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"L’ultima mossa disperata del berlusconismo", di Michele Prospero

L’offerta disperata che Alfano rivolge ai moderati affinchè tornino ad allearsi con una destra (forse) affrancata dal fantasma di Berlusconi, è il segno del completo disfacimento dell’area che per vent’anni ha svolto un ruolo egemone nella politica italiana. Senza una persuasiva strategia di medio termine, al corto di una autonoma capacità di incidere nel processo politico sfuggente, con un gruppo dirigente che pare sempre più disarmato rispetto ai capricci del Cavaliere errante, la destra è in totale affanno. Tra mille sospetti sulle intenzioni segrete delle micro correnti interne e tra sordi rancori che agitano i colonnelli alla ricerca di un ruolo e che perciò si guardano in cagnesco, essa tenta di aggrapparsi a qualche mossa a sorpresa per tirare a campare. È impressionante il candore impolitico con cui Alfano propone a Casini di scordarsi in fretta del passato disastro- so per tornare ad abitare nella (sedicente) casa dei moderati e lì ricominciare a tessere trame come se nulla di irreparabile fosse accaduto.

Brucia in gran fretta la casa della destra con il Berlusconi vacante e ormai fuori gioco. E i centristi, invocati come i pompieri che dovrebbero spegnere l’incendio, non possono portare un efficace soccorso senza perdere per strada ogni credibilità e ruolo politico. Anche il Casini spregiudicato e oscillante di questi ultimi tempi, che rischia di deragliare per un eccesso di tatticismo e un sovraccarico di reticenza a sciogliere i nodi delle alleanze, non può abboccare all’amo di Alfano senza sprofondare nella completa irrilevanza politica. Il transito della malandata creatura berlusconiana da un inconfondibile sostrato demagogico-populista, che ha condotto alla sciagura, a un profilo più morbido di soggetto moderato con venature riformiste è del tutto irrealistico. Per questo, con i suoi fragili disegni, Alfano lavora di fantasia, scambia cioè degli innocui desideri per delle tendenze politiche davvero percorribili. Non solo non ci sono oggi le condizioni storico-politiche per accompagnare la metamorfosi del berlusconismo morente in un partito conservatore di stampo europeo. Ma, se qualcuno dei colonnelli tentasse sul serio la fuoriuscita dal codice populista, si troverebbe con in mano un pugno di mosche.

Per ancora un altro decennio almeno, la destra italiana continuerà ad avere la sua truce fisionomia di irregolare formazione populista che civetta con la rivolta fiscale, con la ribellione antieuro. Si illudono perciò tutti coloro che immaginano che dal berlusconismo ormai esangue si possa uscire con il tocco magico di un nuovo soggetto moderato-aziendalista capace di innalzare la bandiera del rigore e di spruzzare in giro dei segnali di una sbiadita agenda riformista. Il centro che si lascia sedurre e si ricongiunge alla destra in sofferenza non avrebbe alcuna effettiva possibilità di guidare la costruzione di una area moderata. Questo passaggio ad un nuovo blocco a conduzione moderata e alternativo alla sinistra, che potrà in futuro esserci, implica nel presente non già la ricucitura con i nipotini del cavaliere ma la sconfitta nitida e irrevocabile di Berlusconi e dei suoi eredi. Senza questa operazione chirurgica che estirpa l’escrescenza populista dal corpo del Paese, le condizioni per il decollo di un centro moderato non si ripresenteranno mai.

Casini ha un fiuto solo per la tattica e mostra cecità per ogni strategia proiettata oltre l’angolo. Ma la consapevolezza che il suo spazio di manovra si essicca in caso di un mesto ritorno all’ovile non dovrebbe mancargli. Da puro tattico, che predilige il gioco immediato e resta a digiuno di analisi delle tendenze, percepisce che la destra non è più protagonista degli eventi, si lascia solo trascinare dalla corrente con la speranza (vana) di trovare qualche estremo motivo di sopravvivenza. Anche un malato della tattica come Casini non dovrebbe avere alcuna esitazione dinanzi all’alternativa di dare una mano al naufrago berlusconiano per restituirgli una insperata speranza di vita oppure di colpirlo in maniera definitiva e abbandonarlo senza remore. La sortita di Alfano è per questo condannata all’irrilevanza. Farà meglio a sforzarsi di pensare a qualcos’altro. Il centro è già troppo affollato per cercare lì i soccorsi che servono.

