana, in un progetto di società di pace, di libertà, di eguaglianza, di laicità, di giustizia, di progresso e di solidarietà.
Vogliamo contribuire al cambiamento dell’Italia, alla ricostruzione delle sue istituzioni, a un forte impegno del nostro Paese per un’Europa federale e democratica. Crediamo nel valore del lavoro, nello spirito solidaristico e nel riconoscimento del merito. Vogliamo archiviare la lunga stagione berlusconiana e sconfiggere ogni forma di populismo.
Oggi siamo noi i protagonisti del cambiamento e ne sentiamo la responsabilità. La politica non è tutta uguale. Vogliamo che i nostri rappresentanti siano scelti per le loro capacità e per la loro onestà. Chiediamo che i candidati dell’Italia Bene Comune rispettino gli impegni contenuti nella Carta d’Intenti.
Per questi motivi partecipiamo alle elezioni primarie per la scelta del candidato comune alla Presidenza del Consiglio e rivolgiamo un appello a tutte le forze del cambiamento e della ricostruzione a sostenere il centrosinistra e il candidato scelto dalle primarie alle prossime elezioni politiche.
www.partitodemocratico.it
"Se manca un progetto è inutile aumentare l’orario", di Benedetto Vertecchi
Non era difficile immaginare che nel clima già caldo che in questo inizio d’anno domina nelle scuole parlare di un possibile aumento dell’orario di lavoro degli insegnanti avrebbe aggiunto a quelle già esistenti ulteriori ragioni di disagio. E ciò non solo per le fosche previsioni che si possono fare circa la capacità del sistema educativo di assorbire nuovo personale o, quanto meno, di collocare dignitosamente quello che da anni ruota in condizione di precarietà attorno alla scuola. Ma ancor più perché la sortita estemporanea sul nuovo orario di cattedra costituisce un ulteriore prova dell’improvvisazione con la quale si interviene, o si dichiara di voler intervenire, sul funzionamento del sistema scolastico. L’orario di lavoro non è, infatti, qualcosa che possa essere variato prescindendo da considerazioni che riguardano i modelli organizzativi e didattici dell’attività educativa. Si può anche considerare inadeguato l’orario attuale: ciò non perché sia inadeguato il numero di ore richiesto agli insegnanti, ma perché tale orario rispecchia una concezione dell’educazione scolastica che poteva essere accettata fino ad alcuni decenni fa, mentre oggi risulta incapace di corrispondere alle esigenze che nel frattempo si sono venute manifestando. Per cominciare, non si può seguitare a far coincidere l’orario delle lezioni con quello di funzionamento delle scuole. Poiché l’impegno di lavoro degli insegnanti corrisponde al numero di lezioni necessario per coprire l’orario di funzionamento delle scuole, si capisce che anche solo ventilare un aumento lasci subito intravedere fosche prospettive per l’occupazione. Non solo. Non c’è bisogno di richiamare i dati delle indagini comparative internazionali per rendersi conto che il sistema educativo fatica ad adeguarsi ai mutamenti intervenuti e a quelli che stanno intervenendo nel quadro culturale e sociale. L’enfasi posta su elementi di modernizzazione proposti alle scuole (per esempio, l’uso di apparecchiature tecnologiche) può dare l’impressione che qualcosa stia cambiando, ma si tratta, appunto, solo di un’impressione. Le nuove dotazioni possono avere una capacità di attrazione finché sono inconsuete (e solo sulla parte più sprovveduta degli allievi), ma non sono in grado di configurare profili culturali la cui validità si estenda per un tempo lungo. Le strumentazioni che oggi appaiono all’avanguardia potranno essere utilizzate, sempre che lo siano davvero, per pochi anni. Per acquisirle saranno state impegnate le poche risorse disponibili per le dotazioni delle scuole. Ma, ammesso pure che i tempi fossero meno grami di quello che sono, avrebbe senso impegnare tali risorse per inseguire le offerte del mercato? Non ci si può non stupire di fronte al tono assertorio con cui si vantano i benefici che verrebbero dall’uso di questo o quel mezzo, in assenza di elementi obiettivi, di ricerche originali, di esperienze condivise. Intanto, per far posto a dotazioni che resteranno nelle scuole meno del tempo degli allievi che potrebbero usarle, non ci si cura più dei laboratori, dei gabinetti per le scienze della natura, delle raccolte bibliografiche e di quelle naturalistiche. Non ci si preoccupa di offrire agli allievi la possibilità