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Strage di Marzabotto: anniversario amaro

Oggi si svolgono le commemorazioni ufficiali dedicate al tema del lavoro e della solidarietà internazionale. Marzabotto e Stazzema, dopo l’archiviazione della procura di Stoccarda, protesteranno insieme. La commemorazione di quest’anno acquista particolare importanza alla luce della recente decisione della procura di Stoccarda di archiviare l’inchiesta sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema.
A tal proposito, il sindaco di Marzabotto Romano Franchi ha espresso tutta la sua indignazione per la decisione del tribunale tedesco, annunciando che assieme al sindaco di Stazzema verrà preparata una presa di posizione comune contro la decisione della procura tedesca.

Il programma di quest’anno, presentato stamane a Palazzo Malvezzi, si presenta ricco di iniziative che denotano l’intento degli organizzatori di collegare il tema della memoria storica alle problematiche attuali del lavoro e della solidarietà internazionale.
Significativa a tal proposito è la scelta del sindaco di Cagliari Massimo Zedda, che sarà sul palco. Basti pensare alle vertenze Alcoa e Sulcis.
Importate anche la presenza di Kareem Kheder, sindaco di Halabja, città del Kurdistan iracheno tristemente nota per gli attacchi con armi chimiche subiti durante la guerra del 1988, costati la vita a 5000 persone.

"Insegnare: E' una professione, non una missione", di Paolo Di Stefano

Nonostante tutto, dopo 4 o 5 ore passate con degli adolescenti, sei stanco», dice Gianfranco Giovannone in un lunedì pomeriggio di fine settembre. Dopo aver studiato lingue a Pisa e aver insegnato in tutti gli ordini di scuola, escluse le materne, a sessant’anni suonati può permettersi di parlare della scuola senza l’abnegazione cieca del sentimentalismo deamicisiano e senza le cupezze del risentimento e della nostalgia. Del resto, non c’era né cuore-in-mano né rancore neppure nel libro che ha pubblicato qualche anno fa (Perché non sarò mai un insegnante, Longanesi), in cui attraverso le parole degli studenti veniva illustrato, con abbagliante sincerità, il declino della professione docente. Erano i ragazzi, appunto, nei loro componimenti, i primi a considerare i prof degli alieni, dei corpi estranei al mondo e alla realtà, ma soprattutto ben lontani dalla formulamagica «denaro, potere, immagine», in cui generalmente si riassume il prestigio sociale. Insomma, la classe degli insegnanti, che ha il compito importantissimo di formare i cittadini del futuro, appare proprio alle giovani generazioni come un manipolo di «sfigati», descritti in un’ampia gamma di coloriture che va dall’ironia alla vera e propria ostilità, dal compatimento al disprezzo. Più o meno la stessa considerazione di cui il docente gode all’interno della società.

Dunque? Al professor Giovannone, che insegna inglese al liceo scientifico Ulisse Dini di Pisa, è sposato con una maestra elementare e ha un figlio universitario, mancano quattro anni per raggiungere la pensione, ma non ne fa un dramma, anzi: «Grazie alla riforma dei tecnici dovrò continuare a lavorare, ma non mi interessa: sono contento, è un lavoro che mi piace e che ritengo importante per la società». In pochi, però, lo riconoscono come tale. C’è un ampio repertorio letterario e cinematografico che sta a dimostrare il contrario. Ultimo venne il film di Giuseppe Piccioni Il rosso e il blu (tratto dall’omonimo libro di Marco Lodoli), che non si sottrae, sia pure con mano leggera, al cliché dell’ambiente un po’ bozzettistico e tragicomico, pieno di insegnanti frustrati e/o idealisti e di allievi depressi e/o esagitati, strafottenti e sostanzialmente ignoranti. «Non mi piace, in genere, la maniera pittoresca, sdolcinata e pezzente di raccontare la vita scolastica. C’è però una cosa che salverei nel film: la figura dell’anziano professor Fiorito, interpretato da Roberto Herlitzka, colto, tradizionalista, superbo, nevrastenico. Alla fine non tutto il bene sta dalla parte del supplente Scamarcio, animato dall’ideale di portare sulla retta via i suoi allievi. È interessante che anche il vecchio prof abbia il riconoscimento degli studenti dopo la sua ultima bellissima lezione su classicismo e romanticismo. Per il resto mi sembrano tante figurine svampite che nella scuola reale non esistono». Il confronto può essere fatto con un film canadese, Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau, dove è in gioco la questione scottante della permeabilità della scuola alla realtà (anche tragica).

La letteratura ha contribuito all’immagine della scuola italiana come carrozzone folcloristico in cui gli insegnanti si barcamenano come possono, tra il menefreghismo e l’incomprensione: «Ci sono anche racconti molto divertenti, come quelli di Domenico Starnone, ma rimane sempre quel vezzo di restituire un’immagine triste degli insegnanti, come individui patetici che si arrabattano alle prese con adolescenti odiosetti, antipatici e problematici. Chissà perché i docenti vengono quasi sempre trattati da personaggi ridicoli e non da intellettuali che hanno un profilo davvero professionale e che rendono un servizio egregio alla società». È contro la rappresentazione apocalittica che Giovannone, nel suo libro, aveva puntato il dito: la scuola da buttare, il cadavere, la miseria, la catastrofe, il disastro, lo sfascio del sistema scuola eccetera. «L’errore è quello di non distinguere. In Italia abbiamo scuole pubbliche generalmente di buon livello e anche di eccellenza, le materne, le elementari, il liceo classico e lo scientifico. Basterebbe leggere con attenzione i dati Ocse Pisa». Eppure si parla un giorno sì e l’altro pure di riforme: «Non serve una megariforma globale e generica, serve invece puntare l’attenzione sul vero disastro, che è l’istruzione professionale (e in parte quella tecnica), un ghetto, un tunnel quasi senza speranza per gli studenti e difficile per gli insegnanti, che devono andare a lavorare con l’elmetto. Invece la Moratti e la Gelmini hanno affrontato una ristrutturazione generale di cui non c’era alcun bisogno».

