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"Finalmente una scelta saggia", di Paolo Leon

Molti anni fa, quando al governo c’era ancora Romano Prodi, fui chiamato a un’audizione alla Camera dei deputati sulla Tobin tax. All’epoca furoreggiava la creazione di titoli di ogni tipo, l’emissione di moneta endogena (privata), e una deregolazione selvaggia dei flussi internazionali dei capitali, e non mi sentii di sostenere, con qualche credibilità, che la Tobin tax poteva essere imposta da un solo Paese o anche dall’Unione economica e monetaria. Mi dispiaceva non aderire completamente al manifesto di Attac, e mi limitai a suggerire un’autorità di vigilanza sulle transazioni orarie e giornaliere, perché la trasparenza era forse un nemico temibile della speculazione distruttiva. La proposta piacque, non trovò orecchie attente, e non se ne fece nulla.
La Tobin tax fu considerata poco più di una provocazione sia dalle autorità di vigilanza sui mercati dei capitali sia dalla Banca d’Italia, che si nascondevano dietro al rifiuto della tassa da parte del Fondo Monetario, dell’Ocse, e dell’Unione europea. Invece, la Tobin tax, ormai lo sappiamo, non impedisce i flussi di capitali destinati ad investimenti, e perfino alla «buona» speculazione – quella che media le oscillazioni dei prezzi e delle quantità nelle transazioni internazionali. Impedisce, invece, quelle transazioni che, profittando di minime variazioni nei prezzi dei titoli, investono (qualche volta allo scoperto) gigantesche somme da realizzare in pochi minuti: si tratta di banche, società finanziarie, società di assicurazioni, agenti di cambio, fondi di ogni tipo.

Un esempio: se un operatore investe 100 milioni di dollari su un titolo nell’aspettativa di guadagnarne 100 mila, si assicura un rendimento dello 0,1%, del tutto ridicolo rispetto ai tassi di interesse bancari correnti; ma poiché si attende di guadagnare 100 mila dollari in un’ora o forse in pochi minuti, il suo guadagno in termini di tempo è enorme, superiore al suo stesso stipendio orario o a quello di un qualsiasi impiegato o operaio in qualsiasi parte del mondo. Poiché la speculazione cattiva caccia quella buona, nei lunghi anni di libera attività speculativa non solo non è stato più possibile trattare materie prime, titoli e fondi per realizzare un decente tasso di profitto, ma i prezzi di merci e titoli non erano più affidabili per chi doveva utilizzarli per obiettivi produttivi. Tra le conseguenze, è sempre stato difficile per le grandi imprese sottrarsi alla speculazione puramente finanziaria, fino al punto di trasformarle da produttori di beni e servizi a produttori di titoli, e ad assoggettarle ad acquisizioni ostili, favorendo l’aumento del grado di monopolio mondiale.

L’Italia ha detto sì alla Tobin tax in Europa. C’è n’è voluta, e l’Unità può a giusto titolo ritenere di aver dato un contributo decisivo. Del resto, questa tassa conviene soprattutto a Italia e Spagna (e Grecia e Portogallo e Irlanda), ed era incomprensibile l’opposizione del governo Monti, un governo tecnico che doveva ben conoscere i benefici della tassa per il debito pubblico. Tutto è bene quel che finisce bene? Non mi accontento, perché la questione era sul tappeto da mesi, e mentre ci si poteva attendere la passività di Berlusconi e Tremonti, non si capiva il silenzio dell’opposizione. Pongo il tema perché la Tobin tax è solo l’inizio di un processo che dovrebbe portare alla famosa, e dimenticata, nuova Bretton Woods e se l’Italia da sola non può far molto, in Europa possiamo fare moltissimo. Per portare a casa un risultato completo, infatti, è necessario che l’Europa convinca il prossimo presidente degli Usa a seguirla. Ma oggi è una buona giornata: dopo il Fondo salva stati, che combatte la speculazione sul debito pubblico e umilia le agenzie di rating, la Tobin tax potrebbe tagliare le unghie anche alle transazioni sui derivati, sui credit default swap, sui fondi monetari. Forse sono ottimista, ma dopo questa vittoria, chi non lo sarebbe? È tardi, ma tanto di cappello a James Tobin, deriso e umiliato, e oggi vendicato.

L’Unità 10.10.12