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"Tornano le preferenze Il Pd: nostro no invalicabile", di Andrea Carugati

Alla fine, dopo mesi di estenuante trattativa, la bozza di nuova legge elettorale è arrivata. Si è materializzata ieri mattina nell’Aula della Commissione Affari co- stituzionali del Senato, con il voto a favore della vecchia Casa delle libertà: Pdl, Lega, Udc e Fli. E il voto di contrario di Pd e Idv.
Eccola qui, la nuova bozza: sistema proporzionale con sbarramento al 5%, premio del 12,5% alla prima coalizione (che si traduce in 76 seggi alla Camera e 37 al Senato), eletti scelti per due terzi con le preferenze e in circoscrizioni amplissime, e per un terzo con le liste bloccate, come avviene con la legge in vigo- re dal 2005. Di collegi uninominali, quell’innovazione introdotta a furor di popolo nel 1993, nemmeno l’ombra. Nonostante questa fosse la richiesta princi- pale del Pd, che infatti ha votato contro e ora annuncia battaglia a colpi di emen- damenti in Commissione, e poi in Aula, dove il testo dovrebbe arrivare «entro fine mese», come spiega Schifani.

La nuova bozza, almeno per un aspetto, corrisponde ai desiderata più volte manifestati dai democratici, e cioè il premio di maggioranza attribuito alla coalazione e non al primo partito. Un paletto che Bersani aveva fissato per assicurare che «la sera del voto si sappia chi governa». Cosa che però, con questo testo, non è affatto garantita, visto che il premio, con gli attuali numeri dei sondaggi, non garantirebbe a Pd e Sel, anche se vincenti, una maggioranza in nessuno dei due rami del Parlamento. E tuttavia la novità sta proprio nella conversione dei berlusconiani al premio di coalizione, che per mesi avevano avversato. Cosa è successo? Che le ultime mosse del Cavaliere, il presunto ritiro per favorire la nascita di un rassemblement dei moderati (magari a guida Montezemolo a Passera) hanno reso improvvisamente conveniente il premio alla coalizione, reso ancor più efficace dalla norma che prevede una soglia di sbarramento abbassata al 4% per i partiti coalizzati. Quanto alla Lega, invece, è stata prevista una clausola ad hoc, e cioè l’aggiramento dello sbarramento per i partiti che ottengono il 7% in un numero di circoscrizioni pari a un quinto della popolazione. Un elemento che deve aver convinto Calderoli a votare a favore, e tuttavia i leghisti annunciano battaglia per far scattare il premio solo una certa soglia.
TERRENO DI BATTAGLIA
Tra le principali forze politiche, a questo punto, l’intesa sul premio al 12,5% sembra assestata. Il terreno di battaglia restano le preferenze, che il Pd non intende accettare. E che suscitano grande diffidenza anche nel Pdl: per il rischio corruzione, come è evidente dagli ultimi casi nelle regioni. Ma soprattutto perché moltissimi peones sanno perfettamente che sarebbero loro a doversi sudare il seggio con costose campagne, mentre i big sarebbero coperti dai listini bloccati. Per questo la norma rischia di saltare, o in Senato, oppure alla Camera, dove sono previste svariate votazioni a scrutinio segreto.

«La cronaca di queste settimane ci consegna una nuova questione morale, e uno dei modi in cui la corruzione e la criminalità organizzata hanno permeato la politica è stato proprio il sistema delle preferenze», tuona la capogruppo Pd Anna Finocchiaro. «Per noi questo è un limite invalicabile». Sulla stessa linea tutti i democratici, ma anche nel Pdl è partita una raccolta firme (oltre 40)capitanata da Enrico La Loggia: «Le preferenze sono un vero e proprio male della politica». All’appello si è unita anche l’ex ministro Anna Maria Bernini. Gli ex An, invece, dopo essersi battuti per mesi, ora stappano champagne.

Nel Pd la bozza approvata suscita reazioni diversificate. Da una parte c’è chi, come il relatore Enzo Bianco ma anche la capogruppo Finocchiaro, nota come «la nostra proposta e la loro divergono solo sulle preferenze, quindi il bicchiere è mezzo pieno». E chi, invece fa prevalere il giudizio negativo, come il senatore Stefano Ceccanti che parla di «controriforma» e «modello greco», ma anche il vicepresidente del Senato Vannino Chiti che parla di una «restaurazione politica in senso pieno» e ricorda che «la sera delle elezioni non conosceremo le maggioranze di governo». Ancora più duro Arturo Parisi, che accusa il suo partito di aver favorito il ritorno al proporzionale e le preferenze. Soddisfatto Gianfranco Fini, che parla di una «uscita dallo stallo» e si dice pronto ad accettare anche le preferenze: «Se uno compra i voti lo può fare anche collegio…». La discussione riprenderà giovedì prossimo in commissione. Ma già martedì mattina il gruppo Pd di palazzo madama si riunirà per decidere come condurre la battaglia parlamentare. Tra le novità del nuovo testo, la possibilità di esprimere due preferenze, purché almeno una sia ad una donna. Il relatore Pd Bianco annuncia modifiche per introdurre un rigido tetto alle spese elettorali, «pena la decadenza dell’eletto».

L’Unità 12-10-12

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“Preferenze, il virus dei partiti”, di LUIGI LA SPINA

La diagnosi si fa più grave. Credevamo che la politica italiana soffrisse di senescenza, più o meno precoce, quella che fa dimenticare i peccati del passato, nel ricordo di una gioventù che tutto assolve. Invece, si tratta di un sintomo più terribile, quello che caratterizza l’Alzheimer, la malattia che fa perdere soprattutto la memoria dei fatti recenti.