Così però il pericolo è di passare dal pessimismo radicale a una specie di trionfalismo che rischia di essere altrettanto improduttivo: sarebbe sbagliato sostenere che la malattia della scuola italiana è limitata al corpo delle professionali. «Certo, ci sono altri problemi seri. Esiste un enorme divario tra Sud e Nord: quando lo disse la Gelmini, certi intellettuali tirarono fuori Sciascia, ma il ministro aveva ragione. Il Mezzogiorno è indietro di vent’anni rispetto al Centro e al Nord, se non si parte anche lì dalle scuole materne efficienti e dal tempo pieno non si raggiungeranno mai certi livelli di qualità che si riscontrano nel resto d’Italia». Tutto qua? No, ovviamente. «La piaga più seria è quella della incapacità della società italiana, per non dire della politica, di promuovere la mobilità. Io insegno in un prestigioso liceo di Pisa, i cui studenti sono in gran parte figli di professionisti, mentre i figli del sottoproletariato frequentano per lo più le professionali: da noi non è stato fatto niente per promuovere davvero il merito e per ridurre le barriere sociali. In Finlandia i migliori insegnanti vengono destinati ai quartieri più degradati per innalzare il livello di istruzione nelle classi meno agiate. Da noi?».

Da noi già parlare di merito e di premio ai migliori è difficile: «Non sono affatto contrario a valutare il merito dei docenti, purché non diventi un motivo buono per dividere tra pochissimi superbravi e la massa degli asini, com’era nella proposta Berlinguer. Vedo colleghi stanchi e demotivati, ma anche tanti professionisti che lavorano bene: gli insegnanti da barzelletta sono pochi ed emarginati». Una difesa della categoria? «Guardi, sono vent’anni che si parla del merito con enfasi anche eccessiva. Le esperienze in Inghilterra e nei Paesi scandinavi si sono ridotte al teach to test, insegnare a fare bene i test: ora ci stanno ripensando. Se il metro di giudizio sono i test non ci siamo. Il fatto è che sul merito non è mai arrivata una proposta accettabile». Allora come si misura il merito? «Le opinioni degli studenti e dei genitori sono valutazioni empiriche, quel che conta è il cosiddetto progresso dei ragazzi. Ma è un terreno molto spinoso».

Uscendo dalle teorie e entrando nella quotidianità, spinosa è anche la questione salariale, se si pensa che a sessant’anni il professor Giovannone non arriva a duemila euro mensili: «Credo di meritare molto di più, come lo meriterebbe la maggior parte dei miei colleghi. Non dico il doppio, ma 3.000-3.500 euro, una cifra appena adeguata al ruolo». Tullio De Mauro da ministro pose con forza la questione retribuzioni, giudicando «infame» il trattamento che la nostra Repubblica dedica alla categoria degli insegnanti, non paragonabile a quello degli altri Paesi europei. «Non solo. L’aspetto più incredibile è la totale impermeabilità deimiei colleghi sulla questione salariale: gran parte di loro, per una tradizione deamicisiana o cattolica, ritiene che insegnare sia una missione molto più vicina al volontariato che non a un’attività professionale e dunque si accontenta. L’abnegazione volontaristica delle “lodevoli eccezioni” finisce per perpetuare l’auramissionaria e l’enfasi vocazionale, grazie alle quali oggi l’insegnamento viene percepito dai ragazzi come una professione finta». Negli anni 70 e 80, spiegava Giovannone nel suo libro, cioè quando lo sciopero aveva ancora un valore, le percentuali di adesione erano penose: «Probabilmente allora la convinzione di appartenere alla borghesia — la classe di provenienza della maggior parte degli insegnanti — e il fatto che molte colleghe erano sposate a chirurghi, avvocati, dirigenti, funzionari di banca, gente insomma con un reddito serio, faceva ritenere lo sciopero una forma di prossimità ai blue-collars, una proletarizzazione che a livello economico era già in fase avanzata, ma che ideologicamente veniva pateticamente rifiutata». Più difficile, continuava, spiegare l’attuale rassegnazione. Si è perpetuato così quel tacito accordo che in gergo viene definito «teoria dello scambio politico»: «L’idea generale, diffusa soprattutto a sinistra e nei sindacati, è: lavorate pure poco, in cambio però accontentatevi di uno stipendio da fame».

Il rimprovero dell’opinione pubblica è proprio questo: gli insegnanti in Italia lavoranomeno che all’estero. Ma sarà poi vero? «Fesserie che sono state interiorizzate e hanno prodotto nella nostra classe insegnante una sorta di complesso di inferiorità. In realtà l’orario di 18 ore più una di ricevimento è affine in tutto il mondo occidentale. E a chi sostiene che si tratta comunque di un orario ridicolo rispetto a quello di altri lavoratori, bisogna ricordare il lavoro a casa, tra preparazione e correzioni, che sono la parte più odiosa e pesante: dopo i primi due-tre-quattro compiti, comincia l’effetto di ripetitività. Per la correzione a me servono tutte le domeniche mattina dalle 7 alle 2 e almeno altri due pomeriggi interi in settimana». Se confrontate con quelle del suo libro, le parole di Giovannone sembrano oggi più disincantate, forse più deluse. Colpa anche degli studenti, sempre più distratti e strafottenti come dicono? «No, devo confessarle che non ho mai avuto problemi di disciplina o di mancanza di rispetto. Le attuali generazioni di liceali, al di là dei tatuaggi e dei piercing, sono molto più conformiste di quel che eravamo noi: non ci sono grandi difficoltà di relazione. Si dice che le ragazze vogliano fare le veline, le modelle, le troniste? La cosa non mi scandalizzerebbe, ma in tutti questi anni ho avuto una sola allieva che è andata a fare l’Accademia di ballo a Roma. Probabilmente nelle scuole tecniche accade più spesso». Saranno forse cambiate le famiglie? «Certo, quando ci sono gli scrutini, davanti alla presidenza si forma la fila dei genitori che protestano perché i loro figli meritavano di più… Le famiglie sono diventate ossessive e iperprotettive, si sa». Non abbastanza da far passare la voglia di insegnare a chi ce l’ha. «Certo che no. Nel libro manifestavo la speranza che almeno una parte della categoria potesse rendersi consapevole della propria dignità professionale, proponendosi come interlocutori seri dell’accademia, della politica e dei media per migliorare il proprio status e la propria immagine, e per discutere sul destino e sugli orientamenti culturali della società. Ma se allora si poteva ancora sperare di rivendicare un ruolo simile nella società, si poteva immaginare una riscossa e uno scatto d’orgoglio, oggi la situazione è mutata e quelle speranze appaiono spaventosamente grottesche: gli insegnanti sono diventati — oggettivamente e a detta di tutti — i nuovi poveri della società, sempre più marginali, con prospettive ancora più terrificanti. Oggi ci troviamo molto al di là del peggio e quell’idea sarebbe un wishful thinking: non è più tempo di illusioni e va già bene se riusciamo a mantenere lo status di nuovi poveri».

