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«Primarie, troppe lacerazioni e polemiche Nichi e Matteo parlino delle loro idee», di Simone COllini

Le primarie devono portare «confronto tra idee, non lacerazioni interne», dice Dario Franceschini. E se si sbaglia l’impostazione di quella che di fatto è l’apertura della campagna elettorale, aggiunge il capogruppo del Pd alla Camera, la sfida ai gazebo può «far male» all’intero centrosinistra: «Renzi e Vendola capiscano che non è loro interesse infuocare la discussione con parole e temi di scontro».
Renzi attacca il gruppo dirigente del Pd, Vendola attacca Monti, e Bersani nel mezzo: onorevole Franceschini, non pensa che fosse prevedibile un confronto come quello in atto?
«Guardi, non mi stupisce che le primarie, essendo per loro natura competitive, portino a una rappresentazione più forte delle proprie posizioni, ad estremismi, e quindi capisco che Renzi da una parte e Vendola dall’altra abbiano scelto due linee molto facili come la rottamazione e la rottura con Monti. Ma in realtà questo apre un grande spazio a Bersani, che dà una risposta riformista ed equilibrata, come deve dare chi si propone di guidare il Paese».
Con un’alleanza Pd-Sel-Psi, ovvero le forze che partecipano alle primarie? «Le primarie le facciamo per scegliere il nostro candidato premier, ma questo non preclude che le alleanze possano poi essere più larghe». Vendola ha però detto che Sel non starà mai in un governo in cui ci sia anche l’Udc. E anche tra Casini e Renzi non sono mancate battute piuttosto cattive: se andasse dalla Merkel si metterebbe a ridere, ha detto il primo del secondo; quando ci andavano i suoi alleati piangevamo noi, gli ha risposto il sindaco. «C’è un momento nel quale tutti scompaiono e restano in campo solo i candidati. È allora nelle loro mani decidere se far diventare le primarie un momento utile, virtuoso, in cui pur nel confronto tra personalità e anche linee diverse ci si ricorda che tutti si candidano a guidare lo stesso campo alle elezioni politiche, e diventano così un grande avvio di campagna elettorale portando consensi. Oppure, se diventano un momento di lacerazione pubblica, possono farci male. Bersani ha già fatto la sua scelta, lavorando per primarie che siano un momento virtuoso. Ora anche Vendola e Renzi capiscano che non è loro interesse infuocare il confronto con parole e temi di scontro. Ognuno presenti le proprie idee, poi gli elettori decideranno chi far vincere».

Magari Renzi pensa sia suo interesse dire ogni volta che se vincesse lui finireb- be non il centrosinistra ma la carriera di D’Alema, non crede?

«È chiaro che Renzi ha deciso di cavalcare l’umore di antipolitica che purtroppo c’è con ragioni fondate nell’opinione pubblica italiana. Ma penso che chi si candida a guidare un Paese non debba seguire semplicemente gli umori. Io trovo che questi continui attacchi di Renzi a esponenti del suo partito e in particolare a D’Alema siano del tutto sbagliati e inaccettabili. Io stesso ho avuto momenti di contrasto politico con D’Alema, ma mi domando quale partito o Parlamento d’Europa si priverebbe dell’autorevolezza e delle competen-e di un uomo come lui soltanto per l’applicazione meccanica di una regola sul limite dei mandati».
Però il tema del rinnovamento si pone, o no?
«Assolutamente sì. Ma il ricambio non può essere legato soltanto al fattore anagrafico, dovrebbe invece essere vincolato alla qualità del lavoro svolto in Parlamento. Io come capogruppo uscente batterò i pugni sul tavolo del mio partito per pretendere che per le ricandidature e per le eventuali deroghe al limite dei 15 anni ci sia prima di tutto una valutazione dell’operato in questa legislatura e delle competenze».
Che dice delle regole delle primarie, sull’obbligo di iscrizione, sulla possibili- tà di votare al secondo turno soltanto se ci si è registrati entro il primo turno? «Le primarie devono essere le più aperte possibile ma anche avere meccanismi che evitino che elettori di destra, non che hanno cambiato idea ma che non hanno nessuna intenzio- ne di votarci alle prossime elezioni, possano venire a decidere chi debba essere il nostro candidato premier. L’Assemblea nazionale del Pd, sabato, ha dato mandato a Bersani di costruire un’intesa con le altre forze politiche che partecipano alle primarie. Qualsiasi sia la scelta, sul doppio turno, sull’albo e su ogni altro dettaglio, quanto sottoscritto da Bersani io lo sosterrò. E spero che nessuno nel Pd voglia poi aprire polemiche a posteriori».
E sul testo base sulla legge elettorale votato al Senato, qual è il suo giudizio? «Il premio di maggioranza assegnato alla coalizione anziché al primo partito mi pare già qualcosa, ma è comun- que insufficiente».
Perché?
«Perché è legittimo che qualcuno pensi al Monti bis, ma è assurdo e inaccettabile immaginare di avere una legge elettorale che abbia come conseguenza certa l’ingovernabilità, che faccia in modo che nessuno abbia la maggioranza solo per rendere obbligatoria la permanenza di Monti». Quel testo prevede anche le preferenze per la scelta dei parlamentari: cosa farà il Pd? «Prevedere le preferenze per Came- ra e Senato lo trovo un atto di incoscienza collettiva. Si è già visto proprio in questi giorni, penso al Lazio e alla Lombardia, le conseguenze, prima e dopo, di un sistema che comporta costi enormi per le campagne elettorali e rischi di inquinamento di ogni tipo. E alle Regioni le circoscrizioni sono grandi al massimo come una Provincia. Pensiamo a circoscrizioni grandi come un’intera Regione: quanto costerà una campagna elettorale? E come troveranno i candidati le risorse? Molto meglio e più traspa- rente la strada di piccoli collegi uninominali. E su questo dobbiamo fare una battaglia».
Quella proposta di legge è stata votata anche dall’Udc: non è preoccupante per una forza come il Pd che punta a un patto di legislatura con il partito di Casini? «Quello votato è un testo base, un timido inizio, non enfatizzerei. Dopodiché è evidente che la legge elettorale non si può fare a colpi di maggioranza. Soprattutto tra forze politiche che sostengono lo stesso governo».

l’Unità 12.10.12

La riforma degli enti di ricerca, «non si fa in dieci minuti», di Ro.Ci.

Dodici enti di ricerca vigilati dal Ministero dell’Istruzione e dell’Università verranno accorpati al Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). L’Agenzia spaziale, gli istituti di astrofisica e vulcanologia, solo per citare i più grandi, confluiranno in una maxi-struttura alla quale verrebbe affiancato da un’agenzia del trasferimento tecnologico e un’altra del finanziamento della ricerca. Questa rivoluzione sarebbe contenuta nella legge di stabilità e sta mettendo provocando reazioni durissime. Il progetto è stato definito «delirante» dalla Flc-Cgil. Ieri mattina i presidenti degli enti interessati hanno chiesto spiegazioni a Profumo in una riunione straordinaria. «Non ho capito in cosa consista questa riforma – afferma Fernando Ferroni, presidente dell’Istituto di Fisica Nucleare (Infn) – il Ministro non ha presentato un documento scritto che ci permetta di fare valutazioni più precise. Mi piacerebbe leggerlo. Questo paese avrebbe bisogno di tanti progetti di riforma da discutere con calma. Quest’ansia di fare riforme in dieci minuti mi turba».
Nell’incontro il ministro ha forse delineato meglio il progetto?
No. Sostiene che la riforma renderà più competitiva la ricerca italiana sul mercato europeo. Ma è il come che non si è capito. Quello che è certo è che l’Italia è strutturalmente debole. Ma non credo che si possa risolvere questa debolezza con una riforma rapida. Bisognerebbe stabilire un percorso condiviso con gli operatori della ricerca. In questo modo si rischia di paralizzarlo a lungo termine.Il processo non sarà indolore
Lei è pronto a smantellare l’ente che presiede?
Non ritengo utile rinunciare all’Infn che avrà tutti i difetti del mondo, ma credo che si comporti piuttosto bene sul mercato internazionale e si è conquistato una certa fama. Siamo certamente disposti a mettere in comune le nostre buone pratiche, ma non mi pare che il metodo più efficiente sia quello accorpare tutto in un ente unico.
Per quale ragione, da anni, tutti i ministri cercano di riformare la ricerca?
È incontestabile che il sistema sia farraginoso, iperburocratico, di difficile gestione. La riforma Ruberti di 23 anni fa ha messo l’università in una condizione migliore, riconoscendole una qualche forma di autonomia. Gli enti di ricerca sono invece paralizzati in una gabbia e, forse, per questa scarsa elasticità non hanno fatto sistema rispetto al nuovo meccanismo dei fondi europei della ricerca.
Di chi è la responsabilità di questo stallo?
Devono essere distribuite tra il ministero che non ha colto le potenzialità di questo mercato e gli enti di ricerca che sono stati pigri. Non ci sono motivazioni per rifutare di migliorare il sistema e su questo il ministero ha ragione. L’Italia manda i soldi a bruxelles, ma poi non ne riprende altrettanti. Il problema è che non abbiamo sviluppato un modello alternativo. Magari Profumo l’ha disegnato, ma non l’ha mostrato a nessuno.