Ma come è possibile pensare di ripristinare le preferenze, non solo non rammentando che, in un referendum agli inizi degli Anni Novanta, gli italiani, con una maggioranza del 95 per cento, bocciarono questo sistema di voto, ma ignorando i vergognosi scandali di questi giorni? Come è possibile votare una legge, come quella approvata ieri in commissione al Senato, appena il giorno dopo la lettura sui giornali del caso Zambetti, l’assessore regionale lombardo del Pdl accusato di aver acquistato dalla ’ndrangheta quattromila preferenze per 200 mila euro?

Come è possibile farlo, sempre il giorno dopo la scoperta che il capogruppo Idv alla Regione Lazio, quello che avrebbe sottratto al partito 780 mila euro, era un vero recordman di preferenze, ne aveva oltre 8 mila? Come è possibile proporre una cosa del genere, dimenticando che il famoso «Batman» romano, Franco Fiorito, era un altro fuoriclasse nel campionato nazionale delle preferenze?

La lista degli esempi, tutt’altro che raccomandabili, potrebbe facilmente proseguire, ma potrebbe pure annoiare il lettore, che, in genere, gode di una salute mentale molto superiore a quella dei suoi rappresentanti. Agli smemorati del Parlamento, è più utile, allora, un breve riepilogo delle ultime puntate.

Eravamo rimasti allo sdegno universale sulla legge attualmente in vigore per le elezioni alle Camere, il famoso «porcellum», quello che assicurerà a Calderoli fama imperitura, seppur discutibile. Lo si accusava di togliere agli elettori il potere di nominare i deputati e i senatori della Repubblica per affidarlo alle segreterie dei partiti. Incalzati da una simile pressione dell’opinione pubblica e dall’imminenza del voto per la fine di questa legislatura, ieri, alla commissione di Palazzo Madama, è stato deciso di restituire questo potere ai cittadini in modo tale da consentire ai clan mafiosi, nei casi peggiori, o alle clientele di sottogoverno locale, nei casi migliori(?), di influenzare pesantemente le scelte degli italiani.

Non c’è bisogno di possedere virtù divinatorie per sapere che cosa succederà con le preferenze. Anche in questo caso, basta ricorrere alla memoria, breve o lunga che sia. Quasi cinquant’anni di storia elettorale, nella seconda metà del secolo scorso, costituiscono un monito più che sufficiente. In sintesi: candidati costretti a spese folli pur di essere eletti, spese che, naturalmente, devono «rientrare» nel corso dell’esperienza parlamentare. Competizioni a coltello, seppur metaforico, tra compagni di partito; dove, né la lealtà, né il merito, comunque, assicurano la vittoria. Condizionamenti di lobby professionali di ogni genere e un profluvio di promesse alle più svariate corporazioni e alle più fameliche clientele, promesse da mantenere, pena la mancata rielezione. Infine, un ricatto esasperante e paralizzante nei confronti dei vertici dei partiti, in nome di quel tesoretto di voti acquistato con tante fatiche e tanti denari.

Stupisce che Berlusconi, l’ex censore della vecchia politica professionale, emblema di una prima Repubblica da cancellare, abbia approvato il simbolo elettorale di quel «teatrino», per anni deplorato con toni veementi. Così come stupisce che Casini, puntando sulla collaudata «abilità» dei suoi sodali nella caccia alla preferenze, di antica marca democristiana, non si sia ricordato dei guai giudiziari, a partire dalla Sicilia, che tale metodo di voto ha procurato al suo partito. Stupisce, infine, che il moralizzatore Maroni, in cambio di una soglia di ingresso in Parlamento rassicurante per la Lega, sia disposto a barattare le preferenze, simbolo della peggiore «Roma ladrona».

Eppure, il sistema per restituire ai cittadini il potere di esprimere un chiaro giudizio, senza influenze «esterne» così determinanti c’è, ed è quello dei collegi. Una sfida semplice tra due candidati che permette a chiunque di scegliere la faccia del vincitore. Si può discutere l’ampiezza di questi collegi, perché l’alternativa tra quelli ridotti e quelli che raccolgono un gran numero di votanti presenta vantaggi e svantaggi. Ma è difficile sostenere che la trasparenza del verdetto sia assicurata in maniera migliore dal sistema delle preferenze. Sempre per quest’ultima esigenza, la prima e l’essenziale in una democrazia, i partiti potrebbero estendere, nel territorio del collegio, l’abitudine delle primarie, per sondare il gradimento popolare nei confronti dei loro candidati.

La politica impone spesso scelte complicate, ma qualche volta, come in questo caso, possono essere molto facili, se l’obiettivo è il rispetto della volontà dei cittadini. A pochi mesi dal voto, poi, nel pieno di un’ondata impressionante di scandali, sfidare così l’indignazione degli italiani fa sospettare la recondita coscienza di dover essere duramente puniti.

