Alla fine, la Tobin tax, la tosatura fiscale sugli affari della finanza, arriva davvero. C’è chi dice subito, già nel 2013, come il governo italiano che, alla fine, si è schierato a favore. E c’è chi dice dal 2014. In effetti, il varo è avvenuto un po’ a sorpresa. Neanche la commissione se lo aspettava gia ieri: ora il programma è di approntare un testo entro novembre e di benedire la tassa entro dicembre. Ma sarà un percorso complicato: si tratta di decidere come pagarla e, soprattutto, cosa fare dei soldi. E anche di ridimensionare le ambizioni. Rilanciata (l’idea originaria è degli anni ‘70 e doveva colpire le transazioni valutarie) dopo la crisi del 2008, la Tobin tax aveva, sostanzialmente, tre obiettivi: ridurre la volatilità dei mercati, chiamare a contribuzione la grande finanza che aveva generato la crisi, assicurare un gettito (teoricamente di migliaia di miliardi di dollari se applicata a livello globale) che beneficiasse, anzitutto, i paesi poveri. Di fatto, quello che rimane è un gettito di forse 20 miliardi di euro a livello europeo, tutt’altro che disprezzabile anche se modesto, rispetto alle speranze, e che sarà probabilmente impiegato a pagare gli stipendi degli statali, in giro per l’Europa.
GLI SCHIERAMENTI
Voluta fortemente da Francia e Germania, la tassa è stata sottoscritta da Italia, Portogallo, Belgio, Slovenia, Austria, Grecia, Estonia, Spagna e Slovacchia. L’assenza di Londra, la seconda piazza finanziaria al mondo, dopo New York, il più importante mercato valutario globale e il capolinea di buona parte della finanza derivata, è decisiva per i numeri della tassa. La Commissione europea ha previsto un’aliquota dello 0,1 per cento sul valore della transazione se si tratta di azioni o obbligazioni e dello 0,01 per cento sui derivati. Il risultato sarebbe stato un gettito di circa 57 miliardi di euro l’anno, se la tassa fosse stata applicata in tutta Europa: per due terzi i soldi sarebbero arrivati dall’aliquota sui derivati e, in buona misura (metà del totale), su un particolare tipo di finanza derivata, che sono gli interest swap, cioè contratti in cui le due controparti si scambiano flussi di tassi d’interesse (uno fisso e uno variabile, ad esempio), normalmente come forma di protezione dal rischio. Il problema è che il grosso delle transazioni finanziarie, in Europa, in particolare per quanto riguarda i derivati, avviene a Londra: circa due terzi del totale, secondo le stime più diffuse. A Francoforte, Parigi, Milano, di fatto, in materia restano le briciole. Si può quindi ipotizzare che il gettito della Tobin tax europea arriverà a stento a 20 miliardi di euro l’anno.
INCASSI MAGRI
Potrebbe essere anche meno, perché, in realtà, la finanza, spaventata dalla tassa, si sposterà in massa? In fondo, non serve neanche arrivare a New York, basta Londra, dove la grande finanza tedesca, francese e italiana è già presente. E’ lo spauracchio che è stato agitato a lungo, contro la Tobin tax e anche il motivo ufficiale per cui Londra ha rifiutato di aderire: non perché non la ritenga utile, ma perché pensa che possa funzionare solo se tutti la applicano a livello globale. In realtà, gli esperti — compreso un recente studio del Fmi — non avallano questa tesi. Nella finanza globale di oggi, dominata dai computer e dagli algoritmi, la vicinanza geografica al mercato, paradossalmente, conta. Perché i millisecondi che un’offerta del mio computer impiega per raggiungere, attraverso il cavo, il terminale del mio interlocutore sono oro e più corto è il cavo meno sono i millisecondi necessari.
Oggi, il prezzo di un’azione a Tokyo arriva a Londra, attraversando, via cavo, Pacifico ed Atlantico o, viceversa Oceano Indiano e Mediterraneo, nel tempo di 188 millisecondi. Ovvero, 0,188 secondi. Ma è stato calcolato che, se il ghiaccio dell’Artico si sciogliesse e fosse possibile poggiare un cavo sottomarino al Polo Nord, il tempo necessario scenderebbe a 168 millisecondi. Per un computer, 20 millisecondi sono sufficienti a compiere qualche decina di contrattazioni. Chi usasse il nuovo cavo avrebbe un forte vantaggio competitivo su chi è rimasto con il vecchio. Francoforte è assai più vicina a Londra di Tokyo, ma, ugualmente, per operare su Francoforte è più saggio stare a Francoforte.