Il Manifesto 12.10.12

"Cento cortei, la scuola torna in piazza", di Mario Castagna

Tornano in piazza gli studenti e questa volta lo faranno insieme ai docenti della Flc Cgil. Oggi saranno più di 90 i cortei che attraverseranno le piazze di piccole e grandi città italiane. Pioggia permettendo, gli organizzatori delle varie manifestazioni, in alcuni casi il sindacato ma in tanti altri gruppi spontanei di ragazzi che hanno aderito alla mobilitazione, si aspettano una grossa partecipazione dal momento che dai circa 50 cortei iniziali si è arrivati quasi a 100. L’idea di questo corteo è partita dagli studenti, sono stati poi gli insegnanti ad aderire, in una inedita alleanza al di qua e al di la della cattedra.
DOPO GLI SCONTRI
Dopo le scene della scorsa settimana, quando in diverse città italiane molti cortei si sono chiusi con i disordini, questa volta gli studenti sperano che al centro dell’attenzione ci siano le loro rivendicazioni vecchie e nuove. In cima alla lista dei desiderata sicuramente maggiori fondi per il diritto allo studio e per l’edilizia scolastica ma ha un posto centrale anche il contrasto alla legge Aprea che è passata da poco alla Camera e che arriva la prossima settimana al Senato. «La legge Aprea avvia un vero e proprio passo indietro per quel che riguarda la democrazia nelle scuole ci dice Roberto Campanelli portavoce dell’Unione degli Studenti non si garantisce più nessun diritto, da quello di assemblea a quello della presenza dei rappresentanti di classe. Dopo le proteste di questi mesi ci aspettiamo che il governo prenda posizione su quel provvedimento. È d’accordo o non è d’accordo? Sembra che nessuno, tranne Valentina Aprea, voglia metterci la faccia». Ma a scendere in piazza saranno tutte le sigle dell’universo studentesco, dalla Federazione degli Studenti, vicina ai Giovani Democratici fino ad arrivare naturalmente all’organizzazione figlia della Cgil, la Rete degli Studenti Medi. Dario Costantino, portavoce di Fds, ci racconta che anche la sua organizzazione sarà in piazza oggi, seppur il governo sia oggi sostenuto anche dal Partito Democratico: «Noi saremo in piazza soprattutto per ridare centralità alla scuola e al sapere. Oggi la crisi solleva le contraddizioni più evidenti dell’economia di carta: siamo la nazione con il più alto tasso di dispersione scolastica, il più basso numero di laureati e di contro la più alta disoccupazione giovanile nel sistema produttivo meno innovativo d’Europa». Saranno in piazza per dire con forza, come recita il volantino che distribuiranno nei cortei, che l’Italia di domani deve ripartire col sapere di oggi. Grande sarà anche la partecipazione dei docenti, soprattutto dopo le misure previste dalla manovra correttiva del governo che annuncia nuovi tagli per la scuola già martoriata dalle politiche degli ultimi anni. Le cifre sono imponenti (182,9 milioni di euro nel 2013, 172,7 nel 2014 e 225,5 nel 2015) e saranno tutte a carico dei docenti precari chiamati oggi a fare le supplenze che saranno sostituiti dai docenti di ruolo. Infatti agli insegnanti di ruolo verrà chiesto di portare il proprio orario settimanale da 18 a 24 ore di lezione. Le ore in più però non verranno utilizzate per ampliare l’offerta formativa, con laboratori, corsi di recupero o progetti speciali, ma per evitare di chiamare i precari per le supplenze. Un risparmio tutto sulle spalle degli insegnanti precari che vedranno ridotte le possibilità di essere chiamati in cattedra. GLI INSEGNANTI Sono circa 30.000 i posti di lavoro che si perderanno (più del doppio di quanto messo a bando con il concorso per gli insegnanti appena pubblicato) e molti precari si troveranno per strada. Il ministro Profumo ha chiamato questo meccanismo «il bastone e la carota», un infelice frase che ha scatenato le ire di tanti insegnanti, dichiarando che non ci saranno tagli ma solo un «contributo di solidarietà». A rispondere al ministro non sono solo i docenti ma anche Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera, che ha rimproverato al ministro l’uso di una frase inadatta: «Non si può giocare con le parole, quando queste nascondono concetti dolorosi» ha dichiarato la deputata democratica. Ma sono in tanti nel Partito Democratico ha dichiarare al ministro che non accetteranno nuovi sacrifici. Il settore in effetti ha sofferto molto negli ultimi anni a causa dei tagli imposti dal duo Gelmini-Tremonti ed il nuovo governo sembra continuare la stessa politica. Il bastone e la carota animeranno sicuramente le piazze di questa mattina e scateneranno la fantasia degli studenti. I più creativi hanno già annunciato che, se i bastoni li terranno a casa, le carote invece fa ranno parte del menù della giornata. E nel minestrone delle proteste, tra lo stop ai tagli, le rivendicazioni sul diritto allo studio e la richiesta di un nuovo corso per la scuola italiana, gli studenti ed i docenti che scendono in piazza sperano finalmente di non doversi accontentare come sempre, della solita minestra.

L’Unità 12.10.12

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“La stagione degli scioperi. Oggi cominciano i prof”, di FLAVIA AMABILE

Che sarebbe stato un autunno caldo si sapeva ma le novità in arrivo lo rendono ancora più difficile. I più arrabbiati sono i lavoratori di scuola, trasporti e sanità. Ieri al ministero dell’Istruzione è fallito un tentativo di trovare un’intesa sugli scatti degli stipendi bloccati nonostante le promesse del governo.
In realtà 300 milioni accantonati per gli scatti sono stati spesi quest’anno per garantire gli insegnanti di sostegno. E quindi lunedì Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e Gilda Fgu decideranno una data per un nuovo sciopero.

Intanto già stamane non faranno lezione i prof che aderiscono alla Flc-Cgil per protestare contro i tagli all’istruzione e, in particolare, contro le ultime misure inserite nella legge di stabilità che prevedono un aumento da 18 a 24 ore settimanali per chi insegna alle medie e alle superiori. In quelle 6 ore in più i docenti dovranno rimanere negli istituti per attività che potranno essere di approfondimento oppure anche di appoggio ad altri in caso di assenze. È previsto anche un aumento delle ferie, quindici giorni in più, passerebbero cioè da 30 a 45 giorni, ma si tratta, comunque, di una rivoluzione senza alcun tipo di aumento di stipendio che né i professori né tantomeno i sindacati intendono accettare. Secondo i calcoli della Flc-Cgil si tratterà di un taglio di 30 mila posti di supplenze mentre il Miur ha calcolato che saranno un terzo, circa 10mila.

Da parte sua il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha scelto l’opzione meno onerosa. Sul tavolo del consiglio dei ministri si è partiti da tagli per un miliardo comprese le retribuzioni. Adesso il ministero del Tesoro intende ottenere un risparmio di almeno 180 milioni alla voce istruzione entro il 2013. La legge di stabilità da lunedì sarà alle Camere. Modifiche sono ancora possibili.

In subbuglio anche dal mondo della ricerca. È in arrivo un accorpamento dei dodici enti di ricerca. Al ministero stanno lavorando ad un modello con un centro nazionale e due agenzie, una per il trasferimento tecnologico e l’altra per i finanziamenti alla ricerca. Il ministro ha in mente l’Istituto Weizmann, che permette ad Israele di avere nella scienza e nella tecnologia una delle principali fonti di reddito dell’economia.

La riforma dovrebbe permettere agli enti di mantenere la loro identità perdendo presidente e consigli di amministrazione. Si sta anche facendo il possibile per salvare tutti i ricercatori che quindi non sarebbero toccati dalla razionalizzazione. Saranno solo assimilati agli universitari e quindi dovranno anch’essi essere sottoposti ad un’abilitazione.

Molto malumore anche nel mondo dei trasporti. A nulla è servito lo sciopero del 2 ottobre, il rinnovo del contratto – atteso dal 2007 – è ancora in alto mare. È stata decisa una nuova data, il 16 novembre, per una protesta di 24 ore che sarebbe anche priva di fasce di garanzia. Scioperano da sabato a domenica notte i ferrovieri dell’Usb per protestare contro le nuove condizioni di lavoro presenti nel Contratto nazionale. Il 26 ottobre sarà il personale Alitalia e quello degli scali milanesi ad incrociare le braccia. Il 27 ottobre medici e dirigenti sanitari protestano contro le misure inserite nella legge di stabilità. Il 6 novembre tocca agli assistenti di volo di Meridiana, il 16 bus e tram e infine il 19 il personale di Malpensa e Linate.

La Stampa 12.10.12

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“Scuola in rivolta contro i tagli. «No allo scambio orario-ferie»”, di BARBARA CORRAO