L’Unità 09.10.12

"L’ultima mossa disperata del berlusconismo", di Michele Prospero

L’offerta disperata che Alfano rivolge ai moderati affinchè tornino ad allearsi con una destra (forse) affrancata dal fantasma di Berlusconi, è il segno del completo disfacimento dell’area che per vent’anni ha svolto un ruolo egemone nella politica italiana. Senza una persuasiva strategia di medio termine, al corto di una autonoma capacità di incidere nel processo politico sfuggente, con un gruppo dirigente che pare sempre più disarmato rispetto ai capricci del Cavaliere errante, la destra è in totale affanno. Tra mille sospetti sulle intenzioni segrete delle micro correnti interne e tra sordi rancori che agitano i colonnelli alla ricerca di un ruolo e che perciò si guardano in cagnesco, essa tenta di aggrapparsi a qualche mossa a sorpresa per tirare a campare. È impressionante il candore impolitico con cui Alfano propone a Casini di scordarsi in fretta del passato disastro- so per tornare ad abitare nella (sedicente) casa dei moderati e lì ricominciare a tessere trame come se nulla di irreparabile fosse accaduto.
Brucia in gran fretta la casa della destra con il Berlusconi vacante e ormai fuori gioco. E i centristi, invocati come i pompieri che dovrebbero spegnere l’incendio, non possono portare un efficace soccorso senza perdere per strada ogni credibilità e ruolo politico. Anche il Casini spregiudicato e oscillante di questi ultimi tempi, che rischia di deragliare per un eccesso di tatticismo e un sovraccarico di reticenza a sciogliere i nodi delle alleanze, non può abboccare all’amo di Alfano senza sprofondare nella completa irrilevanza politica. Il transito della malandata creatura berlusconiana da un inconfondibile sostrato demagogico-populista, che ha condotto alla sciagura, a un profilo più morbido di soggetto moderato con venature riformiste è del tutto irrealistico. Per questo, con i suoi fragili disegni, Alfano lavora di fantasia, scambia cioè degli innocui desideri per delle tendenze politiche davvero percorribili. Non solo non ci sono oggi le condizioni storico-politiche per accompagnare la metamorfosi del berlusconismo morente in un partito conservatore di stampo europeo. Ma, se qualcuno dei colonnelli tentasse sul serio la fuoriuscita dal codice populista, si troverebbe con in mano un pugno di mosche.
Per ancora un altro decennio almeno, la destra italiana continuerà ad avere la sua truce fisionomia di irregolare formazione populista che civetta con la rivolta fiscale, con la ribellione antieuro. Si illudono perciò tutti coloro che immaginano che dal berlusconismo ormai esangue si possa uscire con il tocco magico di un nuovo soggetto moderato-aziendalista capace di innalzare la bandiera del rigore e di spruzzare in giro dei segnali di una sbiadita agenda riformista. Il centro che si lascia sedurre e si ricongiunge alla destra in sofferenza non avrebbe alcuna effettiva possibilità di guidare la costruzione di una area moderata. Questo passaggio ad un nuovo blocco a conduzione moderata e alternativo alla sinistra, che potrà in futuro esserci, implica nel presente non già la ricucitura con i nipotini del cavaliere ma la sconfitta nitida e irrevocabile di Berlusconi e dei suoi eredi. Senza questa operazione chirurgica che estirpa l’escrescenza populista dal corpo del Paese, le condizioni per il decollo di un centro moderato non si ripresenteranno mai.
Casini ha un fiuto solo per la tattica e mostra cecità per ogni strategia proiettata oltre l’angolo. Ma la consapevolezza che il suo spazio di manovra si essicca in caso di un mesto ritorno all’ovile non dovrebbe mancargli. Da puro tattico, che predilige il gioco immediato e resta a digiuno di analisi delle tendenze, percepisce che la destra non è più protagonista degli eventi, si lascia solo trascinare dalla corrente con la speranza (vana) di trovare qualche estremo motivo di sopravvivenza. Anche un malato della tattica come Casini non dovrebbe avere alcuna esitazione dinanzi all’alternativa di dare una mano al naufrago berlusconiano per restituirgli una insperata speranza di vita oppure di colpirlo in maniera definitiva e abbandonarlo senza remore. La sortita di Alfano è per questo condannata all’irrilevanza. Farà meglio a sforzarsi di pensare a qualcos’altro. Il centro è già troppo affollato per cercare lì i soccorsi che servono.
L’Unità 09.10.12

"Ilva, la partita a scacchi continua. L’azienda: stiamo già spegnendo", di Mariantonietta Colimberti

A novembre chiuderà il primo altoforno. Sindacati in allarme anche a Genova, ma sempre divisi. Nella difficilissima partita a scacchi che Ilva e magistratura stanno giocando – ma nella quale è entrato a pieno anche il governo – è arrivato ieri il colpo di scena dell’azienda. «L’Afo 1 sarà spento entro la fine di novembre» e per lo spegnimento dell’Afo 5 (il più grande d’Europa) ne «è stato affidato lo studio alla Paul Wurth», che ha incominciato a raccogliere i disegni della struttura dell’altoforno, costruito dai giapponesi della Nippon Steel. È la risposta della società alla procura, che sabato sera ha lanciato l’ultimatum di cinque giorni per lo spegnimento degli impianti e la cessazione delle emissioni inquinanti. Una risposta illustrata in conferenza stampa dal direttore Adolfo Buffo, assente il presidente Bruno Ferrante. «Tutte le attività prescritte sono state realizzate e comunicate ai custodi giudiziari» ha affermato il rappresentante dell’Ilva.
Difficilmente questo potrà indurre a ripensamento la procura di Taranto, che ha ripetutamente denunciato la non ottemperanza dell’azienda alle ordinanze della magistratura, in un continuo botta e risposta di atti giudiziari e ricorsi che va avanti dal 26 luglio, quando la gip Todisco dispose il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento. «Si continua a pestare acqua nel mortaio – ha detto ieri mattina il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, a Repubblica – come magistrati mi pare di aver dimostrato buon senso e pazienza. Ma il nostro compito è quello di far rispettare e applicare le leggi. L’azienda deve dare il via alle operazioni, altrimenti provvederemo in maniera diversa».
In serata è stata resa nota la nota alla procura con cui il presidente Ferrante ha accompagnato lo stato di esecuzione delle disposizioni dei custodi giudiziari. In esso si quantifica in 942 unità gli esuberi conseguenti alla fermata dell’altoforno 1 e delle batterie 5-6, «che però saranno completamente ricollocate o utilizzate in maniera differente nello stesso stabilimento di Taranto». La nota di Ferrante è datata 2 ottobre, sabato 6 l’ultimatum della procura: segno che essa non è stata ritenuta convincente.
La partita che si sta giocando potrebbe conoscere nuovi colpi di scena. Tutto si gioca intorno ai tempi delle azioni messe in campo dai vari soggetti. Ed è proprio quello che temono i pasdaran ecologisti: i verdi con Angelo Bonelli hanno avanzato il sospetto che l’azienda stia cercando solo di guadagnare giorni in attesa di un decreto salva-Ilva del governo.
Al ministero dell’ambiente, intanto, sono ormai pronti con la nuova Aia, l’autorizzazione integrata ambientale che darà il via libera, appunto, all’attività del siderurgico, imponendo una serie di misure per il risanamento, indicate secondo un programma dettagliato e progressivo che prevede anche le tecnologie necessarie. Da un minimo di sei mesi a un massimo di quattro anni: sarebbe questa la forbice entro la quale dovrebbe essere compiuta la bonifica.
L’autorizzazione, dunque, sarà in contrasto con la disposizione della procura e potrebbe nascerne un vero e proprio coinflitto governo-magistratura. Contatti sarebbero però in corso, in modo informale e indiretto, tra il ministero dell’ambiente e la procura di Taranto.
Sulla vicenda continua a pesare la divisione dei sindacati, con Fim-Cisl e Uilm schierate per la difesa del lavoro “senza se e senza ma” (assemblee sono in corso anche all’Ilva di Genova) e la Fiom-Cgil in conflitto frontale con l’azienda e pro-magistratura. Maurizio Landini ha proclamato per il 20 ottobre una manifestazione a Roma a sostegno di tutte le aziende in crisi con la partecipazione di Susanna Camusso. Un appello al governo perché si faccia carico di un «piano B» sull’Ilva è venuto da Raffaele Bonanni.

