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"Finalmente una scelta saggia", di Paolo Leon

Molti anni fa, quando al governo c’era ancora Romano Prodi, fui chiamato a un’audizione alla Camera dei deputati sulla Tobin tax. All’epoca furoreggiava la creazione di titoli di ogni tipo, l’emissione di moneta endogena (privata), e una deregolazione selvaggia dei flussi internazionali dei capitali, e non mi sentii di sostenere, con qualche credibilità, che la Tobin tax poteva essere imposta da un solo Paese o anche dall’Unione economica e monetaria. Mi dispiaceva non aderire completamente al manifesto di Attac, e mi limitai a suggerire un’autorità di vigilanza sulle transazioni orarie e giornaliere, perché la trasparenza era forse un nemico temibile della speculazione distruttiva. La proposta piacque, non trovò orecchie attente, e non se ne fece nulla.
La Tobin tax fu considerata poco più di una provocazione sia dalle autorità di vigilanza sui mercati dei capitali sia dalla Banca d’Italia, che si nascondevano dietro al rifiuto della tassa da parte del Fondo Monetario, dell’Ocse, e dell’Unione europea. Invece, la Tobin tax, ormai lo sappiamo, non impedisce i flussi di capitali destinati ad investimenti, e perfino alla «buona» speculazione – quella che media le oscillazioni dei prezzi e delle quantità nelle transazioni internazionali. Impedisce, invece, quelle transazioni che, profittando di minime variazioni nei prezzi dei titoli, investono (qualche volta allo scoperto) gigantesche somme da realizzare in pochi minuti: si tratta di banche, società finanziarie, società di assicurazioni, agenti di cambio, fondi di ogni tipo.

Un esempio: se un operatore investe 100 milioni di dollari su un titolo nell’aspettativa di guadagnarne 100 mila, si assicura un rendimento dello 0,1%, del tutto ridicolo rispetto ai tassi di interesse bancari correnti; ma poiché si attende di guadagnare 100 mila dollari in un’ora o forse in pochi minuti, il suo guadagno in termini di tempo è enorme, superiore al suo stesso stipendio orario o a quello di un qualsiasi impiegato o operaio in qualsiasi parte del mondo. Poiché la speculazione cattiva caccia quella buona, nei lunghi anni di libera attività speculativa non solo non è stato più possibile trattare materie prime, titoli e fondi per realizzare un decente tasso di profitto, ma i prezzi di merci e titoli non erano più affidabili per chi doveva utilizzarli per obiettivi produttivi. Tra le conseguenze, è sempre stato difficile per le grandi imprese sottrarsi alla speculazione puramente finanziaria, fino al punto di trasformarle da produttori di beni e servizi a produttori di titoli, e ad assoggettarle ad acquisizioni ostili, favorendo l’aumento del grado di monopolio mondiale.

L’Italia ha detto sì alla Tobin tax in Europa. C’è n’è voluta, e l’Unità può a giusto titolo ritenere di aver dato un contributo decisivo. Del resto, questa tassa conviene soprattutto a Italia e Spagna (e Grecia e Portogallo e Irlanda), ed era incomprensibile l’opposizione del governo Monti, un governo tecnico che doveva ben conoscere i benefici della tassa per il debito pubblico. Tutto è bene quel che finisce bene? Non mi accontento, perché la questione era sul tappeto da mesi, e mentre ci si poteva attendere la passività di Berlusconi e Tremonti, non si capiva il silenzio dell’opposizione. Pongo il tema perché la Tobin tax è solo l’inizio di un processo che dovrebbe portare alla famosa, e dimenticata, nuova Bretton Woods e se l’Italia da sola non può far molto, in Europa possiamo fare moltissimo. Per portare a casa un risultato completo, infatti, è necessario che l’Europa convinca il prossimo presidente degli Usa a seguirla. Ma oggi è una buona giornata: dopo il Fondo salva stati, che combatte la speculazione sul debito pubblico e umilia le agenzie di rating, la Tobin tax potrebbe tagliare le unghie anche alle transazioni sui derivati, sui credit default swap, sui fondi monetari. Forse sono ottimista, ma dopo questa vittoria, chi non lo sarebbe? È tardi, ma tanto di cappello a James Tobin, deriso e umiliato, e oggi vendicato.