La scuola è in rivolta. E la miccia che ha innescato l’esplosione, pacifica, verbale ma molto accesa, è il nuovo disegno di legge di stabilità approvato a notte fonda dal consiglio dei ministri di martedì scorso. Orario settimanale di 6 ore in più ma anche 15 giorni in più di ferie. E il rischio di massicci esuberi tra i precari: 30.000 cattedre in meno secondo la Cgil, meno di 10.000 secondo il ministero dell’istruzione (Miur), circa 6.500 ipotizzate dal segretario del Pd Pierluigi Bersani. E lo sciopero nazionale, programmato dalla Cgil scuola già da tempo per oggi, si trasforma in uno sciopero contro la legge di stabilità.
La questione si può riassumere così: dal settembre 2013 i docenti della scuola secondaria e superiore (inclusi gli insegnanti di sostegno) avranno un orario settimanale di 24 ore e non più di 18, allineandosi all’orario già applicato agli insegnati delle elementari. Contemporaneamente, il periodo di ferie retribuito e legalmente riconosciuto passa da 30 a 45 giorni l’anno. Quindici giorni in più da utilizzare nei periodi «di sospensione delle lezioni definiti dai calendari scolastici è scritto nel testo uscito dal consiglio dei ministri, ancora oggetto di valutazione ad esclusione di quelli destinati agli scrutini, agli esami si Stato e alle attività valutative». Nel resto dell’anno, si potrà andare in ferie ma per «non più di sei giornate lavorative» subordinate alla possibilità di sostituzione, ma senza oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche.
Queste le novità sulla carta. Cgil, Cisl, Uil, Gilda, Snals hanno annunciato uno sciopero (sarà indetto lunedì) che riguarderà anche l’annosa questione degli scatti di anzianità e si somma alla protesta nazionale decisa già da tempo dalla Flc Cgil, alla quale hanno aderito, a Roma (con corteo da piazza della Repubblica a Santi Apostoli), anche l’Unione studenti e l’Arci. Il sindacato non accetta lo scambio ferie-ore lavorative in deroga ai contratti nazionali di lavoro e senza una contropartita economica. E mentre da Pd arriva lo stop di Bindi , il Gilda parla di «atto d’imperio» del Miur, la Uil di «impazzimento», lo Snals-Confsal di «ipotesi folle». La Cisl attacca le «improvvide esternazioni del ministro».E Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, tira fuori le prime stime: «Il saldo in termini di perdita di posti è di -25.000 cattedre per i posti comuni e -4.000 se la norma venisse estesa al sostegno degli alunni con disabilità. In termini economici è un intervento di oltre 1 miliardo. Una barbarie».
Insomma, un’escalation di toni e di proteste. «Il Paese non deve lavorare sul gossip, sulle ore di lavoro degli insegnanti non c’è ancora nulla», aveva affermato il ministro Profumo in mattinata. Trentamila precari in meno? «E’ una cifra che non ha fondamento. I precari non chiamati nel 2013-2014 potrebbero essere un terzo di quelli indicati», rispondono a Viale Trastevere. E le risorse da recuperare sarebbero inferiori a 200 milioni. Mentre si lavora ancora al testo definitivo, nelle stanze del Miur si invita ad «evitare allarmismi inutili. La situazione del Paese è grave, nessuno ha piacere a mettere le mani in tasca ai cittadini né metterebbe in campo interventi così dolorosi se non fosse reso necessario da una situazione oggettivamente difficile». La discussione, è la conclusione, si potrà fare in Parlamento.
La questione dunque si gioca sulla necessità di cercare soluzioni che non siano solo dei tagli ma consentano anche di riformare e rinnovare la scuola e di riorganizzarla secondo modelli più vicini a quelli europei. Di tre opzioni sul tappeto, quella in ballo risulta essere «la meno punitiva» considerato che gli insegnanti, per effetto della chiusura estiva delle scuole, possono contare di fatto su due mesi di ferie teoriche (potrebbero essere richiamati, ma non avrebbe senso farlo in agosto) Di qui la richiesta di bilanciare le ferie con più lavoro.

Il Messaggero 12.10.12

"Cento cortei, la scuola torna in piazza", di Mario Castagna

Tornano in piazza gli studenti e questa volta lo faranno insieme ai docenti della Flc Cgil. Oggi saranno più di 90 i cortei che attraverseranno le piazze di piccole e grandi città italiane. Pioggia permettendo, gli organizzatori delle varie manifestazioni, in alcuni casi il sindacato ma in tanti altri gruppi spontanei di ragazzi che hanno aderito alla mobilitazione, si aspettano una grossa partecipazione dal momento che dai circa 50 cortei iniziali si è arrivati quasi a 100. L’idea di questo corteo è partita dagli studenti, sono stati poi gli insegnanti ad aderire, in una inedita alleanza al di qua e al di la della cattedra.
DOPO GLI SCONTRI
Dopo le scene della scorsa settimana, quando in diverse città italiane molti cortei si sono chiusi con i disordini, questa volta gli studenti sperano che al centro dell’attenzione ci siano le loro rivendicazioni vecchie e nuove. In cima alla lista dei desiderata sicuramente maggiori fondi per il diritto allo studio e per l’edilizia scolastica ma ha un posto centrale anche il contrasto alla legge Aprea che è passata da poco alla Camera e che arriva la prossima settimana al Senato. «La legge Aprea avvia un vero e proprio passo indietro per quel che riguarda la democrazia nelle scuole ci dice Roberto Campanelli portavoce dell’Unione degli Studenti non si garantisce più nessun diritto, da quello di assemblea a quello della presenza dei rappresentanti di classe. Dopo le proteste di questi mesi ci aspettiamo che il governo prenda posizione su quel provvedimento. È d’accordo o non è d’accordo? Sembra che nessuno, tranne Valentina Aprea, voglia metterci la faccia». Ma a scendere in piazza saranno tutte le sigle dell’universo studentesco, dalla Federazione degli Studenti, vicina ai Giovani Democratici fino ad arrivare naturalmente all’organizzazione figlia della Cgil, la Rete degli Studenti Medi. Dario Costantino, portavoce di Fds, ci racconta che anche la sua organizzazione sarà in piazza oggi, seppur il governo sia oggi sostenuto anche dal Partito Democratico: «Noi saremo in piazza soprattutto per ridare centralità alla scuola e al sapere. Oggi la crisi solleva le contraddizioni più evidenti dell’economia di carta: siamo la nazione con il più alto tasso di dispersione scolastica, il più basso numero di laureati e di contro la più alta disoccupazione giovanile nel sistema produttivo meno innovativo d’Europa». Saranno in piazza per dire con forza, come recita il volantino che distribuiranno nei cortei, che l’Italia di domani deve ripartire col sapere di oggi. Grande sarà anche la partecipazione dei docenti, soprattutto dopo le misure previste dalla manovra correttiva del governo che annuncia nuovi tagli per la scuola già martoriata dalle politiche degli ultimi anni. Le cifre sono imponenti (182,9 milioni di euro nel 2013, 172,7 nel 2014 e 225,5 nel 2015) e saranno tutte a carico dei docenti precari chiamati oggi a fare le supplenze che saranno sostituiti dai docenti di ruolo. Infatti agli insegnanti di ruolo verrà chiesto di portare il proprio orario settimanale da 18 a 24 ore di lezione. Le ore in più però non verranno utilizzate per ampliare l’offerta formativa, con laboratori, corsi di recupero o progetti speciali, ma per evitare di chiamare i precari per le supplenze. Un risparmio tutto sulle spalle degli insegnanti precari che vedranno ridotte le possibilità di essere chiamati in cattedra. GLI INSEGNANTI Sono circa 30.000 i posti di lavoro che si perderanno (più del doppio di quanto messo a bando con il concorso per gli insegnanti appena pubblicato) e molti precari si troveranno per strada. Il ministro Profumo ha chiamato questo meccanismo «il bastone e la carota», un infelice frase che ha scatenato le ire di tanti insegnanti, dichiarando che non ci saranno tagli ma solo un «contributo di solidarietà». A rispondere al ministro non sono solo i docenti ma anche Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera, che ha rimproverato al ministro l’uso di una frase inadatta: «Non si può giocare con le parole, quando queste nascondono concetti dolorosi» ha dichiarato la deputata democratica. Ma sono in tanti nel Partito Democratico ha dichiarare al ministro che non accetteranno nuovi sacrifici. Il settore in effetti ha sofferto molto negli ultimi anni a causa dei tagli imposti dal duo Gelmini-Tremonti ed il nuovo governo sembra continuare la stessa politica. Il bastone e la carota animeranno sicuramente le piazze di questa mattina e scateneranno la fantasia degli studenti. I più creativi hanno già annunciato che, se i bastoni li terranno a casa, le carote invece fa ranno parte del menù della giornata. E nel minestrone delle proteste, tra lo stop ai tagli, le rivendicazioni sul diritto allo studio e la richiesta di un nuovo corso per la scuola italiana, gli studenti ed i docenti che scendono in piazza sperano finalmente di non doversi accontentare come sempre, della solita minestra.
L’Unità 12.10.12
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“La stagione degli scioperi. Oggi cominciano i prof”, di FLAVIA AMABILE
Che sarebbe stato un autunno caldo si sapeva ma le novità in arrivo lo rendono ancora più difficile. I più arrabbiati sono i lavoratori di scuola, trasporti e sanità. Ieri al ministero dell’Istruzione è fallito un tentativo di trovare un’intesa sugli scatti degli stipendi bloccati nonostante le promesse del governo.
In realtà 300 milioni accantonati per gli scatti sono stati spesi quest’anno per garantire gli insegnanti di sostegno. E quindi lunedì Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e Gilda Fgu decideranno una data per un nuovo sciopero.
Intanto già stamane non faranno lezione i prof che aderiscono alla Flc-Cgil per protestare contro i tagli all’istruzione e, in particolare, contro le ultime misure inserite nella legge di stabilità che prevedono un aumento da 18 a 24 ore settimanali per chi insegna alle medie e alle superiori. In quelle 6 ore in più i docenti dovranno rimanere negli istituti per attività che potranno essere di approfondimento oppure anche di appoggio ad altri in caso di assenze. È previsto anche un aumento delle ferie, quindici giorni in più, passerebbero cioè da 30 a 45 giorni, ma si tratta, comunque, di una rivoluzione senza alcun tipo di aumento di stipendio che né i professori né tantomeno i sindacati intendono accettare. Secondo i calcoli della Flc-Cgil si tratterà di un taglio di 30 mila posti di supplenze mentre il Miur ha calcolato che saranno un terzo, circa 10mila.
Da parte sua il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha scelto l’opzione meno onerosa. Sul tavolo del consiglio dei ministri si è partiti da tagli per un miliardo comprese le retribuzioni. Adesso il ministero del Tesoro intende ottenere un risparmio di almeno 180 milioni alla voce istruzione entro il 2013. La legge di stabilità da lunedì sarà alle Camere. Modifiche sono ancora possibili.
In subbuglio anche dal mondo della ricerca. È in arrivo un accorpamento dei dodici enti di ricerca. Al ministero stanno lavorando ad un modello con un centro nazionale e due agenzie, una per il trasferimento tecnologico e l’altra per i finanziamenti alla ricerca. Il ministro ha in mente l’Istituto Weizmann, che permette ad Israele di avere nella scienza e nella tecnologia una delle principali fonti di reddito dell’economia.
La riforma dovrebbe permettere agli enti di mantenere la loro identità perdendo presidente e consigli di amministrazione. Si sta anche facendo il possibile per salvare tutti i ricercatori che quindi non sarebbero toccati dalla razionalizzazione. Saranno solo assimilati agli universitari e quindi dovranno anch’essi essere sottoposti ad un’abilitazione.
Molto malumore anche nel mondo dei trasporti. A nulla è servito lo sciopero del 2 ottobre, il rinnovo del contratto – atteso dal 2007 – è ancora in alto mare. È stata decisa una nuova data, il 16 novembre, per una protesta di 24 ore che sarebbe anche priva di fasce di garanzia. Scioperano da sabato a domenica notte i ferrovieri dell’Usb per protestare contro le nuove condizioni di lavoro presenti nel Contratto nazionale. Il 26 ottobre sarà il personale Alitalia e quello degli scali milanesi ad incrociare le braccia. Il 27 ottobre medici e dirigenti sanitari protestano contro le misure inserite nella legge di stabilità. Il 6 novembre tocca agli assistenti di volo di Meridiana, il 16 bus e tram e infine il 19 il personale di Malpensa e Linate.
La Stampa 12.10.12
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“Scuola in rivolta contro i tagli. «No allo scambio orario-ferie»”, di BARBARA CORRAO
La scuola è in rivolta. E la miccia che ha innescato l’esplosione, pacifica, verbale ma molto accesa, è il nuovo disegno di legge di stabilità approvato a notte fonda dal consiglio dei ministri di martedì scorso. Orario settimanale di 6 ore in più ma anche 15 giorni in più di ferie. E il rischio di massicci esuberi tra i precari: 30.000 cattedre in meno secondo la Cgil, meno di 10.000 secondo il ministero dell’istruzione (Miur), circa 6.500 ipotizzate dal segretario del Pd Pierluigi Bersani. E lo sciopero nazionale, programmato dalla Cgil scuola già da tempo per oggi, si trasforma in uno sciopero contro la legge di stabilità.
La questione si può riassumere così: dal settembre 2013 i docenti della scuola secondaria e superiore (inclusi gli insegnanti di sostegno) avranno un orario settimanale di 24 ore e non più di 18, allineandosi all’orario già applicato agli insegnati delle elementari. Contemporaneamente, il periodo di ferie retribuito e legalmente riconosciuto passa da 30 a 45 giorni l’anno. Quindici giorni in più da utilizzare nei periodi «di sospensione delle lezioni definiti dai calendari scolastici è scritto nel testo uscito dal consiglio dei ministri, ancora oggetto di valutazione ad esclusione di quelli destinati agli scrutini, agli esami si Stato e alle attività valutative». Nel resto dell’anno, si potrà andare in ferie ma per «non più di sei giornate lavorative» subordinate alla possibilità di sostituzione, ma senza oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche.
Queste le novità sulla carta. Cgil, Cisl, Uil, Gilda, Snals hanno annunciato uno sciopero (sarà indetto lunedì) che riguarderà anche l’annosa questione degli scatti di anzianità e si somma alla protesta nazionale decisa già da tempo dalla Flc Cgil, alla quale hanno aderito, a Roma (con corteo da piazza della Repubblica a Santi Apostoli), anche l’Unione studenti e l’Arci. Il sindacato non accetta lo scambio ferie-ore lavorative in deroga ai contratti nazionali di lavoro e senza una contropartita economica. E mentre da Pd arriva lo stop di Bindi , il Gilda parla di «atto d’imperio» del Miur, la Uil di «impazzimento», lo Snals-Confsal di «ipotesi folle». La Cisl attacca le «improvvide esternazioni del ministro».E Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil, tira fuori le prime stime: «Il saldo in termini di perdita di posti è di -25.000 cattedre per i posti comuni e -4.000 se la norma venisse estesa al sostegno degli alunni con disabilità. In termini economici è un intervento di oltre 1 miliardo. Una barbarie».
Insomma, un’escalation di toni e di proteste. «Il Paese non deve lavorare sul gossip, sulle ore di lavoro degli insegnanti non c’è ancora nulla», aveva affermato il ministro Profumo in mattinata. Trentamila precari in meno? «E’ una cifra che non ha fondamento. I precari non chiamati nel 2013-2014 potrebbero essere un terzo di quelli indicati», rispondono a Viale Trastevere. E le risorse da recuperare sarebbero inferiori a 200 milioni. Mentre si lavora ancora al testo definitivo, nelle stanze del Miur si invita ad «evitare allarmismi inutili. La situazione del Paese è grave, nessuno ha piacere a mettere le mani in tasca ai cittadini né metterebbe in campo interventi così dolorosi se non fosse reso necessario da una situazione oggettivamente difficile». La discussione, è la conclusione, si potrà fare in Parlamento.
La questione dunque si gioca sulla necessità di cercare soluzioni che non siano solo dei tagli ma consentano anche di riformare e rinnovare la scuola e di riorganizzarla secondo modelli più vicini a quelli europei. Di tre opzioni sul tappeto, quella in ballo risulta essere «la meno punitiva» considerato che gli insegnanti, per effetto della chiusura estiva delle scuole, possono contare di fatto su due mesi di ferie teoriche (potrebbero essere richiamati, ma non avrebbe senso farlo in agosto) Di qui la richiesta di bilanciare le ferie con più lavoro.
Il Messaggero 12.10.12