da Europa Quotidiano 09.10.12

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“ILVA, LO SPEGNIMENTO COSTERÀ MILLE ESUBERI”

Novecentoquarantadue persone in esubero immediato. Ricollocate, se si farà come dice l’azienda. Chissà, se invece prenderanno tutto in mano i custodi. Passa dal primo numero ufficiale sulla forza lavoro e dalla parola “esubero” fin qui mai utilizzata la seconda fase della vicenda Ilva. Ieri l’azienda ha pubblicamente risposto alla procura che sabato aveva inviato un ultimatum: cinque giorni per avviare le procedure di spegnimento, oppure facciamo da soli. «Noi stiamo collaborando, abbiamo dato seguito alle prescrizioni, da Taranto non ce ne vogliamo andare» ha spiegato ieri Adolfo Buffo, il nuovo direttore dello stabilimento, dopo l’arresto del suo predecessore, mandato davanti ai giornalisti con la tuta da lavoro. Ilva ha elencato tutte le iniziative prese da quando è scattato il sequestro, a conferma del fatto – dicono – che non è vero che l’azienda non sta collaborando con la magistratura.
A sostegno della bontà del ragionamento, hanno anche portato tutta la documentazione che certifica il dialogo con i custodi. In una di queste lettere il presidente dell’Ilva, il prefetto Bruno Ferrante, scrive che «con la fermata
dell’Altoforno 1 e delle batterie 5-6, l’Ilva ha previsto un esubero di 942 unità lavorative che però saranno completamente ricollocate o utilizzate in maniera differente nello stesso stabilimento di Taranto». Il piano di gestione del personale e degli esuberi previsto dall’Ilva quindi, per l’attuazione delle prime misure rientranti tra le disposizioni prioritarie, sottolinea Ferrante, «consente il fermo dell’Altoforno 1 senza che vi siano impatti negativi sui livelli occupazionali».
Ma è proprio quel piano che non convince affatto la procura che, così come disposto dal giudice e dal Riesame, spinge perché si blocchi la produzione e quindi si interrompano le emissioni inquinanti. Né tantomeno le spiegazioni date ieri ai giornalisti possono far cambiare le carte in tavola: quelle carte erano note e dunque erano state analizzate dai custodi e dai magistrati che evidentemente le avevano ritenute non sufficienti. Nelle prossime 48 ore è possibile che le parti proveranno a parlarsi. Dopodichè tra giovedì e venerdì si capirà che piega prenderà questa storia: la procura è stata chiara nel dire che se l’Ilva non metterà a disposizione personale e fondi per fare quanto imposto dal giudice, procederà in autonomia.
Una possibilità che preoccupa molto la politica. Al ministero dell’Ambiente si fa la corsa per rilasciare la nuova Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale che permette al siderurgico di lavorare. Oggi è prevista una prima riunione, entro l’11 i tecnici dovranno esprimersi in vista della conferenza di servizi fissata per il 17. Con il documento il ministro Corrado Clini è convinto che si riuscirà a evitare il muro contro muro che a molti altri invece pare ormai avviato e non più evitabile. «L’Ilva sta facendo un gioco pericoloso: quello di lasciare o nelle mani della magistratura o nelle mani della politica il cerino acceso» ha detto ieri il governatore della Puglia, Nichi Vendola. Mentre l’aria nel mondo sindacale è molto tesa. «Non sono per nulla ottimista. La priorità, adesso, è che non si fermi la produzione » ha dichiarato il segretario della Uil, Luigi Angeletti. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, parla invece di «un piano B per mantenere la produzione integra e nel frattempo proseguire la bonifica». Più rigida la posizione della Cgil: per Susanna Camusso, il caso Ilva «ci porta indietro di molti anni perché ripropone l’equazione che si faceva tra impianti chimici e danni ecologici ». Domani partono le assemblee in fabbrica organizzate da Fim e Uilm («purtroppo l’azienda si ostina a non rispondere compiutamente alle prescrizioni della procura – dice senza mezzi termini Mimmo Panarelli, segretario provinciale della Fim -Questo atteggiamento lascia zone d’ombra sulle reali intenzioni della proprietà sul futuro della fabbrica»). Non parteciperà la Fiom che ha invece elaborato una piattaforma rivendicativa che sottoporrà ad un referendum tra i lavoratori.