L’Unità 10.10.12

"Finalmente una scelta saggia", di Paolo Leon

Molti anni fa, quando al governo c’era ancora Romano Prodi, fui chiamato a un’audizione alla Camera dei deputati sulla Tobin tax. All’epoca furoreggiava la creazione di titoli di ogni tipo, l’emissione di moneta endogena (privata), e una deregolazione selvaggia dei flussi internazionali dei capitali, e non mi sentii di sostenere, con qualche credibilità, che la Tobin tax poteva essere imposta da un solo Paese o anche dall’Unione economica e monetaria. Mi dispiaceva non aderire completamente al manifesto di Attac, e mi limitai a suggerire un’autorità di vigilanza sulle transazioni orarie e giornaliere, perché la trasparenza era forse un nemico temibile della speculazione distruttiva. La proposta piacque, non trovò orecchie attente, e non se ne fece nulla.
La Tobin tax fu considerata poco più di una provocazione sia dalle autorità di vigilanza sui mercati dei capitali sia dalla Banca d’Italia, che si nascondevano dietro al rifiuto della tassa da parte del Fondo Monetario, dell’Ocse, e dell’Unione europea. Invece, la Tobin tax, ormai lo sappiamo, non impedisce i flussi di capitali destinati ad investimenti, e perfino alla «buona» speculazione – quella che media le oscillazioni dei prezzi e delle quantità nelle transazioni internazionali. Impedisce, invece, quelle transazioni che, profittando di minime variazioni nei prezzi dei titoli, investono (qualche volta allo scoperto) gigantesche somme da realizzare in pochi minuti: si tratta di banche, società finanziarie, società di assicurazioni, agenti di cambio, fondi di ogni tipo.
Un esempio: se un operatore investe 100 milioni di dollari su un titolo nell’aspettativa di guadagnarne 100 mila, si assicura un rendimento dello 0,1%, del tutto ridicolo rispetto ai tassi di interesse bancari correnti; ma poiché si attende di guadagnare 100 mila dollari in un’ora o forse in pochi minuti, il suo guadagno in termini di tempo è enorme, superiore al suo stesso stipendio orario o a quello di un qualsiasi impiegato o operaio in qualsiasi parte del mondo. Poiché la speculazione cattiva caccia quella buona, nei lunghi anni di libera attività speculativa non solo non è stato più possibile trattare materie prime, titoli e fondi per realizzare un decente tasso di profitto, ma i prezzi di merci e titoli non erano più affidabili per chi doveva utilizzarli per obiettivi produttivi. Tra le conseguenze, è sempre stato difficile per le grandi imprese sottrarsi alla speculazione puramente finanziaria, fino al punto di trasformarle da produttori di beni e servizi a produttori di titoli, e ad assoggettarle ad acquisizioni ostili, favorendo l’aumento del grado di monopolio mondiale.
L’Italia ha detto sì alla Tobin tax in Europa. C’è n’è voluta, e l’Unità può a giusto titolo ritenere di aver dato un contributo decisivo. Del resto, questa tassa conviene soprattutto a Italia e Spagna (e Grecia e Portogallo e Irlanda), ed era incomprensibile l’opposizione del governo Monti, un governo tecnico che doveva ben conoscere i benefici della tassa per il debito pubblico. Tutto è bene quel che finisce bene? Non mi accontento, perché la questione era sul tappeto da mesi, e mentre ci si poteva attendere la passività di Berlusconi e Tremonti, non si capiva il silenzio dell’opposizione. Pongo il tema perché la Tobin tax è solo l’inizio di un processo che dovrebbe portare alla famosa, e dimenticata, nuova Bretton Woods e se l’Italia da sola non può far molto, in Europa possiamo fare moltissimo. Per portare a casa un risultato completo, infatti, è necessario che l’Europa convinca il prossimo presidente degli Usa a seguirla. Ma oggi è una buona giornata: dopo il Fondo salva stati, che combatte la speculazione sul debito pubblico e umilia le agenzie di rating, la Tobin tax potrebbe tagliare le unghie anche alle transazioni sui derivati, sui credit default swap, sui fondi monetari. Forse sono ottimista, ma dopo questa vittoria, chi non lo sarebbe? È tardi, ma tanto di cappello a James Tobin, deriso e umiliato, e oggi vendicato.
L’Unità 10.10.12