La Stampa 12.10.12

"Tornano le preferenze Il Pd: nostro no invalicabile", di Andrea Carugati

Alla fine, dopo mesi di estenuante trattativa, la bozza di nuova legge elettorale è arrivata. Si è materializzata ieri mattina nell’Aula della Commissione Affari co- stituzionali del Senato, con il voto a favore della vecchia Casa delle libertà: Pdl, Lega, Udc e Fli. E il voto di contrario di Pd e Idv.
Eccola qui, la nuova bozza: sistema proporzionale con sbarramento al 5%, premio del 12,5% alla prima coalizione (che si traduce in 76 seggi alla Camera e 37 al Senato), eletti scelti per due terzi con le preferenze e in circoscrizioni amplissime, e per un terzo con le liste bloccate, come avviene con la legge in vigo- re dal 2005. Di collegi uninominali, quell’innovazione introdotta a furor di popolo nel 1993, nemmeno l’ombra. Nonostante questa fosse la richiesta princi- pale del Pd, che infatti ha votato contro e ora annuncia battaglia a colpi di emen- damenti in Commissione, e poi in Aula, dove il testo dovrebbe arrivare «entro fine mese», come spiega Schifani.
La nuova bozza, almeno per un aspetto, corrisponde ai desiderata più volte manifestati dai democratici, e cioè il premio di maggioranza attribuito alla coalazione e non al primo partito. Un paletto che Bersani aveva fissato per assicurare che «la sera del voto si sappia chi governa». Cosa che però, con questo testo, non è affatto garantita, visto che il premio, con gli attuali numeri dei sondaggi, non garantirebbe a Pd e Sel, anche se vincenti, una maggioranza in nessuno dei due rami del Parlamento. E tuttavia la novità sta proprio nella conversione dei berlusconiani al premio di coalizione, che per mesi avevano avversato. Cosa è successo? Che le ultime mosse del Cavaliere, il presunto ritiro per favorire la nascita di un rassemblement dei moderati (magari a guida Montezemolo a Passera) hanno reso improvvisamente conveniente il premio alla coalizione, reso ancor più efficace dalla norma che prevede una soglia di sbarramento abbassata al 4% per i partiti coalizzati. Quanto alla Lega, invece, è stata prevista una clausola ad hoc, e cioè l’aggiramento dello sbarramento per i partiti che ottengono il 7% in un numero di circoscrizioni pari a un quinto della popolazione. Un elemento che deve aver convinto Calderoli a votare a favore, e tuttavia i leghisti annunciano battaglia per far scattare il premio solo una certa soglia.
TERRENO DI BATTAGLIA
Tra le principali forze politiche, a questo punto, l’intesa sul premio al 12,5% sembra assestata. Il terreno di battaglia restano le preferenze, che il Pd non intende accettare. E che suscitano grande diffidenza anche nel Pdl: per il rischio corruzione, come è evidente dagli ultimi casi nelle regioni. Ma soprattutto perché moltissimi peones sanno perfettamente che sarebbero loro a doversi sudare il seggio con costose campagne, mentre i big sarebbero coperti dai listini bloccati. Per questo la norma rischia di saltare, o in Senato, oppure alla Camera, dove sono previste svariate votazioni a scrutinio segreto.
«La cronaca di queste settimane ci consegna una nuova questione morale, e uno dei modi in cui la corruzione e la criminalità organizzata hanno permeato la politica è stato proprio il sistema delle preferenze», tuona la capogruppo Pd Anna Finocchiaro. «Per noi questo è un limite invalicabile». Sulla stessa linea tutti i democratici, ma anche nel Pdl è partita una raccolta firme (oltre 40)capitanata da Enrico La Loggia: «Le preferenze sono un vero e proprio male della politica». All’appello si è unita anche l’ex ministro Anna Maria Bernini. Gli ex An, invece, dopo essersi battuti per mesi, ora stappano champagne.
Nel Pd la bozza approvata suscita reazioni diversificate. Da una parte c’è chi, come il relatore Enzo Bianco ma anche la capogruppo Finocchiaro, nota come «la nostra proposta e la loro divergono solo sulle preferenze, quindi il bicchiere è mezzo pieno». E chi, invece fa prevalere il giudizio negativo, come il senatore Stefano Ceccanti che parla di «controriforma» e «modello greco», ma anche il vicepresidente del Senato Vannino Chiti che parla di una «restaurazione politica in senso pieno» e ricorda che «la sera delle elezioni non conosceremo le maggioranze di governo». Ancora più duro Arturo Parisi, che accusa il suo partito di aver favorito il ritorno al proporzionale e le preferenze. Soddisfatto Gianfranco Fini, che parla di una «uscita dallo stallo» e si dice pronto ad accettare anche le preferenze: «Se uno compra i voti lo può fare anche collegio…». La discussione riprenderà giovedì prossimo in commissione. Ma già martedì mattina il gruppo Pd di palazzo madama si riunirà per decidere come condurre la battaglia parlamentare. Tra le novità del nuovo testo, la possibilità di esprimere due preferenze, purché almeno una sia ad una donna. Il relatore Pd Bianco annuncia modifiche per introdurre un rigido tetto alle spese elettorali, «pena la decadenza dell’eletto».
L’Unità 12-10-12
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“Preferenze, il virus dei partiti”, di LUIGI LA SPINA