di collegare pensiero e azione, di stimolare la loro creatività perché esprima un saper fare intelligente. Ed è proprio questo che gli insegnanti dovrebbero fare se ne avessero il tempo, se gli orari di funzionamento delle scuole non fossero così rachitici. In Europa, e in genere nei Paesi industrializzati, la scuola assorbe gran parte della giornata, al mattino e al pomeriggio (talvolta, spazi e dotazioni sono fruibili anche di sera). Certo, non per far lezione, ma per trasformare ciò che si apprende in elementi di un profilo culturale che resti attraverso il tempo e possa adattarsi e riadattarsi ai mutamenti che intervengono nella conoscenza e nella società. Quel che serve è elaborare un’idea dell’educazione, e effettuare scelte coerenti con essa. La logica dei rattoppi non produce – l’abbiamo visto – nulla di buono. Si attenua il rapporto di fiducia sul quale si fonda l’attività delle scuole. E gli stessi insegnanti sono alla rincorsa d’intenti che non sanno quanto siano condivisi. Quel che manca, e di cui c’è soprattutto bisogno, è una politica per l’educazione. …
L’Unità 13.10.12
"Se manca un progetto è inutile aumentare l’orario", di Benedetto Vertecchi
Non era difficile immaginare che nel clima già caldo che in questo inizio d’anno domina nelle scuole parlare di un possibile aumento dell’orario di lavoro degli insegnanti avrebbe aggiunto a quelle già esistenti ulteriori ragioni di disagio. E ciò non solo per le fosche previsioni che si possono fare circa la capacità del sistema educativo di assorbire nuovo personale o, quanto meno, di collocare dignitosamente quello che da anni ruota in condizione di precarietà attorno alla scuola. Ma ancor più perché la sortita estemporanea sul nuovo orario di cattedra costituisce un ulteriore prova dell’improvvisazione con la quale si interviene, o si dichiara di voler intervenire, sul funzionamento del sistema scolastico. L’orario di lavoro non è, infatti, qualcosa che possa essere variato prescindendo da considerazioni che riguardano i modelli organizzativi e didattici dell’attività educativa. Si può anche considerare inadeguato l’orario attuale: ciò non perché sia inadeguato il numero di ore richiesto agli insegnanti, ma perché tale orario rispecchia una concezione dell’educazione scolastica che poteva essere accettata fino ad alcuni decenni fa, mentre oggi risulta incapace di corrispondere alle esigenze che nel frattempo si sono venute manifestando. Per cominciare, non si può seguitare a far coincidere l’orario delle lezioni con quello di funzionamento delle scuole. Poiché l’impegno di lavoro degli insegnanti corrisponde al numero di lezioni necessario per coprire l’orario di funzionamento delle scuole, si capisce che anche solo ventilare un aumento lasci subito intravedere fosche prospettive per l’occupazione. Non solo. Non c’è bisogno di richiamare i dati delle indagini comparative internazionali per rendersi conto che il sistema educativo fatica ad adeguarsi ai mutamenti intervenuti e a quelli che stanno intervenendo nel quadro culturale e sociale. L’enfasi posta su elementi di modernizzazione proposti alle scuole (per esempio, l’uso di apparecchiature tecnologiche) può dare l’impressione che qualcosa stia cambiando, ma si tratta, appunto, solo di un’impressione. Le nuove dotazioni possono avere una capacità di attrazione finché sono inconsuete (e solo sulla parte più sprovveduta degli allievi), ma non sono in grado di configurare profili culturali la cui validità si estenda per un tempo lungo. Le strumentazioni che oggi appaiono all’avanguardia potranno essere utilizzate, sempre che lo siano davvero, per pochi anni. Per acquisirle saranno state impegnate le poche risorse disponibili per le dotazioni delle scuole. Ma, ammesso pure che i tempi fossero meno grami di quello che sono, avrebbe senso impegnare tali risorse per inseguire le offerte del mercato? Non ci si può non stupire di fronte al tono assertorio con cui si vantano i benefici che verrebbero dall’uso di questo o quel mezzo, in assenza di elementi obiettivi, di ricerche originali, di esperienze condivise. Intanto, per far posto a dotazioni che resteranno nelle scuole meno del tempo degli allievi che potrebbero usarle, non ci si cura più dei laboratori, dei gabinetti per le scienze della natura, delle raccolte bibliografiche e di quelle naturalistiche. Non ci si preoccupa di offrire agli allievi la possibilità di