Il Corriere della Sera 07.10.12

"Insegnare: E' una professione, non una missione", di Paolo Di Stefano

Nonostante tutto, dopo 4 o 5 ore passate con degli adolescenti, sei stanco», dice Gianfranco Giovannone in un lunedì pomeriggio di fine settembre. Dopo aver studiato lingue a Pisa e aver insegnato in tutti gli ordini di scuola, escluse le materne, a sessant’anni suonati può permettersi di parlare della scuola senza l’abnegazione cieca del sentimentalismo deamicisiano e senza le cupezze del risentimento e della nostalgia. Del resto, non c’era né cuore-in-mano né rancore neppure nel libro che ha pubblicato qualche anno fa (Perché non sarò mai un insegnante, Longanesi), in cui attraverso le parole degli studenti veniva illustrato, con abbagliante sincerità, il declino della professione docente. Erano i ragazzi, appunto, nei loro componimenti, i primi a considerare i prof degli alieni, dei corpi estranei al mondo e alla realtà, ma soprattutto ben lontani dalla formulamagica «denaro, potere, immagine», in cui generalmente si riassume il prestigio sociale. Insomma, la classe degli insegnanti, che ha il compito importantissimo di formare i cittadini del futuro, appare proprio alle giovani generazioni come un manipolo di «sfigati», descritti in un’ampia gamma di coloriture che va dall’ironia alla vera e propria ostilità, dal compatimento al disprezzo. Più o meno la stessa considerazione di cui il docente gode all’interno della società.
Dunque? Al professor Giovannone, che insegna inglese al liceo scientifico Ulisse Dini di Pisa, è sposato con una maestra elementare e ha un figlio universitario, mancano quattro anni per raggiungere la pensione, ma non ne fa un dramma, anzi: «Grazie alla riforma dei tecnici dovrò continuare a lavorare, ma non mi interessa: sono contento, è un lavoro che mi piace e che ritengo importante per la società». In pochi, però, lo riconoscono come tale. C’è un ampio repertorio letterario e cinematografico che sta a dimostrare il contrario. Ultimo venne il film di Giuseppe Piccioni Il rosso e il blu (tratto dall’omonimo libro di Marco Lodoli), che non si sottrae, sia pure con mano leggera, al cliché dell’ambiente un po’ bozzettistico e tragicomico, pieno di insegnanti frustrati e/o idealisti e di allievi depressi e/o esagitati, strafottenti e sostanzialmente ignoranti. «Non mi piace, in genere, la maniera pittoresca, sdolcinata e pezzente di raccontare la vita scolastica. C’è però una cosa che salverei nel film: la figura dell’anziano professor Fiorito, interpretato da Roberto Herlitzka, colto, tradizionalista, superbo, nevrastenico. Alla fine non tutto il bene sta dalla parte del supplente Scamarcio, animato dall’ideale di portare sulla retta via i suoi allievi. È interessante che anche il vecchio prof abbia il riconoscimento degli studenti dopo la sua ultima bellissima lezione su classicismo e romanticismo. Per il resto mi sembrano tante figurine svampite che nella scuola reale non esistono». Il confronto può essere fatto con un film canadese, Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau, dove è in gioco la questione scottante della permeabilità della scuola alla realtà (anche tragica).
La letteratura ha contribuito all’immagine della scuola italiana come carrozzone folcloristico in cui gli insegnanti si barcamenano come possono, tra il menefreghismo e l’incomprensione: «Ci sono anche racconti molto divertenti, come quelli di Domenico Starnone, ma rimane sempre quel vezzo di restituire un’immagine triste degli insegnanti, come individui patetici che si arrabattano alle prese con adolescenti odiosetti, antipatici e problematici. Chissà perché i docenti vengono quasi sempre trattati da personaggi ridicoli e non da intellettuali che hanno un profilo davvero professionale e che rendono un servizio egregio alla società». È contro la rappresentazione apocalittica che Giovannone, nel suo libro, aveva puntato il dito: la scuola da buttare, il cadavere, la miseria, la catastrofe, il disastro, lo sfascio del sistema scuola eccetera. «L’errore è quello di non distinguere. In Italia abbiamo scuole pubbliche generalmente di buon livello e anche di eccellenza, le materne, le elementari, il liceo classico e lo scientifico. Basterebbe leggere con attenzione i dati Ocse Pisa». Eppure si parla un giorno sì e l’altro pure di riforme: «Non serve una megariforma globale e generica, serve invece puntare l’attenzione sul vero disastro, che è l’istruzione professionale (e in parte quella tecnica), un ghetto, un tunnel quasi senza speranza per gli studenti e difficile per gli insegnanti, che devono andare a lavorare con l’elmetto. Invece la Moratti e la Gelmini hanno affrontato una ristrutturazione generale di cui non c’era alcun bisogno».
Così però il pericolo è di passare dal pessimismo radicale a una specie di trionfalismo che rischia di essere altrettanto improduttivo: sarebbe sbagliato sostenere che la malattia della scuola italiana è limitata al corpo delle professionali. «Certo, ci sono altri problemi seri. Esiste un enorme divario tra Sud e Nord: quando lo disse la Gelmini, certi intellettuali tirarono fuori Sciascia, ma il ministro aveva ragione. Il Mezzogiorno è indietro di vent’anni rispetto al Centro e al Nord, se non si parte anche lì dalle scuole materne efficienti e dal tempo pieno non si raggiungeranno mai certi livelli di qualità che si riscontrano nel resto d’Italia». Tutto qua? No, ovviamente. «La piaga più seria è quella della incapacità della società italiana, per non dire della politica, di promuovere la mobilità. Io insegno in un prestigioso liceo di Pisa, i cui studenti sono in gran parte figli di professionisti, mentre i figli del sottoproletariato frequentano per lo più le professionali: da noi non è stato fatto niente per promuovere davvero il merito e per ridurre le barriere sociali. In Finlandia i migliori insegnanti vengono destinati ai quartieri più degradati per innalzare il livello di istruzione nelle classi meno agiate. Da noi?».