La diagnosi si fa più grave. Credevamo che la politica italiana soffrisse di senescenza, più o meno precoce, quella che fa dimenticare i peccati del passato, nel ricordo di una gioventù che tutto assolve. Invece, si tratta di un sintomo più terribile, quello che caratterizza l’Alzheimer, la malattia che fa perdere soprattutto la memoria dei fatti recenti.
Ma come è possibile pensare di ripristinare le preferenze, non solo non rammentando che, in un referendum agli inizi degli Anni Novanta, gli italiani, con una maggioranza del 95 per cento, bocciarono questo sistema di voto, ma ignorando i vergognosi scandali di questi giorni? Come è possibile votare una legge, come quella approvata ieri in commissione al Senato, appena il giorno dopo la lettura sui giornali del caso Zambetti, l’assessore regionale lombardo del Pdl accusato di aver acquistato dalla ’ndrangheta quattromila preferenze per 200 mila euro?
Come è possibile farlo, sempre il giorno dopo la scoperta che il capogruppo Idv alla Regione Lazio, quello che avrebbe sottratto al partito 780 mila euro, era un vero recordman di preferenze, ne aveva oltre 8 mila? Come è possibile proporre una cosa del genere, dimenticando che il famoso «Batman» romano, Franco Fiorito, era un altro fuoriclasse nel campionato nazionale delle preferenze?
La lista degli esempi, tutt’altro che raccomandabili, potrebbe facilmente proseguire, ma potrebbe pure annoiare il lettore, che, in genere, gode di una salute mentale molto superiore a quella dei suoi rappresentanti. Agli smemorati del Parlamento, è più utile, allora, un breve riepilogo delle ultime puntate.
Eravamo rimasti allo sdegno universale sulla legge attualmente in vigore per le elezioni alle Camere, il famoso «porcellum», quello che assicurerà a Calderoli fama imperitura, seppur discutibile. Lo si accusava di togliere agli elettori il potere di nominare i deputati e i senatori della Repubblica per affidarlo alle segreterie dei partiti. Incalzati da una simile pressione dell’opinione pubblica e dall’imminenza del voto per la fine di questa legislatura, ieri, alla commissione di Palazzo Madama, è stato deciso di restituire questo potere ai cittadini in modo tale da consentire ai clan mafiosi, nei casi peggiori, o alle clientele di sottogoverno locale, nei casi migliori(?), di influenzare pesantemente le scelte degli italiani.
Non c’è bisogno di possedere virtù divinatorie per sapere che cosa succederà con le preferenze. Anche in questo caso, basta ricorrere alla memoria, breve o lunga che sia. Quasi cinquant’anni di storia elettorale, nella seconda metà del secolo scorso, costituiscono un monito più che sufficiente. In sintesi: candidati costretti a spese folli pur di essere eletti, spese che, naturalmente, devono «rientrare» nel corso dell’esperienza parlamentare. Competizioni a coltello, seppur metaforico, tra compagni di partito; dove, né la lealtà, né il merito, comunque, assicurano la vittoria. Condizionamenti di lobby professionali di ogni genere e un profluvio di promesse alle più svariate corporazioni e alle più fameliche clientele, promesse da mantenere, pena la mancata rielezione. Infine, un ricatto esasperante e paralizzante nei confronti dei vertici dei partiti, in nome di quel tesoretto di voti acquistato con tante fatiche e tanti denari.
Stupisce che Berlusconi, l’ex censore della vecchia politica professionale, emblema di una prima Repubblica da cancellare, abbia approvato il simbolo elettorale di quel «teatrino», per anni deplorato con toni veementi. Così come stupisce che Casini, puntando sulla collaudata «abilità» dei suoi sodali nella caccia alla preferenze, di antica marca democristiana, non si sia ricordato dei guai giudiziari, a partire dalla Sicilia, che tale metodo di voto ha procurato al suo partito. Stupisce, infine, che il moralizzatore Maroni, in cambio di una soglia di ingresso in Parlamento rassicurante per la Lega, sia disposto a barattare le preferenze, simbolo della peggiore «Roma ladrona».
Eppure, il sistema per restituire ai cittadini il potere di esprimere un chiaro giudizio, senza influenze «esterne» così determinanti c’è, ed è quello dei collegi. Una sfida semplice tra due candidati che permette a chiunque di scegliere la faccia del vincitore. Si può discutere l’ampiezza di questi collegi, perché l’alternativa tra quelli ridotti e quelli che raccolgono un gran numero di votanti presenta vantaggi e svantaggi. Ma è difficile sostenere che la trasparenza del verdetto sia assicurata in maniera migliore dal sistema delle preferenze. Sempre per quest’ultima esigenza, la prima e l’essenziale in una democrazia, i partiti potrebbero estendere, nel territorio del collegio, l’abitudine delle primarie, per sondare il gradimento popolare nei confronti dei loro candidati.
La politica impone spesso scelte complicate, ma qualche volta, come in questo caso, possono essere molto facili, se l’obiettivo è il rispetto della volontà dei cittadini. A pochi mesi dal voto, poi, nel pieno di un’ondata impressionante di scandali, sfidare così l’indignazione degli italiani fa sospettare la recondita coscienza di dover essere duramente puniti.
La Stampa 12.10.12