La Repubblica 09.10.12

"Ilva, la partita a scacchi continua. L’azienda: stiamo già spegnendo", di Mariantonietta Colimberti

A novembre chiuderà il primo altoforno. Sindacati in allarme anche a Genova, ma sempre divisi. Nella difficilissima partita a scacchi che Ilva e magistratura stanno giocando – ma nella quale è entrato a pieno anche il governo – è arrivato ieri il colpo di scena dell’azienda. «L’Afo 1 sarà spento entro la fine di novembre» e per lo spegnimento dell’Afo 5 (il più grande d’Europa) ne «è stato affidato lo studio alla Paul Wurth», che ha incominciato a raccogliere i disegni della struttura dell’altoforno, costruito dai giapponesi della Nippon Steel. È la risposta della società alla procura, che sabato sera ha lanciato l’ultimatum di cinque giorni per lo spegnimento degli impianti e la cessazione delle emissioni inquinanti. Una risposta illustrata in conferenza stampa dal direttore Adolfo Buffo, assente il presidente Bruno Ferrante. «Tutte le attività prescritte sono state realizzate e comunicate ai custodi giudiziari» ha affermato il rappresentante dell’Ilva.
Difficilmente questo potrà indurre a ripensamento la procura di Taranto, che ha ripetutamente denunciato la non ottemperanza dell’azienda alle ordinanze della magistratura, in un continuo botta e risposta di atti giudiziari e ricorsi che va avanti dal 26 luglio, quando la gip Todisco dispose il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento. «Si continua a pestare acqua nel mortaio – ha detto ieri mattina il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, a Repubblica – come magistrati mi pare di aver dimostrato buon senso e pazienza. Ma il nostro compito è quello di far rispettare e applicare le leggi. L’azienda deve dare il via alle operazioni, altrimenti provvederemo in maniera diversa».
In serata è stata resa nota la nota alla procura con cui il presidente Ferrante ha accompagnato lo stato di esecuzione delle disposizioni dei custodi giudiziari. In esso si quantifica in 942 unità gli esuberi conseguenti alla fermata dell’altoforno 1 e delle batterie 5-6, «che però saranno completamente ricollocate o utilizzate in maniera differente nello stesso stabilimento di Taranto». La nota di Ferrante è datata 2 ottobre, sabato 6 l’ultimatum della procura: segno che essa non è stata ritenuta convincente.
La partita che si sta giocando potrebbe conoscere nuovi colpi di scena. Tutto si gioca intorno ai tempi delle azioni messe in campo dai vari soggetti. Ed è proprio quello che temono i pasdaran ecologisti: i verdi con Angelo Bonelli hanno avanzato il sospetto che l’azienda stia cercando solo di guadagnare giorni in attesa di un decreto salva-Ilva del governo.
Al ministero dell’ambiente, intanto, sono ormai pronti con la nuova Aia, l’autorizzazione integrata ambientale che darà il via libera, appunto, all’attività del siderurgico, imponendo una serie di misure per il risanamento, indicate secondo un programma dettagliato e progressivo che prevede anche le tecnologie necessarie. Da un minimo di sei mesi a un massimo di quattro anni: sarebbe questa la forbice entro la quale dovrebbe essere compiuta la bonifica.
L’autorizzazione, dunque, sarà in contrasto con la disposizione della procura e potrebbe nascerne un vero e proprio coinflitto governo-magistratura. Contatti sarebbero però in corso, in modo informale e indiretto, tra il ministero dell’ambiente e la procura di Taranto.
Sulla vicenda continua a pesare la divisione dei sindacati, con Fim-Cisl e Uilm schierate per la difesa del lavoro “senza se e senza ma” (assemblee sono in corso anche all’Ilva di Genova) e la Fiom-Cgil in conflitto frontale con l’azienda e pro-magistratura. Maurizio Landini ha proclamato per il 20 ottobre una manifestazione a Roma a sostegno di tutte le aziende in crisi con la partecipazione di Susanna Camusso. Un appello al governo perché si faccia carico di un «piano B» sull’Ilva è venuto da Raffaele Bonanni.
da Europa Quotidiano 09.10.12
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“ILVA, LO SPEGNIMENTO COSTERÀ MILLE ESUBERI”
Novecentoquarantadue persone in esubero immediato. Ricollocate, se si farà come dice l’azienda. Chissà, se invece prenderanno tutto in mano i custodi. Passa dal primo numero ufficiale sulla forza lavoro e dalla parola “esubero” fin qui mai utilizzata la seconda fase della vicenda Ilva. Ieri l’azienda ha pubblicamente risposto alla procura che sabato aveva inviato un ultimatum: cinque giorni per avviare le procedure di spegnimento, oppure facciamo da soli. «Noi stiamo collaborando, abbiamo dato seguito alle prescrizioni, da Taranto non ce ne vogliamo andare» ha spiegato ieri Adolfo Buffo, il nuovo direttore dello stabilimento, dopo l’arresto del suo predecessore, mandato davanti ai giornalisti con la tuta da lavoro. Ilva ha elencato tutte le iniziative prese da quando è scattato il sequestro, a conferma del fatto – dicono – che non è vero che l’azienda non sta collaborando con la magistratura.
A sostegno della bontà del ragionamento, hanno anche portato tutta la documentazione che certifica il dialogo con i custodi. In una di queste lettere il presidente dell’Ilva, il prefetto Bruno Ferrante, scrive che «con la fermata
dell’Altoforno 1 e delle batterie 5-6, l’Ilva ha previsto un esubero di 942 unità lavorative che però saranno completamente ricollocate o utilizzate in maniera differente nello stesso stabilimento di Taranto». Il piano di gestione del personale e degli esuberi previsto dall’Ilva quindi, per l’attuazione delle prime misure rientranti tra le disposizioni prioritarie, sottolinea Ferrante, «consente il fermo dell’Altoforno 1 senza che vi siano impatti negativi sui livelli occupazionali».
Ma è proprio quel piano che non convince affatto la procura che, così come disposto dal giudice e dal Riesame, spinge perché si blocchi la produzione e quindi si interrompano le emissioni inquinanti. Né tantomeno le spiegazioni date ieri ai giornalisti possono far cambiare le carte in tavola: quelle carte erano note e dunque erano state analizzate dai custodi e dai magistrati che evidentemente le avevano ritenute non sufficienti. Nelle prossime 48 ore è possibile che le parti proveranno a parlarsi. Dopodichè tra giovedì e venerdì si capirà che piega prenderà questa storia: la procura è stata chiara nel dire che se l’Ilva non metterà a disposizione personale e fondi per fare quanto imposto dal giudice, procederà in autonomia.
Una possibilità che preoccupa molto la politica. Al ministero dell’Ambiente si fa la corsa per rilasciare la nuova Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale che permette al siderurgico di lavorare. Oggi è prevista una prima riunione, entro l’11 i tecnici dovranno esprimersi in vista della conferenza di servizi fissata per il 17. Con il documento il ministro Corrado Clini è convinto che si riuscirà a evitare il muro contro muro che a molti altri invece pare ormai avviato e non più evitabile. «L’Ilva sta facendo un gioco pericoloso: quello di lasciare o nelle mani della magistratura o nelle mani della politica il cerino acceso» ha detto ieri il governatore della Puglia, Nichi Vendola. Mentre l’aria nel mondo sindacale è molto tesa. «Non sono per nulla ottimista. La priorità, adesso, è che non si fermi la produzione » ha dichiarato il segretario della Uil, Luigi Angeletti. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, parla invece di «un piano B per mantenere la produzione integra e nel frattempo proseguire la bonifica». Più rigida la posizione della Cgil: per Susanna Camusso, il caso Ilva «ci porta indietro di molti anni perché ripropone l’equazione che si faceva tra impianti chimici e danni ecologici ». Domani partono le assemblee in fabbrica organizzate da Fim e Uilm («purtroppo l’azienda si ostina a non rispondere compiutamente alle prescrizioni della procura – dice senza mezzi termini Mimmo Panarelli, segretario provinciale della Fim -Questo atteggiamento lascia zone d’ombra sulle reali intenzioni della proprietà sul futuro della fabbrica»). Non parteciperà la Fiom che ha invece elaborato una piattaforma rivendicativa che sottoporrà ad un referendum tra i lavoratori.
La Repubblica 09.10.12