"Un mondo di cattivi", di Adriano Sofri

Poveri parenti, poveri giudici, poveri esperti, poveri poliziotti. Già: e il bambino? Prendiamo il fotogramma in cui viene trascinato (vi ricordate le due madri e il giudizio di Salomone?). Ci sono quattro persone, maschi, tre sollevano di peso e trascinano: il padre, lo psichiatra, e il poliziotto. Il quarto è lui, Lorenzo. Ha dieci anni. Un bambino di dieci anni ha tre svantaggi enormi nei confronti dei grandi: è più intelligente, è più sensibile, è molto più debole. Può reagire (“in modo violento”, ha detto il dirigente della questura, “a testate, calci, pugni”): anche un capretto portato via può scalciare e belare e mordere. È vero, bisogna usare molta cautela, molta discrezione quando si è tentati di giudicare una famiglia andata in pezzi. Ma molta più occorre usarne quando si afferra un bambino che non vuole. Si legge che i giudici della Corte d’Appello avevano prescritto di farlo in modi discreti, poveri giudici. Si sente il padre che dice che la cosa è avvenuta “con le modalità che la situazione richiedeva”, che il bambino “ora è sereno”. Dice quel disgraziato padre: se un bambino fosse stato sequestrato e la polizia lo liberasse dai rapitori, non dovrebbe farlo anche al prezzo di una colluttazione? Dovrebbe, sì, ma tutte le sindromi di Stoccolma non bastano a far immaginare un bambino rapito che corre a nascondersi quando vengono a liberarlo, e prende i liberatori a testate calci e pugni. Bisogna saperne di più, e giudicare è una tentazione terribile: a meno di essere Salomone, e di avere di fronte almeno una parte che vuole il bene del bambino più del bene che vuole al bambino. Qualcosa si è saputo: una prima sentenza aveva affidato Lorenzo alla madre, e la nuova sentenza si fonda su una supposta sindrome di alienazione parentale, formula cento volte più infida della sindrome di Stoccolma. Dunque non c’era un’urgenza tragica, abusi domestici, sfruttamento, botte. Da otto anni Lorenzo vive con la madre. Sono andati a prenderlo nella classe – modalità: svuotamento della classe da tutti i bambini tranne uno, e quando sono usciti tutti (ridevano? avevano paura? si sono voltati a guardarlo?) suo padre “l’ha abbracciato”. Povero padre. Mentre l’aula si svuotava il solo che restava si sarà chiesto che cosa gli avrebbero fatto; da come ha reagito occorre pensare che essere abbracciato lì, in quel modo, in quel momento, gli sembrasse una bruttissima cosa. Dunque è stato “inevitabile” che lo prelevassero di forza. Un bambino tolto alla casa, alla scuola, al suo banco – quali posti sono più protetti per una persona di dieci anni? – per essere portato “in una struttura protetta”, in “una comunità”. Spiegano: siccome il bambino quando lo cercavamo a casa “si nascondeva” – come un capretto – abbiamo dovuto, su ordine dei giudici, prelevarlo “in territorio neutro”. Aggrappato al suo banco, nella sua classe. Che cattivi ricordi evoca tutto ciò, non si ha nemmeno il coraggio di nominarli. “Ha cominciato a scappare attorno alla scuola e altri agenti lo hanno rincorso”. Quanti agenti erano stati mobilitati per l’impresa? La divisione anticrimine! Poveri agenti. E a nessuno di loro è venuto in mente di abbracciare il padre, discretamente, e telefonare al giudice, che non era possibile fare quello per cui erano stati mandati, e che si vergognavano troppo di continuare a rincorrere un primo della classe spaventato e furioso? “Non dovevamo farlo noi”, ha detto il dirigente anticrimine. Ha detto anche: “Non so che filmato abbiate visto voi. Nel nostro non c’è nessun trascinamento”. Povero dirigente: chi l’ha visto? Era un ordine dal quale non si poteva tornare indietro? Eppure tutte le ordinanze sulla patria potestà (è vero che tradizionalmente si privilegiano le madri, ma la potestà è rimasta patriarcale) hanno a fondamento “l’esclusivo interesse del bambino”. Era per il tuo bene, Lorenzo, che ti abbiamo acchiappato e strattonato, per il tuo esclusivo bene: al diavolo tutti gli altri. I nonni, poveri nonni, “si sono avventati sugli agenti”. La madre non c’era, era al lavoro. La zia ha filmato la scena, e intanto gridava: “Bastardi” – e Lorenzo ripeteva: “Bastardi” – e “Siete come la Gestapo” – questo Lorenzo non l’ha ripetuto, non doveva essergli famigliare. “La zia era lì per filmare”, dice qualche commento diffidente: ma no, ormai tutto si filma, e gran parte del filmato riprende piedi e cose mosse e strilli, “Aiutami, nonno”, “Non respiro”. Povera zia, dunque. “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”, le ha detto l’ispettrice di polizia. Peccato davvero. Chi abbia appena frequentato i luoghi della sofferenza in questi anni ha imparato ad apprezzare la passione e la competenza inedite con cui donne della polizia trattano questioni come queste, di bambini da proteggere, di altre donne da liberare dalla strada e dai padroni.
È successo, ormai. Tutti avranno molte cose cui ripensare, fra sé e sé, prima di tutto. Comunque vada, resta Lorenzo, dieci anni. Troppo pochi per aver ragione fisicamente di padri agenti e psichiatri, troppi per non legarsela al dito, invece di un aquilone da far volare col suo compagno di banco perduto. Anche a dieci anni, se non hai fatto niente, e ti fanno il vuoto attorno per abbracciarti, ti rincorrono, ti tirano su di peso e ti deportano dentro una struttura “protetta”, il mondo ti sembra troppo ingiusto, e troppo cattivo.
Ho un poscritto. Ho saputo di una legge, in commissione alla Camera dopo essere stata approvata all’unanimità prima alla Camera e poi al Senato, ma con emendamenti che l’hanno fatta tornare indietro, sull’equiparazione dei figli naturali riconosciuti a quelli legittimi. Oggi i figli naturali, cioè nati fuori dal matrimonio, non hanno parenti, al di fuori dei genitori. Per fare l’esempio estremo, se perdano entrambi i genitori, non restano loro per la legge nonni o zii, e diventano figli di nessuno da dare in affido; la stessa cosa vale per l’eredità (quella dei genitori è riconosciuta dal 1975). È una condizione oltraggiosa della ragione civile e dell’affetto. A opporsi al voto finale (senza il quale la legge andrebbe alla prossima legislatura, cioè a farsi benedire) sono sorte due obiezioni, sulla competenza del tribunale dei minori – mentre per i figli legittimi decide il tribunale ordinario – e sul rischio di riconoscere uguali diritti a figli nati da incesto! Quest’ultima obiezione scambia il ripudio dell’incesto per il bando alle persone comunque venute al mondo, e riguarda un numero surreale, mentre il caso generale riguarda un 20 per cento di bambini italiani. Che, quando la tragedia della perdita dei genitori li colpisse, sarebbero tolti ai loro familiari e messi in una “struttura protetta”, “nel loro
esclusivo interesse”.