Da noi già parlare di merito e di premio ai migliori è difficile: «Non sono affatto contrario a valutare il merito dei docenti, purché non diventi un motivo buono per dividere tra pochissimi superbravi e la massa degli asini, com’era nella proposta Berlinguer. Vedo colleghi stanchi e demotivati, ma anche tanti professionisti che lavorano bene: gli insegnanti da barzelletta sono pochi ed emarginati». Una difesa della categoria? «Guardi, sono vent’anni che si parla del merito con enfasi anche eccessiva. Le esperienze in Inghilterra e nei Paesi scandinavi si sono ridotte al teach to test, insegnare a fare bene i test: ora ci stanno ripensando. Se il metro di giudizio sono i test non ci siamo. Il fatto è che sul merito non è mai arrivata una proposta accettabile». Allora come si misura il merito? «Le opinioni degli studenti e dei genitori sono valutazioni empiriche, quel che conta è il cosiddetto progresso dei ragazzi. Ma è un terreno molto spinoso».
Uscendo dalle teorie e entrando nella quotidianità, spinosa è anche la questione salariale, se si pensa che a sessant’anni il professor Giovannone non arriva a duemila euro mensili: «Credo di meritare molto di più, come lo meriterebbe la maggior parte dei miei colleghi. Non dico il doppio, ma 3.000-3.500 euro, una cifra appena adeguata al ruolo». Tullio De Mauro da ministro pose con forza la questione retribuzioni, giudicando «infame» il trattamento che la nostra Repubblica dedica alla categoria degli insegnanti, non paragonabile a quello degli altri Paesi europei. «Non solo. L’aspetto più incredibile è la totale impermeabilità deimiei colleghi sulla questione salariale: gran parte di loro, per una tradizione deamicisiana o cattolica, ritiene che insegnare sia una missione molto più vicina al volontariato che non a un’attività professionale e dunque si accontenta. L’abnegazione volontaristica delle “lodevoli eccezioni” finisce per perpetuare l’auramissionaria e l’enfasi vocazionale, grazie alle quali oggi l’insegnamento viene percepito dai ragazzi come una professione finta». Negli anni 70 e 80, spiegava Giovannone nel suo libro, cioè quando lo sciopero aveva ancora un valore, le percentuali di adesione erano penose: «Probabilmente allora la convinzione di appartenere alla borghesia — la classe di provenienza della maggior parte degli insegnanti — e il fatto che molte colleghe erano sposate a chirurghi, avvocati, dirigenti, funzionari di banca, gente insomma con un reddito serio, faceva ritenere lo sciopero una forma di prossimità ai blue-collars, una proletarizzazione che a livello economico era già in fase avanzata, ma che ideologicamente veniva pateticamente rifiutata». Più difficile, continuava, spiegare l’attuale rassegnazione. Si è perpetuato così quel tacito accordo che in gergo viene definito «teoria dello scambio politico»: «L’idea generale, diffusa soprattutto a sinistra e nei sindacati, è: lavorate pure poco, in cambio però accontentatevi di uno stipendio da fame».
Il rimprovero dell’opinione pubblica è proprio questo: gli insegnanti in Italia lavoranomeno che all’estero. Ma sarà poi vero? «Fesserie che sono state interiorizzate e hanno prodotto nella nostra classe insegnante una sorta di complesso di inferiorità. In realtà l’orario di 18 ore più una di ricevimento è affine in tutto il mondo occidentale. E a chi sostiene che si tratta comunque di un orario ridicolo rispetto a quello di altri lavoratori, bisogna ricordare il lavoro a casa, tra preparazione e correzioni, che sono la parte più odiosa e pesante: dopo i primi due-tre-quattro compiti, comincia l’effetto di ripetitività. Per la correzione a me servono tutte le domeniche mattina dalle 7 alle 2 e almeno altri due pomeriggi interi in settimana». Se confrontate con quelle del suo libro, le parole di Giovannone sembrano oggi più disincantate, forse più deluse. Colpa anche degli studenti, sempre più distratti e strafottenti come dicono? «No, devo confessarle che non ho mai avuto problemi di disciplina o di mancanza di rispetto. Le attuali generazioni di liceali, al di là dei tatuaggi e dei piercing, sono molto più conformiste di quel che eravamo noi: non ci sono grandi difficoltà di relazione. Si dice che le ragazze vogliano fare le veline, le modelle, le troniste? La cosa non mi scandalizzerebbe, ma in tutti questi anni ho avuto una sola allieva che è andata a fare l’Accademia di ballo a Roma. Probabilmente nelle scuole tecniche accade più spesso». Saranno forse cambiate le famiglie? «Certo, quando ci sono gli scrutini, davanti alla presidenza si forma la fila dei genitori che protestano perché i loro figli meritavano di più… Le famiglie sono diventate ossessive e iperprotettive, si sa». Non abbastanza da far passare la voglia di insegnare a chi ce l’ha. «Certo che no. Nel libro manifestavo la speranza che almeno una parte della categoria potesse rendersi consapevole della propria dignità professionale, proponendosi come interlocutori seri dell’accademia, della politica e dei media per migliorare il proprio status e la propria immagine, e per discutere sul destino e sugli orientamenti culturali della società. Ma se allora si poteva ancora sperare di rivendicare un ruolo simile nella società, si poteva immaginare una riscossa e uno scatto d’orgoglio, oggi la situazione è mutata e quelle speranze appaiono spaventosamente grottesche: gli insegnanti sono diventati — oggettivamente e a detta di tutti — i nuovi poveri della società, sempre più marginali, con prospettive ancora più terrificanti. Oggi ci troviamo molto al di là del peggio e quell’idea sarebbe un wishful thinking: non è più tempo di illusioni e va già bene se riusciamo a mantenere lo status di nuovi poveri».
Il Corriere della Sera 07.10.12