"Esodati, scontro governo-maggioranza", di Luisa Grion

Scontro diretto fra governo e maggioranza sul caso «esodati», quella categoria di lavoratori che – per via della riforma previdenziale e dell’allungamento dell’età pensionabile – rischia di restare «scoperta»: senza stipendio, ma ancora senza pensione. La riforma stessa salvaguarda la posizione di 65 mila persone, aumentate a 120 mila grazie ad un decreto firmato dal ministro Grilli venerdì scorso, ma la copertura non è sufficiente (l’Inps stima la platea interessata a 390 mila casi). Una proposta di legge bipartisan fissa nuove regole sulle salvaguardie da adottare, ma ieri, primo giorno di dibattito alla Camera per il ddl voluto da Pd e Pdl, sul caso è scoppiato l’ennesimo scontro.
Al governo, infatti, la proposta della maggioranza non va bene: costa troppo, abbatte un principio fondante della riforma stessa (l’abolizione delle pensioni d’anzianità) e mette a repentaglio la tenuta dei conti e quindi la credibilità in Europa.
Avvisi messi nero su bianco in una lettera inviata dal ministro Fornero oltre
due mesi fa (il 7 agosto) alla Commissione Lavoro alla Camera, resa nota solo ieri. Occorre fare «ogni sforzo per evitare anche il solo rischio di adottare misure che potrebbero avere l’effetto di compromettere gli sforzi di stabilizzazione finanziaria sin qui profusi dal Parlamento, dal governo e dal Paese» c’è scritto. «Il governo è pienamente disponibile a discutere caso per caso, ci sono persone in seria difficoltà e vanno tutelate» aveva precisato il ministro, ma l’avviso ai partiti è chiaro: va evitato «il rischio di misure non comprese in sede internazionale».
Le questioni, quindi, sono due: la messa in discussione della riforma stessa e la mancata copertura per il provvedimento. Il testo proposto in primis dall’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, Pd, fissa la quota necessaria in 5 miliardi, ma oggi – in Commissione Bilancio alla Camera (il cui parere è fondamentale per far sì che la proposta vada avanti e non si incanali su un binario morto), arriveranno i dati della Ragioneria.
Comunque sia, già i 5 miliardi non risultano coperti: la strada principale che era stata indicata dai partiti (giovedì scorso in commissione Lavoro hanno
votato all’unanimità il testo) è quella di reperire i fondi da un’ulteriore tassazione di giochi on-line e lotterie, ma la commissione Finanze ha già espresso perplessità. Cosa fare? Cesare Damiano, che rifiuta l’accusa fatta alla maggioranza di aver forzato il caso, assicura che la strada da seguire è una sola: reprire i fondi dalla legge di stabilità e dalla spending review. «Questi soldi non devono essere solo destinati ad una diminuzione del debito, ma anche a correggere l’errore fatto – ha detto – Non è vero che, come assicura il governo, con la copertura dei 120 mila casi non c’è emergenza immediata: ci sono già oggi migliaia di persone in difficoltà economica. Non vogliamo smontare la riforma, vogliamo correggerla. Se le disponibilità del ministero del Lavoro sono per lettera o a voce, abbiamo già dato, va aperto un confronto e trovate soluzioni eque».