I DESTINATARI DELLA TASSA
Tuttavia, rimarrebbe qualcosa da trattare a Francoforte, dovendo pagare la Tobin tax? La risposta degli esperti è sì. Mercati come quello tedesco, francese, italiano sono, già oggi, occupati soprattutto da aziende nazionali. Ed è difficile immaginare Deutsche Bank o Volkswagen che abbandonano la quotazione a Francoforte per emigrare sul listino della City. La vocazione internazionale di Francoforte o Parigi sarebbe frustrata, ma l’emorragia sarebbe limitata.
Della nuova tassa, si sa che non riguarderà prestiti, mutui, assicurazioni, ovvero che non la pagheranno semplici cittadini e imprese, ma banche e finanziarie sugli scambi di obbligazioni, azioni, contratti derivati. E che scatterà se una delle due controparti risiede in uno dei paesi che l’ha introdotta. Ma dove finirà il gettito? Ieri si è parlato di convogliarlo verso il bilancio Ue o di utilizzarlo per rimpolpare il Fondo salva-Stati che lo utilizzerebbe, specificamente, per i salvataggi bancari. Ma è molto più probabile che rimanga nelle casse dei singoli Stati. Ieri, il governo italiano ha ufficialmente inserito la Tobin tax tra gli strumenti con cui coprire le spese della Finanziaria 2013.
La Repubblica 10.10.12
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"Dove sono finiti i soldi per gli scatti di anzianità?", da Tuttoscuola.it
I sindacati hanno affermato che da diverso tempo è stata fatta la certificazione delle economie. I soldi, dunque, ci sarebbero e non sarebbe in discussione la copertura finanziaria. È, quindi, lecito pensare che quei fondi abbiano preso un’altra direzione. Quale? Mentre un rapporto pubblicato dalla Commissione europea, in occasione della Giornata mondiale degli insegnanti, rende noto che in 16 paesi europei, fra cui l’Italia, gli stipendi degli insegnanti sono stati ridotti o bloccati a causa della crisi economica e delle politiche di austerità dei governi, i sindacati della scuola italiani sono mobilitati per attenuare in parte quella situazione retributiva critica, cercando di strappare al ministro Profumo il sospirato ok per gli scatti di anzianità maturati l’anno scorso.
Come è noto, il sì agli scatti di anzianità del 2011 il ministro lo aveva, a parole, già dato più volte da Natale all’estate scorsa, ma l’atto di indirizzo necessario per aprire la trattativa all’Aran, promesso nel giugno scorso, non è mai arrivato. Da qui l’ultimatum dei sindacati prima di passare alla mobilitazione.
Poiché il ministro non è uno smemorato o un distratto, deve esserci una ragione forte per giustificare questo vuoto di azione. Quale, se non la mancanza di fondi?
I sindacati hanno affermato che da diverso tempo è stata fatta la certificazione delle economie. I soldi, dunque, ci sarebbero e non sarebbe in discussione la copertura finanziaria. È, quindi, lecito pensare che quei fondi abbiano preso un’altra direzione. Quale?
Non si possono che fare supposizioni. Per esempio, da diversi mesi il ministro è impegnato a perseguire l’obiettivo della scuola digitale. Una rivoluzione che richiede risorse economiche sia per elaborare i necessari progetti di ricerca sia per assegnare dotazioni alle scuole.
Il meccanismo della digitalizzazione sta muovendo risorse cospicue che, data la crisi, il Miur non ha completamente a disposizione e che lo costringono ad attingere a capitoli di spesa che avevano altra finalità (come è successo, ad esempio, ai 12 milioni tolti alle sezioni primavera).
Vuoi vedere che il digitale ha cannibalizzato gli scatti di anzianità?
da Tuttoscuola.it
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Come è noto, il sì agli scatti di anzianità del 2011 il ministro lo aveva, a parole, già dato più volte da Natale all’estate scorsa, ma l’atto di indirizzo necessario per aprire la trattativa all’Aran, promesso nel giugno scorso, non è mai arrivato. Da qui l’ultimatum dei sindacati prima di passare alla mobilitazione.