"Il moderato immaginario", di Piero Ignazi

Le primarie non riguardano solo il Partito democratico e i suoi alleati. Hanno un impatto sistemico. Con la loro onda d’urto investono anche il fronte opposto. La lunga stasi del Pdl, ondeggiante tra i richiami alle doti salvifiche del padre fondatore e il liberi tutti, è stata scossa dall’avvio ufficiale di primarie competitive e combattute. Il rilancio di Berlusconi con l’ennesima profferta a Casini & Co., rafforzata dalla graziosa concessione della premiership a Mario Monti (come se il capo del governo aspettasse il via libera dal Cavaliere…), ha tutta l’aria di una risposta maldestra all’accelerazione impressa dal Pd. Berlusconi pensa forse di ripetere l’operazione predellino quando riuscì a stoppare la progressione del neonato Partito democratico. Ma i tempi sono cambiati. Il Cavaliere ha perso il tocco magico. Nel suo partito si agitano componenti e aggregazioni di vario tipo e da alcuni anni si contano almeno una decina di ‘fondazioni'( eufemismo che sta per correnti). Finora, in un modo o nell’altro, Berlusconi e suoi emissari sono riusciti a convincere i riottosi a rimanere tranquilli. Ora però, con un rischio di emarginazione crescente di giorno in giorno, i vari sub-leader scalpitano. L’ipotesi del passo indietro non basta a placare le ansie delle componenti interne: oltre alla perdita di centralità politica, monta nei quadri pidiellini l’insofferenza per le tradizionali modalità verticistiche e oligarchiche di selezione della classe dirigente e di formazione delle liste. L’affanno del Pdl è speculare – e conseguente – all’inedito dinamismo del Pd.
Il Partito democratico è riuscito a superare di slancio lo scoglio dell’Assemblea. Molti all’interno del partito avevano cercato di evitare questo confronto per il timore di profonde divisioni. In effetti, l’unità, l’armonia, la coesione sono valori/immagini che contano nel rapporto con l’opinione pubblica. L’elettorato apprezza un partito unito che parli con una voce sola. I laburisti britannici scoprirono all’inizio degli anni Novanta che il loro maggior handicap
era proprio l’immagine di rissosità interna che veniva proiettata dai congressi annuali del partito, tant’è che modificarono le regole pur di arrivare a convention rilassate e plaudenti. E la lunga egemonia del New Labour di Tony Blair si deve anche a quella nuova percezione.
Tuttavia i conflitti interni sono la norma nella vita dei partiti. Scontri ideologici e conflitti di personalità, sgambetti e insulti sono all’ordine del giorno. Ma all’interno dei partiti, come in ogni comunità o organizzazione, i conflitti devono essere ‘regolati’, pena l’autodistruzione. Il Pd ha scelto una via aperta e palese per dirimere lo scontro tra i candidati alla premiership. Con tenacia e solidità da emiliano doc Bersani ha guidato un partito ridondante di prime donne offese ad accogliere senza inutili irrigidimenti la sfida impertinente di Renzi. Bersani ha capito che l’opinione pubblica e la base militante del suo stesso partito hanno bisogno di trasparenza e di aria pulita. Non ne possono più di accordi di vertice e di parate di dirigenti su palchi infiniti, da presidium sovietico. Gli stessi quadri del Partito democratico, intervistati al congresso del 2009, erano quasi al 90% favorevoli a primarie sempre e comunque. E così, Renzi, con quell’aria da Lucignolo dell’Azione cattolica, ha incassato come un atto dovuto la modifica statutaria varata proprio per consentirgli di correre (in attesa di quella legislativa che gli permetta di candidarsi a premier senza dimettersi da sindaco).
La decisione del Pd fa da acceleratore per un possibile big bang del Pdl. La presa patrimonial-leninista del Cavaliere non tiene più: anche da quelle parti ‘il popolo’ vuole partecipare. Va riconosciuto merito a Bersani di aver rotto l’incantesimo del plebiscitarismo ed ampliato spazi di autentica democrazia partecipativa.