La Repubblica 09.10.12

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“Una mina da 30 miliardi in 10 anni Fornero: così si smonta tutta la riforma”, di Valentina Conte

Il tentativo di allargare la platea di “esodati” oltre i 120 mila già “salvaguardati” dal governo con due decreti, a luglio e venerdì scorso, corre il rischio di smontare il cuore della riforma Fornero sulle pensioni. La miccia è contenuta nel progetto di legge Damiano, licenziato dalla Commissione lavoro della Camera con i voti di maggioranza e opposizione (Idv e Lega) e approdato ieri in Aula. Una bomba che oggi il governo potrebbe quantificare in 30 miliardi di euro nel prossimo decennio. Tanto varrebbe, secondo le stime della Ragioneria, il provvedimento.
Una cifra pesante che, se confermata, è in grado di risucchiare un terzo dei risparmi garantiti dalla riforma Fornero fino al 2022. E di mettere i conti dell’Italia fuori giro. «Solo 5 miliardi », si difende il deputato Pd, Cesare Damiano, primo firmatario del progetto. «Non si possono compromettere gli sforzi di stabilizzazione finanziaria», avverte il ministro del Lavoro.
Il punto di partenza è ancora la questione “esodati”: lavoratori rimasti (o che rimarranno) senza reddito né pensione, intrappolati nella bolla che la riforma ha creato allungando l’età di uscita. Le due deroghe fin qui approvate stanziano 9 miliardi e ne tutelano 120 mila. Una coperta troppo corta, perché il problema riguarda un numero più alto di lavoratori, come denunciato sin da gennaio dalla
Cgil. E come l’Inps ha certificato a giugno, parlando di 390 mila persone. L’intento del provvedimento – pensato dai deputati Damiano, Dozzo e Paladini – in un primo momento, dunque, viene ampiamente condiviso da tutte le forze politiche: non lasciare nessuno scoperto. Poi però il tentativo va oltre. E qualcuno, polemicamente, si sfila. Come il deputato Pdl, Giuliano Cazzola, che ha tolto la sua firma. Perché? «In pratica si estendono a tutti i requisiti previsti, in via sperimentale, dalla riforma Maroni per le donne, ovvero 57 anni di età e 35 di contributi (59 dal 2016), contro i 62 anni e 41 di contributi da subito della riforma Fornero. Con una sola differenza: la pensione si calcola con il contributivo anche per il periodo pre-1996». Questo comporta una decurtazione economica importante. «Sì, ma visto l’allungamento dell’età prodotto dalla riforma Fornero, a molti potrebbe convenire perdere un 20-30 per cento dell’assegno e andare in pensione 4-5 anni prima. In questo modo, i conti però sballano». Di qui i dissapori.
All’inizio gli “scalini” dovevano essere eccezioni per chi perdeva il lavoro. Altri “esodati”, insomma.
Poi però «è diventata una norma di carattere generale che da sola vale 17 miliardi a regime, cioè fino al 2022», riferisce Cazzola. Per arrivare a 30 miliardi nel decennio, comprendendo le altre norme contenute nei 5 articoli del progetto di legge. Insostenibile. La commissione Finanze della Camera, che pure ha dato parere favorevole, ha però già evidenziato l’inadeguatezza della copertura finanziaria («misure in materia di giochi pubblici on line, lotterie istantanee, apparecchi e congegni di gioco»). In attesa di capire, già da oggi, i conti ufficiali del ministero guidato dalla Fornero e la relazione tecnica della commissione Bilancio.
«Il punto è che in questo modo si riapre l’anzianità per tutti», insiste Cazzola. Un punto di mediazione è però possibile. E consiste nel mettere altro fieno in cascina. Ovvero risorse aggiuntive per coprire altri “esodati”. «L’idea è di usare parte dei fondi accantonati per i lavori usuranti. Mediamente se ne stanziano 285 milioni all’anno. Ma dal 2010 al 2012 ne sono stati usati solo 164 milioni, per via delle regole severe dell’Inps che hanno portato ad accogliere solo il 40% delle domande. A partire dal 2013, potrebbe emergere un “tesoretto” di 100-150 milioni da girare agli “esodati”. Alla fine, come ho detto alla Camera, abbiamo portato un Tir in Aula, ne usciremo con una motoretta. Meglio di niente».