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"Il ritorno alla realtà e il sogno fiscale", di Massimo Giannini
Bentornati nel mondo reale. Immersi nel fango della questione morale e nel carosello della campagna elettorale, i partiti della strana maggioranza si erano quasi dimenticati dell’emergenza economica italiana. La legge di stabilità del governo Monti è una scossa che riporta tutti al principio di realtà. Una scossa necessaria, se si guarda al grafico dell’indebitamento finanziario strutturale, che ci siamo impegnati a riportare in surplus già a partire dall’anno prossimo. Una scossa violenta, se si guarda alle drammatiche condizioni materiali di un Paese già stremato dai sacrifici. E dunque una scossa non proprio salutare per l’economia reale, ancorché mitigata da una piccola svolta, e cioè l’avvio di quel «percorso » di riduzione della pressione fiscale che il presidente del Consiglio aveva negato solo una settimana fa.
«Non è un’altra manovra», giura il ministro del Tesoro Grilli. Ma si fa fatica a definire in un altro modo un pacchetto di misure da 11,6 miliardi, che arriva appena dieci mesi dopo il decreto Salva-Italia da oltre 30 miliardi. Questa legge, nella forma e nella sostanza, è a tutti gli effetti una Finanziaria bis. La quantità degli interventi non è in discussione: se vogliamo portare al tavolo dell’Unione europea il pareggio di bilancio, questi sono i saldi da rispettare. Ma la qualità delle decisioni del governo soddisfa solo in parte.
La novità più rilevante, dunque, riguarda le entrate. La riduzione di 1 punto delle due aliquote Irpef più basse della curva è una prima inversione di rotta, sulla via della restituzione agli onesti di quanto finora è stato sottratto all’Erario dai disonesti. Si può fare di più e di meglio per sostenere il reddito delle famiglie meno abbienti, visto che a causa dello scandalo di un’evasione da 260 miliardi di euro l’anno la prima aliquota dell’imposta personale la pagano
molti imprenditori, artigiani e lavoratori autonomi che non nascondono le tasse. Ma è comunque un segno d’attenzione verso i deboli, che finora non sono stati proprio al centro dei pensieri di questo governo. E pazienza se per finanziare questo sgravio aumenterà l’Iva: un minor prelievo in busta paga si sente molto più di un alleggerimento dell’imposta sui consumi. Resta, sul fronte fiscale, il rammarico per l’introduzione effettiva dell’Imu sugli immobili ad uso commerciale della Chiesa solo a partire dal 2013, quando i comuni cittadini il prelievo sul mattone hanno già iniziato a pagarlo da giugno di quest’anno. Sul fronte dei tagli, le lacrime di coccodrillo dei governatori regionali non ci possono impietosire. Dopo quello che è successo e succede nel Lazio e in Lombardia, in Campania o in Calabria, il nuovo giro di vite sugli enti locali ci sta tutto. Si arrangino loro, con meno ostriche e meno consulenze. Quello che si fa fatica ad accettare, invece, è un ulteriore colpo sulla spesa sanitaria e sul pubblico impiego. Non c’era proprio alternativa al taglio di un altro miliardo ai bilanci delle Asl, con tetti di spesa già all’osso sul costo degli apparecchi e degli appalti e strette odiose sui permessi per l’assistenza dei disabili? Non c’era altra via per risparmiare risorse, se non congelando fino al 2017 i contratti degli statali, già bloccati nel triennio passato dal governo Berlusconi?
E non c’era altro modo di contenere i costi, se non fissando un nuovo vincolo del 3% l’anno al già risibile budget della spesa universitaria?
Con questi interventi, selettivi al contrario, la spending review assume i contorni dell’accanimento terapeutico. E ancora una volta, i tecnici dimostrano di avere più attitudine per la contabilità nazionale, meno per l’equità sociale. Detto questo, la Legge di Stabilità si porta dietro due implicazioni che impongono una riflessione.
