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"Tornano le preferenze Il Pd: nostro no invalicabile", di Andrea Carugati

Alla fine, dopo mesi di estenuante trattativa, la bozza di nuova legge elettorale è arrivata. Si è materializzata ieri mattina nell’Aula della Commissione Affari co- stituzionali del Senato, con il voto a favore della vecchia Casa delle libertà: Pdl, Lega, Udc e Fli. E il voto di contrario di Pd e Idv.
Eccola qui, la nuova bozza: sistema proporzionale con sbarramento al 5%, premio del 12,5% alla prima coalizione (che si traduce in 76 seggi alla Camera e 37 al Senato), eletti scelti per due terzi con le preferenze e in circoscrizioni amplissime, e per un terzo con le liste bloccate, come avviene con la legge in vigo- re dal 2005. Di collegi uninominali, quell’innovazione introdotta a furor di popolo nel 1993, nemmeno l’ombra. Nonostante questa fosse la richiesta princi- pale del Pd, che infatti ha votato contro e ora annuncia battaglia a colpi di emen- damenti in Commissione, e poi in Aula, dove il testo dovrebbe arrivare «entro fine mese», come spiega Schifani.

La nuova bozza, almeno per un aspetto, corrisponde ai desiderata più volte manifestati dai democratici, e cioè il premio di maggioranza attribuito alla coalazione e non al primo partito. Un paletto che Bersani aveva fissato per assicurare che «la sera del voto si sappia chi governa». Cosa che però, con questo testo, non è affatto garantita, visto che il premio, con gli attuali numeri dei sondaggi, non garantirebbe a Pd e Sel, anche se vincenti, una maggioranza in nessuno dei due rami del Parlamento. E tuttavia la novità sta proprio nella conversione dei berlusconiani al premio di coalizione, che per mesi avevano avversato. Cosa è successo? Che le ultime mosse del Cavaliere, il presunto ritiro per favorire la nascita di un rassemblement dei moderati (magari a guida Montezemolo a Passera) hanno reso improvvisamente conveniente il premio alla coalizione, reso ancor più efficace dalla norma che prevede una soglia di sbarramento abbassata al 4% per i partiti coalizzati. Quanto alla Lega, invece, è stata prevista una clausola ad hoc, e cioè l’aggiramento dello sbarramento per i partiti che ottengono il 7% in un numero di circoscrizioni pari a un quinto della popolazione. Un elemento che deve aver convinto Calderoli a votare a favore, e tuttavia i leghisti annunciano battaglia per far scattare il premio solo una certa soglia.
TERRENO DI BATTAGLIA
Tra le principali forze politiche, a questo punto, l’intesa sul premio al 12,5% sembra assestata. Il terreno di battaglia restano le preferenze, che il Pd non intende accettare. E che suscitano grande diffidenza anche nel Pdl: per il rischio corruzione, come è evidente dagli ultimi casi nelle regioni. Ma soprattutto perché moltissimi peones sanno perfettamente che sarebbero loro a doversi sudare il seggio con costose campagne, mentre i big sarebbero coperti dai listini bloccati. Per questo la norma rischia di saltare, o in Senato, oppure alla Camera, dove sono previste svariate votazioni a scrutinio segreto.

«La cronaca di queste settimane ci consegna una nuova questione morale, e uno dei modi in cui la corruzione e la criminalità organizzata hanno permeato la politica è stato proprio il sistema delle preferenze», tuona la capogruppo Pd Anna Finocchiaro. «Per noi questo è un limite invalicabile». Sulla stessa linea tutti i democratici, ma anche nel Pdl è partita una raccolta firme (oltre 40)capitanata da Enrico La Loggia: «Le preferenze sono un vero e proprio male della politica». All’appello si è unita anche l’ex ministro Anna Maria Bernini. Gli ex An, invece, dopo essersi battuti per mesi, ora stappano champagne.

Nel Pd la bozza approvata suscita reazioni diversificate. Da una parte c’è chi, come il relatore Enzo Bianco ma anche la capogruppo Finocchiaro, nota come «la nostra proposta e la loro divergono solo sulle preferenze, quindi il bicchiere è mezzo pieno». E chi, invece fa prevalere il giudizio negativo, come il senatore Stefano Ceccanti che parla di «controriforma» e «modello greco», ma anche il vicepresidente del Senato Vannino Chiti che parla di una «restaurazione politica in senso pieno» e ricorda che «la sera delle elezioni non conosceremo le maggioranze di governo». Ancora più duro Arturo Parisi, che accusa il suo partito di aver favorito il ritorno al proporzionale e le preferenze. Soddisfatto Gianfranco Fini, che parla di una «uscita dallo stallo» e si dice pronto ad accettare anche le preferenze: «Se uno compra i voti lo può fare anche collegio…». La discussione riprenderà giovedì prossimo in commissione. Ma già martedì mattina il gruppo Pd di palazzo madama si riunirà per decidere come condurre la battaglia parlamentare. Tra le novità del nuovo testo, la possibilità di esprimere due preferenze, purché almeno una sia ad una donna. Il relatore Pd Bianco annuncia modifiche per introdurre un rigido tetto alle spese elettorali, «pena la decadenza dell’eletto».