Sisma, “Impegno del Parlamento per gli sgravi fiscali”

I deputati modenesi Pd Ghizzoni, Miglioli e Santagata sulla visita del presidente Schifani. I deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata, impegnati a Roma per partecipare al voto di fiducia sulla delega fiscale, non hanno potuto incontrare a Modena il presidente del Senato Renato Schifani nel corso della sua visita alle zone terremotate. Nel ringraziarlo per l’attenzione rivolta alle nostre aree, auspicano che la sua presenza possa trasformarsi in un ulteriore impegno delle istituzioni nazionali. In particolare il Parlamento dovrà impegnarsi a far sì che i finanziamenti bancari con interessi a carico dello Stato siano estesi anche alle persone fisiche con i redditi più bassi e che ci sia un alleggerimento del carico fiscale adeguato alla situazione.

“Ringraziamo il presidente del Senato Schifani per la visita che oggi rende ai luoghi terremotati del modenese, che è testimonianza di attenzione e di sensibilità istituzionale ai problemi delle zone colpite dal sisma e di vicinanza alle popolazioni – dichiarano i deputati Pd Manuela Ghizzoni, Ivano Miglioli e Giulio Santagata, che non erano presenti all’incontro per partecipare a Roma al voto di fiducia sulla delega fiscale – È una attenzione che ci auguriamo possa trasformarsi in impegno di tutte le istituzioni nazionali, affinché non resti di competenza delle realtà locali. Dopo i provvedimenti annunciati dal Consiglio dei ministri del 4 ottobre, e ottenuti anche grazie all’impegno assiduo delle istituzioni regionali, ora il Parlamento si impegni – spiegano i deputati modenesi del Pd – a estendere i finanziamenti bancari già previsti per le aziende, concessi dalla Cassa depositi e prestiti con interessi a carico dello Stato, anche alle persone fisiche con i redditi più bassi, e, più in generale, ad un alleggerimento del carico fiscale adeguato alla situazione. Auspichiamo – concludono Ghizzoni, Miglioli e Santagata – che, grazie all’incarico che il senatore Schifani ricopre, possa intervenire per agevolare l’iter dei lavori parlamentari su quei provvedimenti che contengono norme inerenti al sisma del 20 e 29 maggio, confermando un impegno costante delle istituzioni”.

Scuola: Ghizzoni, governo eviti cieli bui per l'istruzione

“Se dovessero permanere i provvedimenti previsti dalla legge di stabilità non sarà solo il cielo ad essere oscurato, ma anche il futuro della scuola. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati – Negli ultimi 15 anni alla scuola è già stato chiesto tanto: tantissimo in termini finanziari, con la sensibile riduzione di risorse per il funzionamento e per gli organici, tantissimo ai lavoratori, il cui contratto non è rinnovato e gli scatti stipendiali sono congelati. È stato chiesto troppo per pensare di non comprometterne il funzionamento, a scapito della qualità offerta agli studenti. Neppure in una fase recessiva – prosegue Ghizzoni – si può pensare di venir meno ad un diritto costituzionalmente sancito come il diritto allo studio: proprio in un momento di crisi il dovere della politica è garantire un futuro luminoso almeno ai giovani.

È dunque auspicabile – conclude la presidente Ghizzoni – un ripensamento del governo, in caso contrario sarà il Parlamento, che può e deve svolgere il suo ruolo in autonomia dagli altri poteri dello Stato, a sanare una situazione divenuta insostenibile per gli insegnanti, per gli studenti e per la scuola tutta.”