"Il convitato di pietra al tavolo del dopo-voto", di Eugenio Scalfari

La legge elettorale ancora non c’è anche se se ne comincia a intravedere una possibile soluzione. Le primarie del Pd non sono ancora state effettuate e l’esito dello scontro tra Bersani, Renzi e Vendola è ancora incerto. Le sorti del Pdl sono appese al filo delle decisioni di Berlusconi; potrà rappresentare ancora un 15 per cento dei voti o implodere dissolvendosi come nebbia al sole. Il centro moderato per il quale lavora Casini è un’ipotesi che fatica a tradursi in realtà.
In un quadro così agitato aleggia l’immagine di Mario Monti, una sorta di convitato di pietra la cui figura è variamente interpretata dai protagonisti della scena politica e mediatica. Per alcuni è un salvatore della patria, per altri un demiurgo, per altri ancora un tecnocrate che ruberà il posto ai politici e per i più pessimisti un moderno Cesare che affonderà per sempre la democrazia parlamentare come fin qui l’abbiamo conosciuta.
A tutti questi elementi d’incertezza aggiungiamone un altro non da poco: al momento della scelta del nuovo governo e della nomina del futuro presidente del Consiglio non solo ci sarà un nuovo Parlamento ma anche un nuovo presidente della Repubblica. Napolitano finirà in maggio il suo settennato; chi ci sarà al suo posto?
Queste domande non preoccupano soltanto noi italiani ma anche – e forse ancora di più – i nostri alleati europei e tengono in fibrillazione i mercati. L’Italia, con la sua buona o cattiva salute economica e politica, rappresenta un elemento determinante per la solidità della moneta comune e per l’evoluzione di tutto il continente dalla attuale confederazione alla federazione, cioè alla nascita di un vero e proprio Stato europeo.
Un’Italia risanata è indispensabile e preliminare ad un’Europa federale, un’Italia perennemente ammalata blocca invece qualunque speranza di futuro europeo.
Ho la sensazione che questo nostro peso sull’evoluzione politica del continente non sia ben chiaro ai cittadini che andranno alle urne nell’aprile del 2013; soprattutto che non sia ben chiaro alle forze politiche, preoccupate soltanto o principalmente delle loro fortune elettorali.
In realtà il senso del voto che il corpo elettorale sarà chiamato ad esprimere sarà in primo luogo a favore o contro l’Europa unita, a favore o contro della moneta europea, a favore o contro la cessione di sovranità dagli Stati nazionali al nascituro Stato federale europeo.
Naturalmente ci sono anche altri elementi che caratterizzeranno quel voto e riguardano il colore politico che assumerà la futura democrazia europea: se sarà più orientata verso l’equità e la socialità oppure verso il liberismo; se sarà riformatrice o conservatrice; se privilegerà l’eguaglianza nella libertà o la libertà senza l’eguaglianza. Questioni certamente della massima importanza, ma destinate ad alternarsi come sempre avviene nelle democrazie funzionanti. La prima e fondamentale questione da decidere però riguarda il futuro dell’Europa e il contributo che l’Italia può e deve dare alla costruzione di quel futuro. Le forze politiche e i cittadini elettori debbono farsi carico del fatto che questa scelta precede tutte le altre e che sarà questa la domanda numero uno alla quale le urne dovranno fornire la risposta.
* * *
Mario Monti è ben consapevole della necessità di questa scelta ed è per questo, per rassicurare i governi europei e i mercati, che si è dichiarato disponibile a servire il suo (il nostro) paese se questo sarà necessario e nel ruolo che sarà ritenuto opportuno. Le forze politiche hanno già dato le loro prime risposte, gli elettori le daranno tra sei mesi.
Noto tra parentesi che molti dicono e scrivono che bisogna sottrarsi all’influenza dei mercati. Dicono una banalità priva di senso. I mercati determinano il tasso di interesse oltre a molte altre grandezze. Il tasso dell’interesse è il regolatore del nostro andamento economico. Quindi liberarsi dal peso dei mercati è parlare a vuoto non conoscendo la realtà.
Chiudo la parentesi.
Alcune forze politiche sono decisamente contrarie sia all’Europa sia alla moneta comune. Grillo è contrario al 100 per cento, Di Pietro all’80 per cento, la Lega al 50 per cento.
Berlusconi va a corrente alternata: alcuni giorni parla contro l’euro, altre volte si esprime come Mario Draghi; oscilla tra Storace e Frattini; a volte vagheggia di andare in vacanza permanente ai Caraibi e altre volte di sedersi al Quirinale al posto di Napolitano. Insomma, è una carta coperta non per segreti calcoli ma per mutamenti di umore.
Casini e il centro moderato da lui vagheggiato sono favorevoli all’euro e all’Europa federata; il Pd anche, ma sia l’uno che l’altro danno grande importanza ai contenuti politici: Casini ritiene incompatibile il suo apporto ad un’Europa socialista, il Pd si ritiene incompatibile con un’Europa conservatrice.
Forse non hanno ancora messo a fuoco che nel corso dei prossimi cinquant’anni l’Europa potrà essere a volte guidata dai conservatori a volte dai liberali a volte dai socialisti, ma queste alternative avranno un senso se l’Europa esisterà come Stato. Altrimenti i singoli paesi (Germania in testa e figuriamoci noi) precipiteranno nella più totale irrilevanza. Di fronte alla competizione tra continenti gli staterelli europei non avranno alcuna voce in capitolo per quanto riguarda le scelte di fondo sui problemi della divisione internazionale del lavoro, delle politiche climatiche, dell’uso delle fonti di energia, dell’immigrazione, della bioetica, del commercio internazionale, delle politiche monetarie e valutarie.
Decideranno gli altri: gli Usa, la Cina, l’India, il Brasile, i paesi emergenti. Gli staterelli europei sono paesi di antica opulenza ma in declino; declino demografico anzitutto, ma presi isolatamente non avranno più la massa critica per discutere alla pari con le superpotenze e con le multinazionali. Saranno ammessi in anticamera ma non nella sala delle decisioni.
Queste verità vorrei che fossero capite, ma non mi faccio molte illusioni
in merito.
* * *
Il nostro convitato di pietra può esser “richiamato in servizio” in vari ruoli se la nuova maggioranza emersa dalle elezioni lo vorrà. Potrebbe essere eletto al Quirinale oppure gli potrebbe essere affidata la presidenza del Consiglio in un governo di ministri politici e tecnici, o infine gli potrebbe essere offerto il ministero dell’Economia e degli Affari europei. Sempre che dalle elezioni future emerga una nuova maggioranza. Per esempio Pd-Centro. Questa sarebbe la maggioranza ideale per proseguire il percorso verso la messa in sicurezza dell’euro e verso un’Europa federata.
Se una maggioranza del genere fosse numericamente insufficiente, bisognerebbe estenderla a quanto resterà del Pdl, ma questa estensione è del tutto improbabile. Personalmente la ritengo addirittura impossibile per il Pd: la “strana maggioranza” ha avuto un senso e continuerà ad averlo fino alla prossima scadenza elettorale, ma dopo non più, sarebbe considerata un tradimento per gli elettori del Pd e non posso immaginare che i dirigenti di quel partito abbiano nella mente e nel cuore (sì, in certi casi c’entra anche il cuore) di commetterlo.
Quanto al ruolo da offrire al convitato di pietra, la mia sensazione (posso certamente sbagliare ed essere smentito dall’andamento dei fatti) è che Monti rifiuterebbe sia la scelta del Quirinale, che comunque dipende dal voto del plenum parlamentare, sia quella del superministero economico. In realtà non resta che Palazzo Chigi da offrire all’attuale inquilino.
Ha scritto Giorgio Galli su Repubblica di giovedì scorso: “Il montismo rappresenta l’archetipo della politica come autorità, non come potere. L’idea cioè che la politica sia affare serio che dev’essere gestito da persone autorevoli per competenza e saggezza; un’idea certamente elitaria ma non antidemocratica solo se per democrazia non si intenda la politica che asseconda o provoca la sguaiataggine e la devastazione del costume e del discorso pubblico. Il montismo è il contrario del politico populista e carismatico, è la rivoluzionaria restaurazione dell’immagine della politica da tempo perduta, dell’idea che è bene essere governati da uno migliore di noi piuttosto che da uno come noi o peggiore di noi».
Non saprei dir meglio di Galli e perciò condivido quest’immagine del montismo, comprendo la difficoltà che la politica professionale la faccia propria, ma auspico che sappia superare i suoi pregiudizi e i suoi limitati interessi. Il suo vero rinnovamento sarebbe proprio questo.