La Repubblica 09.10.12

"Esodati, scontro governo-maggioranza", di Luisa Grion

Scontro diretto fra governo e maggioranza sul caso «esodati», quella categoria di lavoratori che – per via della riforma previdenziale e dell’allungamento dell’età pensionabile – rischia di restare «scoperta»: senza stipendio, ma ancora senza pensione. La riforma stessa salvaguarda la posizione di 65 mila persone, aumentate a 120 mila grazie ad un decreto firmato dal ministro Grilli venerdì scorso, ma la copertura non è sufficiente (l’Inps stima la platea interessata a 390 mila casi). Una proposta di legge bipartisan fissa nuove regole sulle salvaguardie da adottare, ma ieri, primo giorno di dibattito alla Camera per il ddl voluto da Pd e Pdl, sul caso è scoppiato l’ennesimo scontro.
Al governo, infatti, la proposta della maggioranza non va bene: costa troppo, abbatte un principio fondante della riforma stessa (l’abolizione delle pensioni d’anzianità) e mette a repentaglio la tenuta dei conti e quindi la credibilità in Europa.
Avvisi messi nero su bianco in una lettera inviata dal ministro Fornero oltre
due mesi fa (il 7 agosto) alla Commissione Lavoro alla Camera, resa nota solo ieri. Occorre fare «ogni sforzo per evitare anche il solo rischio di adottare misure che potrebbero avere l’effetto di compromettere gli sforzi di stabilizzazione finanziaria sin qui profusi dal Parlamento, dal governo e dal Paese» c’è scritto. «Il governo è pienamente disponibile a discutere caso per caso, ci sono persone in seria difficoltà e vanno tutelate» aveva precisato il ministro, ma l’avviso ai partiti è chiaro: va evitato «il rischio di misure non comprese in sede internazionale».
Le questioni, quindi, sono due: la messa in discussione della riforma stessa e la mancata copertura per il provvedimento. Il testo proposto in primis dall’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, Pd, fissa la quota necessaria in 5 miliardi, ma oggi – in Commissione Bilancio alla Camera (il cui parere è fondamentale per far sì che la proposta vada avanti e non si incanali su un binario morto), arriveranno i dati della Ragioneria.
Comunque sia, già i 5 miliardi non risultano coperti: la strada principale che era stata indicata dai partiti (giovedì scorso in commissione Lavoro hanno
votato all’unanimità il testo) è quella di reperire i fondi da un’ulteriore tassazione di giochi on-line e lotterie, ma la commissione Finanze ha già espresso perplessità. Cosa fare? Cesare Damiano, che rifiuta l’accusa fatta alla maggioranza di aver forzato il caso, assicura che la strada da seguire è una sola: reprire i fondi dalla legge di stabilità e dalla spending review. «Questi soldi non devono essere solo destinati ad una diminuzione del debito, ma anche a correggere l’errore fatto – ha detto – Non è vero che, come assicura il governo, con la copertura dei 120 mila casi non c’è emergenza immediata: ci sono già oggi migliaia di persone in difficoltà economica. Non vogliamo smontare la riforma, vogliamo correggerla. Se le disponibilità del ministero del Lavoro sono per lettera o a voce, abbiamo già dato, va aperto un confronto e trovate soluzioni eque».
La Repubblica 09.10.12
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“Una mina da 30 miliardi in 10 anni Fornero: così si smonta tutta la riforma”, di Valentina Conte
Il tentativo di allargare la platea di “esodati” oltre i 120 mila già “salvaguardati” dal governo con due decreti, a luglio e venerdì scorso, corre il rischio di smontare il cuore della riforma Fornero sulle pensioni. La miccia è contenuta nel progetto di legge Damiano, licenziato dalla Commissione lavoro della Camera con i voti di maggioranza e opposizione (Idv e Lega) e approdato ieri in Aula. Una bomba che oggi il governo potrebbe quantificare in 30 miliardi di euro nel prossimo decennio. Tanto varrebbe, secondo le stime della Ragioneria, il provvedimento.
Una cifra pesante che, se confermata, è in grado di risucchiare un terzo dei risparmi garantiti dalla riforma Fornero fino al 2022. E di mettere i conti dell’Italia fuori giro. «Solo 5 miliardi », si difende il deputato Pd, Cesare Damiano, primo firmatario del progetto. «Non si possono compromettere gli sforzi di stabilizzazione finanziaria», avverte il ministro del Lavoro.
Il punto di partenza è ancora la questione “esodati”: lavoratori rimasti (o che rimarranno) senza reddito né pensione, intrappolati nella bolla che la riforma ha creato allungando l’età di uscita. Le due deroghe fin qui approvate stanziano 9 miliardi e ne tutelano 120 mila. Una coperta troppo corta, perché il problema riguarda un numero più alto di lavoratori, come denunciato sin da gennaio dalla
Cgil. E come l’Inps ha certificato a giugno, parlando di 390 mila persone. L’intento del provvedimento – pensato dai deputati Damiano, Dozzo e Paladini – in un primo momento, dunque, viene ampiamente condiviso da tutte le forze politiche: non lasciare nessuno scoperto. Poi però il tentativo va oltre. E qualcuno, polemicamente, si sfila. Come il deputato Pdl, Giuliano Cazzola, che ha tolto la sua firma. Perché? «In pratica si estendono a tutti i requisiti previsti, in via sperimentale, dalla riforma Maroni per le donne, ovvero 57 anni di età e 35 di contributi (59 dal 2016), contro i 62 anni e 41 di contributi da subito della riforma Fornero. Con una sola differenza: la pensione si calcola con il contributivo anche per il periodo pre-1996». Questo comporta una decurtazione economica importante. «Sì, ma visto l’allungamento dell’età prodotto dalla riforma Fornero, a molti potrebbe convenire perdere un 20-30 per cento dell’assegno e andare in pensione 4-5 anni prima. In questo modo, i conti però sballano». Di qui i dissapori.
All’inizio gli “scalini” dovevano essere eccezioni per chi perdeva il lavoro. Altri “esodati”, insomma.
Poi però «è diventata una norma di carattere generale che da sola vale 17 miliardi a regime, cioè fino al 2022», riferisce Cazzola. Per arrivare a 30 miliardi nel decennio, comprendendo le altre norme contenute nei 5 articoli del progetto di legge. Insostenibile. La commissione Finanze della Camera, che pure ha dato parere favorevole, ha però già evidenziato l’inadeguatezza della copertura finanziaria («misure in materia di giochi pubblici on line, lotterie istantanee, apparecchi e congegni di gioco»). In attesa di capire, già da oggi, i conti ufficiali del ministero guidato dalla Fornero e la relazione tecnica della commissione Bilancio.
«Il punto è che in questo modo si riapre l’anzianità per tutti», insiste Cazzola. Un punto di mediazione è però possibile. E consiste nel mettere altro fieno in cascina. Ovvero risorse aggiuntive per coprire altri “esodati”. «L’idea è di usare parte dei fondi accantonati per i lavori usuranti. Mediamente se ne stanziano 285 milioni all’anno. Ma dal 2010 al 2012 ne sono stati usati solo 164 milioni, per via delle regole severe dell’Inps che hanno portato ad accogliere solo il 40% delle domande. A partire dal 2013, potrebbe emergere un “tesoretto” di 100-150 milioni da girare agli “esodati”. Alla fine, come ho detto alla Camera, abbiamo portato un Tir in Aula, ne usciremo con una motoretta. Meglio di niente».
La Repubblica 09.10.12

"Cacciare i vulcanologi precari per scardinare la contrattazione", di Paolo Valente

La notizia non è certo di quelle che catturano l’attenzione: il Dipartimento della Funzione Pubblica ha dato un parere su un contratto integrativo sottoscritto tra sindacati del comparto ricerca e INGV. Serve un vocabolario anche solo per capire di cosa si sta parlando. La Funzione Pubblica è il “guardiano” del pubblico impiego: controlla assunzioni e contratti della miriade di enti pubblici del nostro Paese: relativamente facile.