"Come difendere la democrazia malata", di Ezio Mauro

Ma dove viviamo? Ciò che vediamo a Milano, con l’evidenza dell’incredibile, non deve farci dimenticare il quadro d’insieme. In meno di un mese è saltato per aria il governo della Regione Lazio, affondato nell’abuso privato del denaro pubblico e nell’estetica esemplare di una politica ridotta a festa onnipotente ed esibizione impunita, la Finanza è entrata negli uffici regionali dell’Emilia e del Piemonte, un assessore della Lombardia è finito in carcere perché comprava i voti direttamente dalla ‘ndrangheta, una grande città come Reggio Calabria è stata commissariata perché i clan comandavano la cosa pubblica. Stiamo tornando al ‘92, vent’anni dopo, dicono tutti. In realtà, è molto peggio.
Siamo infatti davanti a un pervertimento della politica, divenuta per molti un mestiere, un sistema di collocamento ad alta rendita, dove spariscono valori, ideali, tradizioni e difesa di interessi legittimi, i quattro elementi che fanno muovere le bandiere di un partito e parlano ai cittadini, offrendo identità, testimonianza, partecipazione e rappresentanza. Qui si ruba per comandare e si comanda per rubare. La politica troppo spesso è ridotta a strumento del potere, meccanismo di supremazia, sistema di garanzia. Le istituzioni, invase e dominate in molte parti d’Italia da questa nuova classe di potentati famelici, diventano semplicemente il luogo fisico dove avviene questo scambio sotterraneo e continuo tra una politica disincarnata da ogni dignità e l’arricchimento dei singoli o delle loro bande. L’unico vero punto in comune con il ’92, è la perdita di efficienza della nostra macchina democratica, che gira a vuoto e non produce risultati proprio perché alimentata in troppe sue parti da una politica che ha obiettivi diversi dalla funzionalità istituzionale, e perché la corruzione alza i prezzi, uccide la concorrenza, sottrae risorse e mentre soffoca ogni autonomia estende il ricatto, la sottomissione e la paura. Siamo una democrazia pesantemente infiltrata e condizionata, abbiamo dovuto imparare a dubitare della selezione della nostra classe dirigente e oggi tocchiamo con mano che anche il giudizio supremo del popolo sovrano, attraverso il voto, rischia di non essere libero e trasparente, per l’infiltrazione dei clan mafiosi e il loro mercato delle preferenze.
Che tutto questo accada a Milano è per molti finalmente uno scandalo. Ma quando comincia e dove finisce questo scandalo? Davvero solo oggi veniamo a sapere che il Nord è infiltrato, quando soltanto negli ultimi due anni sono stati sciolti i Consigli comunali di Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia e Leinì? E non è uno scandalo retroattivo l’indignazione governativa della Lega e dei suoi alleati, un anno fa, quando Roberto Saviano denunciò la fine dell’innocenza mafiosa del Nord e la Rai si piegò ad una puntata di riparazione con il ministro dell’Interno Maroni che recitava le sue giaculatorie ideologiche in diretta? La stessa Lega che oggi si indigna e fa la voce grossa ieri fingeva di non vedere quel che tutti sapevano. Una vera forza politica legata al territorio avrebbe invece avuto il dovere della responsabilità: denunciare il pericolo, chiamare alla vigilanza, organizzare una difesa, una ripulsa popolare e un’azione di contromisura, visto che governava le tre grandi regioni del Nord, una moltitudine di città e guidava il Viminale.
Bisogna avere il coraggio di dire che la vera “infiltrazione” mafiosa è nella politica. I verbali delle intercettazioni telefoniche tra i boss calabresi arrestati per i voti comprati e venduti a Milano parlano chiaro. Le preferenze si pagano a tariffa (50 euro l’una), le mafie garantiscono quasi sempre il risultato e l’elezione del candidato sponsorizzato dal crimine diventa a questo punto un affare perpetuo, per tutti. La presenza mafiosa infatti non si esaurisce con la raccolta dei voti ma si trasforma in ricatto permanente, che mette il politico nelle mani dei clan, i quali pretendono di essere ricompensati con il denaro degli appalti pubblici. È lo stesso meccanismo delle varie P3 e P4 che abbiamo visto crescere e prosperare negli anni della decadenza attorno al potere declinante di un berlusconismo indebolito dai ricatti e dalle paure: debolezze crescenti, favori continui, personaggi pericolosi, ricatti permanenti e appalti richiesti, promessi, assegnati e goduti, con avide risate di felicità notturna quando il terremoto fa tremare L’Aquila.
Bisogna pur dire che il sistema Fiorito a Roma e l’asservimento mafioso dell’assessore Zambetti a Milano prosperano all’ombra del centro-destra, quasi che la decadenza di quel mondo avesse aperto le porte a qualsiasi abuso, dopo che gli anni della dismisura berlusconiana avevano abbassato la soglia della tolleranza e addormentato ogni capacità di reazione. Come ha detto l’ex ministro Galan, “volevamo fare la rivoluzione liberale, e siamo finiti con le teste di maiale”. Ma la sinistra sta ancora balbettando ogni volta che deve pronunciare il nome di Penati, di cui noi chiediamo dal primo giorno le dimissioni dal Consiglio regionale. E Di Pietro dovrebbe prima o poi spiegare alla sua gente quel tocco da Re Mida che gli fa scegliere ogni volta ladroni o voltagabbana da infilare sorridendo nelle sue liste.
Vent’anni fa il sistema politico si sentiva forte, prima di Tangentopoli, tanto da creare un meccanismo di mazzetta naturale e obbligatoria per un’imprenditorialità abituata comunque a essere gregaria e nient’affatto indipendente e libera. Oggi la situazione è molto più grave, se si possono fare classifiche di questo tipo. La politica indebolita è presa a schiaffi dalla criminalità che la possiede nelle sue parti più avide e più fragili, e mentre la domina la disprezza. Il disprezzo dei boss per i politici è la cosa che più colpisce nei verbali di Milano, è la vera cifra dell’epoca. I capiclan si raccontano la scena dell’assessore impaurito quando gli mostrano il “pizzino” del patto scellerato, “piangeva, per la miseria, si è cagato sotto, cagato totale”. Si trasmettono giudizi definitivi: “’sti politici di merda, piccoli e grandi, sono uno peggio dell’altro”. Si vantano: “Grazie a questi spiccioli è stato eletto, altrimenti sai quanto prendeva?”.
Minacciano: “Gli facciamo un culo così”. E infine si rassicurano: “Guarda, Zambetti ce l’abbiamo in pugno”.
Certamente il senso d’impunità seminato in questi anni, l’elogio continuo del malandrino, l’irrisione del moralismo e di ogni giudizio etico, l’attacco al principio di legalità, il sentimento dell’onnipotenza giustificato dall’esercizio del potere spiegano molte cose. Ma è soprattutto la perdita di autonomia della politica, l’indebolimento del suo significato e lo stravolgimento della sua natura (ridotta a pura infrastruttura per la raccolta del consenso prima, e poi per l’esercizio del comando) che ci hanno portati fin qui. In questo senso la democrazia formale è stata salvata, ma la sua sostanza è deperita sotto le sembianze apparentemente intatte. C’è dunque una politica che ha rinunciato a se stessa, diventando pura tecnica di un potere economicopolitico indifferenziato. Perché stupirsi se questa tecnica gregaria e autoriferita, svuotata di ogni valore, di ogni realtà autenticamente popolare, dunque di ogni controllo, finisca in mano a quell’altra gigantesca macchina di potere e di denaro che nel nostro Paese è la criminalità organizzata?
La nostra democrazia era corrosa dalle tangenti nel ’92, oggi è malata. C’è la possibilità di salvarla, prima di tutto evitando i giudizi sommari che impediscono di capire, dunque di distinguere, quindi di giudicare e infine di scegliere con il voto. La parola “casta” è uno degli inganni della fase in cui viviamo, perché annulla questa capacità di distinguere e di discernere, crea il fascio che tutto accomuna, disarmando il cittadino quando lo indigna a vuoto, perché gli fa credere che il cambiamento sia impossibile o peggio inutile, mentre lo rassicura facendolo sentire diverso e migliore.
Tocca invece a noi, cittadini e pubblica opinione, esercitare la fatica della coscienza e della consapevolezza, dunque della responsabilità, sporcandoci le mani. È stupefacente come un’opinione pubblica sedata non voglia oggi essere protagonista davanti a quel che accade: non con le monetine (che sono state poi raccolte da Bossi e Berlusconi), ma con l’indicazione di una disponibilità democratica al cambiamento, con la richiesta forte della vera riforma di cui il Paese ha bisogno, quella dell’onestà, della legalità, del rispetto non soltanto formale della Costituzione e della democrazia repubblicana. Partendo da Milano, dove Formigoni deve dimettersi per gli scandali altrui ma soprattutto per il proprio, incapace com’è di dire la verità ai cittadini sulle vacanze pagate da un faccendiere della sanità regionale.
Tocca poi al governo e alla parte più responsabile del Parlamento fare il resto. Non c’è tempo da perdere, e ci sono almeno tre urgenze: cambiando la vergogna del Porcellum, come si può pensare di riportare sulla scheda elettorale le preferenze, dopo lo spettacolo di Fiorito a Roma e di Zambetti a Milano? Cosa si aspetta a chiedere conto alle banche anche in Italia delle operazioni col denaro sporco, con l’evasione fiscale, col riciclaggio? Come si può infine pensare di varare una legge anticorruzione come chiedono milioni di cittadini (e trecentomila firme di “Repubblica”) scendendo a compromessi con una destra che punta a manipolare fattispecie di reati, pene e prescrizioni in vista di possibili utilizzi privati del suo Capo, con qualche resto per i Penati di turno?
La politica che vuole salvare se stessa ha l’occasione per farlo. Guai se venisse perduta. Oggi una riforma vera del sistema, in nome della legalità, non può trovare resistenze serie che abbiano il coraggio di manifestarsi alla luce del sole. Dunque si può: basta avere il coraggio di parlar chiaro al Paese, chiedendo il sostegno dell’Italia onesta.