L’Unità 12-10-12

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“Preferenze, il virus dei partiti”, di LUIGI LA SPINA

La diagnosi si fa più grave. Credevamo che la politica italiana soffrisse di senescenza, più o meno precoce, quella che fa dimenticare i peccati del passato, nel ricordo di una gioventù che tutto assolve. Invece, si tratta di un sintomo più terribile, quello che caratterizza l’Alzheimer, la malattia che fa perdere soprattutto la memoria dei fatti recenti.

Ma come è possibile pensare di ripristinare le preferenze, non solo non rammentando che, in un referendum agli inizi degli Anni Novanta, gli italiani, con una maggioranza del 95 per cento, bocciarono questo sistema di voto, ma ignorando i vergognosi scandali di questi giorni? Come è possibile votare una legge, come quella approvata ieri in commissione al Senato, appena il giorno dopo la lettura sui giornali del caso Zambetti, l’assessore regionale lombardo del Pdl accusato di aver acquistato dalla ’ndrangheta quattromila preferenze per 200 mila euro?

Come è possibile farlo, sempre il giorno dopo la scoperta che il capogruppo Idv alla Regione Lazio, quello che avrebbe sottratto al partito 780 mila euro, era un vero recordman di preferenze, ne aveva oltre 8 mila? Come è possibile proporre una cosa del genere, dimenticando che il famoso «Batman» romano, Franco Fiorito, era un altro fuoriclasse nel campionato nazionale delle preferenze?

La lista degli esempi, tutt’altro che raccomandabili, potrebbe facilmente proseguire, ma potrebbe pure annoiare il lettore, che, in genere, gode di una salute mentale molto superiore a quella dei suoi rappresentanti. Agli smemorati del Parlamento, è più utile, allora, un breve riepilogo delle ultime puntate.

Eravamo rimasti allo sdegno universale sulla legge attualmente in vigore per le elezioni alle Camere, il famoso «porcellum», quello che assicurerà a Calderoli fama imperitura, seppur discutibile. Lo si accusava di togliere agli elettori il potere di nominare i deputati e i senatori della Repubblica per affidarlo alle segreterie dei partiti. Incalzati da una simile pressione dell’opinione pubblica e dall’imminenza del voto per la fine di questa legislatura, ieri, alla commissione di Palazzo Madama, è stato deciso di restituire questo potere ai cittadini in modo tale da consentire ai clan mafiosi, nei casi peggiori, o alle clientele di sottogoverno locale, nei casi migliori(?), di influenzare pesantemente le scelte degli italiani.

Non c’è bisogno di possedere virtù divinatorie per sapere che cosa succederà con le preferenze. Anche in questo caso, basta ricorrere alla memoria, breve o lunga che sia. Quasi cinquant’anni di storia elettorale, nella seconda metà del secolo scorso, costituiscono un monito più che sufficiente. In sintesi: candidati costretti a spese folli pur di essere eletti, spese che, naturalmente, devono «rientrare» nel corso dell’esperienza parlamentare. Competizioni a coltello, seppur metaforico, tra compagni di partito; dove, né la lealtà, né il merito, comunque, assicurano la vittoria. Condizionamenti di lobby professionali di ogni genere e un profluvio di promesse alle più svariate corporazioni e alle più fameliche clientele, promesse da mantenere, pena la mancata rielezione. Infine, un ricatto esasperante e paralizzante nei confronti dei vertici dei partiti, in nome di quel tesoretto di voti acquistato con tante fatiche e tanti denari.

Stupisce che Berlusconi, l’ex censore della vecchia politica professionale, emblema di una prima Repubblica da cancellare, abbia approvato il simbolo elettorale di quel «teatrino», per anni deplorato con toni veementi. Così come stupisce che Casini, puntando sulla collaudata «abilità» dei suoi sodali nella caccia alla preferenze, di antica marca democristiana, non si sia ricordato dei guai giudiziari, a partire dalla Sicilia, che tale metodo di voto ha procurato al suo partito. Stupisce, infine, che il moralizzatore Maroni, in cambio di una soglia di ingresso in Parlamento rassicurante per la Lega, sia disposto a barattare le preferenze, simbolo della peggiore «Roma ladrona».

Eppure, il sistema per restituire ai cittadini il potere di esprimere un chiaro giudizio, senza influenze «esterne» così determinanti c’è, ed è quello dei collegi. Una sfida semplice tra due candidati che permette a chiunque di scegliere la faccia del vincitore. Si può discutere l’ampiezza di questi collegi, perché l’alternativa tra quelli ridotti e quelli che raccolgono un gran numero di votanti presenta vantaggi e svantaggi. Ma è difficile sostenere che la trasparenza del verdetto sia assicurata in maniera migliore dal sistema delle preferenze. Sempre per quest’ultima esigenza, la prima e l’essenziale in una democrazia, i partiti potrebbero estendere, nel territorio del collegio, l’abitudine delle primarie, per sondare il gradimento popolare nei confronti dei loro candidati.

La politica impone spesso scelte complicate, ma qualche volta, come in questo caso, possono essere molto facili, se l’obiettivo è il rispetto della volontà dei cittadini. A pochi mesi dal voto, poi, nel pieno di un’ondata impressionante di scandali, sfidare così l’indignazione degli italiani fa sospettare la recondita coscienza di dover essere duramente puniti.

La Stampa 12.10.12