Appena più difficile: l’INGV è l’ente di ricerca che, in Italia, si occupa di terremoti e vulcani; certo, bisognerebbe spiegare perché alcuni suoi ricercatori sono a processo per non aver avvertito dell’imminente terremoto dell’Aquila, perché l’ente pubblico che sorveglia i vulcani e gestisce la rete sismologica deve, da anni, avvalersi di oltre 400 precari, perché degli scienziati debbano avere le stesse regole degli impiegati ministeriali (ammetterete che andare sull’Etna non è come andare dal capo dipartimento), ma non sono sicuro di poter dare delle spiegazioni plausibili.

Saliamo di un livello: la contrattazione nel pubblico impiego. Questa è difficile: perché il legislatore (oramai una ventina di anni or sono) abbia deciso che i dipendenti pubblici debbano contrattare con lo Stato, come se fosse un imprenditore privato, non l’ho mai davvero capito (v. voce di Wikipedia che fornisce le informazioni di base in merito). Soprattutto se penso che da questa regola sono esclusi magistrati, forze armate e professori universitari, ma, appunto, non i ricercatori che si occupano di terremoti (o di epidemie, o dell’andamento dell’economia, o della fisica teorica e applicata, e così via…). Prendiamola come condizione al contorno (così dicono i fisici) non eliminabile, ma mettiamo da parte un’informazione importante: se gli stipendi degli “statali” aumentano attraverso la contrattazione sindacale, il governo Monti ha pensato di risparmiare bloccando la contrattazione almeno fino al 2014. Resta la contrattazione decentrata, quella “aziendale”, diversa in ciascun ente pubblico, che serve per contrattare sui buoni pasto, ma anche sui problemi specifici dell’amministrazione.

Perché, invece, questi benedetti 400 ricercatori non abbiano un contratto a tempo indeterminato (in un Paese come il nostro, non c’è dubbio che svolgano un servizio essenziale) si spiega molto facilmente: non sono previsti dall’organico dell’Istituto di Geofisica e Vulcanologia (l’INGV, appunto) e quindi non possono essere messi a concorso.

Da qui i contratti a tempo determinato, da qui la soluzione (temporanea, ma meglio di niente) di prolungare questi contratti per diversi anni, da qui il conflitto con la legge – del 2001 – che non permette di prolungare i contratti temporanei oltre un certo limite, se non con l’accordo dei sindacati, per mezzo di un accordo “aziendale”.

Siamo quasi arrivati in fondo, manca un ultima informazione: la riforma del mercato del lavoro del Ministro Fornero, ha introdotto recentemente una maggiore “flessibilità in entrata”, cioè maggiore elasticità nello stipulare i contratti a tempo determinato andando proprio a modificare quellalegge del 2001 che serviva ai vulcanologi per vedere i propri contratti prolungati ancora una volta. Arrivati alla scadenza dei contratti temporanei, i sindacati (tutti) “di categoria” si accordano velocemente con l’INGV per il prolungamento, come prevista dalla legge del 2001, e tutto sembra poter continuare nell’equilibrio (precario) di prima.

Ma c’è un ma. Abbiamo definito la Funzione Pubblica come il dipartimento “guardiano” delle pubbliche amministrazioni. Per quanto riguarda gli enti di ricerca, che tra l’altro godono di autonomia statutaria, regolamentare, finanziaria e di bilancio, il controllo è limitato alle dotazioni organiche, alle procedure di reclutamento e agli accordi integrativi, esclusi (attenzione!) gli accordi per il prolungamento dei contratti a tempo determinato. Bene, nonostante l’accordo per i contratti INGV non fosse sottoposto a controllo, la Funzione Pubblica ha ritenuto necessario pubblicare (e inviare all’Ente) un parere, che io traduco dal burocratese così: poiché 1) la legge del 2012 voluta dal ministro Fornero, ha introdotto nuove forme di lavoro flessibile e ha previsto – comprensibilmente – che alcuni aspetti di questa maggiore flessibilità siano definiti dalla contrattazione collettiva; 2) la contrattazione è bloccata; 3) l’accordo dell’INGV è nello stessoambito; allora sarebbe necessario attendere l’avvio delle procedure della nuova tornata di contrattazione collettiva prima di fare un accordo decentrato.

Per gli appassionati di diritto del lavoro pubblico, esistono delle contro-argomentazioni della FLC CGIL sul perché un tale parere in realtà non dovrebbe invalidare l’accordo INGV, che a me paiano documentate e convincenti (e che potete leggere qui). Se sia necessario o meno rivedere tutto l’impianto che riguarda il pubblico impiego, mettendo in discussione la cosiddetta “privatizzazione” del rapporto di lavoro, e di conseguenza la contrattazione collettiva, i rapporti sindacali e quant’altro, lo lascio alle dotte discussioni di giuristi e politici.

Per chi fosse meno avvezzo a decreti legislativi, “novelle” legislative, e contratti “a-casuali”, non mi restano, invece, che poche semplici domande:

– Come potrebbe l’INGV gestire la rete sismica dell’intera nostra penisola senza i 400 e oltre specialisti che da anni la sviluppano e la gestiscono?

– In alternativa: che risparmio ci sarebbe per lo Stato se l’Istituto fosse costretto a bandire centinaia di procedure concorsuali in tutta Italia per ricoprire quelle stesse posizioni (in larga maggioranza dalle stesse persone, data la loro alta specializzazione e esperienza)? e (oltre ai costi) quanti mesi occorrerebbero per un’operazione del genere?

– E infine: che senso ha sottoporre a regole burocratiche pensate per la generalità della pubblica amministrazione proprio l’unico settore pubblico (non se ne vogliano tutti gli onesti statali che non lavorano nell’ambito della ricerca) che sottopone il suo lavoro costantemente alla valutazione (spietata) della comunità internazionale (oltre che quella – seppur barocca e perfettibile – dell’ANVUR)?

L’Unità 09.10.12