La Repubblica 12.10.12

"Come difendere la democrazia malata", di Ezio Mauro

Ma dove viviamo? Ciò che vediamo a Milano, con l’evidenza dell’incredibile, non deve farci dimenticare il quadro d’insieme. In meno di un mese è saltato per aria il governo della Regione Lazio, affondato nell’abuso privato del denaro pubblico e nell’estetica esemplare di una politica ridotta a festa onnipotente ed esibizione impunita, la Finanza è entrata negli uffici regionali dell’Emilia e del Piemonte, un assessore della Lombardia è finito in carcere perché comprava i voti direttamente dalla ‘ndrangheta, una grande città come Reggio Calabria è stata commissariata perché i clan comandavano la cosa pubblica. Stiamo tornando al ‘92, vent’anni dopo, dicono tutti. In realtà, è molto peggio.
Siamo infatti davanti a un pervertimento della politica, divenuta per molti un mestiere, un sistema di collocamento ad alta rendita, dove spariscono valori, ideali, tradizioni e difesa di interessi legittimi, i quattro elementi che fanno muovere le bandiere di un partito e parlano ai cittadini, offrendo identità, testimonianza, partecipazione e rappresentanza. Qui si ruba per comandare e si comanda per rubare. La politica troppo spesso è ridotta a strumento del potere, meccanismo di supremazia, sistema di garanzia. Le istituzioni, invase e dominate in molte parti d’Italia da questa nuova classe di potentati famelici, diventano semplicemente il luogo fisico dove avviene questo scambio sotterraneo e continuo tra una politica disincarnata da ogni dignità e l’arricchimento dei singoli o delle loro bande. L’unico vero punto in comune con il ’92, è la perdita di efficienza della nostra macchina democratica, che gira a vuoto e non produce risultati proprio perché alimentata in troppe sue parti da una politica che ha obiettivi diversi dalla funzionalità istituzionale, e perché la corruzione alza i prezzi, uccide la concorrenza, sottrae risorse e mentre soffoca ogni autonomia estende il ricatto, la sottomissione e la paura. Siamo una democrazia pesantemente infiltrata e condizionata, abbiamo dovuto imparare a dubitare della selezione della nostra classe dirigente e oggi tocchiamo con mano che anche il giudizio supremo del popolo sovrano, attraverso il voto, rischia di non essere libero e trasparente, per l’infiltrazione dei clan mafiosi e il loro mercato delle preferenze.
Che tutto questo accada a Milano è per molti finalmente uno scandalo. Ma quando comincia e dove finisce questo scandalo? Davvero solo oggi veniamo a sapere che il Nord è infiltrato, quando soltanto negli ultimi due anni sono stati sciolti i Consigli comunali di Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia e Leinì? E non è uno scandalo retroattivo l’indignazione governativa della Lega e dei suoi alleati, un anno fa, quando Roberto Saviano denunciò la fine dell’innocenza mafiosa del Nord e la Rai si piegò ad una puntata di riparazione con il ministro dell’Interno Maroni che recitava le sue giaculatorie ideologiche in diretta? La stessa Lega che oggi si indigna e fa la voce grossa ieri fingeva di non vedere quel che tutti sapevano. Una vera forza politica legata al territorio avrebbe invece avuto il dovere della responsabilità: denunciare il pericolo, chiamare alla vigilanza, organizzare una difesa, una ripulsa popolare e un’azione di contromisura, visto che governava le tre grandi regioni del Nord, una moltitudine di città e guidava il Viminale.
Bisogna avere il coraggio di dire che la vera “infiltrazione” mafiosa è nella politica. I verbali delle intercettazioni telefoniche tra i boss calabresi arrestati per i voti comprati e venduti a Milano parlano chiaro. Le preferenze si pagano a tariffa (50 euro l’una), le mafie garantiscono quasi sempre il risultato e l’elezione del candidato sponsorizzato dal crimine diventa a questo punto un affare perpetuo, per tutti. La presenza mafiosa infatti non si esaurisce con la raccolta dei voti ma si trasforma in ricatto permanente, che mette il politico nelle mani dei clan, i quali pretendono di essere ricompensati con il denaro degli appalti pubblici. È lo stesso meccanismo delle varie P3 e P4 che abbiamo visto crescere e prosperare negli anni della decadenza attorno al potere declinante di un berlusconismo indebolito dai ricatti e dalle paure: debolezze crescenti, favori continui, personaggi pericolosi, ricatti permanenti e appalti richiesti, promessi, assegnati e goduti, con avide risate di felicità notturna quando il terremoto fa tremare L’Aquila.
Bisogna pur dire che il sistema Fiorito a Roma e l’asservimento mafioso dell’assessore Zambetti a Milano prosperano all’ombra del centro-destra, quasi che la decadenza di quel mondo avesse aperto le porte a qualsiasi abuso, dopo che gli anni della dismisura berlusconiana avevano abbassato la soglia della tolleranza e addormentato ogni capacità di reazione. Come ha detto l’ex ministro Galan, “volevamo fare la rivoluzione liberale, e siamo finiti con le teste di maiale”. Ma la sinistra sta ancora balbettando ogni volta che deve pronunciare il nome di Penati, di cui noi chiediamo dal primo giorno le dimissioni dal Consiglio regionale. E Di Pietro dovrebbe prima o poi spiegare alla sua gente quel tocco da Re Mida che gli fa scegliere ogni volta ladroni o voltagabbana da infilare sorridendo nelle sue liste.