La prima implicazione è economica. Proprio nel giorno in cui l’Istat fotografa una caduta del 4,1% del potere d’acquisto dei salari e il Fondo monetario certifica il crollo del 2,3% del Pil di quest’anno, la manovra aggiuntiva del governo conferma che l’Italia, come del resto la Spagna e in prospettiva la stessa Francia, ha ormai imboccato un sentiero che conduce ad Atene,
e non a Berlino. La spirale più recessione- più rigore sta dispiegando i suoi effetti micidiali. I tagli di spesa e i recuperi di evasione possono finanziare ben poco, oltre al maggior fabbisogno determinato dalla caduta del denominatore nel rapporto deficit/ Pil e debito/Pil. E l’aggiustamento, per un Paese che non può più neanche immaginare ulteriori inasprimenti d’imposta in stile Hollande, non può non avvenire ormai a carico del Welfare. Cioè attraverso la riduzione ancora più spinta del peri metro di una spesa sociale già di per se iniqua e squilibrata.
È la via “mercantilistica” alle correzioni di bilancio, che genera bilanci pubblici a impatto sempre più regressivo e recessivo. Vale per oggi, ma vale anche per domani. Stretta in questa morsa, e a dispetto di qualche previsione fin troppo generosa del premier, l’Italia non vedrà alcuna ripresa nel 2013. Se ne riparla nel 2014, se va bene. E se non ci fosse da piangere, farebbe sorridere la comicità involontaria di chi, nella Legge di Stabilità appena varata, ha inserito anche una norma per il risparmio energetico denominata «Operazione cieli bui». Mai formula fu più azzeccata, non solo per declinare qui ed ora un tocco di “austerity” da Anni Settanta, ma anche per tracciare l’orizzonte generale del Paese nei prossimi due anni. La seconda implicazione è politica. Al di là delle apparenze e delle esigenze imposte dalla fase, tra il governo Monti e i partiti che lo sostengono c’è un corto circuito sempre più evidente. A Pd, Pdl e Udc che vagheggiano suggestive riscritture bipartisan della riforma previdenziale della Fornero, il premier contrappone l’irriducibile coerenza dei saldi contabili e l’inevitabile cogenza degli impegni europei. È in atto uno strano paradosso: mentre i leader di una politica in affanno nel centrosinistra e in disarmo nel centrodestra lanciano Monti per la legislatura che sta per cominciare, lo contestano nella legislatura che deve ancora finire. Ma forse c’è una via d’uscita anche a questo paradosso. Il Professore, grazie al suo prestigio e alla sua autorevolezza, ha evitato al Paese la bancarotta, e lo ha riportato agli onori del mondo. Ma nella sua azione di governo ci sono luci e ombre, cose ben fatte e occasioni mancate. Come dimostra l’ultima stangata decisa in perfetta autonomia dall’Eliseo, per gli Stati di Eurolandia le «condizionalità» del risanamento concordato con la Ue, presenti e future, riguardano la fedeltà complessiva al patto comunitario, non l’adesione acritica a un unico modello di sviluppo. Investono l’equilibrio complessivo di bilancio, non le azioni specifiche necessarie per raggiungerlo. in questa chiave, quella che si sta innescando intorno alla cosiddetta Agenda Monti rischia di essere una polemica inutile e dannosa.
Le politiche economiche sono frutto di una scelta, non di un destino. L’Italia ha un solo vincolo invalicabile (ormai anche di rango costituzionale) che chiunque vinca le elezioni dovrà ricordare e rispettare: non si può finanziare più una sola spesa in deficit. Tutto il resto è politica, dunque arte del possibile. Anche dopo il 2013, il vero valore aggiunto è Monti, non la sua Agenda.
La Repubblica 10.10.12
"Il ritorno alla realtà e il sogno fiscale", di Massimo Giannini
Bentornati nel mondo reale. Immersi nel fango della questione morale e nel carosello della campagna elettorale, i partiti della strana maggioranza si erano quasi dimenticati dell’emergenza economica italiana. La legge di stabilità del governo Monti è una scossa che riporta tutti al principio di realtà. Una scossa necessaria, se si guarda al grafico dell’indebitamento finanziario strutturale, che ci siamo impegnati a riportare in surplus già a partire dall’anno prossimo. Una scossa violenta, se si guarda alle drammatiche condizioni materiali di un Paese già stremato dai sacrifici. E dunque una scossa non proprio salutare per l’economia reale, ancorché mitigata da una piccola svolta, e cioè l’avvio di quel «percorso » di riduzione della pressione fiscale che il presidente del Consiglio aveva negato solo una settimana fa.