La Repubblica 07.10.12

"Il convitato di pietra al tavolo del dopo-voto", di Eugenio Scalfari

La legge elettorale ancora non c’è anche se se ne comincia a intravedere una possibile soluzione. Le primarie del Pd non sono ancora state effettuate e l’esito dello scontro tra Bersani, Renzi e Vendola è ancora incerto. Le sorti del Pdl sono appese al filo delle decisioni di Berlusconi; potrà rappresentare ancora un 15 per cento dei voti o implodere dissolvendosi come nebbia al sole. Il centro moderato per il quale lavora Casini è un’ipotesi che fatica a tradursi in realtà.
In un quadro così agitato aleggia l’immagine di Mario Monti, una sorta di convitato di pietra la cui figura è variamente interpretata dai protagonisti della scena politica e mediatica. Per alcuni è un salvatore della patria, per altri un demiurgo, per altri ancora un tecnocrate che ruberà il posto ai politici e per i più pessimisti un moderno Cesare che affonderà per sempre la democrazia parlamentare come fin qui l’abbiamo conosciuta.
A tutti questi elementi d’incertezza aggiungiamone un altro non da poco: al momento della scelta del nuovo governo e della nomina del futuro presidente del Consiglio non solo ci sarà un nuovo Parlamento ma anche un nuovo presidente della Repubblica. Napolitano finirà in maggio il suo settennato; chi ci sarà al suo posto?
Queste domande non preoccupano soltanto noi italiani ma anche – e forse ancora di più – i nostri alleati europei e tengono in fibrillazione i mercati. L’Italia, con la sua buona o cattiva salute economica e politica, rappresenta un elemento determinante per la solidità della moneta comune e per l’evoluzione di tutto il continente dalla attuale confederazione alla federazione, cioè alla nascita di un vero e proprio Stato europeo.
Un’Italia risanata è indispensabile e preliminare ad un’Europa federale, un’Italia perennemente ammalata blocca invece qualunque speranza di futuro europeo.
Ho la sensazione che questo nostro peso sull’evoluzione politica del continente non sia ben chiaro ai cittadini che andranno alle urne nell’aprile del 2013; soprattutto che non sia ben chiaro alle forze politiche, preoccupate soltanto o principalmente delle loro fortune elettorali.
In realtà il senso del voto che il corpo elettorale sarà chiamato ad esprimere sarà in primo luogo a favore o contro l’Europa unita, a favore o contro della moneta europea, a favore o contro la cessione di sovranità dagli Stati nazionali al nascituro Stato federale europeo.
Naturalmente ci sono anche altri elementi che caratterizzeranno quel voto e riguardano il colore politico che assumerà la futura democrazia europea: se sarà più orientata verso l’equità e la socialità oppure verso il liberismo; se sarà riformatrice o conservatrice; se privilegerà l’eguaglianza nella libertà o la libertà senza l’eguaglianza. Questioni certamente della massima importanza, ma destinate ad alternarsi come sempre avviene nelle democrazie funzionanti. La prima e fondamentale questione da decidere però riguarda il futuro dell’Europa e il contributo che l’Italia può e deve dare alla costruzione di quel futuro. Le forze politiche e i cittadini elettori debbono farsi carico del fatto che questa scelta precede tutte le altre e che sarà questa la domanda numero uno alla quale le urne dovranno fornire la risposta.
* * *
Mario Monti è ben consapevole della necessità di questa scelta ed è per questo, per rassicurare i governi europei e i mercati, che si è dichiarato disponibile a servire il suo (il nostro) paese se questo sarà necessario e nel ruolo che sarà ritenuto opportuno. Le forze politiche hanno già dato le loro prime risposte, gli elettori le daranno tra sei mesi.
Noto tra parentesi che molti dicono e scrivono che bisogna sottrarsi all’influenza dei mercati. Dicono una banalità priva di senso. I mercati determinano il tasso di interesse oltre a molte altre grandezze. Il tasso dell’interesse è il regolatore del nostro andamento economico. Quindi liberarsi dal peso dei mercati è parlare a vuoto non conoscendo la realtà.
Chiudo la parentesi.
Alcune forze politiche sono decisamente contrarie sia all’Europa sia alla moneta comune. Grillo è contrario al 100 per cento, Di Pietro all’80 per cento, la Lega al 50 per cento.
Berlusconi va a corrente alternata: alcuni giorni parla contro l’euro, altre volte si esprime come Mario Draghi; oscilla tra Storace e Frattini; a volte vagheggia di andare in vacanza permanente ai Caraibi e altre volte di sedersi al Quirinale al posto di Napolitano. Insomma, è una carta coperta non per segreti calcoli ma per mutamenti di umore.
Casini e il centro moderato da lui vagheggiato sono favorevoli all’euro e all’Europa federata; il Pd anche, ma sia l’uno che l’altro danno grande importanza ai contenuti politici: Casini ritiene incompatibile il suo apporto ad un’Europa socialista, il Pd si ritiene incompatibile con un’Europa conservatrice.
Forse non hanno ancora messo a fuoco che nel corso dei prossimi cinquant’anni l’Europa potrà essere a volte guidata dai conservatori a volte dai liberali a volte dai socialisti, ma queste alternative avranno un senso se l’Europa esisterà come Stato. Altrimenti i singoli paesi (Germania in testa e figuriamoci noi) precipiteranno nella più totale irrilevanza. Di fronte alla competizione tra continenti gli staterelli europei non avranno alcuna voce in capitolo per quanto riguarda le scelte di fondo sui problemi della divisione internazionale del lavoro, delle politiche climatiche, dell’uso delle fonti di energia, dell’immigrazione, della bioetica, del commercio internazionale, delle politiche monetarie e valutarie.
Decideranno gli altri: gli Usa, la Cina, l’India, il Brasile, i paesi emergenti. Gli staterelli europei sono paesi di antica opulenza ma in declino; declino demografico anzitutto, ma presi isolatamente non avranno più la massa critica per discutere alla pari con le superpotenze e con le multinazionali. Saranno ammessi in anticamera ma non nella sala delle decisioni.
Queste verità vorrei che fossero capite, ma non mi faccio molte illusioni
in merito.
* * *
Il nostro convitato di pietra può esser “richiamato in servizio” in vari ruoli se la nuova maggioranza emersa dalle elezioni lo vorrà. Potrebbe essere eletto al Quirinale oppure gli potrebbe essere affidata la presidenza del Consiglio in un governo di ministri politici e tecnici, o infine gli potrebbe essere offerto il ministero dell’Economia e degli Affari europei. Sempre che dalle elezioni future emerga una nuova maggioranza. Per esempio Pd-Centro. Questa sarebbe la maggioranza ideale per proseguire il percorso verso la messa in sicurezza dell’euro e verso un’Europa federata.
Se una maggioranza del genere fosse numericamente insufficiente, bisognerebbe estenderla a quanto resterà del Pdl, ma questa estensione è del tutto improbabile. Personalmente la ritengo addirittura impossibile per il Pd: la “strana maggioranza” ha avuto un senso e continuerà ad averlo fino alla prossima scadenza elettorale, ma dopo non più, sarebbe considerata un tradimento per gli elettori del Pd e non posso immaginare che i dirigenti di quel partito abbiano nella mente e nel cuore (sì, in certi casi c’entra anche il cuore) di commetterlo.
Quanto al ruolo da offrire al convitato di pietra, la mia sensazione (posso certamente sbagliare ed essere smentito dall’andamento dei fatti) è che Monti rifiuterebbe sia la scelta del Quirinale, che comunque dipende dal voto del plenum parlamentare, sia quella del superministero economico. In realtà non resta che Palazzo Chigi da offrire all’attuale inquilino.
Ha scritto Giorgio Galli su Repubblica di giovedì scorso: “Il montismo rappresenta l’archetipo della politica come autorità, non come potere. L’idea cioè che la politica sia affare serio che dev’essere gestito da persone autorevoli per competenza e saggezza; un’idea certamente elitaria ma non antidemocratica solo se per democrazia non si intenda la politica che asseconda o provoca la sguaiataggine e la devastazione del costume e del discorso pubblico. Il montismo è il contrario del politico populista e carismatico, è la rivoluzionaria restaurazione dell’immagine della politica da tempo perduta, dell’idea che è bene essere governati da uno migliore di noi piuttosto che da uno come noi o peggiore di noi».
Non saprei dir meglio di Galli e perciò condivido quest’immagine del montismo, comprendo la difficoltà che la politica professionale la faccia propria, ma auspico che sappia superare i suoi pregiudizi e i suoi limitati interessi. Il suo vero rinnovamento sarebbe proprio questo.
La Repubblica 07.10.12