Vent’anni fa il sistema politico si sentiva forte, prima di Tangentopoli, tanto da creare un meccanismo di mazzetta naturale e obbligatoria per un’imprenditorialità abituata comunque a essere gregaria e nient’affatto indipendente e libera. Oggi la situazione è molto più grave, se si possono fare classifiche di questo tipo. La politica indebolita è presa a schiaffi dalla criminalità che la possiede nelle sue parti più avide e più fragili, e mentre la domina la disprezza. Il disprezzo dei boss per i politici è la cosa che più colpisce nei verbali di Milano, è la vera cifra dell’epoca. I capiclan si raccontano la scena dell’assessore impaurito quando gli mostrano il “pizzino” del patto scellerato, “piangeva, per la miseria, si è cagato sotto, cagato totale”. Si trasmettono giudizi definitivi: “’sti politici di merda, piccoli e grandi, sono uno peggio dell’altro”. Si vantano: “Grazie a questi spiccioli è stato eletto, altrimenti sai quanto prendeva?”.
Minacciano: “Gli facciamo un culo così”. E infine si rassicurano: “Guarda, Zambetti ce l’abbiamo in pugno”.
Certamente il senso d’impunità seminato in questi anni, l’elogio continuo del malandrino, l’irrisione del moralismo e di ogni giudizio etico, l’attacco al principio di legalità, il sentimento dell’onnipotenza giustificato dall’esercizio del potere spiegano molte cose. Ma è soprattutto la perdita di autonomia della politica, l’indebolimento del suo significato e lo stravolgimento della sua natura (ridotta a pura infrastruttura per la raccolta del consenso prima, e poi per l’esercizio del comando) che ci hanno portati fin qui. In questo senso la democrazia formale è stata salvata, ma la sua sostanza è deperita sotto le sembianze apparentemente intatte. C’è dunque una politica che ha rinunciato a se stessa, diventando pura tecnica di un potere economicopolitico indifferenziato. Perché stupirsi se questa tecnica gregaria e autoriferita, svuotata di ogni valore, di ogni realtà autenticamente popolare, dunque di ogni controllo, finisca in mano a quell’altra gigantesca macchina di potere e di denaro che nel nostro Paese è la criminalità organizzata?
La nostra democrazia era corrosa dalle tangenti nel ’92, oggi è malata. C’è la possibilità di salvarla, prima di tutto evitando i giudizi sommari che impediscono di capire, dunque di distinguere, quindi di giudicare e infine di scegliere con il voto. La parola “casta” è uno degli inganni della fase in cui viviamo, perché annulla questa capacità di distinguere e di discernere, crea il fascio che tutto accomuna, disarmando il cittadino quando lo indigna a vuoto, perché gli fa credere che il cambiamento sia impossibile o peggio inutile, mentre lo rassicura facendolo sentire diverso e migliore.
Tocca invece a noi, cittadini e pubblica opinione, esercitare la fatica della coscienza e della consapevolezza, dunque della responsabilità, sporcandoci le mani. È stupefacente come un’opinione pubblica sedata non voglia oggi essere protagonista davanti a quel che accade: non con le monetine (che sono state poi raccolte da Bossi e Berlusconi), ma con l’indicazione di una disponibilità democratica al cambiamento, con la richiesta forte della vera riforma di cui il Paese ha bisogno, quella dell’onestà, della legalità, del rispetto non soltanto formale della Costituzione e della democrazia repubblicana. Partendo da Milano, dove Formigoni deve dimettersi per gli scandali altrui ma soprattutto per il proprio, incapace com’è di dire la verità ai cittadini sulle vacanze pagate da un faccendiere della sanità regionale.
Tocca poi al governo e alla parte più responsabile del Parlamento fare il resto. Non c’è tempo da perdere, e ci sono almeno tre urgenze: cambiando la vergogna del Porcellum, come si può pensare di riportare sulla scheda elettorale le preferenze, dopo lo spettacolo di Fiorito a Roma e di Zambetti a Milano? Cosa si aspetta a chiedere conto alle banche anche in Italia delle operazioni col denaro sporco, con l’evasione fiscale, col riciclaggio? Come si può infine pensare di varare una legge anticorruzione come chiedono milioni di cittadini (e trecentomila firme di “Repubblica”) scendendo a compromessi con una destra che punta a manipolare fattispecie di reati, pene e prescrizioni in vista di possibili utilizzi privati del suo Capo, con qualche resto per i Penati di turno?
La politica che vuole salvare se stessa ha l’occasione per farlo. Guai se venisse perduta. Oggi una riforma vera del sistema, in nome della legalità, non può trovare resistenze serie che abbiano il coraggio di manifestarsi alla luce del sole. Dunque si può: basta avere il coraggio di parlar chiaro al Paese, chiedendo il sostegno dell’Italia onesta.
La Repubblica 12.10.12