«Non è un’altra manovra», giura il ministro del Tesoro Grilli. Ma si fa fatica a definire in un altro modo un pacchetto di misure da 11,6 miliardi, che arriva appena dieci mesi dopo il decreto Salva-Italia da oltre 30 miliardi. Questa legge, nella forma e nella sostanza, è a tutti gli effetti una Finanziaria bis. La quantità degli interventi non è in discussione: se vogliamo portare al tavolo dell’Unione europea il pareggio di bilancio, questi sono i saldi da rispettare. Ma la qualità delle decisioni del governo soddisfa solo in parte.
La novità più rilevante, dunque, riguarda le entrate. La riduzione di 1 punto delle due aliquote Irpef più basse della curva è una prima inversione di rotta, sulla via della restituzione agli onesti di quanto finora è stato sottratto all’Erario dai disonesti. Si può fare di più e di meglio per sostenere il reddito delle famiglie meno abbienti, visto che a causa dello scandalo di un’evasione da 260 miliardi di euro l’anno la prima aliquota dell’imposta personale la pagano
molti imprenditori, artigiani e lavoratori autonomi che non nascondono le tasse. Ma è comunque un segno d’attenzione verso i deboli, che finora non sono stati proprio al centro dei pensieri di questo governo. E pazienza se per finanziare questo sgravio aumenterà l’Iva: un minor prelievo in busta paga si sente molto più di un alleggerimento dell’imposta sui consumi. Resta, sul fronte fiscale, il rammarico per l’introduzione effettiva dell’Imu sugli immobili ad uso commerciale della Chiesa solo a partire dal 2013, quando i comuni cittadini il prelievo sul mattone hanno già iniziato a pagarlo da giugno di quest’anno. Sul fronte dei tagli, le lacrime di coccodrillo dei governatori regionali non ci possono impietosire. Dopo quello che è successo e succede nel Lazio e in Lombardia, in Campania o in Calabria, il nuovo giro di vite sugli enti locali ci sta tutto. Si arrangino loro, con meno ostriche e meno consulenze. Quello che si fa fatica ad accettare, invece, è un ulteriore colpo sulla spesa sanitaria e sul pubblico impiego. Non c’era proprio alternativa al taglio di un altro miliardo ai bilanci delle Asl, con tetti di spesa già all’osso sul costo degli apparecchi e degli appalti e strette odiose sui permessi per l’assistenza dei disabili? Non c’era altra via per risparmiare risorse, se non congelando fino al 2017 i contratti degli statali, già bloccati nel triennio passato dal governo Berlusconi?
E non c’era altro modo di contenere i costi, se non fissando un nuovo vincolo del 3% l’anno al già risibile budget della spesa universitaria?
Con questi interventi, selettivi al contrario, la spending review assume i contorni dell’accanimento terapeutico. E ancora una volta, i tecnici dimostrano di avere più attitudine per la contabilità nazionale, meno per l’equità sociale. Detto questo, la Legge di Stabilità si porta dietro due implicazioni che impongono una riflessione.
La prima implicazione è economica. Proprio nel giorno in cui l’Istat fotografa una caduta del 4,1% del potere d’acquisto dei salari e il Fondo monetario certifica il crollo del 2,3% del Pil di quest’anno, la manovra aggiuntiva del governo conferma che l’Italia, come del resto la Spagna e in prospettiva la stessa Francia, ha ormai imboccato un sentiero che conduce ad Atene,
e non a Berlino. La spirale più recessione- più rigore sta dispiegando i suoi effetti micidiali. I tagli di spesa e i recuperi di evasione possono finanziare ben poco, oltre al maggior fabbisogno determinato dalla caduta del denominatore nel rapporto deficit/ Pil e debito/Pil. E l’aggiustamento, per un Paese che non può più neanche immaginare ulteriori inasprimenti d’imposta in stile Hollande, non può non avvenire ormai a carico del Welfare. Cioè attraverso la riduzione ancora più spinta del peri metro di una spesa sociale già di per se iniqua e squilibrata.