La Repubblica 12.10.12

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Quei diecimila figli divisi a metà “Così l’odio fra mamma e papà li rovina”, di VERA SCHIAVAZZI

IL DRAMMA di diecimila bambini italiani contesi nei tribunali ha ormai un nome, “sindrome da alienazione parentale”. E se è vero che quello di Padova è un caso limite è altrettanto vero che il problema è entrato sia nella giurisprudenza sia nello studio delle nuove patologie. Accade ogni volta che, dopo una separazione, il piccolo affidato a un genitore (statisticamente la madre) finisce col rifiutarsi di frequentare l’altro genitore, il quale si rivolge al Tribunale, innescando così un’escalation. Il rifiuto dei figli può spingersi all’estremo, alla “cancellazione” del genitore rimasto fuori casa, fino ad assumere la gravità definitiva di una perdita, un vero e proprio lutto. Può tradursi in un reato (due anni fa la Cassazione ha sancito il diritto di un padre al risarcimento dei danni sanzionando così chi “incoraggia i figli a dimenticare, rimuovere, respingere l’altro genitore”)
ma sta cominciando a essere studiata soprattutto come patologia, per le persone e per le famiglie divise. «Il dramma per i bambini spesso non è tanto la separazione, che pure temono molto, quanto la necessità di soccorrere il genitore che crolla emotivamente e che nel suo crollo vorrebbe trascinarli con sé usando la loro assenza come arma contro l’ex coniuge», spiega Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e esperto di problemi dell’adolescenza. Il danno rischia di durare per tutta la vita: «La soluzione non può essere, evidentemente, quella di obbligare il bambino o il ragazzo a rispettare i weekend stabiliti dai giudici, ma una terapia che deve coinvolgere tutta la famiglia e rimettere le cose a posto, restituendo al figlio i due genitori ai quali ha diritto. Senza questo, quel figlio non riuscirà mai a emanciparsi dalla sua situazione, a crescere, ad avere amicizie, amori, interessi».
È d’accordo Tilde Giani Gallino, psicologa e studiosa dell’età evolutiva: «In molti casi il divorzio è il minore dei mali per i figli, ma condizione di essere ben gestito, mantenendo un rapporto di cooperazione tra i genitori». Che fare quando il bimbo dice “da papà non voglio andare”? «Se un figlio non vuole vedere il padre è evidente che esiste un problema e la soluzione non può essere costringerlo ». Si possono ascoltare i bambini? «Si deve — risponde Gallino — e fin dalla più tenera età, dai 3 o 4 anni. Che cosa c’è dietro il loro rifiuto? Purtroppo, non tutti possono permettersi un terapeuta esperto in grado di accompagnarli lungo questo percorso. Invece la presenza di un
servizio terapeutico pubblico sarebbe essenziale». La vendetta attraverso i figli, insomma, non è solo un comportamento riprovevole, ma una vera e propria malattia sociale. «La legge sull’affido condiviso non ha risolto tutti i problemi — aggiunge Giulia Facchini, avvocato familiarista — Se da un lato è cresciuta l’idea che le decisioni importanti per i figli vanno prese insieme, dall’altro non si è riusciti ad abbattere il numero di casi nei quali qualunque pretesto, dal ritardo nell’orario a un presunto problema di salute del bambino fino alla comparsa di un nuovo partner dell’ex marito o dell’ex moglie, si trasformano in una faida che va al di là di ogni ragionevolezza». «Quello che è successo ieri — conclude Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia e l’adolescenza — ripropone l’urgenza di una riforma della giustizia minorile. Ma soprattutto ci obbliga a ripensare alle strade per sostenere i genitori separati nei loro doveri verso i figli».

“Che errore mandare gli agenti ma a volte un giudice è costretto”, ELSA VINCI

«La polizia a scuola, il bimbo che scappa. Strilli, urla e pure un video-shock. Per “salvare” un bambino dalla madre bisogna farlo soffrire così? Io non credo che l’allontanamento con la forza possa avere un buon effetto. Sono momenti che si preparano con cura nel tempo ». Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, non apprezza il ricorso alla polizia e preferisce considerare «i provvedimenti eseguiti a scuola solo eventi eccezionali».
La disperazione del bambino ha fatto il giro di tv e web. Lui senza difesa contro gli agenti. Si fa così?
«Quello che si è visto è da evitare. Di solito un bambino va a prenderlo l’assistente sociale, uno psicologo con cui parla da mesi, che conosce benissimo. Una figura di cui si fida. Il ricorso alla polizia è previsto ma sconsigliato. Personalmente preferisco escluderlo. Se diventa indispensabile, deve avvenire con modi e in luoghi che rendano l’evento meno traumatico possibile».
Invece sono andati a scuola.
«Per i bambini la scuola è un luogo sicuro, un
allontanamento del genere mette in crisi questo concetto. Vale per lui e per i suoi compagni. Purtroppo l’intervento in classe si sarà reso necessario perché in passato ci sono stati tentativi falliti. A volte il giudice è costretto. La madre non aveva più la patria potestà, la Corte d’appello di Venezia ha deciso per la scuola perché a casa non è stato possibile prendere il bambino ».
Il trauma dell’allontanamento da un genitore si pone in ogni caso. Il tribunale come cerca di gestirlo?
«Il ragazzino va assolutamente rassicurato: la separazione non è per sempre. Non si perde né la mamma né il papà. Il magistrato dispone percorsi psicoterapeutici adeguati, il minore viene accompagnato da un’équipe multi professionale. Di solito io nomino un giudice onorario che segue il piccolo per mesi, ci parla spesso, può andarlo a trovare a scuola, cerca di fargli capire il perché. Assistenti sociali e psicologi gli fanno comprendere che se cambierà casa questo non vuol dire che la mamma non ci sarà più. Potrà continuare a vederla, a sentirla, a giocare con lei».
Ma se il figlio con il padre non ci vuole stare?
«Il bimbo deve fare conoscenza col papà e in questo percorso lo si accompagna. Si deve trovare lo spazio nella sua testa per far entrare il padre».
Questo bambino soffre di sindrome da alienazione parentale. Come si fa a tenere in equilibrio il diritto di tutti?
«Non vuole vedere il padre perché alienato verso di lui probabilmente dall’influenza dell’altro genitore. Si deve lavorare con personale specializzato. Tanto più adesso che ha subito un trauma, che resterà per sempre. E non dimenticherà mai».