"Riscatto morale, questione politica", di Claudio Sardo

Il degrado etico e la caduta di credibilità della politica hanno raggiunto livelli che neppure negli anni di tangentopoli erano stati toccati. Gli show televisivi di Fiorito-Batman, le spaventose ruberie di Tributi Italia, le inchieste che dilagano sulle spese arbitrarie di certi consiglieri regionali, unite alle resistenze contro la legge anti-corruzione, offrono uno spettacolo desolante. Parlare di questione morale, citando la famosa intervista di Enrico Berlinguer, pare persino un diversivo.
Eppure allora come oggi l’imbarbarimento del costume civico, la corruzione, il potere che compra il consenso per perpetuare se stesso, lo smarrimento del bene comune, non sono soltanto un problema di moralità delle persone. Sono, come intendeva Berlinguer, una questione politica decisiva, di primaria grandezza. Se l’obiettivo di una forza progressista è il cambiamento, come può radicarsi quest’idea, questo progetto, come può diventare un impegno popolare, in assenza di un clima di fiducia, di un comune civismo, di un costume pubblico rigoroso?

Il degrado morale è oggi un impedimento al cambiamento. Oltre al danno che produce in sé, è una zavorra che spinge il Paese lungo il declino. E nel declino aumentano le ingiu- stizie, le disuguaglianze, i rancori, persino l’individualismo. Questa grave crisi di etica pubblica marcia insieme alla più grave crisi economica dal dopoguerra. E la crisi economica non è neutrale: allarga la forbice sociale, impedisce la salita dei ceti più deboli, arricchisce pochi e impoverisce molti, estende il potere dei principali detentori delle ricchezze nazionali. Come non è neutrale la crisi morale: corrode e taglia le reti di solidarietà politica, spinge verso la rabbia e la solitudine, accredita la sfiducia più radicale, quella di chi dice: sono tutti uguali, rubano tutti alla stessa maniera, non c’è differenza tra destra e sinistra, non c’è alcuna speranza che la democrazia possa aiutarci a migliorare le cose.

Invece non siamo tutti uguali. Tra destra e sinistra c’è differenza, anche se la lunga egemonia della destra liberista ha offuscato negli anni la domanda di uguaglianza e di diritti, il ruolo dei corpi intermedi, il primato della persona. Tra l’adesione alle politiche rigoriste delle grandi tecnocrazie e l’idea di uno sviluppo sostenibile, della coesione sociale come bene pubblico, c’è differenza eccome. Passa di qui la nostra battaglia per il cambiamento politico. Ma senza quel «riscatto morale» di cui parlava l’altra sera ad Assisi il presidente della Repubblica, rischiamo di perderci. Rischiamo di perdere quel senso di comunità che è la premessa della giustizia, prima ancora che della buona politica.
Ecco come sono indissolubilmente legate la questione morale e la questione politica del cambiamento. Ecco perché qualcuno, rileggendo ora Berlinguer, tenta di separare le due cose. Perché la denuncia del degrado morale, senza la visione di un riscatto possibile, può diventare motivo di ulteriore delusione e disimpegno. Dobbiamo ribellarci a chi vuole ridurre la persona ad individuo, per di più individuo solo davanti al mercato e al potere. L’immoralità dei comportamenti, la corruzione, l’illegalità, la dissolvenza di quella linea di confine che separa l’interesse privato da quello pubblico sono anzitutto attentati a chi vuole cambiare.