È la via “mercantilistica” alle correzioni di bilancio, che genera bilanci pubblici a impatto sempre più regressivo e recessivo. Vale per oggi, ma vale anche per domani. Stretta in questa morsa, e a dispetto di qualche previsione fin troppo generosa del premier, l’Italia non vedrà alcuna ripresa nel 2013. Se ne riparla nel 2014, se va bene. E se non ci fosse da piangere, farebbe sorridere la comicità involontaria di chi, nella Legge di Stabilità appena varata, ha inserito anche una norma per il risparmio energetico denominata «Operazione cieli bui». Mai formula fu più azzeccata, non solo per declinare qui ed ora un tocco di “austerity” da Anni Settanta, ma anche per tracciare l’orizzonte generale del Paese nei prossimi due anni. La seconda implicazione è politica. Al di là delle apparenze e delle esigenze imposte dalla fase, tra il governo Monti e i partiti che lo sostengono c’è un corto circuito sempre più evidente. A Pd, Pdl e Udc che vagheggiano suggestive riscritture bipartisan della riforma previdenziale della Fornero, il premier contrappone l’irriducibile coerenza dei saldi contabili e l’inevitabile cogenza degli impegni europei. È in atto uno strano paradosso: mentre i leader di una politica in affanno nel centrosinistra e in disarmo nel centrodestra lanciano Monti per la legislatura che sta per cominciare, lo contestano nella legislatura che deve ancora finire. Ma forse c’è una via d’uscita anche a questo paradosso. Il Professore, grazie al suo prestigio e alla sua autorevolezza, ha evitato al Paese la bancarotta, e lo ha riportato agli onori del mondo. Ma nella sua azione di governo ci sono luci e ombre, cose ben fatte e occasioni mancate. Come dimostra l’ultima stangata decisa in perfetta autonomia dall’Eliseo, per gli Stati di Eurolandia le «condizionalità» del risanamento concordato con la Ue, presenti e future, riguardano la fedeltà complessiva al patto comunitario, non l’adesione acritica a un unico modello di sviluppo. Investono l’equilibrio complessivo di bilancio, non le azioni specifiche necessarie per raggiungerlo. in questa chiave, quella che si sta innescando intorno alla cosiddetta Agenda Monti rischia di essere una polemica inutile e dannosa.
Le politiche economiche sono frutto di una scelta, non di un destino. L’Italia ha un solo vincolo invalicabile (ormai anche di rango costituzionale) che chiunque vinca le elezioni dovrà ricordare e rispettare: non si può finanziare più una sola spesa in deficit. Tutto il resto è politica, dunque arte del possibile. Anche dopo il 2013, il vero valore aggiunto è Monti, non la sua Agenda.
La Repubblica 10.10.12
"Imu alla Chiesa, tutto da rifare", di Giacomo Galeazzi
Il Consiglio di Stato boccia il regolamento: serve una legge. Il ministro Grilli: l’obiettivo è far pagare chiunque. L’Imu applicabile ai beni della Chiesa vale circa 600 milioni di euro. In ballo ci sono 600 milioni di euro, più le sanzioni in arrivo dall’Unione europea. Il Consiglio di Stato blocca il decreto che estende l’Imu alla Chiesa. La scure di Palazzo Spada cala sulla tassazione degli «immobili di Dio» e subito riesplodono le polemiche attorno alla «vexata quaestio» che dal 1992 spacca trasversalmente la politica tra laici e cattolici.
Entro la fine dell’anno va riscritto il regolamento, altrimenti dal 1° gennaio niente imposte per le strutture ecclesiastiche. «L’obiettivo del governo resta quello di far pagare tutti, quindi troveremo le soluzioni appropriate», assicura il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, mentre in Cei si auspica che la bocciatura sia l’occasione per un approfondimento della materia e per una «più chiara ed equa definizione del recinto delle esenzioni». Una salutare pausa di riflessione, quindi. Il governo «non rinunci», rilanciano i socialisti.
Il Consiglio di Stato, nel parere in cui stoppa l’applicazione dell’Imu sugli enti non commerciali e dunque anche sulle proprietà ecclesiastiche, invita l’esecutivo alla «prudenza» nella definizione dei casi di esenzione per la Chiesa. Sullo stesso argomento, spiegano i giudici amministrativi, si attende l’esito di un’indagine della Commissione europea che deve verificare se l’esenzione della vecchia Ici si configura come aiuto di Stato. Intanto il regolamento viene respinto in quanto «non è demandato al ministero di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell’esenzione Imu». Va individuato, cioè, «lo strumento idoneo a fare chiarezza sulla qualificazione di una attività come non commerciale». Di certo non si può procedere attraverso «il regolamento così come varato dal Tesoro». Il ministero ha «esulato» dalle proprie competenze regolamentari e sono ««eterogenei» i criteri utilizzati per le convenzioni con lo Stato per le attività erogate dalle onlus in campo sanitario, culturale o sportivo. In alcuni casi è usato «il criterio della gratuità o del carattere simbolico della retta», in altri quello «della non copertura integrale del costo effettivo del servizio (attività didattiche) ».