La Repubblica 12.11.12

"Un mondo di cattivi", di Adriano Sofri

Poveri parenti, poveri giudici, poveri esperti, poveri poliziotti. Già: e il bambino? Prendiamo il fotogramma in cui viene trascinato (vi ricordate le due madri e il giudizio di Salomone?). Ci sono quattro persone, maschi, tre sollevano di peso e trascinano: il padre, lo psichiatra, e il poliziotto. Il quarto è lui, Lorenzo. Ha dieci anni. Un bambino di dieci anni ha tre svantaggi enormi nei confronti dei grandi: è più intelligente, è più sensibile, è molto più debole. Può reagire (“in modo violento”, ha detto il dirigente della questura, “a testate, calci, pugni”): anche un capretto portato via può scalciare e belare e mordere. È vero, bisogna usare molta cautela, molta discrezione quando si è tentati di giudicare una famiglia andata in pezzi. Ma molta più occorre usarne quando si afferra un bambino che non vuole. Si legge che i giudici della Corte d’Appello avevano prescritto di farlo in modi discreti, poveri giudici. Si sente il padre che dice che la cosa è avvenuta “con le modalità che la situazione richiedeva”, che il bambino “ora è sereno”. Dice quel disgraziato padre: se un bambino fosse stato sequestrato e la polizia lo liberasse dai rapitori, non dovrebbe farlo anche al prezzo di una colluttazione? Dovrebbe, sì, ma tutte le sindromi di Stoccolma non bastano a far immaginare un bambino rapito che corre a nascondersi quando vengono a liberarlo, e prende i liberatori a testate calci e pugni. Bisogna saperne di più, e giudicare è una tentazione terribile: a meno di essere Salomone, e di avere di fronte almeno una parte che vuole il bene del bambino più del bene che vuole al bambino. Qualcosa si è saputo: una prima sentenza aveva affidato Lorenzo alla madre, e la nuova sentenza si fonda su una supposta sindrome di alienazione parentale, formula cento volte più infida della sindrome di Stoccolma. Dunque non c’era un’urgenza tragica, abusi domestici, sfruttamento, botte. Da otto anni Lorenzo vive con la madre. Sono andati a prenderlo nella classe – modalità: svuotamento della classe da tutti i bambini tranne uno, e quando sono usciti tutti (ridevano? avevano paura? si sono voltati a guardarlo?) suo padre “l’ha abbracciato”. Povero padre. Mentre l’aula si svuotava il solo che restava si sarà chiesto che cosa gli avrebbero fatto; da come ha reagito occorre pensare che essere abbracciato lì, in quel modo, in quel momento, gli sembrasse una bruttissima cosa. Dunque è stato “inevitabile” che lo prelevassero di forza. Un bambino tolto alla casa, alla scuola, al suo banco – quali posti sono più protetti per una persona di dieci anni? – per essere portato “in una struttura protetta”, in “una comunità”. Spiegano: siccome il bambino quando lo cercavamo a casa “si nascondeva” – come un capretto – abbiamo dovuto, su ordine dei giudici, prelevarlo “in territorio neutro”. Aggrappato al suo banco, nella sua classe. Che cattivi ricordi evoca tutto ciò, non si ha nemmeno il coraggio di nominarli. “Ha cominciato a scappare attorno alla scuola e altri agenti lo hanno rincorso”. Quanti agenti erano stati mobilitati per l’impresa? La divisione anticrimine! Poveri agenti. E a nessuno di loro è venuto in mente di abbracciare il padre, discretamente, e telefonare al giudice, che non era possibile fare quello per cui erano stati mandati, e che si vergognavano troppo di continuare a rincorrere un primo della classe spaventato e furioso? “Non dovevamo farlo noi”, ha detto il dirigente anticrimine. Ha detto anche: “Non so che filmato abbiate visto voi. Nel nostro non c’è nessun trascinamento”. Povero dirigente: chi l’ha visto? Era un ordine dal quale non si poteva tornare indietro? Eppure tutte le ordinanze sulla patria potestà (è vero che tradizionalmente si privilegiano le madri, ma la potestà è rimasta patriarcale) hanno a fondamento “l’esclusivo interesse del bambino”. Era per il tuo bene, Lorenzo, che ti abbiamo acchiappato e strattonato, per il tuo esclusivo bene: al diavolo tutti gli altri. I nonni, poveri nonni, “si sono avventati sugli agenti”. La madre non c’era, era al lavoro. La zia ha filmato la scena, e intanto gridava: “Bastardi” – e Lorenzo ripeteva: “Bastardi” – e “Siete come la Gestapo” – questo Lorenzo non l’ha ripetuto, non doveva essergli famigliare. “La zia era lì per filmare”, dice qualche commento diffidente: ma no, ormai tutto si filma, e gran parte del filmato riprende piedi e cose mosse e strilli, “Aiutami, nonno”, “Non respiro”. Povera zia, dunque. “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”, le ha detto l’ispettrice di polizia. Peccato davvero. Chi abbia appena frequentato i luoghi della sofferenza in questi anni ha imparato ad apprezzare la passione e la competenza inedite con cui donne della polizia trattano questioni come queste, di bambini da proteggere, di altre donne da liberare dalla strada e dai padroni.
È successo, ormai. Tutti avranno molte cose cui ripensare, fra sé e sé, prima di tutto. Comunque vada, resta Lorenzo, dieci anni. Troppo pochi per aver ragione fisicamente di padri agenti e psichiatri, troppi per non legarsela al dito, invece di un aquilone da far volare col suo compagno di banco perduto. Anche a dieci anni, se non hai fatto niente, e ti fanno il vuoto attorno per abbracciarti, ti rincorrono, ti tirano su di peso e ti deportano dentro una struttura “protetta”, il mondo ti sembra troppo ingiusto, e troppo cattivo.
Ho un poscritto. Ho saputo di una legge, in commissione alla Camera dopo essere stata approvata all’unanimità prima alla Camera e poi al Senato, ma con emendamenti che l’hanno fatta tornare indietro, sull’equiparazione dei figli naturali riconosciuti a quelli legittimi. Oggi i figli naturali, cioè nati fuori dal matrimonio, non hanno parenti, al di fuori dei genitori. Per fare l’esempio estremo, se perdano entrambi i genitori, non restano loro per la legge nonni o zii, e diventano figli di nessuno da dare in affido; la stessa cosa vale per l’eredità (quella dei genitori è riconosciuta dal 1975). È una condizione oltraggiosa della ragione civile e dell’affetto. A opporsi al voto finale (senza il quale la legge andrebbe alla prossima legislatura, cioè a farsi benedire) sono sorte due obiezioni, sulla competenza del tribunale dei minori – mentre per i figli legittimi decide il tribunale ordinario – e sul rischio di riconoscere uguali diritti a figli nati da incesto! Quest’ultima obiezione scambia il ripudio dell’incesto per il bando alle persone comunque venute al mondo, e riguarda un numero surreale, mentre il caso generale riguarda un 20 per cento di bambini italiani. Che, quando la tragedia della perdita dei genitori li colpisse, sarebbero tolti ai loro familiari e messi in una “struttura protetta”, “nel loro
esclusivo interesse”.
La Repubblica 12.10.12
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Quei diecimila figli divisi a metà “Così l’odio fra mamma e papà li rovina”, di VERA SCHIAVAZZI
IL DRAMMA di diecimila bambini italiani contesi nei tribunali ha ormai un nome, “sindrome da alienazione parentale”. E se è vero che quello di Padova è un caso limite è altrettanto vero che il problema è entrato sia nella giurisprudenza sia nello studio delle nuove patologie. Accade ogni volta che, dopo una separazione, il piccolo affidato a un genitore (statisticamente la madre) finisce col rifiutarsi di frequentare l’altro genitore, il quale si rivolge al Tribunale, innescando così un’escalation. Il rifiuto dei figli può spingersi all’estremo, alla “cancellazione” del genitore rimasto fuori casa, fino ad assumere la gravità definitiva di una perdita, un vero e proprio lutto. Può tradursi in un reato (due anni fa la Cassazione ha sancito il diritto di un padre al risarcimento dei danni sanzionando così chi “incoraggia i figli a dimenticare, rimuovere, respingere l’altro genitore”)
ma sta cominciando a essere studiata soprattutto come patologia, per le persone e per le famiglie divise. «Il dramma per i bambini spesso non è tanto la separazione, che pure temono molto, quanto la necessità di soccorrere il genitore che crolla emotivamente e che nel suo crollo vorrebbe trascinarli con sé usando la loro assenza come arma contro l’ex coniuge», spiega Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e esperto di problemi dell’adolescenza. Il danno rischia di durare per tutta la vita: «La soluzione non può essere, evidentemente, quella di obbligare il bambino o il ragazzo a rispettare i weekend stabiliti dai giudici, ma una terapia che deve coinvolgere tutta la famiglia e rimettere le cose a posto, restituendo al figlio i due genitori ai quali ha diritto. Senza questo, quel figlio non riuscirà mai a emanciparsi dalla sua situazione, a crescere, ad avere amicizie, amori, interessi».
È d’accordo Tilde Giani Gallino, psicologa e studiosa dell’età evolutiva: «In molti casi il divorzio è il minore dei mali per i figli, ma condizione di essere ben gestito, mantenendo un rapporto di cooperazione tra i genitori». Che fare quando il bimbo dice “da papà non voglio andare”? «Se un figlio non vuole vedere il padre è evidente che esiste un problema e la soluzione non può essere costringerlo ». Si possono ascoltare i bambini? «Si deve — risponde Gallino — e fin dalla più tenera età, dai 3 o 4 anni. Che cosa c’è dietro il loro rifiuto? Purtroppo, non tutti possono permettersi un terapeuta esperto in grado di accompagnarli lungo questo percorso. Invece la presenza di un
servizio terapeutico pubblico sarebbe essenziale». La vendetta attraverso i figli, insomma, non è solo un comportamento riprovevole, ma una vera e propria malattia sociale. «La legge sull’affido condiviso non ha risolto tutti i problemi — aggiunge Giulia Facchini, avvocato familiarista — Se da un lato è cresciuta l’idea che le decisioni importanti per i figli vanno prese insieme, dall’altro non si è riusciti ad abbattere il numero di casi nei quali qualunque pretesto, dal ritardo nell’orario a un presunto problema di salute del bambino fino alla comparsa di un nuovo partner dell’ex marito o dell’ex moglie, si trasformano in una faida che va al di là di ogni ragionevolezza». «Quello che è successo ieri — conclude Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia e l’adolescenza — ripropone l’urgenza di una riforma della giustizia minorile. Ma soprattutto ci obbliga a ripensare alle strade per sostenere i genitori separati nei loro doveri verso i figli».
“Che errore mandare gli agenti ma a volte un giudice è costretto”, ELSA VINCI
«La polizia a scuola, il bimbo che scappa. Strilli, urla e pure un video-shock. Per “salvare” un bambino dalla madre bisogna farlo soffrire così? Io non credo che l’allontanamento con la forza possa avere un buon effetto. Sono momenti che si preparano con cura nel tempo ». Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, non apprezza il ricorso alla polizia e preferisce considerare «i provvedimenti eseguiti a scuola solo eventi eccezionali».
La disperazione del bambino ha fatto il giro di tv e web. Lui senza difesa contro gli agenti. Si fa così?
«Quello che si è visto è da evitare. Di solito un bambino va a prenderlo l’assistente sociale, uno psicologo con cui parla da mesi, che conosce benissimo. Una figura di cui si fida. Il ricorso alla polizia è previsto ma sconsigliato. Personalmente preferisco escluderlo. Se diventa indispensabile, deve avvenire con modi e in luoghi che rendano l’evento meno traumatico possibile».
Invece sono andati a scuola.
«Per i bambini la scuola è un luogo sicuro, un
allontanamento del genere mette in crisi questo concetto. Vale per lui e per i suoi compagni. Purtroppo l’intervento in classe si sarà reso necessario perché in passato ci sono stati tentativi falliti. A volte il giudice è costretto. La madre non aveva più la patria potestà, la Corte d’appello di Venezia ha deciso per la scuola perché a casa non è stato possibile prendere il bambino ».
Il trauma dell’allontanamento da un genitore si pone in ogni caso. Il tribunale come cerca di gestirlo?
«Il ragazzino va assolutamente rassicurato: la separazione non è per sempre. Non si perde né la mamma né il papà. Il magistrato dispone percorsi psicoterapeutici adeguati, il minore viene accompagnato da un’équipe multi professionale. Di solito io nomino un giudice onorario che segue il piccolo per mesi, ci parla spesso, può andarlo a trovare a scuola, cerca di fargli capire il perché. Assistenti sociali e psicologi gli fanno comprendere che se cambierà casa questo non vuol dire che la mamma non ci sarà più. Potrà continuare a vederla, a sentirla, a giocare con lei».
Ma se il figlio con il padre non ci vuole stare?
«Il bimbo deve fare conoscenza col papà e in questo percorso lo si accompagna. Si deve trovare lo spazio nella sua testa per far entrare il padre».
Questo bambino soffre di sindrome da alienazione parentale. Come si fa a tenere in equilibrio il diritto di tutti?
«Non vuole vedere il padre perché alienato verso di lui probabilmente dall’influenza dell’altro genitore. Si deve lavorare con personale specializzato. Tanto più adesso che ha subito un trauma, che resterà per sempre. E non dimenticherà mai».
La Repubblica 12.11.12