collegare pensiero e azione, di stimolare la loro creatività perché esprima un saper fare intelligente. Ed è proprio questo che gli insegnanti dovrebbero fare se ne avessero il tempo, se gli orari di funzionamento delle scuole non fossero così rachitici. In Europa, e in genere nei Paesi industrializzati, la scuola assorbe gran parte della giornata, al mattino e al pomeriggio (talvolta, spazi e dotazioni sono fruibili anche di sera). Certo, non per far lezione, ma per trasformare ciò che si apprende in elementi di un profilo culturale che resti attraverso il tempo e possa adattarsi e riadattarsi ai mutamenti che intervengono nella conoscenza e nella società. Quel che serve è elaborare un’idea dell’educazione, e effettuare scelte coerenti con essa. La logica dei rattoppi non produce – l’abbiamo visto – nulla di buono. Si attenua il rapporto di fiducia sul quale si fonda l’attività delle scuole. E gli stessi insegnanti sono alla rincorsa d’intenti che non sanno quanto siano condivisi. Quel che manca, e di cui c’è soprattutto bisogno, è una politica per l’educazione. …
L’Unità 13.10.12
"E ora mai più complici. Due giorni per dire no alla violenza sulle donne", di Daniela Amenta
A Torino oggi e domani l’incontro organizzato da Se non ora quando. Gabriella, Lucia, Elèna, Zineb. Avevano 50,40,36,22 anni. Erano italiane, moldave, nordafricane, asiatiche. Lavoravano, non lavoravano. Erano madri, non avevano figli. Erano single, erano sposate. La loro storia non esiste mai in questi casi. Cancellata, ridotta a una fototessera di un documento d’identità, icona lugubre ripetuta all’infinito. Un trafiletto su un giornale, se il delitto non è stato particolarmente efferato. «Solo» una coltellata a spaccare in due il cuore. Gabriella, Lucia, Elèna e Zineb morte ammazzate da mariti, fidanzati, amanti e conviventi. Uomini killer che vengono protetti da alibi concettuali, linguistici. Giustificati. «Ha ucciso dopo un raptus, ha ucciso per gelosia, ha ucciso perché aveva paura di essere lasciato». La vittima non esiste mai: il maschio assassino, ancora una volta, è il protagonista.
Novantadue vittime in Italia dall’inizio dell’anno. Sono numeri da guerra. Perché la guerra è in atto ed è un conflitto di genere. Per questo, oggi e domani, le donne di «Se non ora quando» si ritrovano a Torino. Il titolo di questa nuova iniziativa è «Maipiucomplici», scritto così tutto di seguito, un concetto da dire in fretta, memorizzare in un attimo. Un titolo, una campagna lanciata da Snoq a maggio dopo il massacro di Vanessa Scialfa, vent’anni, uccisa dal fidanzato dopo una banale lite.
Spiegano: «Vogliamo affrontare il tema con un nuovo punto di vista, con parole nuove, per superare la dimensione immediata e drammatica della testimonianza. L’intento è provare a raccontare le forme della complicità con la violenza e cercarne le ragioni, ma anche per approfondire insieme ai Comitati Territoriali Snoq ed alle associazioni che operano nel settore gli aspetti giuridici, sociali ed economici relativi al contrasto della violenza e al sostegno delle vittime».
Due giorni per riflettere, per lanciare una denuncia forte. Gli appuntamenti sono fissati per stasera presso le Officine Grandi Riparazioni (corso Castelfidardo 22). Un incontro aperto a tutti in cui si mescolano linguaggi diversi e in cui sarà rappresentata la prima della nuova pièce teatrale di Cristina Comencini L’amavo più della sua vita con gli attori Irene Petris e Edoardo Natoli. La regia è curata da Paola Rota del Teatro Stabile di Torino. Tra gli interventi anche quello della scrittrice Silvia Avallone con il suo racconto inedito La telefonata della danzatrice coreografa Simona Bertozzi e un video La parola ai giovani a cura di Stefanella Campana e Elisabetta Gatto (realizzato da IK Produzioni). Altre iniziative sempre oggi, ma nel pomeriggio: a partire dalle 18.00 in piazza Castello, angolo via Garibaldi una serie di letture su testi legati al tema della violenza con gli scrittori Gianni Farinetti, Alessandra Montrucchio, Alessandro Perissinotto, Margherita Oggero, Giuseppe Culicchia. Parteciperanno anche il direttore artistico del Festival del Cinema di Venezia Alberto Barbera e il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Mario Napoli. Domani, invece, una giornata di approfondimento con la ministra Elsa Fornero che farà il punto sulla legge anti violenza. A seguire un monologo di Lidia Ravera.