Gabriele Toccafondi, deputato Pdl in commissione Bilancio, mette in guardia il governo dal chiedere «l’Imu ad opere di pura carità che a malapena pareggiano i conti, operano per il bene di tutti e senza di loro lo Stato dovrebbe pagare molto di più». La partita è aperta, al Tesoro la prossima mossa.
Mario Staderini «Monti è stato coraggioso Tiri dritto o ci prende in giro»
È solo una battuta d’arresto?
«Di sicuro il governo deve andare avanti a far pagare l’Imu a chi non l’ha mai pagata, però la brutta figura del decreto scritto male resterà. Non c’è tempo da perdere. L’Unione Europea sta per concludere la procedura d’infrazione contro l’Italia e le sanzioni saranno pesanti. Il passo falso del Tesoro è sospetto, tanto più che dalle carte di Vatileaks sappiamo che Tremonti ha spiegato in Curia come scongiurare il pagamento dell’Imu sia per gli arretrati sia per le future imposte. A pensare male si fa peccato, ma si indovina. Siamo allibiti di fronte a un errore clamoroso per un governo di tecnici ». per sacerdoti che nella pratica sono veri e propri albergo totalmente esentasse. Finora ci si era rifiutati di riscuotere le imposte dovute da chiese e onlus, soggetti sempre esentati. In un momento in cui si tagliano voci essenziali è inammissibile favorire diocesi, ordini religiosi e strutture ecclesiastiche. Monti ha cercato di cambiare le cose, adesso deve completare l’opera o è una presa in giro».
Michele Pennisi, vescovo «Non bisogna avere fretta Si rifletta sulle conseguenze»
Vescovo Pennisi, è uno stop utile?
«Sì se serve a riflettere meglio su cosa comporta davvero estendere l’Imu a strutture ecclesiastiche o cooperative sociali che svolgono una funzione indispensabile. A Palermo il Comune riesce a garantire solo il 7% delle scuole materne necessarie, il resto sono enti cattolici di volontariato. In campo educativo la situazione è drammatica. A causa di questa imposta centinaia di asili e istituti rischiano la chiusura e i costi del loro mancato servizio ricadrebbero sullo Stato. Insomma, per incassare poche centinaia di milioni di Imu, le casse pubbliche rischiano di perdere miliardi in servizi. Non è un problema solo per la Chiesa».
Quali altri soggetti sono a rischio?
«Tutto il “no profit”. Nella fretta di tagliare esenzioni, infatti, si finisce per far pagare l’Imu a a strutture di base che già stentano a sopravvivere. Non si può penalizzare chi porta avanti una delicatissima opera a favore dei bisognosi. Senza una simile presenza sul territorio lo Stato dovrebbe pagare costi insostenibili per assicurare servizi essenziali alla popolazione.
La Stampa 09.10.12
"Imu alla Chiesa, tutto da rifare", di Giacomo Galeazzi
Il Consiglio di Stato boccia il regolamento: serve una legge. Il ministro Grilli: l’obiettivo è far pagare chiunque. L’Imu applicabile ai beni della Chiesa vale circa 600 milioni di euro. In ballo ci sono 600 milioni di euro, più le sanzioni in arrivo dall’Unione europea. Il Consiglio di Stato blocca il decreto che estende l’Imu alla Chiesa. La scure di Palazzo Spada cala sulla tassazione degli «immobili di Dio» e subito riesplodono le polemiche attorno alla «vexata quaestio» che dal 1992 spacca trasversalmente la politica tra laici e cattolici.