“L’assessore pisciaturu”, di Francesco Merlo

Per la politologia, per gli allievi di Max Weber l’assessore Domenico Zambetti è «la degenerazione del sistema». Per i malacarne è «un pisciaturu», un gabinetto. Il concetto è lo stesso, solo il linguaggio cambia, da un lato fior di parole e di dottrina e dall’altro il lessico gergale dei residui organici. Insomma i mafiosi delle ‘ndrine che disprezzano «‘sti politici di merda» almeno in questo sembrano ‘normali’ italiani: «Piccoli e grandi, queste merde sono uno peggio dell’altro ». COME tanti di noi, anche loro non distinguono, accorciano, vanno veloci. Pure per i ‘ndranghetisti la sporcizia della foce è già sporcizia della sorgente, come per Grillo che parla in generale di «zombie», come per Renzi che la fa spiccia e tratta tutti come «rottami ». Solo che i mafiosi sono più immediati e più primitivi e quanto più disprezzano tanto più apprezzano: «le corna sue» dicono mentre si fregano le mani. E poi: «Cirù, conta questi soldi».
E si sentono sottopagati, Eugenio e Costantino, e quasi litigano. «Sono solo cinquanta euro a voto», una miseria, ben sotto il prezzo di riferimento: «Al Sud sono almeno 80 euro a voto». Il valore- voto nel Meridione è il Gold Standard dell’economia politica mafiosa. E però a Reggio Calabria, che è la Wall Street della ‘ndrangheta, la mafia non trova più appalti, è costretta a speculare sui pidocchi, il Ponte non si farà, il Consiglio comunale è stato sciolto, rimangono le tombe, i funerali e i Bronzi di Riace; l’edilizia pubblica è ridotta a qualche scavo e a un po’ d’asfalto. Qui invece c’è l’Expo e «le imprese ce le abbiamo, le cooperative ci sono» e insomma «dato che vogliamo pure del lavoro bastano 50 euro a voto e stop». Poi Costantino si spiega ancora meglio con quella testa dura e avida di Eugenio: «Un acconto prima e la rimanenza te la danno dopo. Funziona così. Eh».
Più verbali leggiamo e più si capisce che non sono loro i marziani. Infatti scopriamo che il vero mostro non è il corruttore calabrese ma il corrotto milanese che «si è cagato addosso, si è cagato completo». Il linguaggio impastato di fango e di minacce diventa così il linguaggio inedito della soddisfazione disgustata, e cresce il senso di superiorità compiaciuta sino al trionfalismo sfrontato: «Si è messo a piangere davanti a me e a zio Pino, eh!, come piangeva». Le lacrime della vittima sono sempre medaglie per i bulli; sono la prova che, comunque, ne valeva la pena.
C’è un momento nel film il Padrino, che è la Bibbia dei malacarne, in cui il cantante scoppia in lacrime perché la fidanzata lo tratta male. Ebbene, don Vito Corleone lo prende a schiaffi: «Cianci, a fimminedda cianci,piange, la femminella piange». Le lacrime infatti sono virili solo nei funerali e sempre senza singhiozzi, in silenzio. E invece in questi verbali c’è il politico che singhiozza davanti a due mafiosi. Neppure Mario Puzo se l’era immaginato.
Davvero, dal bacio di Andreotti al pianto di Zambetti è cambiato tutto. I politici non sono più “i pezzi da novanta”, non fanno più parte del mondo parallelo, ma sono direttamente impiegati della mafia: «Ce l’abbiamo in pugno», «gli facciamo un culo cosi», «lo facciamo cagare sotto», «l’abbiamo fotografato con Pino giusto per avere una prova…, ma per ora non gli diciamo niente » perché non c’è bisogno. E difatti, esecutore e zimbello, Zambetti promette appalti per l’Expo e intanto sistema la figlia e l’amante del boss Costantino, ottiene la proroga al contratto di parrucchiera di sua sorella … Ma nessuno lo ringrazia mai. Anzi, i malavitosi se la spassano a maltrattarlo e a mettergli paura: «Con quel diabete stia attento al … mangiare». Lo spaventano, gli dicono che lo faranno «saltare in aria». Pino D’Agostino che è in Calabria annunzia divertito: «Salgo io e ci parlo, che così ci capiamo». E ridono di lui: «oh Zambettino Zambettino».
E non sono più i vermi che infradiciano la politica, ma è la politica fradicia che produce i vermi: «Altrimenti chi lo eleggeva? Nel mio piccolo io sinceramente li meritavo centomila euro, nel mio piccolo nel Magentino gli ho fatto
dare 700/800 voti. «Una volta le anime che ogni temutissimo mafioso controllava erano artigiani e commercianti, tutto il presepe dell’ordine sociale che pagava pizzo e pegno. Ora il mafioso porta voti, ha “sposato” la democrazia,
è pastore di un gregge che fa aritmetica elettorale ed è ammirato e invidiato come una volta i soprastanti che mettevano tutti in riga con il coltello e la lupara: «I voti a Milano li ha fatti prendere Ambrogio (Crespi). Quello sì è un bandito!
L’altra sera mi ha chiamato ed era con Vallanzasca» che qui diventa la star, il testimonial di un nuovo ceto politico consacrato alla delinquenza: «Mi ha detto, vieni che vi faccio salutare Vallanzasca ». E sono nuove specializzazioni
del professionismo della politica che avrebbero ubriacato Max Weber, mentre l’assessore, il politico classico, perde pure l’identità e non ha nemmeno la dignità del picciotto, ma è solo e sempre «a disposizione».
E difatti «senza di noi, sai chi lo eleggeva! ». Perciò l’eletto offre e promette i lavori da appaltare alle ‘ndrine che più hanno schifo di lui e più lo ricattano, e più lo ricattano e più lo disprezzano, felici di trattare con una materia infima, come i monatti che facevano affari con gli appestati, come gli spacciatori con i drogati: «Non ha parlato male: “Voi me lo segnalate e io cerco di farvelo fare”. Ce l’ha garantito che ci dà lavoro in questi cinque anni». E gli mandano pizzini che sono promemoria intimidatori, veri e propri contratti di servitù ma compiaciuti e scanzonati: «Gli abbiamo mandato un lettera, Cirù, una cronistoria di come sono andate le cose, di come erano i patti». È la solita lingua della violenza ma divertita, una grammatica di morte ma allegra: «Una lettera talmente scritta bene, cirù, cioè si vede che c’era gente laureata nel gruppo». E dunque altro che colletti bianchi! I professori sono arrivati anche nella malavita e a Milano il pizzino è diventato florilegio di tocco e toga. Ma ogni tanto, per non perdere le buone abitudini, tornano ad accarezzare l’idea di farlo saltare in aria: «Eh, Zambettino Zambettino» Eppure la storia ci racconta che “il ministro della malavita” (1910) Giovanni Giolitti comunicava ad occhiate con gli emissari della camorra che restavano, «timorosi e rispettosi», dall’altro lato della strada. E il politico del Padrino dice a Tom Hagen, il figlio adottivo di don Vito Corleone: «Non ho paura di voi che avete i capelli unti di olio d’oliva». Invece qui «se l’è fatta sotto completo». Forse perché questi mafiosi sfogano sui politici gli stessi umori dell’antipolitica dilagante. Ogni volta che ne fanno tremare uno, che lo fanno piangere, ogni volta che lo costringono a farsela addosso usano parole e stilemi che drammaticamente somigliano a quelli degli indignados italiani: «Il potere lo hanno loro, i politici e la legge. Però ogni tanto una soddisfazione ce la prendiamo. Solo così possiamo prendercela qualche soddisfazione». Ed è un punto di vista che purtroppo ci segna. Perché non riesce a farci più pensare all’istituzione umiliata questo assessore che sta sotto il codice onorevole dei mafiosi, è nella scala zoologica l’ultimo animale dello “zoòn politikòn”.
Il fatto nuovo e inaudito è che la malavita più odiosa e spietata è riuscita a privarci della compassione che sempre abbiamo avuto per le sue vittime. Non suscita infatti pietà, nessuna specie di pietà, la vittima che ha disgustato anche la mafia.