La Repubblica 10.10.12

"Il moderato immaginario", di Piero Ignazi

Le primarie non riguardano solo il Partito democratico e i suoi alleati. Hanno un impatto sistemico. Con la loro onda d’urto investono anche il fronte opposto. La lunga stasi del Pdl, ondeggiante tra i richiami alle doti salvifiche del padre fondatore e il liberi tutti, è stata scossa dall’avvio ufficiale di primarie competitive e combattute. Il rilancio di Berlusconi con l’ennesima profferta a Casini & Co., rafforzata dalla graziosa concessione della premiership a Mario Monti (come se il capo del governo aspettasse il via libera dal Cavaliere…), ha tutta l’aria di una risposta maldestra all’accelerazione impressa dal Pd. Berlusconi pensa forse di ripetere l’operazione predellino quando riuscì a stoppare la progressione del neonato Partito democratico. Ma i tempi sono cambiati. Il Cavaliere ha perso il tocco magico. Nel suo partito si agitano componenti e aggregazioni di vario tipo e da alcuni anni si contano almeno una decina di ‘fondazioni'( eufemismo che sta per correnti). Finora, in un modo o nell’altro, Berlusconi e suoi emissari sono riusciti a convincere i riottosi a rimanere tranquilli. Ora però, con un rischio di emarginazione crescente di giorno in giorno, i vari sub-leader scalpitano. L’ipotesi del passo indietro non basta a placare le ansie delle componenti interne: oltre alla perdita di centralità politica, monta nei quadri pidiellini l’insofferenza per le tradizionali modalità verticistiche e oligarchiche di selezione della classe dirigente e di formazione delle liste. L’affanno del Pdl è speculare – e conseguente – all’inedito dinamismo del Pd.
Il Partito democratico è riuscito a superare di slancio lo scoglio dell’Assemblea. Molti all’interno del partito avevano cercato di evitare questo confronto per il timore di profonde divisioni. In effetti, l’unità, l’armonia, la coesione sono valori/immagini che contano nel rapporto con l’opinione pubblica. L’elettorato apprezza un partito unito che parli con una voce sola. I laburisti britannici scoprirono all’inizio degli anni Novanta che il loro maggior handicap
era proprio l’immagine di rissosità interna che veniva proiettata dai congressi annuali del partito, tant’è che modificarono le regole pur di arrivare a convention rilassate e plaudenti. E la lunga egemonia del New Labour di Tony Blair si deve anche a quella nuova percezione.
Tuttavia i conflitti interni sono la norma nella vita dei partiti. Scontri ideologici e conflitti di personalità, sgambetti e insulti sono all’ordine del giorno. Ma all’interno dei partiti, come in ogni comunità o organizzazione, i conflitti devono essere ‘regolati’, pena l’autodistruzione. Il Pd ha scelto una via aperta e palese per dirimere lo scontro tra i candidati alla premiership. Con tenacia e solidità da emiliano doc Bersani ha guidato un partito ridondante di prime donne offese ad accogliere senza inutili irrigidimenti la sfida impertinente di Renzi. Bersani ha capito che l’opinione pubblica e la base militante del suo stesso partito hanno bisogno di trasparenza e di aria pulita. Non ne possono più di accordi di vertice e di parate di dirigenti su palchi infiniti, da presidium sovietico. Gli stessi quadri del Partito democratico, intervistati al congresso del 2009, erano quasi al 90% favorevoli a primarie sempre e comunque. E così, Renzi, con quell’aria da Lucignolo dell’Azione cattolica, ha incassato come un atto dovuto la modifica statutaria varata proprio per consentirgli di correre (in attesa di quella legislativa che gli permetta di candidarsi a premier senza dimettersi da sindaco).
La decisione del Pd fa da acceleratore per un possibile big bang del Pdl. La presa patrimonial-leninista del Cavaliere non tiene più: anche da quelle parti ‘il popolo’ vuole partecipare. Va riconosciuto merito a Bersani di aver rotto l’incantesimo del plebiscitarismo ed ampliato spazi di autentica democrazia partecipativa.
La Repubblica 10.10.12