Entro la fine dell’anno va riscritto il regolamento, altrimenti dal 1° gennaio niente imposte per le strutture ecclesiastiche. «L’obiettivo del governo resta quello di far pagare tutti, quindi troveremo le soluzioni appropriate», assicura il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, mentre in Cei si auspica che la bocciatura sia l’occasione per un approfondimento della materia e per una «più chiara ed equa definizione del recinto delle esenzioni». Una salutare pausa di riflessione, quindi. Il governo «non rinunci», rilanciano i socialisti.
Il Consiglio di Stato, nel parere in cui stoppa l’applicazione dell’Imu sugli enti non commerciali e dunque anche sulle proprietà ecclesiastiche, invita l’esecutivo alla «prudenza» nella definizione dei casi di esenzione per la Chiesa. Sullo stesso argomento, spiegano i giudici amministrativi, si attende l’esito di un’indagine della Commissione europea che deve verificare se l’esenzione della vecchia Ici si configura come aiuto di Stato. Intanto il regolamento viene respinto in quanto «non è demandato al ministero di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell’esenzione Imu». Va individuato, cioè, «lo strumento idoneo a fare chiarezza sulla qualificazione di una attività come non commerciale». Di certo non si può procedere attraverso «il regolamento così come varato dal Tesoro». Il ministero ha «esulato» dalle proprie competenze regolamentari e sono ««eterogenei» i criteri utilizzati per le convenzioni con lo Stato per le attività erogate dalle onlus in campo sanitario, culturale o sportivo. In alcuni casi è usato «il criterio della gratuità o del carattere simbolico della retta», in altri quello «della non copertura integrale del costo effettivo del servizio (attività didattiche) ».
Gabriele Toccafondi, deputato Pdl in commissione Bilancio, mette in guardia il governo dal chiedere «l’Imu ad opere di pura carità che a malapena pareggiano i conti, operano per il bene di tutti e senza di loro lo Stato dovrebbe pagare molto di più». La partita è aperta, al Tesoro la prossima mossa.
Mario Staderini «Monti è stato coraggioso Tiri dritto o ci prende in giro»
È solo una battuta d’arresto?
«Di sicuro il governo deve andare avanti a far pagare l’Imu a chi non l’ha mai pagata, però la brutta figura del decreto scritto male resterà. Non c’è tempo da perdere. L’Unione Europea sta per concludere la procedura d’infrazione contro l’Italia e le sanzioni saranno pesanti. Il passo falso del Tesoro è sospetto, tanto più che dalle carte di Vatileaks sappiamo che Tremonti ha spiegato in Curia come scongiurare il pagamento dell’Imu sia per gli arretrati sia per le future imposte. A pensare male si fa peccato, ma si indovina. Siamo allibiti di fronte a un errore clamoroso per un governo di tecnici ». per sacerdoti che nella pratica sono veri e propri albergo totalmente esentasse. Finora ci si era rifiutati di riscuotere le imposte dovute da chiese e onlus, soggetti sempre esentati. In un momento in cui si tagliano voci essenziali è inammissibile favorire diocesi, ordini religiosi e strutture ecclesiastiche. Monti ha cercato di cambiare le cose, adesso deve completare l’opera o è una presa in giro».
Michele Pennisi, vescovo «Non bisogna avere fretta Si rifletta sulle conseguenze»
Vescovo Pennisi, è uno stop utile?
«Sì se serve a riflettere meglio su cosa comporta davvero estendere l’Imu a strutture ecclesiastiche o cooperative sociali che svolgono una funzione indispensabile. A Palermo il Comune riesce a garantire solo il 7% delle scuole materne necessarie, il resto sono enti cattolici di volontariato. In campo educativo la situazione è drammatica. A causa di questa imposta centinaia di asili e istituti rischiano la chiusura e i costi del loro mancato servizio ricadrebbero sullo Stato. Insomma, per incassare poche centinaia di milioni di Imu, le casse pubbliche rischiano di perdere miliardi in servizi. Non è un problema solo per la Chiesa».
Quali altri soggetti sono a rischio?
«Tutto il “no profit”. Nella fretta di tagliare esenzioni, infatti, si finisce per far pagare l’Imu a a strutture di base che già stentano a sopravvivere. Non si può penalizzare chi porta avanti una delicatissima opera a favore dei bisognosi. Senza una simile presenza sul territorio lo Stato dovrebbe pagare costi insostenibili per assicurare servizi essenziali alla popolazione.
La Stampa 09.10.12