Una guerra si diceva. Dichiarata dagli uomini che odiano le donne. I dati, per quanto glaciali, danno il senso di un fenomeno in escalation. Per esempio il numero di donne seguite da Demetra, il Centro di supporto alle vittime di violenza delle Molinette di Torino, è in costante aumento: 300 dall’inizio del 2012, due al giorno. I casi erano stati 340 nel 2011, 170 nel 2010, 140 nel 2009.
Mai più complici, allora. Perché questa guerra, oltre ai lutti, lascia sul campo il dolore infinito delle sopravvissute. Il Premio Nobel della Medicina 2009, Elizabeth Blackburn, ha studiato le riduzioni dei telomeri (piccole porzioni di Dna che hanno un ruolo importante nel determinare la durata della vita di ciascuna cellula) presenti nelle donne vittime di violenza come causa di invecchiamento precoce e cancro. I risultati sono inquietanti, devastanti.
Un problema, insomma, che dovrebbe essere in cima all’agenda politica dei governi. Il nostro, in particolare, dopo l’allarme lanciato anche da Rashida Manjoo (ex commissario parlamentare della Commissione sulla parità di genere in Sud Africa, docente Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università di Città del Capo) che ha chiesto al nostro Paese interventi concreti e non parole per fermare il femminicidio. «La violenza contro le donne rimane un problema significativo in Italia ha spiegato -. Siamo alla presenza di omicidi basati sul genere culturalmente e socialmente radicati, che continuano ad essere accettati, tollerati e giustificati, mentre l’impunità costituisce la norma».
«Maipiucomplici». E anche questa volta la battaglia di civiltà di «Se non ora quando» è estesa a tutte e a tutti. Così gli uomini di noino.org dal Web hanno lanciato il loro manifesto. «Per sentirci uomini non abbiamo bisogno di essere violenti scrivono sul loro sito e sui social network -. Noi diciamo no alla cultura del possesso e del controllo, alla disinformazione, alle giustificazioni. La fine delle violenze maschili contro le donne inizia da noi».
Hanno già aderito in molti: da Stefano Benni a Vinicio Capossela, dal calciatore Alessandro Diamanti al regista Giovanni Veronesi. E tanti si stanno aggiungendo in queste ore. Maipiucomplici. Mai più.
L’Unità 13.10.12
"E ora mai più complici. Due giorni per dire no alla violenza sulle donne", di Daniela Amenta
A Torino oggi e domani l’incontro organizzato da Se non ora quando. Gabriella, Lucia, Elèna, Zineb. Avevano 50,40,36,22 anni. Erano italiane, moldave, nordafricane, asiatiche. Lavoravano, non lavoravano. Erano madri, non avevano figli. Erano single, erano sposate. La loro storia non esiste mai in questi casi. Cancellata, ridotta a una fototessera di un documento d’identità, icona lugubre ripetuta all’infinito. Un trafiletto su un giornale, se il delitto non è stato particolarmente efferato. «Solo» una coltellata a spaccare in due il cuore. Gabriella, Lucia, Elèna e Zineb morte ammazzate da mariti, fidanzati, amanti e conviventi. Uomini killer che vengono protetti da alibi concettuali, linguistici. Giustificati. «Ha ucciso dopo un raptus, ha ucciso per gelosia, ha ucciso perché aveva paura di essere lasciato». La vittima non esiste mai: il maschio assassino, ancora una volta, è il protagonista.
Novantadue vittime in Italia dall’inizio dell’anno. Sono numeri da guerra. Perché la guerra è in atto ed è un conflitto di genere. Per questo, oggi e domani, le donne di «Se non ora quando» si ritrovano a Torino. Il titolo di questa nuova iniziativa è «Maipiucomplici», scritto così tutto di seguito, un concetto da dire in fretta, memorizzare in un attimo. Un titolo, una campagna lanciata da Snoq a maggio dopo il massacro di Vanessa Scialfa, vent’anni, uccisa dal fidanzato dopo una banale lite.