"Come (non) criticare Matteo Renzi", di Stefano Menichini

Come solo Bersani, tra i suoi, ha mostrato di aver compreso l’enorme potenzialità delle primarie aperte per il bene dell’intero Pd, così solo Bersani sembra aver colto il vero punto debole di Matteo Renzi. Quando lo invita ad avere fiducia «in tutto il partito», e non solo nel segretario, intercetta un umore diffuso nel Pd verso il sindaco di Firenze: verso di lui ormai c’è rispetto (anche nella versione che trasforma il rispetto in paura) e ammirazione, ma c’è anche la sensazione (fra i suoi stessi sostenitori) che se appena potesse Renzi farebbe a meno del mondo intero e sicuramente di tutti i militanti e dirigenti democratici, come per molto tempo ha fatto a meno di consiglieri e alleati politici.
Insomma, un leader troppo convinto di sé per aver bisogno di altri. Allergico al concetto di comunità e ai luoghi nei quali una comunità si ritrova, si organizza, si confronta (anche con successo, com’è accaduto sabato a Roma). E questo è forse l’unico tratto di scarsa modernità di Renzi, in un tempo nel quale la domanda di partecipazione e di potere decisionale da parte dei cittadini va molto oltre il diritto a presentarsi una domenica in un gazebo senza dover presentare le analisi del sangue e l’intero albo genealogico.
Detto questo, gli altri avversari di Renzi fin qui sparano solo colpi a vuoto.
Diventa controproducente l’accusa di aver copiato i programmi del partito. È paradossale la pretesa di non togliere voti alla destra. Offende la continua chiamata in causa di Giorgio Gori, la cui disponibilità e passione andrebbe viceversa lodata. Appare forzata, infondata e curiosamente “antipolitica” la verve inquisitoria sul finanziamento della campagna elettorale. E se qualcuno anonimamente insinua addirittura di aiuti economici dall’estero, «da Israele», la cosa sarebbe comica se non puzzasse insopportabilmente di antisemitismo (scommettiamo che nessuno si assumerà la paternità di una simile stupidaggine).
Quanto a molti dirigenti ex popolari usciti malconci dall’assemblea di sabato, va loro riconosciuto il diritto almeno all’autodifesa visto che Renzi incarna di per sé – al di là dei suoi intenti rottamatori – la potenziale fine del loro ciclo politico.
Una lunghissima stagione di abili scelte tattiche si chiude, nel momento di scegliere fra il lontano Vendola, il socialdemocratico Bersani (fattosi insofferente di ogni rendita di posizione interna, non solo quella ex popolare) e l’ex giovane ragazzo di parrocchia Renzi, il peggiore di tutti i mali. Fa perfino tenerezza l’ingenuità di un vecchio lupo come Franco Marini che il giorno dopo una pessima esibizione assembleare confessa: gli avevo chiesto di aspettare, perché non ha aspettato…
Aspettare non è più un’opzione. Ripararsi all’ombra di leadership altrui non paga più. E sacrificare, per vero o per finta, le proprie ambizioni personali, diversamente dal passato democristiano e comunista suona più ipocrita che virtuoso. Questo è un modus vivendi, prima ancora che operandi, anacronistico e improponibile.
Renzi può essere battuto sul terreno dell’affidabilità, dell’affabilità, della capacità di condividere un progetto collettivo: diffamazioni, scomuniche e paternalismi gli rimbalzano addosso e tornano indietro.