La Repubblica 12.10.12

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“Così vota la ’ndrangheta”, di PIERO COLAPRICO

SCENE di crimine e anticrimine in Lombardia: «La Sicilia l’hanno sconfitta, l’hanno demolita, è finita la Sicilia. La Campania la stessa cosa, la stanno distruggendo lo stesso. Ma la Calabria, dice, è venuta qua sopra! E gira e volta gli investimenti li fai qui. Ormai c’è la Calabria, qua sopra, e devono distruggere la Calabria». Questa sgrammaticata ma puntuale analisi, registrata dalle microspie, viene fatta da due uomini di ’ndrangheta.
UNO è Eugenio Costantino, e cioè «l’elegantone», il faccendiere legato ai clan, quello che con le sue leggerezze ha distrutto l’assessore regionale Mimmo Zambetti e azzerato la giunta di Roberto Formigoni. L’altro si chiama Vincenzo Evolo, taglia extralarge, mani come pale, ritenuto il soldato del recupero crediti, il «cattivo». È il marzo del 2011, Ilda Boccassini è diventata il procuratore aggiunto antimafia, insieme con Giuseppe Pignatone Lombardia, Roma e Calabria, ha arrestato centinaia di persone, tra cui medici, magi-strati, politici, è la zona grigia che per la prima volta comincia a venire stanata.
UN ASSESSORE AL NIGHT
Da dove spunta un assessore che a sessant’anni paga 200 mila euro per i voti della ‘ndrangheta? E dove ha preso quei contanti? I carabinieri del comando provinciale di Milano e il pubblico ministero Paolo D’Amico si sono mossi nel totale segreto per non dare scampo agli indagati. Sono stati sequestrati solo ieri i computer di Enrica Papetti, la segretaria fidatissima di Zambetti per sedici anni. Il faccendiere della ‘ndrangheta la descrive così: «Fa tutto lei, tutti gli imbrogli (…) quella è proprio complice in tutto ».
Un dettaglio inedito arriva persino dalla Milano da bere. Erano gli anni ‘80, Pepè Onorato e Mimmo Teti erano i boss «dei calabresi» (allora si diceva semplicemente così), e un brigadiere fa un controllo in un night. Identifica i clienti: spuntano Teti e il futuro assessore Zambetti. L’avvocato dice che Zambetti è stato in fondo un po’ superficiale, ma anche nel maggio 2009 rispunta il nome dell’assessore. Lo fanno due calabresi finiti travolti da altre indagini: «Vedi se organizzi una quindicina di giovanotti che andiamo a Cinisello e ci prendiamo un aperitivo che c’è Zambetti (…) roba di elezioni, ma non devono votare niente, andiamo solo lì per presenza, passo con il pullman e li prendo».
MILANO-REGGIO CALABRIA
La campagna elettorale della ‘ndrangheta ha però sempre e solo uno scopo primario: «Zambetti ce l’abbiamo in pugno, gli facciamo un culo così». Zambetti si mette a disposizione con favori che fa e appalti che promette. E così diventa più che legittimo domandarsi: da quanto tempo «lavorano» come portavoti questi clan che si muovono alla grande tra Nord e Sud? Eugenio Costantino parla con suo padre del boss Pino D’Agostino, e gli dice, papale papale: «Con Scopelliti in Calabria, hai visto come ha fatto? Sono andati là, li hanno pagati, ed hanno comprato i voti. Se non paghi i voti non vinci!.. Pure Pino è stato due mesi l’anno scorso con la pol…», cioè con la politica, per Giuseppe Scopelliti, pdl. È lo stesso Scopelliti che ieri parlava a favore del sindaco di Reggio Calabria, comune «chiuso» per ‘ndrangheta.
L’INFILTRAZIONE INFINITA
Più le si leggono, più le si ascoltano, queste clamorose, anzi spaventose intercettazioni diciamo di ultima generazione, più emerge al Nord un salto di mentalità. Tanto da parte della ‘ndrangheta, più moderna, anche se ancoratissima alle tradizioni. Tanto — attenzione — da parte degli imprenditori. Ne devono ascoltare presto sessanta, e di questi, la metà non ha radici al sud. Eppure, hanno pagato e pagano i boss per varie ragioni e non li hanno mai denunciato. Mai. Solo per paura?
C’è infatti da riconsiderare grazie al lavoro svolto in strada il concetto sin qui noto di infiltrazione. Esempio perfetto è la vicenda dell’ultimo arrestato, il ristoratore cremonese Valentino Gisana. Gisana subisce un tentativo di estorsione, va dalla polizia e fa una denuncia generica, ma consegna a uomini della ‘ndrangheta il telefonino dei ricattatori. E così tra il gigantesco Vincenzo Evolo e gli altri gangster ci si annusa, ci si capisce e Gisana non deve più pagare l’esoso pizzo. Ma «qualche cosa bisogna pagare, il tempo che hanno perso», gli dicono in sintesi. E Gisana paga. Poi gli impongono di assumere un cameriere, e ok, assunto. A quel punto Gisana, che vanta un credito nei confronti di un debitore che però non si fa trovare, domanda agli «amici» calabresi se lo aiutano loro. E così la «macchina da guerra» del clan si muove, ma Gisana alla fine si sfoga con un amico: «Troppa gente che mi pressa, adesso quelli lì (e cioè i ricattatori) non mi hanno rotto più i coglioni, ma adesso io ho paura che (i “calabresi”) mi mettono sotto (…) lo “Zio” mi manda gli altri, cambiami l’assegno, cambiami l’assegno (…) per me è una storia infinita».
LA SPIEGAZIONE DEL MARESCIALLO
È, nel suo orrore, una frase bellissima. Una frase-chiave. La giriamo a un vecchio maresciallo che spiega: «Questi cominciano perché uno gli dà fastidio, chiedono aiuto, funziona, poi hanno bisogno di prestiti, o di recuperare i crediti, e quando i boss li mettono sotto, che cosa devono fare? Vengono qui a raccontarci che hanno cominciato loro questa catena?». Più di tante sociologie, vale dunque quest’indagine: sono gli imprenditori del Nord che adesso vanno a cercare i boss di riferimento? Sia gli imprenditori sia i politici diventano però presto come «un pacchetto», che viene passato da mano mafiosa a mano mafiosa, tanto non si può ribellare nessuno: «Hai visto quel “pisciaturu” di Zambetti come ha pagato. Ehh, lo facevamo saltare in aria. Si è messo a piangere, ohh, davanti a me a zio Pino».
IL VOTO COERCITIVO
Il 5 maggio del 2011, l’«elegantone » fa a bordo della sua Bmw imbottita di microfoni come un’emittente radiofonica una specie di piccola mappa: «Magenta, Sedriano, Vittuone, Corbetta, anche che noi qui, dato che diamo una mano a tutti nella politica, allora conosciamo tutti. I sindaci qua sono tutti amici nostri… tutti di destra! I sindaci di questi paesi non ce ne è uno che non conosciamo, in qualche modo l’abbiamo aiutato noi a vincere », dice Costantino. Come ottengono questi voti i boss? Perché nell’ordinanza viene usato l’aggettivo «coercitivo»?
«Una volta — spiegano in via Moscova — votavi come ti diceva il boss perché ti faceva paura, ora lo voti perché dice: “Ci guadagniamo tutti”. La coercizione sta nel fatto che chi vota sa perfettamente che chi chiede è legato alla mafia calabrese». In effetti, nelle intercettazioni del chirurgo Marco Scalambra, arrestato, si sente citare spesso la «lobby dei calabresi». Lobby? sono clan, ma l’unico voto a forza di mazzate viene estorto a due truffatori. Hanno «zanzato» il calabrese sbagliato, e finiscono per cedere soldi e diamanti dopo con un sequestro di persona. Si salvano, ma «Vi diremo per chi votare».
Ecco perché la procura antimafia dichiara apertis verbis che in Lombardia oggi abbiamo «il prodotto di un perfetto ed autorevole coordinamento di un’unica struttura organizzata, insediatasi, ed ormai radicatasi, anche nella provincia di Milano». Più chiaro di così, ed è proprio il caso di dirlo, si muore. Ammazzati.

La Repubblica 12.10.12