Spiegano: «Vogliamo affrontare il tema con un nuovo punto di vista, con parole nuove, per superare la dimensione immediata e drammatica della testimonianza. L’intento è provare a raccontare le forme della complicità con la violenza e cercarne le ragioni, ma anche per approfondire insieme ai Comitati Territoriali Snoq ed alle associazioni che operano nel settore gli aspetti giuridici, sociali ed economici relativi al contrasto della violenza e al sostegno delle vittime».
Due giorni per riflettere, per lanciare una denuncia forte. Gli appuntamenti sono fissati per stasera presso le Officine Grandi Riparazioni (corso Castelfidardo 22). Un incontro aperto a tutti in cui si mescolano linguaggi diversi e in cui sarà rappresentata la prima della nuova pièce teatrale di Cristina Comencini L’amavo più della sua vita con gli attori Irene Petris e Edoardo Natoli. La regia è curata da Paola Rota del Teatro Stabile di Torino. Tra gli interventi anche quello della scrittrice Silvia Avallone con il suo racconto inedito La telefonata della danzatrice coreografa Simona Bertozzi e un video La parola ai giovani a cura di Stefanella Campana e Elisabetta Gatto (realizzato da IK Produzioni). Altre iniziative sempre oggi, ma nel pomeriggio: a partire dalle 18.00 in piazza Castello, angolo via Garibaldi una serie di letture su testi legati al tema della violenza con gli scrittori Gianni Farinetti, Alessandra Montrucchio, Alessandro Perissinotto, Margherita Oggero, Giuseppe Culicchia. Parteciperanno anche il direttore artistico del Festival del Cinema di Venezia Alberto Barbera e il presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Mario Napoli. Domani, invece, una giornata di approfondimento con la ministra Elsa Fornero che farà il punto sulla legge anti violenza. A seguire un monologo di Lidia Ravera.
Una guerra si diceva. Dichiarata dagli uomini che odiano le donne. I dati, per quanto glaciali, danno il senso di un fenomeno in escalation. Per esempio il numero di donne seguite da Demetra, il Centro di supporto alle vittime di violenza delle Molinette di Torino, è in costante aumento: 300 dall’inizio del 2012, due al giorno. I casi erano stati 340 nel 2011, 170 nel 2010, 140 nel 2009.
Mai più complici, allora. Perché questa guerra, oltre ai lutti, lascia sul campo il dolore infinito delle sopravvissute. Il Premio Nobel della Medicina 2009, Elizabeth Blackburn, ha studiato le riduzioni dei telomeri (piccole porzioni di Dna che hanno un ruolo importante nel determinare la durata della vita di ciascuna cellula) presenti nelle donne vittime di violenza come causa di invecchiamento precoce e cancro. I risultati sono inquietanti, devastanti.
Un problema, insomma, che dovrebbe essere in cima all’agenda politica dei governi. Il nostro, in particolare, dopo l’allarme lanciato anche da Rashida Manjoo (ex commissario parlamentare della Commissione sulla parità di genere in Sud Africa, docente Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università di Città del Capo) che ha chiesto al nostro Paese interventi concreti e non parole per fermare il femminicidio. «La violenza contro le donne rimane un problema significativo in Italia ha spiegato -. Siamo alla presenza di omicidi basati sul genere culturalmente e socialmente radicati, che continuano ad essere accettati, tollerati e giustificati, mentre l’impunità costituisce la norma».
«Maipiucomplici». E anche questa volta la battaglia di civiltà di «Se non ora quando» è estesa a tutte e a tutti. Così gli uomini di noino.org dal Web hanno lanciato il loro manifesto. «Per sentirci uomini non abbiamo bisogno di essere violenti scrivono sul loro sito e sui social network -. Noi diciamo no alla cultura del possesso e del controllo, alla disinformazione, alle giustificazioni. La fine delle violenze maschili contro le donne inizia da noi».
Hanno già aderito in molti: da Stefano Benni a Vinicio Capossela, dal calciatore Alessandro Diamanti al regista Giovanni Veronesi. E tanti si stanno aggiungendo in queste ore. Maipiucomplici. Mai più.
L’Unità 13.10.12