da Europa Quotidiano 09.10.12

"Come (non) criticare Matteo Renzi", di Stefano Menichini

Come solo Bersani, tra i suoi, ha mostrato di aver compreso l’enorme potenzialità delle primarie aperte per il bene dell’intero Pd, così solo Bersani sembra aver colto il vero punto debole di Matteo Renzi. Quando lo invita ad avere fiducia «in tutto il partito», e non solo nel segretario, intercetta un umore diffuso nel Pd verso il sindaco di Firenze: verso di lui ormai c’è rispetto (anche nella versione che trasforma il rispetto in paura) e ammirazione, ma c’è anche la sensazione (fra i suoi stessi sostenitori) che se appena potesse Renzi farebbe a meno del mondo intero e sicuramente di tutti i militanti e dirigenti democratici, come per molto tempo ha fatto a meno di consiglieri e alleati politici.
Insomma, un leader troppo convinto di sé per aver bisogno di altri. Allergico al concetto di comunità e ai luoghi nei quali una comunità si ritrova, si organizza, si confronta (anche con successo, com’è accaduto sabato a Roma). E questo è forse l’unico tratto di scarsa modernità di Renzi, in un tempo nel quale la domanda di partecipazione e di potere decisionale da parte dei cittadini va molto oltre il diritto a presentarsi una domenica in un gazebo senza dover presentare le analisi del sangue e l’intero albo genealogico.
Detto questo, gli altri avversari di Renzi fin qui sparano solo colpi a vuoto.
Diventa controproducente l’accusa di aver copiato i programmi del partito. È paradossale la pretesa di non togliere voti alla destra. Offende la continua chiamata in causa di Giorgio Gori, la cui disponibilità e passione andrebbe viceversa lodata. Appare forzata, infondata e curiosamente “antipolitica” la verve inquisitoria sul finanziamento della campagna elettorale. E se qualcuno anonimamente insinua addirittura di aiuti economici dall’estero, «da Israele», la cosa sarebbe comica se non puzzasse insopportabilmente di antisemitismo (scommettiamo che nessuno si assumerà la paternità di una simile stupidaggine).
Quanto a molti dirigenti ex popolari usciti malconci dall’assemblea di sabato, va loro riconosciuto il diritto almeno all’autodifesa visto che Renzi incarna di per sé – al di là dei suoi intenti rottamatori – la potenziale fine del loro ciclo politico.
Una lunghissima stagione di abili scelte tattiche si chiude, nel momento di scegliere fra il lontano Vendola, il socialdemocratico Bersani (fattosi insofferente di ogni rendita di posizione interna, non solo quella ex popolare) e l’ex giovane ragazzo di parrocchia Renzi, il peggiore di tutti i mali. Fa perfino tenerezza l’ingenuità di un vecchio lupo come Franco Marini che il giorno dopo una pessima esibizione assembleare confessa: gli avevo chiesto di aspettare, perché non ha aspettato…
Aspettare non è più un’opzione. Ripararsi all’ombra di leadership altrui non paga più. E sacrificare, per vero o per finta, le proprie ambizioni personali, diversamente dal passato democristiano e comunista suona più ipocrita che virtuoso. Questo è un modus vivendi, prima ancora che operandi, anacronistico e improponibile.
Renzi può essere battuto sul terreno dell’affidabilità, dell’affabilità, della capacità di condividere un progetto collettivo: diffamazioni, scomuniche e paternalismi gli rimbalzano addosso e tornano indietro.
da Europa Quotidiano 09.10.12