Questo comporta grandi responsabilità. Collettive ovviamente. Ma anche personali. Siccome non è vero che siamo tutti uguali, deve essere sempre più vero che la reazione a fatti corruttivi e a pratiche illegali deve essere più severa nelle forze del cambiamento. Non si tratta di cedere al giustizialismo all’antipolitica, che anzi con coerenza e onestà vanno sempre contrastate a testa alta. Si tratta di applicare regole di austerità nella rappresentanza, di trasparenza nel circuito della decisione democratica, di altruismo laddove il potere diventa conservazione e auto- referenzialità.

Il rinnovamento vero comincia dal progetto di società. Dal governo che si vuole dare al Paese. Ma il rinnovamento è anch’esso una necessità vitale. È una domanda profonda dei cittadini, che, se fosse delusa, renderebbe impossibile ricostruire un rete partecipativa. In fondo, non sono connesse solo la questione morale e quella del cambiamento politico. Sono connesse la questione sociale con quella democratica. Il groviglio pare a volte inestricabile. Ma la pazienza, l’umiltà degli innovatori è alla prova di una lotta decisiva. Occorre battersi, e al tempo stesso ricostruire. Occorre essere esigenti soprattutto con se stessi. Occorre spezzare l’illusione individualista come quella del leader solo al comando. Al bivio storico del nostro tempo, comunque, non si può esitare. Guai a sottovalutare questa crisi di fiducia, perché può distruggere la speranza. E paradossalmente fare il gioco di chi urla ma non vuole cambiare, rimettendo ad una oligarchia il governo del Paese.

L’Unità 07.10.12

"Riscatto morale, questione politica", di Claudio Sardo

Il degrado etico e la caduta di credibilità della politica hanno raggiunto livelli che neppure negli anni di tangentopoli erano stati toccati. Gli show televisivi di Fiorito-Batman, le spaventose ruberie di Tributi Italia, le inchieste che dilagano sulle spese arbitrarie di certi consiglieri regionali, unite alle resistenze contro la legge anti-corruzione, offrono uno spettacolo desolante. Parlare di questione morale, citando la famosa intervista di Enrico Berlinguer, pare persino un diversivo.
Eppure allora come oggi l’imbarbarimento del costume civico, la corruzione, il potere che compra il consenso per perpetuare se stesso, lo smarrimento del bene comune, non sono soltanto un problema di moralità delle persone. Sono, come intendeva Berlinguer, una questione politica decisiva, di primaria grandezza. Se l’obiettivo di una forza progressista è il cambiamento, come può radicarsi quest’idea, questo progetto, come può diventare un impegno popolare, in assenza di un clima di fiducia, di un comune civismo, di un costume pubblico rigoroso?
Il degrado morale è oggi un impedimento al cambiamento. Oltre al danno che produce in sé, è una zavorra che spinge il Paese lungo il declino. E nel declino aumentano le ingiu- stizie, le disuguaglianze, i rancori, persino l’individualismo. Questa grave crisi di etica pubblica marcia insieme alla più grave crisi economica dal dopoguerra. E la crisi economica non è neutrale: allarga la forbice sociale, impedisce la salita dei ceti più deboli, arricchisce pochi e impoverisce molti, estende il potere dei principali detentori delle ricchezze nazionali. Come non è neutrale la crisi morale: corrode e taglia le reti di solidarietà politica, spinge verso la rabbia e la solitudine, accredita la sfiducia più radicale, quella di chi dice: sono tutti uguali, rubano tutti alla stessa maniera, non c’è differenza tra destra e sinistra, non c’è alcuna speranza che la democrazia possa aiutarci a migliorare le cose.
Invece non siamo tutti uguali. Tra destra e sinistra c’è differenza, anche se la lunga egemonia della destra liberista ha offuscato negli anni la domanda di uguaglianza e di diritti, il ruolo dei corpi intermedi, il primato della persona. Tra l’adesione alle politiche rigoriste delle grandi tecnocrazie e l’idea di uno sviluppo sostenibile, della coesione sociale come bene pubblico, c’è differenza eccome. Passa di qui la nostra battaglia per il cambiamento politico. Ma senza quel «riscatto morale» di cui parlava l’altra sera ad Assisi il presidente della Repubblica, rischiamo di perderci. Rischiamo di perdere quel senso di comunità che è la premessa della giustizia, prima ancora che della buona politica.
Ecco come sono indissolubilmente legate la questione morale e la questione politica del cambiamento. Ecco perché qualcuno, rileggendo ora Berlinguer, tenta di separare le due cose. Perché la denuncia del degrado morale, senza la visione di un riscatto possibile, può diventare motivo di ulteriore delusione e disimpegno. Dobbiamo ribellarci a chi vuole ridurre la persona ad individuo, per di più individuo solo davanti al mercato e al potere. L’immoralità dei comportamenti, la corruzione, l’illegalità, la dissolvenza di quella linea di confine che separa l’interesse privato da quello pubblico sono anzitutto attentati a chi vuole cambiare.
Questo comporta grandi responsabilità. Collettive ovviamente. Ma anche personali. Siccome non è vero che siamo tutti uguali, deve essere sempre più vero che la reazione a fatti corruttivi e a pratiche illegali deve essere più severa nelle forze del cambiamento. Non si tratta di cedere al giustizialismo all’antipolitica, che anzi con coerenza e onestà vanno sempre contrastate a testa alta. Si tratta di applicare regole di austerità nella rappresentanza, di trasparenza nel circuito della decisione democratica, di altruismo laddove il potere diventa conservazione e auto- referenzialità.
Il rinnovamento vero comincia dal progetto di società. Dal governo che si vuole dare al Paese. Ma il rinnovamento è anch’esso una necessità vitale. È una domanda profonda dei cittadini, che, se fosse delusa, renderebbe impossibile ricostruire un rete partecipativa. In fondo, non sono connesse solo la questione morale e quella del cambiamento politico. Sono connesse la questione sociale con quella democratica. Il groviglio pare a volte inestricabile. Ma la pazienza, l’umiltà degli innovatori è alla prova di una lotta decisiva. Occorre battersi, e al tempo stesso ricostruire. Occorre essere esigenti soprattutto con se stessi. Occorre spezzare l’illusione individualista come quella del leader solo al comando. Al bivio storico del nostro tempo, comunque, non si può esitare. Guai a sottovalutare questa crisi di fiducia, perché può distruggere la speranza. E paradossalmente fare il gioco di chi urla ma non vuole cambiare, rimettendo ad una oligarchia il governo del Paese.
L’Unità 07.10.12