"Arriva la Tobin tax anche senza Londra", di Maurizio Ricci

Alla fine, la Tobin tax, la tosatura fiscale sugli affari della finanza, arriva davvero. C’è chi dice subito, già nel 2013, come il governo italiano che, alla fine, si è schierato a favore. E c’è chi dice dal 2014. In effetti, il varo è avvenuto un po’ a sorpresa. Neanche la commissione se lo aspettava gia ieri: ora il programma è di approntare un testo entro novembre e di benedire la tassa entro dicembre. Ma sarà un percorso complicato: si tratta di decidere come pagarla e, soprattutto, cosa fare dei soldi. E anche di ridimensionare le ambizioni. Rilanciata (l’idea originaria è degli anni ‘70 e doveva colpire le transazioni valutarie) dopo la crisi del 2008, la Tobin tax aveva, sostanzialmente, tre obiettivi: ridurre la volatilità dei mercati, chiamare a contribuzione la grande finanza che aveva generato la crisi, assicurare un gettito (teoricamente di migliaia di miliardi di dollari se applicata a livello globale) che beneficiasse, anzitutto, i paesi poveri. Di fatto, quello che rimane è un gettito di forse 20 miliardi di euro a livello europeo, tutt’altro che disprezzabile anche se modesto, rispetto alle speranze, e che sarà probabilmente impiegato a pagare gli stipendi degli statali, in giro per l’Europa.
GLI SCHIERAMENTI
Voluta fortemente da Francia e Germania, la tassa è stata sottoscritta da Italia, Portogallo, Belgio, Slovenia, Austria, Grecia, Estonia, Spagna e Slovacchia. L’assenza di Londra, la seconda piazza finanziaria al mondo, dopo New York, il più importante mercato valutario globale e il capolinea di buona parte della finanza derivata, è decisiva per i numeri della tassa. La Commissione europea ha previsto un’aliquota dello 0,1 per cento sul valore della transazione se si tratta di azioni o obbligazioni e dello 0,01 per cento sui derivati. Il risultato sarebbe stato un gettito di circa 57 miliardi di euro l’anno, se la tassa fosse stata applicata in tutta Europa: per due terzi i soldi sarebbero arrivati dall’aliquota sui derivati e, in buona misura (metà del totale), su un particolare tipo di finanza derivata, che sono gli interest swap, cioè contratti in cui le due controparti si scambiano flussi di tassi d’interesse (uno fisso e uno variabile, ad esempio), normalmente come forma di protezione dal rischio. Il problema è che il grosso delle transazioni finanziarie, in Europa, in particolare per quanto riguarda i derivati, avviene a Londra: circa due terzi del totale, secondo le stime più diffuse. A Francoforte, Parigi, Milano, di fatto, in materia restano le briciole. Si può quindi ipotizzare che il gettito della Tobin tax europea arriverà a stento a 20 miliardi di euro l’anno.
INCASSI MAGRI
Potrebbe essere anche meno, perché, in realtà, la finanza, spaventata dalla tassa, si sposterà in massa? In fondo, non serve neanche arrivare a New York, basta Londra, dove la grande finanza tedesca, francese e italiana è già presente. E’ lo spauracchio che è stato agitato a lungo, contro la Tobin tax e anche il motivo ufficiale per cui Londra ha rifiutato di aderire: non perché non la ritenga utile, ma perché pensa che possa funzionare solo se tutti la applicano a livello globale. In realtà, gli esperti — compreso un recente studio del Fmi — non avallano questa tesi. Nella finanza globale di oggi, dominata dai computer e dagli algoritmi, la vicinanza geografica al mercato, paradossalmente, conta. Perché i millisecondi che un’offerta del mio computer impiega per raggiungere, attraverso il cavo, il terminale del mio interlocutore sono oro e più corto è il cavo meno sono i millisecondi necessari.
Oggi, il prezzo di un’azione a Tokyo arriva a Londra, attraversando, via cavo, Pacifico ed Atlantico o, viceversa Oceano Indiano e Mediterraneo, nel tempo di 188 millisecondi. Ovvero, 0,188 secondi. Ma è stato calcolato che, se il ghiaccio dell’Artico si sciogliesse e fosse possibile poggiare un cavo sottomarino al Polo Nord, il tempo necessario scenderebbe a 168 millisecondi. Per un computer, 20 millisecondi sono sufficienti a compiere qualche decina di contrattazioni. Chi usasse il nuovo cavo avrebbe un forte vantaggio competitivo su chi è rimasto con il vecchio. Francoforte è assai più vicina a Londra di Tokyo, ma, ugualmente, per operare su Francoforte è più saggio stare a Francoforte.
I DESTINATARI DELLA TASSA
Tuttavia, rimarrebbe qualcosa da trattare a Francoforte, dovendo pagare la Tobin tax? La risposta degli esperti è sì. Mercati come quello tedesco, francese, italiano sono, già oggi, occupati soprattutto da aziende nazionali. Ed è difficile immaginare Deutsche Bank o Volkswagen che abbandonano la quotazione a Francoforte per emigrare sul listino della City. La vocazione internazionale di Francoforte o Parigi sarebbe frustrata, ma l’emorragia sarebbe limitata.
Della nuova tassa, si sa che non riguarderà prestiti, mutui, assicurazioni, ovvero che non la pagheranno semplici cittadini e imprese, ma banche e finanziarie sugli scambi di obbligazioni, azioni, contratti derivati. E che scatterà se una delle due controparti risiede in uno dei paesi che l’ha introdotta. Ma dove finirà il gettito? Ieri si è parlato di convogliarlo verso il bilancio Ue o di utilizzarlo per rimpolpare il Fondo salva-Stati che lo utilizzerebbe, specificamente, per i salvataggi bancari. Ma è molto più probabile che rimanga nelle casse dei singoli Stati. Ieri, il governo italiano ha ufficialmente inserito la Tobin tax tra gli strumenti con cui coprire le spese della Finanziaria 2013.

La Repubblica 10.10.12